Il Colle ai giallorosa: ascoltate il Moro del patto tra Dc e Pci

Il Grande Assente è Matteo Salvini, proprio nel giorno in cui le firme al Senato raggiungono il fatidico quorum per il referendum contro il taglio dei parlamentari. E così anche al Quirinale, l’argomento voto anticipato domina nelle conversazioni. Ché per una strana e paradossale “legge” salviniana, adesso il referendum che doveva stabilizzare la legislatura dovrebbe produrre l’effetto opposto. Si vedrà. Il leader leghista è assente e in compenso c’è Mario Draghi, l’ex governatore della Bce candidato a tutto, a Palazzo Chigi come premierissimo di un governo d’emergenza oppure allo stesso Quirinale.

Ed è tra questi due estremi, l’immagine di Salvini che non c’è e quella di Mario Superstar, che si concede finanche un siparietto con l’ex ex berlusconiano Giovanni Toti, che si colloca il discorso del capo dello Stato “in occasione degli auguri di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni, forze politiche e società civile”. Un appuntamento atteso e tradizionale che però stavolta non mantiene il pathos della vigilia. Nel senso che Sergio Mattarella evita ogni riferimento dettagliato alle tensioni della maggioranza giallorossa (ultima: le banche, ma prima ancora Ilva, Alitalia e Mes e senza mai citare i migranti) e vola altissimo sul presente e sul futuro. Un modo per non aggiungere altre fragilità a un quadro di per sé precario. Il suo è un esercizio di puro realismo democristiano (non dirigista come quello del predecessore) in cui si prende atto che non ci sono alternative all’esecutivo del Conte II. Non a caso gli auguri al governo sono freddi e sintetici. Appena tre righe nel testo diffuso alla stampa: “Nel rinnovare il ringraziamento nei confronti dei componenti del governo precedente per l’opera prestata, esprimo gli auguri al governo di recente costituzione per la sua attività”.

Però subito dopo, il presidente della Repubblica ricorre addirittura all’Aldo Moro del compromesso storico tra Dc e Pci per indicare soprattutto a Pd e Cinquestelle la strada per durare e scongiurare “scontri” e “tensioni”. La citazione è da un articolo che lo statista dc scrisse per Il Giorno nell’aprile del 1977: “Vorrei a questo riguardo ricordare alcune parole di Aldo Moro. ‘Anche se talvolta profondamente divisi… sappiamo di avere in comune, ciascuno per la propria strada, la possibilità e il dovere di andare più lontano e più in alto’. ‘Non è importante che pensiamo le stesse cose’ invece è di straordinaria importanza – scriveva – la ‘comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo’”. Per Mattarella, che proviene dalla componente di sinistra della Dc, lo statista rapito e ucciso dalle Brigate Rosse “aveva ben presente il grave pericolo – purtroppo confermato dagli eventi successivi – che corre una società attraversata da lacerazioni profonde” .

Questa la vera sostanza politica del discorso di ieri. In cui “preparare il futuro” significa indicare “la cornice e un metodo in base ai quali adoperarsi per risolvere i tanti problemi, anche gravi, che ancora attendono soluzioni, guardando oltre il contingente e la mera ricerca di consenso”. Di qui discende un’agenda che vola appunto altissima su lavoro, emigrazione dei cervelli italiani, clima, cultura digitale, Ue.

In pratica, un discorso che registra il presente e traccia obiettivi nobili attendendo quello che succederà nel gennaio giallorosa della verifica, del referendum sul taglio dei parlamentari (il termine ufficiale per il quorum è il 12) e del voto regionale in Emilia-Romagna. Il realismo del Colle indica che le condizioni per andare avanti possono esserci. E se poi la situazione dovesse precipitare per l’accelerazione imposta da Salvini con le firme per il referendum, la priorità saranno le elezioni anticipate. Ché non si possono trascorrere sei mesi con un governicchio per aspettare il voto confermativo sul taglio.

L’esercito dei Salva-poltrone: ci sono 40 azzurri, 7 dem, 3 M5S e 8 ex grillini

Il senatore dei Cinque Stelle Mario Michele Giarrusso ha spiegato senza indugi la ratio della sua contorta decisione: “Ho votato per il taglio ai parlamentari, ma credo pure che i cittadini debbano pronunciarsi nel referendum. Per il Movimento sarebbe un bel segnale”. Così il grillino ha messo la sua firma insieme a 63 colleghi e il quorum è stato raggiunto: il taglio dei parlamentari sarà sottoposto al vaglio del corpo elettorale.

Con una mano, insomma, Giarrusso ha pigiato il tasto a favore della riforma, con l’altra ha messo una firma per un referendum che potrebbe cancellarla. Non fa una piega. I 64 che vogliono bloccare il taglio delle poltrone sono così divisi: 3 del M5S, 2 ex grillini passati alla Lega, 40 di Forza Italia, 7 del Pd, 2 di Italia Viva, 10 del Gruppo Misto.

