“Franco con la Caronte ci ha sempre mangiato”

“Franco ha mangiato sempre con la Caronte. Appena gli portavano un progetto, Franco glielo faceva passare prima del tempo. Tutto quello che vuole, ha tutto! Quelli mandano il maggiordomo ca pila (con i soldi, ndr) là e gli dà le polpette”. Sta tutto in questa intercettazione quello che la Dda di Reggio Calabria definisce il “metodo Morabito”, dal nome del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Villa San Giovanni, Franco Morabito, ex consigliere provinciale del Pdl, finito in carcere per corruzione nell’operazione “Cenide”. Quelli “ca pila”, invece, sono i manager della Caronte&Tourist (la società di navigazione che si occupa del traghettamento sullo Stretto) arrestati ieri assieme al sindaco Giovanni Siclari, fratello del senatore di Forza Italia, Marco Siclari. Il primo cittadino è accusato di essersi fatto corrompere dal presidente della Caronte Antonino Repaci e dall’ad Calogero Famiani.

Tutti e tre da ieri sono ai domiciliari su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Gerardo Dominijanni e dei pm Walter Ignazitto e Gianluca Gelso. I carabinieri hanno eseguito 11 ordinanze di arresto di cui 2 in carcere. Posti di lavoro in cambio di concessioni illegittime. Sarebbe stato questo il sistema della Caronte&Tourist per realizzare le opere per “la riorganizzazione dell’area Villa Agip”, un piazzale di proprietà di Anas, che è stata convinta dal sindaco Siclari a stipulare una convenzione con il Comune. Il tutto, secondo i pm, “al fine di cedere l’area in subconcessione alla Caronte&Tourist”. In cambio di assunzioni come quella del figlio di una consigliera di minoranza Angela Vilardi detta “Lina”.

In questo modo Siclari si è assicurato i voti in consiglio comunale. “Ti sistemano un figlio e cambiano gli equilibri! E con Lina questo ho fatto”. Intercettato, il sindaco confessa quello che il gip nell’ordinanza taccia come “inquietante quadro di sistematici abusi e corruttele”.

Ne sa qualcosa l’altro responsabile dell’ufficio tecnico, il geometra Giancarlo Trunfio. Pure lui è finito in carcere per aver agevolato la Caronte nella realizzazione della nuova biglietteria automatica in cambio della promessa di assunzione del figlio. Come ha fatto, lo spiega sua moglie alla sorella: “È uno scambio, perché Giancarlo potrebbe… non chiudere un occhio, dieci ne ha chiuso e loro lo sanno. E quindi è un compromesso. Cioè, io a te e tu a me”.

Il vero “dominus” del Comune però era Franco Morabito, “padre padrone” e, al contempo, “grande elettore” degli amministratori locali. “Cambiano i sindaci, cambiano gli assessori però l’ingegnere Morabito non cambia mai”. Il pentito Vincenzo Cristiano lo aveva raccontato nel 2017 ai pm qual è il modus operandi del dirigente comunale indagato anche per concorso esterno con la ’ndrangheta. Dalle famiglie mafiose incassava i voti “per sé e per i candidati da lui indicati”. Ma anche la “protezione delle ’ndrine e la possibilità di utilizzare i loro metodi intimidatori per imporre le proprie regole”.

Il funzionario ha sfruttato il suo ruolo per lucrare vantaggi patrimoniali. Per lui erano atti di “benevolenza”. Per la Dda, invece, si trattava di “promesse di assunzioni, contributi economici, regalie e cene gratuite”. A volte si trattava di “vere e proprie ‘mazzette’ in denaro”.

Sessanta anni, di cui quasi 30 da dipendente comunale, Morabito otteneva tutto quello che voleva: dagli incarichi per il figlio ingegnere Giovanni Marco Morabito (finito ai domiciliari) agli sconti per la festa di laurea della sua amante di 28 anni, tale Faby. Per lei è accusato anche di peculato: il “padre padrone” utilizzava l’auto del suo ufficio per recarsi in un b&b dove avvenivano gli incontri con la ragazza. In più occasioni i carabinieri lo hanno pedinato fino alla stanza dove i due si appartavano e dove, in più occasioni, uscita l’amante entrava la moglie di un consigliere comunale.

“Gallerie insicure”: altro fronte dei pm contro Autostrade

Edopo i viadotti, i timori si spostano sulle gallerie. È nel buio dei trafori scavati tra le montagne campane, che si sviluppa il nuovo filone dell’inchiesta della Procura di Avellino sui sistemi di sicurezza e sulla qualità della manutenzione della rete viaria gestita da Autostrade per l’Italia (Aspi), controllata dall’Atlantia dei Benetton. Nei giorni scorsi il procuratore capo Rosario Cantelmo, accompagnato dalla polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini nate da uno stralcio del processo per i 40 morti precipitati con un bus nel 2013 dal viadotto di Acqualonga dopo il cedimento di una barriera con i tirafondi ormai marci per l’usura, è andato a Roma per notificare due decreti di esibizione atti.

Gli inquirenti sono andati nella sede del Consiglio superiore dei lavori pubblici, e presso l’Ufficio Ispettivo Territoriale (Uit) della direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradale, un ufficio del ministero delle Infrastrutture diretto dall’ingegnere Placido Migliorino. Lo scopo del decreto in doppia copia: acquisire la documentazione relativa alla situazione e alle procedure di manutenzione di una galleria dell’autostrada A16, la Napoli-Canosa. Si tratta della galleria Montemiletto, lunga quasi un chilometro. Una delle quattro gallerie del tratto tra Baiano e Benevento ricadenti nel territorio di competenza della Procura irpina. Ma l’unica di lunghezza superiore ai 500 metri, e quindi soggetta, in teoria, a misure di sicurezza e di prevenzione antincendio più stringenti rispetto alle gallerie di lunghezza inferiore.

I problemi della galleria Montemiletto sono noti all’Uit, che l’ha inserita in un elenco delle criticità più rilevanti “ai fini della sicurezza stradale della rete Aspi”. Un documento in possesso della Procura di Avellino, che lancia l’allarme su 25 tunnel disseminati tra le province di Pescara, Salerno, Avellino, Ascoli Piceno, Teramo, Chieti e Fermo. Sarebbero sprovviste, si legge nel prospetto, “di tutte le dotazioni minime di sicurezza non derogabili” previste da una legge del 2006 e il concessionario – rileva il ministero – non avrebbe adempiuto alle prescrizioni di regolamento del 2011 per la prevenzione degli incendi “che avrebbero dovuto essere attivati presso le competenti sedi dei Vigili del Fuoco (Certificato Prevenzioni Incendi)”. Ovviamente Aspi, e gli altri concessionari, non sono stati con le mani in mano e ha messo a punto delle precauzioni. Ma “le Società Concessionarie – sottolinea l’Ufficio ispettivo ministeriale di Roma – hanno individuato misure alternative corredate di analisi di rischio, per le quali nessuna valutazione è stata emessa da parte dell’Autorità competente in materia di sicurezza delle gallerie”. Le conclusioni del documento, che affronta anche le criticità dei viadotti e delle barriere, sono categoriche: “Le gallerie sono (…) il problema più grave in termini di sicurezza. Ripetutamente si susseguono incidenti in galleria sulla A14”. Non solo. Le gallerie sotto la lente d’ingrandimento – divise tra l’A16, l’A14, l’A24 e l’A30 –, si concentrano per lo più proprio sulla A14, la Adriatica. Tratto autostradale che, insieme all’A16, è stato oggetto nei mesi scorsi di un decreto di sequestro della carreggiata bordo ponte di diversi viadotti, firmato dal Gip di Avellino, Fabrizio Ciccone. In quelle tratte autostradali, i sistemi di ancoraggio delle barriere adoperati da Aspi replicherebbero criticità simili a quelle dei new jersey che crollarono su Acqualonga.

Il Gip scrisse che furono compiuti “interventi di manutenzione ordinaria destinati a creare pericolo per la pubblica incolumità”. A maggio, all’epoca dei primi sequestri in Campania, risultavano indagati tre manager di Aspi: Costantino Vincenzo Ivoi, Michele Renzi e Massimo Giulio Fornaci. Poi saliti nei mesi successivi a otto, con l’espandersi delle indagini nel resto del Paese: i direttori del VII Tronco, Gianni Marrone e Donato Dino Giuseppe, e i direttori del V Tronco, Mauro Crispino, Stefano Catellani e Salvatore Belcastro.

Patteggia il re dell’eolico: corruzione col consulente leghista Paolo Arata

Il “re dell’eolico”, l’imprenditore Vito Nicastri, già condannato per concorso in associazione mafiosa, e ritenuto uno dei finanziatori della latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro, ha patteggiato una condanna a due anni e 10 mesi per corruzione e intestazione fittizia di beni.

La sentenza è stata emessa dai giudici del Tribunale di Palermo che hanno riconosciuto la circostanza attenuante della collaborazione con la giustizia. Il figlio Manlio, che risponde degli stessi reati, ha invece patteggiato una condanna a due anni.

L’indagine riguarda un giro di tangenti pagate a funzionari regionali per avere corsie preferenziali e velocizzare gli iter di rilascio delle autorizzazioni relative alla realizzazione di due impianti di biometano a Francofonte e Calatafimi. Nella stessa inchiesta è indagato anche Paolo Arata, ex parlamentare forzista nelle grazie del Carroccio, che lo ha interpellato per la parte sulle energie del programma elettorale. Secondo i pm di Palermo, Nicastri con il figlio “al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale” avevano “attribuito fittiziamente” a Paolo e Francesco Arata e ad altri prestanome “la titolarità e la disponibilità di quote” di alcune società, come la Etnea srl o la Solcara Srl. Gli Arata e i Nicastri sono accusati anche di corruzione per aver “promesso e dato a causa e per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri ad Alberto Tinnirello”, dirigente regionale, “somme di denaro, allo stato non identificate”.

In passato Manlio Nicastri aveva provato a patteggiare davanti al gup la pena di 2 anni e nove mesi. La Procura aveva espresso parere favorevole, ma il gup aveva ritenuto la pena non congrua e rigettato l’istanza con delle motivazioni durissime. In quel dispositivo si parlava infatti di una “articolata e prolungata azione criminosa”, di “corruzione di pubblici ufficiali inserti negli apparati amministrativi regionali”, di infiltrazione nei gangli della Pubblica amministrazione grazie ad appoggi politici e di asservimento dei pubblici funzionari.