Non è solo Giarrusso a essersi dissociato da se stesso: anche gli altri due grillini Luigi Di Marzio e Gianni Marilotti lo scorso 11 luglio avevano votato “sì” alla terza lettura della riforma costituzionale con il taglio dei parlamentari, ma il loro nome compare tra i firmatari del referendum. Una sorpresa, fino a un certo punto. Il rapporto di Di Marzio con il Movimento 5 Stelle è ai minimi storici: il senatore ha rischiato seriamente di lasciare il gruppo grillino insieme ai transfughi “acquistati” dalla Lega di Salvini pochi giorni fa. È rimasto, ma rimane in bilico. Marilotti invece è un 5Stelle eccentrico: colto, di sinistra, eletto quasi da indipendente in un collegio uninominale sardo. Dopo aver votato il taglio dei parlamentari, con la firma per il referendum potrebbe aver espresso una posizione “di coscienza”. Di certo i compagni di partito non avranno apprezzato.

Gli altri eletti che a luglio avevano detto “sì” e ora invece lavorano per il “no” sono due ex grillini finiti nel calciomercato parlamentare e acquistati da Matteo Salvini: si chiamano Francesco Urraro e Ugo Grassi. Evidentemente ormai giocano in proprio, o al massimo per il nuovo “Capitano”: sono gli unici due leghisti tra i 64 firmatari. Il Carroccio a luglio aveva votato compatto a favore della riforma: erano ancora tempi di governo gialloverde.

Proprio così: quando la legge è stata votata in Senato per la terza lettura, la maggioranza era quella vecchia, composta da 5Stelle e Lega. Il testo passò a Palazzo Madama anche grazie al soccorso di Fratelli d’Italia.

Il Partito democratico era contrario (Italia Viva non esisteva ancora), Forza Italia invece decise di non partecipare al voto. Così, in un certo senso, i 7 senatori dem che hanno firmato per il referendum (Nannicini, Verducci, Rojc, Rampi, D’Arienzo, Giacobbe, Pittella) sono rimasti coerenti sulla posizione già espressa quest’estate. Peccato che nel frattempo si sia capovolto il mondo: il Pd ora governa con i Cinque Stelle, il taglio dei parlamentari è stato uno degli argomenti su cui è stato fondato il patto giallorosa (e infatti a ottobre la quarta lettura alla Camera è stata votata praticamente all’unanimità). Anche Italia Viva è tra i giallorosa – e anche Matteo Renzi si è detto a più riprese favorevole al taglio – eppure nella lista dei referendari non manca il loro contributo, grazie alle firme di Laura Garavini e Riccardo Nencini.

Poi c’è Forza Italia: i berlusconiani sono sempre stati intimamente contrari alla misura che diminuirebbe drammaticamente la possibilità di essere rieletti. L’11 luglio gli azzurri avevano disertato il Senato, un modo per opporsi al taglio ma senza metterci troppo la faccia. L’8 ottobre alla Camera, invece, i deputati forzisti hanno clamorosamente appoggiato la riforma nella quarta e ultima lettura: sarebbero stati l’unico partito (oltre a +Europa) a contrastare una legge appoggiata da tutto il resto del Parlamento. E ancora una volta, pur di non perdere la faccia, i berlusconiani si sono adeguati. Poi però i senatori di FI hanno cominciato a lavorare al rimedio: il grande organizzatore della raccolta firme è stato Andrea Cangini e Forza Italia ha contribuito con ben 41 eletti. Tra di loro spiccano i nomi “storici” di Renato Schifani, Maurizio Gasparri, Paola Binetti, Lucio Malan, Luigi Giggino ‘a Purpetta Cesaro, Stefania Craxi.

Infine, da notare la firma del fisico senatore a vita Carlo Rubbia e di una nutrita pattuglia di ex grillini nel gruppo Misto. Sono ben sei: Carlo Martelli, Gregorio De Falco, Paola Nugnes, Elena Fattori, Saverio De Bonis, Maurizio Buccarella. Tutti eletti in un partito fondato sulla promessa di “tagliare la casta”, tutti convertiti alla difesa della “dignità del Parlamento”. Dopo esserci entrati.

La Casta raggiunge il quorum: pressing di Salvini per le firme

“Noi andiamo avanti. Anche se è concreta la possibilità che qualcuno ritiri la sua firma. So che è in corso una riflessione perché ora il rischio di un ritorno alle urne anticipato è più alto”. Andrea Cangini di Forza Italia sa che la tentazione di qualcuno di sfilarsi dal gruppo dei 64 senatori che hanno sottoscritto la richiesta di referendum sul taglio dei parlamentari è grande. Se ne parla continuamente a Palazzo Madama dove ormai da 24 ore le facce di chi all’inizio era straconvinto dell’iniziativa, si sono fatte più incerte. Specie dopo che hanno visto apporre la loro firma sul modulo che contiene la richiesta per la consultazione popolare alcuni tra i senatori azzurri di maggiore peso politico: da Gasparri a Malan passando per il questore anziano De Poli (che è eletto nelle file forziste in quota Udc) e il tesoriere del gruppo Pichetto Fratin. Insomma lo stato maggiore del partito dell’ex Cavaliere che è sempre più vicino a Matteo Salvini.