Il gup aveva respinto anche il patteggiamento del figlio Manlio che aveva proposto la pena di un anno e 10 mesi. I Nicastri così hanno riproposto l’istanza a pene più elevate davanti alla seconda sezione penale del tribunale.

Intanto nei mesi scorsi una tranche dell’inchiesta della Procura di Palermo è stata trasmessa a Roma. È il filone che riguarda Paolo Arata e il senatore leghista Armando Siri, indagati per corruzione. In questo caso secondo i pm, in cambio dell’asservimento della propria funzione di sottosegretario e senatore, Siri avrebbe ricevuto “la promessa e/o dazione di 30 mila euro” da parte di Paolo Arata. I magistrati infatti sospettano che ci siano state attività (rimaste dei tentativi non concretizzati) da parte di Siri per far entrare gli interessi dell’imprenditore Arata negli atti governativi. Come? “Proponendo e concordando – è scritto nel capo di imputazione del sottosegretario – con gli organi apicali dei ministeri competenti l’inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango parlamentare o legislativo”. L’indagine romana è ancora in corso.

Casellati, la doppia sconfitta contro la cronista precaria

Due cause per un solo articolo. Una penale e una civile. Roberta Polese forse ha battuto il record mondiale. E ha passato anni d’inferno per quella raffica di azioni legali che le erano arrivate addosso da Maria Elisabetta Alberti Casellati e da suoi familiari. Già, la presidente del Senato – che aveva citato la cronista in sede civile – aveva chiesto un danno di 250 mila euro, abbastanza per portare alla miseria una giovane cronista con un bambino piccolo, che tra l’altro si trovava senza lavoro perché il suo giornale aveva chiuso e quindi non poteva garantirle assistenza legale. La colpa di Polese: aver ricordato su un quotidiano del gruppo epolis l’affinità tra Casellati e Marco Serpilli (il genero) cui si riferiva un articolo di cronaca. Com’è finita? I giudici hanno dato ragione a Polese sia nel giudizio penale nato dalla querela di Serpilli, sia nella causa civile. Vittoria totale.

Siamo nel 2010 quando Polese scrive un articolo che racconta di un’inchiesta della Procura di Padova. In un esposto si parla di Serpilli (non indagato, come Polese specifica) e si ricorda la sua parentela con Casellati. Lasciamo che siano le parole del giudice penale a riassumere la vicenda: “La Procura di Padova stava indagando su esposti anonimi molto dettagliati, in gergo anonimi vestiti, che avevano tra l’altro a oggetto: la scelta della direzione generale dell’Arpav (Azienda Regionale Per l’Ambiente Veneto) di cambiare il sistema informatico dell’ente al costo di 715 mila euro, pur non essendo tale spesa necessaria (così diceva l’esposto, ndr)… Il riferimento all’ingegner Marco Serpilli che avrebbe operato per conto della società Engineering spa e si sarebbe occupato della fornitura e messa in opera del pacchetto informatico… il rapporto di parentela tra Serpilli e Casellati”. Parole scritte nell’esposto di cui si occupava la Finanza e ripetute dal giudice per riassumere la vicenda. Polese specifica che Serpilli non è indagato, che “i sospetti al momento non sono confermati” e che Casellati non ha alcun ruolo nella vicenda. Ma arrivano la querela di Serpilli e la causa civile di Casellati. Polese vacilla: l’assistenza legale se sei disoccupata costa troppo e se fosse condannata a pagare 250 mila euro dovrebbe vendere la casa dei genitori.

Ma i giudici penali sposano la linea difensiva degli avvocati di Polese, Giovanni Lamonica e Giuseppe Pavan che si offrono di assisterla gratis: “Emerge con chiarezza che l’articolo oggetto di querela è stato redatto nell’esercizio del diritto di cronaca, rispettando i requisiti di continenza, pertinenza della notizia e rilevanza”.

Resta la gatta da pelare più grossa, la causa civile proposta da Casellati che in quei tempi era stata sottosegretario alla Giustizia (2008-2011). Ma anche qui Polese vince: “La cronista sostiene che gli articoli non attribuivano alcun fatto alla senatrice né adombravano il dubbio che ella avesse svolto un ruolo attivo nella vicenda con pressioni o altre manovre illecite”. Insomma, si ricordava soltanto la parentela, ritenendo che visto il ruolo pubblico di Casellati potesse essere rilevante per i lettori.

Il giudice scrive: “Il tema è dunque sicuramente d’interesse pubblico perché riguarda il rapporto fra azione amministrativa, affari e politica. Gli articoli non si spingono a suggerire l’esistenza di un comportamento illecito della senatrice. L’eventuale nesso avrebbe potuto sussistere anche a prescindere da qualsiasi iniziativa della senatrice, per il solo fatto che un dirigente amministrativo, con una scelta discutibile, potesse aver voluto favorire una persona vicina a un personaggio politico. Nell’articolo era riferito che il coinvolgimento del genero della senatrice nell’appalto avrebbe potuto costituire motivo di sospetto, ma si dice esplicitamente che tale ipotesi non aveva trovato allo stato conferme… Gli articoli censurati costituiscono espressione del diritto di cronaca e come tali non possono esporre il giornalista a una responsabilità per fatto illecito”.