Motivo: con la richiesta di referendum, che sospende il taglio dei parlamentari, si apre una finestra elettorale tra aprile e giugno per andare al voto eleggendo 945 parlamentari anziché 600. Insomma, è un fucile puntato sulla legislatura. Salvini, che è il più interessato alle urne, ha mandato avanti gli “amici” di FI senza entrare in gioco in prima persona, visto che si tratta di una legge che la Lega ha votato. Le firme vanno depositate entro il 12 gennaio: la riflessione dei dubbio si può continuare fino a quel momento, senza escludere che alla fine arrivi il “soccorso verde”.

Salvini, peraltro, ieri non è andato al ricevimento al Quirinale. Un modo per marcare la distanza dalle scelte di Sergio Mattarella. Al Colle non è andato neanche Matteo Renzi. I due omonimi si sentono in continuazione, alla ricerca della quadratura del cerchio della reciproca convenienza. Ma è un patto tra bari e, per di più, tra i due contraenti i pesi non sono equivalenti: Renzi è più debole ogni giorno che passa (addirittura c’è un gruppetto di 3-4 senatori di Italia Viva che sarebbe pronto a rientrare nel Pd).

Se il primo interesse di Salvini è andare al voto, quello di Renzi è sopravvivere. E dunque, il primo elemento del “patto” riguarda una legge elettorale proporzionale: il fu Rottamatore è pronto a fare le barricate contro il cosiddetto “sistema spagnolo” (che lo marginalizzerebbe definitivamente) e per scongiurarlo sarebbe persino pronto a dare una mano per far saltare il banco e andare al voto col Rosatellum (che ha una soglia di sbarramento bassa) o almeno a farlo credere al leader della Lega. Per lui, la soluzione migliore resta un governo di unità nazionale, che Salvini ha lanciato, ma che per ora non sembra decollare. Non a caso ieri ha rilanciato il “piano choc” sui cantieri che ha chiesto ufficialmente all’amico-nemico leghista di appoggiare. I due prima di tutto vogliono liberarsi di Conte.

L’evidente “manina” di Salvini sulla raccolta delle firme contro il taglio dei parlamentari ha fatto scattare un campanello d’allarme in chi, come il senatore Massimo Mallegni, non digerisce più di tanto la deriva “leghista” di FI: “Sono una persona libera. Non so se manterrò la mia firma sulla richiesta di referendum oppure no, anche se sono stato tra i primi tre senatori ad aderire”.

E non rassicura la dichiarazione di Mariastella Gelmini, capogruppo azzurro alla Camera, che ribadisce la posizione ufficiale del partito, che ha votato per il taglio dei parlamentari “e quindi confermiamo la nostra posizione”. Sarà, ma su gruppo di 61 eletti al Senato, 40 hanno firmato la richiesta di referendum: gli altri sono Gravini e Nencini (Iv), Grassi e Urraro (Lega), Giarrusso, Di Marzio, e Maricotti (M5S), Nannicini, Verducci, Rojc, Rampi, D’Arienzo, Giacobbe, Pittella (Pd) e poi 10 del Misto (tra loro gli ex M5S De Falco e Nugnes). Bisognerà vedere chi ci ripenserà sul serio temendo di portare acqua al mulino di chi sta manovrando per avvicinare la fine della legislatura.

Giusto l’altro giorno, Pier Luigi Bersani, che ne ha viste tante, ha ricordato a modo suo che i governi non vanno mai in crisi durante la legge di Bilancio. Ma subito dopo la probabilità aumenta, specie se è aperta la partita per riformare la legge elettorale, che è un processo in cui tutti tirano la corda per portare a casa il massimo, ma che prevede pure che il banco venga fatto saltare.

Intanto, il Pd mette sulla graticola Pittella, vicino alle posizioni renziane. E pure Tommaso Nannicini (“vuole fare la sardina del Pd”) che ha firmato e convinto i suoi a firmare. E non certo di nascosto dal partito. Dove la linea ufficiale la ribadisce Andrea Marcucci: “Non siamo contenti dell’iniziativa”. Ma c’è chi giura che Zingaretti abbia attivamente collaborato all’iniziativa. Per lui, indeciso a tutto, il referendum è un modo per guadagnare tempo rispetto alla scelta di staccare la spina e tornare al voto con i vecchi numeri.

Poltrone & sofà

Fortuna che, oltreché sul “cazzaro verde”, abbiamo appena battuto Salvini in Tribunale anche sulle “pagliacciate razziste”, perché ormai cazzaro è un eufemismo. Tenetevi forte: il suddetto, in soave corrispondenza di amorosi sensi con l’altro disperato di nome Matteo, ha chiesto a FI la cortesia di raccogliere le 64 firme necessarie per sottoporre a referendum la legge costituzionale che ha tagliato i parlamentari da 945 a 600. Poi si è congratulato con i firmatari perché lui è “d’accordo sui referendum in generale”. Che anima pia. Purtroppo tutti sanno che, a lui come a Renzi, del referendum non frega nulla: non ci vuole Nostradamus per prevedere che sarà un plebiscito di Sì al taglia- poltrone. Ciò che interessa ai due Matteo è rinviare il taglio alla prossima legislatura e votare presto con 345 strapuntini in più a disposizione. E così destabilizzare la maggioranza del governo Conte, comprando consensi per le elezioni anticipate con la garanzia che ci saranno posti per tutti: sia per la nanoparticella di Italia Viva, che deve assicurare la cadrega almeno a Renzi e ai suoi cari; sia per la Lega, che promette poltrone e sofà a tutti, in questa e soprattutto nella prossima legislatura, per ingaggiare parlamentari forzisti e 5Stelle. I referendum costituzionali sono istituti nobilissimi, per sottoporre ai cittadini le modifiche fatte dal Parlamento alla Carta. Ma anche costosissimi: mezzo miliardo mal contato (la stessa cifra che si risparmierà col taglio dei parlamentari in ogni legislatura), soldi pubblici che finiranno in fumo per organizzare un voto dall’esito scontato.

Non solo: prima che le Camere si trasformassero in manicomi, a sostenere i referendum costituzionali era chi si opponeva alle riforme, non chi le aveva votate. Nell’era della psicopolitica, invece, tra i registi del referendum abbiamo il leader di uno dei due partiti (l’altro è il M5S) che hanno approvato in tutte e quattro le letture il taglio dei parlamentari che ora si vorrebbe abrogare. Meglio di lui fanno quei due geni di Grassi e Urraro, appena passati dal M5S alla Lega, che dopo aver voto il taglia-poltrone ogni santa volta, gettano la lingua oltre l’ostacolo e, col tipico empito dei neofiti, si mostrano più leghisti del Cazzaro. E così si ritrovano a braccetto con altri campioni di coerenza, Nugnes e De Falco, usciti dal M5S dalla porta sinistra (i due avevano votato Sì a febbraio in prima lettura e no a luglio in seconda, per dispetto a Di Maio o perché prima non sapevano cosa votavano). E con giganti del calibro di Giarrusso, Di Marzio e Maricotti, che restano nel M5S ma firmano il referendum che dovrebbe stracciare la loro bandiera.

Monumentale, infine, il caso del deputato Pd Roberto Giachetti: in prima lettura, nell’èra governo giallo-verde, aveva votato no; in seconda, a ottobre, agli albori dell’èra governo giallo-rosa, aveva votato sì con tutto il centrosinistra convertito, ma precisando che era contrario e annunciando che avrebbe raccolto le firme e fatto campagna per il No. Ora sarà felice di apprendere che la sua nobile battaglia la usa Salvini per terremotare la maggioranza di cui lui (Giachetti, non Salvini) fa parte. Da quel Salvini che ancora l’11 luglio, votando il taglia-poltrone in seconda lettura al Senato, twittava: “Taglio di 345 parlamentari, fatto”, “Bene il taglio dei parlamentari, in meno si lavora meglio”. Poi, siccome non era “fatto” un bel nulla mancando ancora il secondo voto alla Camera, ad agosto rovesciò il governo e passò all’opposizione, anche di se stesso: “Il taglio dei parlamentari è un Salva-Renzi. Fino all’anno prossimo non si potrebbe più tornare al voto e la coppia Renzi-Boschi (che ha sempre votato contro) salverebbe la poltrona” (12 agosto). Poi, l’indomani, ricambiò idea: “Tagliamo i parlamentari la prossima settimana e poi andiamo subito al voto, così si chiude in bellezza” (13.8). Poi precisò che il taglia-poltrone valeva “solo dalla prossima legislatura”. Poi annunciò: “A differenza del Pd, la Lega ha già votato e voterà ancora per la quarta volta il taglio dei parlamentari. Bene il risparmio di mezzo miliardo di euro per gli italiani” (16.8). Poi disse che i 5Stelle svendevano il taglio dei parlamentari al Pd e a Renzi che non l’avrebbero mai approvato: “Nelle proposte del Pd c’è lo sberlone ai 5Stelle in cui scompare il taglio dei parlamentari. Noi l’abbiamo votato tre volte… e anche ieri abbiamo detto di essere pronti a farlo” (21.8). “Rimaniamo increduli che il taglio dei parlamentari sia sparito dall’orizzonte. Se qualcuno preferisce il governo con Bibbiano, Banca Etruria, Mps, noi facciamo volentieri mille passi avanti” (26.8). “Non si parla più del taglio dei parlamentari. Noi saremmo pronti, ma il tema è sparito perché il Pd non vuole tagliare niente” (28.8). “Sono curioso di vedere nel programma di questo nuovo governo delle poltrone e dei no che cosa hanno messo sul taglio dei parlamentari. Noi lo abbiamo sempre votato, non è che cambiamo idea ogni 15 giorni. Il Pd ha sempre votato contro” (4.9).
Poi il taglia-poltrone entrò nel programma del Conte-2. E Salvini ricambiò idea: “La Lega lo voterà, ma solo se l’ok al provvedimento non è merce di scambio in un mercato delle vacche tra M5S e Pd su ius soli, legge elettorale proporzionale e inciucio. Questo ce lo spiegherà Di Maio, che cambia spesso idea su tante cose” (1.10). Dieci giorni dopo il taglio dei parlamentari passò definitivamente alla Camera coi voti di tutti, Lega inclusa, e appena 14 contrari. Ora, a proposito di chi cambia spesso idea, Salvini esulta per il referendum contro il taglio dei parlamentari e lo usa come merce di scambio nel mercato delle vacche con Renzi&C. per la legge elettorale proporzionale e per un mega-inciucio. Dargli del cazzaro, a questo punto, è fargli un complimento. Meglio pagliaccio.