Caso chiuso? Non proprio. Casellati, come ricordano le cronache dell’epoca, deve pagare le spese processuali. Il Mattino di Padova all’epoca (senza ricevere querele) scrisse: “Casellati deve pagare 8.250 euro”, ma può ancora fare appello, così propone a Polese una rinuncia al ricorso se la cronista vorrà “sobbarcarsi metà delle spese. Roberta, che ha vinto e ha solo un lavoro precario, per evitare l’incognita dell’appello si trova a dover pagare 4.125 euro all’illustre senatrice”.

Risolve la situazione il sindacato giornalisti che si accolla i 4 mila e rotti euro della Casellati. Eppure proprio il Mattino ricorda che in altre occasioni la senatrice è stata più generosa: “Quando si trattò di fare una colletta per pagare la multa di 70 mila euro nella causa persa da Giancarlo Galan – allora capo indiscusso di Forza Italia in Veneto – contro la Rai di Venezia, non esitò a mettere mano al portafogli. In 19 amici si divisero la spesa, 3.700 euro a testa”.

La Lega pronta a votare il nuovo statuto: blindato

“La Lega Nord non viene liquidata, non chiude bottega, la nostra storia non si cancella e Umberto Bossi resta presidente a vita”. In vista del congresso che sabato cambierà lo statuto del vecchio partito padano, rendendolo di fatto una scatola vuota in attesa della nascita ufficiale della Lega per Salvini premier, Roberto Maroni non si straccia le vesti. L’ex governatore non è un nostalgico. “L’evoluzione della Lega in partito nazionale ci sta, fa parte del normale percorso di un movimento politico protagonista del suo tempo. Ricordo le parole di Bossi nel 1984. ‘Tra un po’ cadrà il Muro di Berlino e con lui i partiti comunisti’, diceva e io gli davo del matto. Lo stesso Umberto nel 1995 mi diede mandato per allargare la Lega al Sud”, ricorda Maroni. Che vede una linea tra Bossi e Salvini. “Ora comanda Matteo. Io ho una visione leninista del partito: sabato voterò in favore del nuovo statuto. Quando voleva cambiare qualcosa, Bossi non diceva niente a nessuno, lo faceva e basta. I consigli federali erano dei comizi, nessuno si azzardava a fiatare. Salvini ha preso da Umberto. Entrambi vogliono comandare. Da soli”, sostiene l’ex ministro del Lavoro.

Il congresso ha però il sapore del colpo di mano. Convocato per sabato 21 dicembre in un hotel di Milano, ci saranno 1.500 delegati che hanno ricevuto lo statuto (scritto da Roberto Calderoli) solo ieri. Domani scade il termine per proporre emendamenti, che dovranno avere in calce 150 firme ognuno. Impresa impossibile in così poco tempo. Secondo il nuovo regolamento, il presidente federale (Bossi) resta a vita, ma avrà meno poteri di prima, mentre per sciogliere la Lega Nord basterà la maggioranza assoluta in consiglio federale, mentre prima occorrevano i quattro quinti. Altro punto cruciale è l’introduzione della doppia tessera (era vietata), mentre il simbolo dell’Alberto da Giussano potrà essere “concesso” a partiti con finalità simili. L’organigramma sarà più snello e, in caso di dimissioni del segretario, il partito sarà affidato a un commissario federale. È quello che accadrà sabato: Salvini si dimetterà e arriverà un commissario. “Non sarà un liquidatore. Se qualcuno vorrà candidarsi alla segreteria e portare avanti le istanze federaliste, che non sono morte, potrà farlo. Tutto è possibile, il futuro riposa sulle ginocchia di Giove…”, osserva Maroni.

Già, ma Giuseppe Leoni, primo deputato leghista eletto nel 1987 insieme a Bossi (in Senato), parla di “funerale della vecchia Lega” e di “nuovi fascisti che prendono il posto dei federalisti”. Salvini è il punto di riferimento dell’estrema destra. “La Lega oggi è sopra il 30%, quel mondo è solo una piccola parte del nostro elettorato”, spiega ancora Maroni. E i 49 milioni che il partito deve allo Stato? “Il commissario sarà lì apposta, c’è un’intesa con il Tribunale di Genova che non potrà essere disattesa…”.

Il rapporto: respingimenti “privati” in Libia

Respingimento di migranti in pericolo nell’inferno libico. Con questa accusa infamante l’Italia è stata denunciata alla Commissione per i diritti umani dell’Onu: organismo dell’Alto commissariato che non ha poteri particolari se non quello di fornire pareri; ma la denuncia crea un precedente.

Questa è la storia. In fuga dalle violenze del Sud Sudan, dopo una traversata del deserto, a 19 anni è rimandato con la forza e con l’inganno a Misurata: è l’8 novembre 2018, il mare fa paura e al largo delle coste libiche è quasi tragedia per un ragazzo e per altri 92 sventurati di nazionalità diverse imbarcati dagli scafisti con lui a Zliten, a ovest di Misurata, due giorni prima. Arriva il mercantile Nivin, battente bandiera panamense, a soccorrerli, spedito dal Centro di coordinamento italiano il giorno prima. A bordo i marinai del mercantile cercano di tranquillizzare i disperati: promettono l’Italia. L’ordine partito da Roma alla Nivin è stato molto chiaro però: prendeteli e rivolgetevi alla Guardia costiera libica. Sul mercantile eseguono e i libici indicano Misurata, la città di agguerrite e sanguinarie milizie, come “porto sicuro”. Il 10 novembre, il giovane sudsudanese, come tutti gli altri compagni di sventura, decide insieme con altri ottanta migranti di resistere sul ponte della Nivin. La Global legal action network (Glan), la ong internazionale di giuristi che ha presentato la denuncia all’Onu per conto del ragazzo, scrive nel documento: a quel punto i naufraghi salvati “sono stati violentemente evacuati dalla nave dalle forze di sicurezza libiche”. Guerre e fame, deserto, scafisti, naufragio e respingimento, ma non è finita per il giovane fuggitivo del Sud Sudan: ferito con un’arma da fuoco alla gamba è poi “detenuto arbitrariamente, interrogato, picchiato, sottoposto a lavori forzati e privato di trattamento medico per mesi” a Misurata. Noemi Maguglianin, ricercatrice della Glan, spiega: “L’Italia ha subappaltato le violazioni dei diritti umani a degli attori privati per evitare ogni responsabilità. Tuttavia l’Italia ha responsabilità”. D’altra parte è quanto già ricostruito da un’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella: la nave della Marina militare di stanza a Tripoli avrebbe un ruolo di coordinamento tra Italia e Libia per lo “smistamento” dei migranti naufraghi, E “quando i libici non sono in grado di intervenire Roma opta per una seconda modalità, quella del respingimento privato attraverso le navi mercantili che – secondo un recente report semestrale di Eunavformed – ha prodotto 13 casi nell’ultimo anno con un aumento del 15-20 per cento”, si legge nel rapporto del Forensic Oceanography di Londra alla base della denuncia della Glan all’Onu.

È successo, quindi, almeno 13 volte e nel caso del ragazzo sudsudanese, sono stati dieci i tentativi di resistenza sulla nave dei migranti, fino al ricorso alla violenza da parte dei libici. “Questa nuova strategia è stata implementata dall’Italia, in collaborazione con la Guardia costiera libica, a partire dall’estate 2018, come nuova modalità di salvataggio per delega, per mantenere il controllo dei confini allo scopo di contenere i movimenti di migranti che dal Sud del mondo cercano di raggiungere l’Europa”. Al Viminale sedeva Matteo Salvini, il governo era il Conte 1 (M5s-Lega). Adesso c’è il Conte 2 (M5s-Pd-LeU), sulla questione ieri solo silenzio, ma parlando al Summit globale sui rifugiati a Ginevra, la viceministra degli Esteri Emanuela Del Re (M5S) ha chiesto “una iniziativa internazionale per garantire l’evacuazione dei migranti dalla Libia”.

Salvini accusato di sequestro. Di Maio stavolta lo scarica

Il Movimento 5 Stelle voterà sì all’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per la gestione dei migranti della nave Gregoretti della Guardia costiera. Lo ha anticipato in tv il capo politico pentastellato e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: “Quando circa un anno prima, ad agosto 2018, bloccammo la Diciotti era perché l’Europa non ci ascoltava, facemmo la voce grossa e poi riuscimmo a ottenere la redistribuzione. Il 31 luglio dell’anno dopo la redistribuzione funzionava. Il blocco della Gregoretti non fu una decisione del governo ma del solo ministro Salvini: fu un’azione personale”. Ora tocca alla Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama dove oggi alle 13:30 è prevista una seduta plenaria sulla richiesta di autorizzazione che riguarda il leader del Carroccio. Sarà relatore il forzista Maurizio Gasparri che è presidente dell’organismo.

A gennaio scorso il Senato si era dovuto occupare di una richiesta analoga, sempre formulata dal Tribunale dei ministri di Catania per la gestione dei migranti a bordo della nave Diciotti: dopo oltre due mesi venne negata l’autorizzazione a procedere. All’allora inquilino del Viminale fu riconosciuta l’esimente di aver agito nel “preminente interesse nazionale”. Decisivi i voti di Lega, M5S, Autonomie, Forza Italia e Fratelli d’Italia dopo sei sedute nel corso delle quali erano state vagliate le memorie di Salvini ma anche del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di Di Maio e del ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. Documenti in cui avevano certificato che, in quel caso, le decisioni erano state assunte in maniera collegiale mentre erano in corso le trattative con i partner dell’Ue. Nicola Molteni, ex sottosegretario leghista al Viminale, ieri ha attaccato Di Maio: “Piccolo uomo.”

Il collegio catanese presieduto dal giudice Nicola La Mantia è sempre lo stesso del caso Diciotti. “Abusando dei suoi poteri”, Salvini ha “privato della libertà personale 131 migranti”, “violando le Convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare e le correlate norme di attuazione nazionale”, anche in danno di minorenni. È stato lo stesso Salvini a dar notizia mercoledì sera della notifica delle due pagine che lo avvisano del procedimento: “Rischio fino a 15 anni perché ho difeso la sicurezza, i confini e la dignità del mio Paese”.