Nell’Italietta cattolica di Giolitti anche “L’Asino” vola. E scalcia

Raglia e fa ridere il ciuco. Sempre paziente e gravato di ogni metafora si ritrova utile ma bastonato e L’Asino, comunque, fuor dal recinto simbolico resta tra le testate che fanno la storia della satira politica.

Il somaro che non è certo una sardina ante litteram non sguscia, sfodera la propria natura sovversiva nel richiamo di esuberanza sensuale. E il giornale settimanale che ne prende nome, fondato da Gabriele Galantara e Guido Podrecca nel 1892 – al tempo di Giovanni Giolitti – è fedele alla chiassosa goliardia di una stagione prodiga di agitatori carducciani, quelli dell’Inno a Satana per capirsi, e di socialisti del positivismo ateo e materialista.

Mangia i preti, innanzitutto, l’Asino. I cattolici si decidono per l’impegno diretto in politica e i redattori del foglio, armati di caricature, inchiostro di china, torchi di stampa e matite scagliano anche grazie al Cyrano de Bissolac (ovvero il capo socialista Leonida Bissolati) una guerra senza tregua contro Santa Romana Chiesa.

Ai due fondatori, che si palesano per tramite di pseudonimo – Goliardo è Podrecca, Rata Langa è Galantara – si associa Giva, ovvero Giovanni Galantara. Trilussa, il poeta di Roma, li identifica, a sua volta, con un codice zoologico: il Raglio, il Morso e il Calcio dell’Asino.

Tutti sorvegliati speciali. Non fosse altro perché con loro c’è un altro ceffo noto ai lettori de l’Asino per la sigla Mus: un agitatore romagnolo giunto dal Trentino. È Benito Mussolini e ha appena consegnato a Podrecca e Galantara per la loro casa editrice un saggio ferocemente anticlericale: Giovanni Huss, il Veridico. E così agli “incolti, turbolenti e scansafatiche” – definiti così nei mattinali delle prefetture – si aggiunge “il terzo dei due”: un ragazzo giunto dalla Calabria che da semplice collaboratore resterà fino alla chiusura, nel 1925, diventandone direttore amministrativo nel passaggio finale sotto la testata de l’Avanti!.

Un libro di Ludovica De Nava e Pier Luigi Zanata racconta “il calvario di un giornale ribelle”. Il titolo, Il calcio dell’Asino (Luigi Pellegrini Editore), promette un saggio storico dove il lettore troverà documenti inediti a conferma dell’aiuto reciproco tra la Segreteria di Stato vaticana e la polizia segreta dello Zar alle prese con l’avvento della rivoluzione bolscevica.

Prodigo di un’abbondante sezione antologica di testi e vignette, il libro va ben oltre i propri doveri storiografici attraverso il romanzo di Giva, ossia la biografia del bel giovane che si fa largo da Reggio Calabria tra i sospiri del bel sesso per poi arrivare ad amare Grazia Deledda e separarsene infine perché – si sa – c’è chi vuole raggiungere la fama e c’è chi vuole cambiare il mondo. Ma De Nava, sollecitato dal fratello Pietro di “pensare alle cose serie”, cerca, intanto, di cambiare la sua Calabria.

Autore di quel Sintiti genti (“Ascoltate, gente”) una sorta di Facebook della sua epoca, Giva mette se stesso al centro di una battaglia contro l’arretratezza del Sud. Ed è incredibile – a riavvolgere il nastro degli eventi – come la classifica della qualità della vita pubblicata due giorni fa da il Sole 24 Ore confermi il baratro, perfino peggio rispetto alle giornate di Nava se si pensa alla capacità – in quella tragedia che fu il terremoto del 1908 – di attivarsi fattivamente con Peppino Valentino nella ricostruzione di Reggio; di arrivare poi, con Michele Bianchi in camicia nera, alla bonifica delle zone malariche.

La vita di De Nava incontra la storia. E dunque il calvario. L’esperimento riformista naufraga sempre incontro allo scoglio del Sud. Geniale imprenditore ad Archi, industriale dei profumi, Nava ama la sua terra – si profonde in esperimenti sociali – ma fa gemmare le sue inquietudini nel giornale satirico che accompagna le convulsione del giolittismo, dell’Italietta, della Prima guerra mondiale e del combattentismo.

Una storia, quella italiana, dove il socialismo diventa focolaio degli arditi, col Mus che si fa Dux nella costruzione del Regime chiamando nei propri ranghi Podrecca, trovandolo entusiasta aderente ai fasci di combattimento, ma nel 1925 mette la morsa a L’Asino per portarlo alla chiusura. Uomo del Sud – poeta e dissidente – De Nava si spegne nel luglio del 1931 dopo avere raccolto le sue Urtimi canzuni. Ostile al regime è nominato ispettore generale della Croce Rossa. L’Italia intera s’inchina al passaggio del suo feretro. La dote precipua del suo carattere – recita Filippo Cremonesi, presidente della Croce Rossa – “la massima consapevolezza e la più completa applicazione dei suoi sentimenti di giustizia”.