La vicenda risale a luglio, quando il pattugliatore della Guardia costiera Gregoretti fu lasciato al largo del porto di Augusta per ordine del ministro. Le persone a bordo erano state salvate il 25 luglio dopo un naufragio. Sei giorni dopo l’ok allo sbarco, una volta ottenuto il via libera alla redistribuzione in alcuni Paesi Ue.

La Procura di Catania, con il magistrato Andrea Bonomo, ha chiesto al tribunale dei ministri l’archiviazione sia il 20 settembre che a fine novembre. In mezzo il tribunale aveva deciso di sentire Matteo Piantedosi, capo di gabinetto del ministero, e il questore di Siracusa Gabriella Ioppolo. “Dalle loro dichiarazioni – scrive il pm nel documento – non è emerso alcun significativo elemento di novità”. Confermando così la volontà di chiudere il caso anche perché lo stop si era protratto per soli tre giorni e assicurando comunque ai naufraghi l’assistenza. Agli occhi della Procura etnea, guidata dal procuratore Carmelo Zuccaro, è stata decisiva la ricostruzione del vice prefetto di Siracusa, Filippo Romano: “Sin dalle prime conversazioni con i dirigenti del ministero – ha detto – seppi che lo sbarco sarebbe stato autorizzato in tempi brevi”.

“Sono pronto a qualsiasi inciucio pur di non votare col Rosatellum”

Martedì sera, Salvini, lo hanno battuto in tv. Ospiti di Giovanni Floris, Giuseppe Conte e Pier Luigi Bersani hanno avuto quasi mezzo milione di telespettatori in più della tombolata che Retequattro aveva organizzato per il leader della Lega. Ma al di là delle performance televisive, l’ex premier incaricato, anima di Articolo 1, è assai convinto che per il capo dei giallorosa sia ora di aprire “la fase tre”. E di “prendere in mano la spina” che qualcuno vuole staccare al governo. Perché “non è il salvatore della patria” e ha fatto “la scelta opinabile” di fare “il notaio” dei gialloverdi. Ma Conte “ha dimostrato di avere i numeri per fare bene” e il “fisico sufficiente per buttarsi quando c’è un problema”: “A Taranto, per esempio: non so quanti altri presidenti del Consiglio si sarebbero presi la briga di andare lì in mezzo”.

Ieri Conte ha detto che “il suo cuore batte più a sinistra”. Se la sente di dargli questa patente?

La manovra che stiamo per approvare comincia ad alludere a un programma di centrosinistra. C’è la lotta all’evasione, c’è il welfare, c’è una vera svolta nella sanità, c’è lo sviluppo green. Ma attenzione: dopo che la montagna è stata scalata, ovvero dopo il via libera alla legge di Bilancio, si affacceranno mesi anche più complicati, perché tutti si sentono più liberi.

Liberi di fare cosa?

Di avanzare pretesti. Ecco, io credo che Conte debba dire fin da adesso che non li accetterà: deve pronunciare davanti al Paese un programma di riforme, due o tre punti che mettano tutti d’accordo, e dire che la spina del governo ce l’ha in mano lui. Al primo pretesto, la parola spetta a lui.

Di pretesto ora ce n’è uno bello grosso: votare prima del referendum sul taglio dei parlamentari. Non crede?

Io la riduzione del numero degli eletti l’avevo nel mio programma di governo nel 2013: ma l’accompagnavo a una riforma dei regolamenti parlamentari e a una nuova legge elettorale.

Rischia di non esserci il tempo. Crede al patto tra Salvini e Renzi per andare al voto?

C’è sufficiente spregiudicatezza da parte di entrambi per ritenere che sia credibile. E c’è pure una oggettiva convergenza di interessi tra i due Matteo: la legge elettorale in vigore sembra cucita addosso alla Lega e, con lo sbarramento al 3 per cento, garantirebbe anche Italia Viva.

Il governo balla sul serio?

Lo dico chiaro e tondo sin da ora: sono disposto a contrapporre pasticcio a pasticcio, pur di cambiare la legge elettorale.

Di solito si chiama inciucio.

Va bene anche l’inciucione, qualsiasi maggioranza che permetta di riscrivere le regole del gioco. Poi si va subito a votare, ma non possiamo arrivare nudi alla meta, cioè prestarci a giochini e ricatti.

Le leggi elettorali si scrivono in base agli attori in campo. Lei crede che l’alleanza tra centrosinistra e Cinque Stelle possa continuare?

Ormai è chiaro a tutti che c’è una destra e una sinistra. La destra esiste già, la sinistra deve farsi. Quelli che si richiamano al centro, che dicono che non stanno né di qua né di là, sono piccole avventure narcisistiche, gente che si affolla in un metro quadro.

Renzi, Calenda… a chi pensa?

Ce ne sono tanti.

Lo dice anche Di Maio.

Ma avete visto quelli che escono dai Cinque Stelle dove vanno? A destra. E quindi dentro che cosa rimane? Anche solo per sottrazione, è un processo ineluttabile. D’altronde, che cosa ci stanno dicendo le Sardine?

Cosa vi stanno dicendo?

Che vogliono una politica decente, competente, che vogliono difendere la Costituzione e l’antifascismo.

Dette così, sembrano quasi delle ovvietà.

Come tutti i movimenti pre-politici vanno ai fondamentali. Tutti si chiedono ‘cosa fanno le Sardine?’ e invece dovremo chiederci cosa facciamo noi. E noi, nel campo del centrosinistra, siamo fermi sulle gambe da mesi e mesi. Lasciamoci alle spalle questi anni e battezziamo una diversa sinistra.

Cosa ha pensato quando ha visto le Sardine riempire piazza Maggiore?

Ho pensato che avevo ragione quando parlavo della mucca nel corridoio e dicevo che per parlare ai tanti che non hanno riferimenti bisognava mettere tutto in gioco: i nomi, i simboli, i programmi. Invece, di fronte a un fatto mondiale come l’avanzata del sovranismo, c’è chi pensa ancora di usare i ferrivecchi.

La segreteria Zingaretti non ha dato al Pd l’impulso che serviva?

Con amicizia, dico solo che i tempi per portare il Pd in una cosa più larga sono troppo lenti e con troppe contraddizioni.

Il caso dell’Emilia-Romagna dice che anche per i 5 Stelle la strada è ancora lunga.

Il Movimento è nato nel cuore dell’Emilia Romagna, proprio in opposizione al partito che governa la Regione da sempre. È un dissidio familiare difficile da superare.

L’eventuale sconfitta di Bonaccini mette a rischio il governo?

Io sono ottimista, perché i risultati della buona amministrazione convincono non solo gli elettori Pd, ma anche quelli di centro e della destra liberale. Piuttosto vedo un rischio, in un’Emilia profonda che ha bisogno di messaggi più di senso. Serve più cuore e più coraggio, che poi è il nome che porta la lista che sosteniamo come Articolo 1.

Che effetto le fa sentire Beppe Grillo, quello che la chiamava Gargamella, dire che “stringe la mano” al Pd?

Siamo più o meno coetanei, vale per me come per lui l’ultima schermata dell’Edipo Re di Pasolini: “La vita finisce laddove comincia”. Grillo non va da nessuna parte. Torna dov’era. E ci starà a lungo, sia chiaro!

Lo strano furto nella villa di Verdini

Un furto in una villa di campagna è una notizia di cronaca locale, di più ampio rigaggio poiché è il secondo a distanza di poco tempo, il terzo se si considerano le case della vittima, ma la notizia diventa suggestiva e produce congetture perché il derubato è l’ex senatore Denis Verdini, “suocero” di Matteo Salvini. E poi c’è il particolare, già trasformato in aneddoto, con i ladri che prima di fuggire col bottino anneriscono con l’accendino un quadro di Salvini. E qui la notizia non è lo sfregio a un’opera d’arte di valore ignoto, ma il fatto che Verdini esponesse in una camera un ritratto del fidanzato della figlia.

Il legame tra Verdini e Salvini non è soltanto di una potenziale parentela o di affetto per una umana proprietà transitiva degli affetti di famiglia, ma di frequentazione politica, perché Verdini, seppur non più eletto, non ha smesso di fare politica e la fa, pare, nel perimetro leghista col ruolo di ascoltato consigliere del capo del Carroccio e la cosa non piace ai leghisti che hanno più titoli per indirizzare Salvini. Allora la congettura, o l’intuizione per carità, sta nel pensare che i furti siano un messaggio a Salvini, un dire al suocero affinché il genero intenda o un dire al genero attraverso il suocero. Chissà. Per altri è cronaca locale, toscana per la circostanza, e va trascurata per non speculare sulla sindrome di accerchiamento che può generare confusione in Salvini. E con la crisi di agosto qualcosa s’è già visto.

Certo è che anche i carabinieri, che stanno setacciando le videocamere di sorveglianza per capire se la banda che ha svaligiato la villa di Pian dei Giullari, sulle colline di Firenze, sia la stessa che ha colpito la scorsa volta al Galluzzo, qualche domanda sull’incenerimento del volto di Salvini se la sono posta. Secondo le prime ricostruzioni sarebbe andata così: l’ex senatore la scorsa settimana non si trovava in Toscana e così i ladri hanno avuto il tempo di forzare la finestra al piano terra e fare razzìa nelle stanze. Dopo aver portato via il maltolto – ancora da quantificare – hanno notato una tela raffigurante il mezzo busto di Salvini in una delle camere da letto, probabilmente dove dorme la figlia Francesca, e hanno deciso di “oscurargli” la faccia. Poi i ladri sono usciti dalla stessa finestra usata come varco e hanno fatto scattare l’allarme. I carabinieri hanno cercato di raccogliere tutti gli elementi possibili e nelle ultime ore sono state rilevate delle impronte nelle stanze della villa che potrebbero essere molto utili per arrivare a individuare i responsabili. Per adesso gli investigatori si tengono ancora a distanza dalla possibile volontà di intimidire Verdini. Oltre gli indizi e le prove, il collegamento con la presunta presenza del segretario del Carroccio solo dieci giorni fa in quella villa qualche sospetto in più lo fa venire. Soprattutto se si pensa che proprio a Pian dei Giullari, a inizio dicembre, si sarebbe tenuta la riunione segreta (e smentita) tra Salvini e Renzi con un accordo su governo e Toscana. Il patto del “bicchiere di Chianti” che molti derubricano a fantapolitica.