Il profeta Antonioni. Eco, la Vitti e pure i dischi. Online l’archivio del regista

“Io non sento risentimento ma al contrario molta gratitudine per l’entusiasmo con cui ti eri buttato sul mio libro. So benissimo che se non ce l’hai fatta non è stato per colpa tua e sarei stato felice se la cosa fosse andata in porto”. Risentimenti, gratitudine, libro, colpe e felicità smarrite: qual era quella “cosa” che non è “andata in porto”? E soprattutto chi sono i soggetti coinvolti? La risposta trova il volto di due geni del ’900 che si conoscevano e si stimavano: Umberto Eco e Michelangelo Antonioni.

La lettera dattiloscritta dal primo al secondo è datata 27 febbraio 1984 e corrisponde a uno dei 47 mila cimeli contenuti nell’Archivio del Fondo Michelangelo Antonioni che – ottima notizia – è finalmente consultabile online. Un patrimonio inestimabile per accedere al quale “non c’è più bisogno di chiedere alla sottoscritta (…). Siamo online” ufficializza la vedova Enrica Fico Antonioni senza nascondere una certa soddisfazione e palpabili emozioni. “Ci perdonerà Michelangelo di averci messo tutti questi anni per dare questa possibilità di accesso alla visione della sua opera, lui che intuiva, con cinquant’anni di anticipo, come andava il mondo”. Una capacità profetica la sua così parallela a quella teoretico-letteraria del suo amico Eco, che diversamente, ma come lui, sapeva veramente inventare visioni di mondo folli eppure pertinenti. Forse per questo, e per evidente stima umana, il “professore” avrebbe gradito la firma del regista ferrarese sull’adattamento de Il nome della rosa (quel “mio libro”..) passato poi nelle mani mediocri del francese Jean-Jacques Annaud. Il mistero che aleggia sulla lettera Eco-Antonioni è ancora vibrante, specie perché ricca di allusioni a pregressi significativi, ma è chiaro che gli entusiasmi del cineasta verso il testo echiano siano stati forzatamente spenti dai produttori (“non è stato per colpa tua”) che nutrivano poca fiducia nel suo ben noto disprezzo del botteghino. Come sarebbe stato il più grande romanzo italiano sul Medioevo rivisitato per il cinema da Antonioni? Probabilmente stilizzato, ultra-postmoderno, sovversivo coi suoi fantasmi vertiginosi, intrisi di enigmatici blow up(s) ante-litteram in cui scoprire l’insondabile. Diversamente fautori di una (in)comunicazione virtuale, Antonioni ed Eco si apprezzavano, e immaginavano coi propri mezzi delle verità universali grazie alla “importanza dell’irrilevante”.

L’episodio epistolare è chiaramente solo una delle perle a cui si approda navigando nel “museo virtuale” dedicato all’artista nato nel 1912 e scomparso nel 2007, museo che si spera presto trovi luce definitiva dopo la chiusura di una prima “versione” nel 2006 in spazi adiacenti a Palazzo Diamanti e soprattutto il rallentamento (causa terremoto) di una riapertura “in grande” presso Palazzo Massari. Tale attesa, quindi, è stata colmata dalla messa in rete della catalogazione del materiale, in parte visibile e in altra solo rimandabile a consultazione in situ, ovvero presso la temporanea sede de l’Archivio Storico Comunale di Ferrara. Del regista che riesce ancora oggi a commuovere Martin Scorsese (“Ogni volta che vedo il finale de L’avventura piango”) è bello intravedere l’ordine mentale nel disordine delle note per i set, o cogliere dei “mea culpa” per non esser mai esplicitamente intervenuto nei confronti dell’amata Monica Vitti, spesso dimenticata dai critici che osannavano i suoi film. Antonioni rimproverava così in una lettera a Pietro Bianchi tali omissioni: “Non ho mai preso la parola a favore di Monica (…) Ma forse ho fatto male (…) ho per il suo lavoro (…) la sua passione e la sua preparazione professionale un tale rispetto (…) che non posso più rinunciare a dirlo”.

Un meraviglioso collage di fotografie pubbliche e private, lettere, appunti, disegni, raccolte di libri e vinili (che vanno da Debussy ai Pink Floyd passando per Grace Jones), riflessioni e naturalmente tutto ciò che concorreva alla preparazione dei suoi film, dai soggetti iniziali fino alla raccolta delle recensioni: tutto questo e molto altro dal Fondo Michelangelo Antonioni è dunque consultabile come work in progress su archivioantonioni.it. Un magnifico regalo natalizio per la cinefilia.