“Basta ipocrisie e personalismi. Mai più listini bloccati nel M5S”

Paola Taverna parte mordendo: “Certo che dobbiamo cambiare e migliorare, ma lei lo ricorda che noi Cinque Stelle siamo l’unico movimento mai coinvolto in schifezze? La legalità rimane la nostra bandiera”. Però il M5S ha mille grane e il respiro affannato. E la vicepresidente del Senato, neo eletta tra i facilitatori del Movimento, non lo nega.

Beppe Grillo è tornato a incontrare i parlamentari in assemblea. È la prova che siete messi davvero male?

No. È vero che Beppe non incontrava i gruppi da quattro o cinque anni, ma era un momento di cui avevamo bisogno. Lui ha voluto mostrare tutta la sua attenzione e tutto il suo coinvolgimento.

Perché avete grane e dubbi, anche sul governo. E il Garante ha ribadito che la direzione è quella, con il Pd.

Io mi sono molto interrogata su questo nelle ultime settimane, non lo nascondo. Ma credo che l’approccio positivo di Beppe verso questo esecutivo debba essere anche il nostro. Abbiamo varato dei bei provvedimenti con questo governo, dal decreto sisma alla manovra. Certo, abbiamo risentito un po’ di questo cambiamento. Ma il Movimento è cambiamento. Dobbiamo continuare con questa maggioranza, costringendo gli altri a seguirci sulle nostre idee.

Però Grillo ha ammesso gravi problemi. Per esempio, che il vostro modo di comunicare è “sbagliato”

Sì, e ci saremmo dovuti interrogare su questo tema già molto tempo fa. Dobbiamo cambiare comunicazione. Quella dei primi anni trasmetteva una sana rabbia. Ma poi Matteo Salvini l’ha copiata e manipolata, stravolgendola. Ora noi 5Stelle dobbiamo informare meglio i cittadini su cosa facciamo e su cosa lavoriamo.

Magari potreste aiutare voi facilitatori. Anche se tanti eletti rumoreggiano: parlano di nomine calate dall’alto, e notano il grande spazio dato ai fedelissimi di Casaleggio nel team del futuro. Hanno ragione, no?

Io stimo le persone che fanno parte della squadra, e ricordo che sono state tutte votate dagli iscritti sulla piattaforma. C’era necessità di darsi un’organizzazione. Però ho detto chiaramente che non bisognava votare i sei facilitatori delle aree organizzative con un listino bloccato. Gli iscritti dovevano potersi esprimere sulle singole persone.

È stato un errore.

Sì, e non deve ripetersi.

A Grillo in tanti hanno raccontato della “solitudine” dei parlamentari. Una bella critica al capo Di Maio.

Se si è arrivati a nominare una filiera per tenere tutti in contatti tra loro, è evidente che la solitudine c’era, da entrambi i fronti. Si è creato un vuoto enorme tra governo, parlamentari e attivisti. Ma adesso la priorità è rimettere al centro i temi e il lavoro sulle leggi. Non si può andare avanti a colpi di provvedimenti di urgenza. La centralità del Parlamento è sempre stata un nostro principio. Dobbiamo tornare a mantenere come unico faro il bene dei cittadini.

C’è tanto altro da fare, no?

Di certo dobbiamo fare chiarezza su come la pensiamo su certi temi. Per esempio sull’Europa, un argomento su cui talvolta ci siamo lacerati. Serve una rotta chiara. Perché è vero che vogliamo una Ue diversa, solidale, ma dobbiamo anche avvertire la responsabilità di chi rappresenta un Paese fondatore del- l’Unione. Io non voglio stare ai margini del- l’Europa.

Però siete slabbrati, divisi in fazioni. E tanti se ne vanno. Come si va avanti?

Noi dobbiamo essere pratici. Dobbiamo realizzare quanto promesso alle persone e aggiustare quello che va aggiustato. Ma niente ipocrisie e personalismi. Basta dire cose come “il mio emendamento” o “la mia richiesta”. E non capisco davvero chi va alla Lega o cose simili.

Tutti parlano di gruppi di 5Stelle “contiani”, fedeli al premier, opposti ai dimaiani. Bella grana, no?

Non sarei credibile se dicessi che non vedo persone ragionare in questi termini. Ma noi siamo stati eletti come rappresentanti del Movimento, come portavoce dei cittadini. Non dovrebbe mai dimenticarlo nessuno.

Gianluigi Paragone potrebbe essere espulso per il no alla manovra.

Inizialmente avevo rispettato la critica di un collega di cui sono amica. Ma oggi ha esagerato con quello sfottò al gruppo (il dito medio mostrato in un video, ndr). Si può criticare, ma se devi fare così, anche no, grazie.

A marzo sono previsti gli Stati generali. Come li vorrebbe?

Vorrei che fosse un appuntamento di confronto, in cui gli attivisti siano centrali. Io vorrei costruire un apposito percorso, interpellando gli iscritti proprio su temi e proposte che andrebbero inseriti in un documento apposito.