Il Sultano turco invia i droni di famiglia a difendere Tripoli

Il 2019 sarà ricordato dal presidente Erdogan, come uno dei più proficui anche per quanto riguarda il portafoglio familiare. La recente entrata in scena da protagonista del Sultano nel conflitto libico per aiutare il premier al-Sarraj a respingere l’assalto contro Tripoli del maresciallo Khalifa Haftar, potrebbe portare a tutta la sua famiglia molti benefici, non solo geopolitici. L’imprenditore Selçuk Bayraktar, marito di Summeye Erdogan – figlia prediletta nonchè stretta consigliera del presidente turco – ha ottenuto poche settimane fa una commessa dall’esercito per inviare i suoi droni armati a Tripoli. Furono già alcuni dei velivoli senza pilota (Siha, Strategic Unmanned Aerial Vehicle) prodotti dalla società Bayraktar a bombardare i civili curdi ad Afrin, nel nord-est della Siria, nel 2018. Bayraktar lo annunciò così sul suo account Twitter (@Slck_byrktr): “Il primo Siha Bayraktar armato è stato messo in azione la scorsa settimana. Speriamo nelle vostre preghiere”. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr) durante la prima operazione militare turca in Siria vennero uccisi circa 250 civili, soprattutto a causa di attacchi aerei. Il genero del Sultano ha poi dichiarato che il primo test è stato condotto il 26 giugno 2017. Altri messaggi condivisi da Bayraktar parlavano di un addestramento del personale all’uso di questi droni iniziato il 21 agosto 2017. Summeyye ha sposato l’imprenditore turco il 14 maggio 2016, quando ancora i suoi affari non andavano a gonfie vele. Alla cerimonia era presente il generale Hulusi Akar, giá fedelissimo di Erdogan. Due settimane dopo il matrimonio, Bayraktar e Akar hanno tenuto una riunione, in cui è stato introdotto il “Bayraktar Siha”: e il genero del Sultano è diventato il fornitore di uno degli eserciti più potenti della Nato.

Contro Macron in atto la tempesta perfetta

“Ormai in Francia quando c’è uno sciopero non se ne accorge nessuno” disse nel 2009 Nicolas Sarkozy, con una malposta superbia che avrebbe presto pagato nelle piazze e nelle urne. L’intolleranza della classe politica alle proteste e al disagio popolare non fu solo di destra: a tacer d’altro, le “piccole frasi” di Hollande sui “senza denti”, di Macron (22,4% alle ultime europee) sui “Galli refrattari al cambiamento” e sulle “persone che non sono niente”, hanno rinfocolato gli animi e lacerato un Paese dove oggi in libreria troneggia una Rapsodia dei dimenticati (Sofia Aouine) e a teatro va in scena la metamorfosi di una mitissima impiegata cinquantenne, piegata dalla vita e adibita a tagliatrice di teste, in sequestratrice del proprio datore di lavoro: “l’unico modo di credere nella mia libertà era toglierla a qualcun altro” (Ostaggi, di Nina Bouraoui: si ricorderà il bossnapping dei quadri di Goodyear nell’Epifania 2014, proprio nella Amiens di Macron). La riforma delle pensioni è stata concepita dalla persona più sbagliata, l’infido Delevoye che nascondeva perfino i suoi stessi imbarazzanti profitti: chi può più fidarsi delle promesse governative di riequilibrio e di equità?

Né pare aver fortuna per ora la proposta di Thomas Piketty: tener conto del fatto che i detentori di redditi medio-bassi hanno in media un’aspettativa di vita inferiore, e dunque differenziare i “punti” della pensione a vantaggio dei meno abbienti. Rischia qui di prodursi per Macron la tempesta perfetta, ovvero la saldatura tra la protesta “selvaggia” dei Gilet gialli, spesso guardata con disprezzo e sgomento dall’intelligentsija di sinistra (quella dei quartieri gentrificati, della cultura democratica benpensante, del ditino alzato, del “largo ai competenti!”), e il redivivo sindacato capace di mobilitare tante categorie sociali per settimane, in barba a chi lo riteneva un ferro vecchio nella nuova start-up nation del futuro. Proprio mentre “Jupiter” – come è spesso chiamato Macron riprendendo una sua stessa intervista del 2016 – stava goffamente tentando di tornare a camminare tra i mortali seguendo i consigli di Plinio all’imperatore Traiano (così F. Ono-dit-Biot in un gustoso libro di parodia della Giletgiallomachia), riemerge con forza dal basso – e valicando i recinti ideologici che ancora valevano nelle oceaniche dimostrazioni del ’95 contro Chirac e Juppé – un racconto che insiste sulla giustizia sociale come ingrediente precipuo della democrazia, e al contempo rifiuta di identificare il nemico nel diverso. Un monito e un pungolo speciale per l’unico Paese– il nostro – dove un movimento nato dalla protesta e gli eredi della “sinistra” tradizionale provano assieme una complicata ma forse ineludibile esperienza di governo.

Francia, quasi 2 milioni di No alla schiforma delle pensioni

Governo e sindacati tornano a sedersi al tavolo dei negoziati oggi: all’ordine del giorno la riforma delle pensioni voluta da Emmanuel Macron. Ieri, nel bel mezzo di una nuova giornata di mobilitazione generale, il premier Edouard Philippe si è detto persino “ottimista” in vista del nuovo ciclo di discussioni, che continuerà anche domani. Ma ha posto subito dei paletti: il nuovo sistema “universale a punti”, con la fine dei regimi “speciali”, non si discute. Data la situazione c’è da chiedersi come sarà possibile pervenire a un’intesa. Ieri i sindacati sono tornati a marciare contro la riforma ma questa volta compatti.

Nel corteo non c’erano solo i più radicali, come la Cgt di Philippe Martinez, che chiede il ritiro puro e semplice del testo, ma anche la moderata Cfdt di Laurent Berger, aperto al dialogo ma inflessibile su almeno un punto: l’innanzalmento dell’età pensionabile a tasso pieno dai 62 anni attuali a 64 nel 2022. Per uscire dall’impasse, Berger ha anche ipotizzato l’aumento dei contributi sociali. Una proposta a cui Philippe ha già chiuso la porta. Ieri è stata la terza giornata di sciopero generale, dopo il 5 e il 10 dicembre. Ma di fatto sono più di due settimane ormai che la Francia è nel caos. Circolava solo un treno su quattro. Diversi voli n partenza dallo scalo di Orly sono stati annullati. I metrò di Parigi, tranne le due linee automatiche, dove la gente si ammassa nelle ore di punta, sono rimasti fermi. Ferrovieri, insegnanti, ma anche ospedalieri con striscioni “Salviamo il sistema sanitario”, avvocati, piloti, sono scesi nelle strade di Marsiglia, Lione, Bordeaux. A Parigi il corteo è partito dalla place de la République verso la place de la Nation, passando per la Bastille. Qui i dipendenti dell’Opéra, il cui regime specifico rischia di essere soppresso, hanno cantato la Marsigliese. È rimasta chiusa la Tour Eiffel, mentre la Cgt ha annunciato l’apertura gratis del Musée d’Orsay. Più di tremila sono stati i controlli preventivi nella capitale, 27 i fermi. Qualche tensione è stata registrata in place de la Nation a fine corteo. A Lille due giovani sono stati fermati per aver lanciato contro i poliziotti un ordigno artigianale, senza fare feriti. Interruzioni di corrente sono stati rivendicati dai sindacati a Lione e nella sua regione, altri episodi anche nella Capitale anche se in questo caso non è chiara l’origine. Si parla di 90 mila case senza elettricità, 50 mila in Gironda e 50 mila a Lione: il sindacato Cgt ha detto che gli operai hanno manomesso l’erogazione dell’energia, minacciando nuovi blackout. Per Martinez della Cgt la giornata è stata un “successone”, anche per la massiccia presenza di lavoratori del privato: ha parlato di 350 mila manifestanti a Parigi, di 1,8 milioni in Francia. Erano 76 mila invece a Parigi per il ministero dell’Interno, 615 mila in tutta la Francia. Il caos non è però solo nelle strade e nei treni. Lunedì si è dimesso il “signor pensioni”, l’uomo a cui il presidente Macron aveva affidato la missione di riformare il sistema pensionistico. Jean-Paul Delevoye, principale autore del contestato testo, aveva omesso di dichiarare diverse attività, alcune remunerate, altre in evidente conflitto di interesse con la funzione ministeriale.

Secondo il quotidiano Le Monde, il governo (che ha smentito) era al corrente da tempo delle irregolarità. Nell’imbarazzo generale, il premier Philippe, che ha preso in mano la situazione, ha poche ore per vincere la sfida del Natale. “Non credo che i francesi accetterebbero che alcune persone possano privarli di un momento così importante”, ha detto. Il prossimo fine settimana la Sncf, la società delle ferrovie, si aspetta 850 mila viaggiatori nelle stazioni. É stato promesso che il 50-60% dei treni circolerà. Ma malgrado i disagi, il 53% dei francesi, secondo l’Ifop, continua a appoggiare la protesta.

Musharraf, da leader anti al Qaeda alla pena di morte

L’ex presidente pachistano Pervez Musharraf è stato condannato a morte: l’accusa di alto tradimento è relativa al colpo di stato del 1999 con l’imposizione della legge marziale e il rovesciamento del governo eletto dell’allora primo ministro Nawaz Sharif. Se la sentenza sarà eseguita, sarà una conferma che il mestiere di presidente e/o di premier in Pakistan è fra i più pericolosi al mondo. Come le vicende di Benazir Bhutto e di suo padre Zulfiqar Ali Bhutto testimoniano bene. All’inizio del XXI Secolo, il generale Musharraf, che prese il potere nel 1999 con un colpo di Stato, fu alleato degli Stati Uniti di George W. Bush nella guerra al terrorismo contro al Qaeda: ricevuto con tutti gli onori nello Studio Ovale della Casa Bianca, nonostante i molti doppi giochi dell’intelligence pachistana (e non solo). Nel Paese alleato degli Usa, fra i monti al confine con l’Afghanistan, santuari dell’etnia pashtun, avevano rifugio i miliziani di al Qaida: il loro capo, Osama bin Laden fu intercettato e neutralizzato nel 2011 da un commando di Seals ad Abbottabad, in Pakistan. Tra il 2001 e il 2002, a Karachi, un giornalista americano, l’inviato del Wall street journal fu rapito, decapitato e fatto a pezzi. Non più presidente dal 2008, Musharraf non ha mai cessato di brigare per tornare al potere. Installatosi a Dubai nel 2016, relativamente al sicuro, dopo essere stato accusato di alto tradimento, l’anno scorso aveva annunciato l’intenzione di tornare a Islamabad – una mossa che fu fatale nel 2007 alla Bhutto – a condizione di potersi candidare alle elezioni legislative di fine luglio. Respinta la sua candidatura dall’Alta Corte di Peshawar, che ne aveva ribadito l’interdizione a vita da ogni carica pubblica, Musharraf, aveva rinunciato alla presidenza del suo partito, l’All Pakistan Muslim League (Apml), ed era stato sostituito dal segretario generale, Muhammad Majad.