Il Paese delle mille anime sprofonda nel nazionalismo

In queste sere la Capitale indiana, Delhi, è grigia, fredda, appannata dallo smog e anestetizzata dal traffico costante. A sovrastare il baccano sono gli slogan scanditi dai manifestanti che, da tre giorni a questa parte, protestano per tutta la città. Ad accendere la miccia di un’ondata di malcontento che ora tocca tutta l’India (e che ha causato per il momento almeno sette morti) è stata l’approvazione da parte del Parlamento, lo scorso 11 dicembre, di una nuova legge sulla cittadinanza, voluta dal governo guidato dal partito nazionalista induista Bharatiya Janata Party. La Citizen Amendment Bill (Cab) prevede una l’amnistia per i migranti clandestini non musulmani provenienti da tre paesi confinanti a maggioranza musulmana (Afghanistan, Bangladesh e Pakistan): secondo i suoi detrattori, marginalizzerebbe i musulmani e violerebbe i principi costituzionali che difendono la libertà religiosa. “Prima il governo ha cancellato l’autonomia del Kashmir. Poi ha creato il Registro Nazionale dei Cittadini contro i musulmani di Assam. Ora, con il Cab, la gente ha capito che in gioco ci sono la nostra libertà, la democrazia, il secolarismo indiano. Neppure la demonetizzazione (il ritiro delle banconote da 500 e 1.000 rupie avvenuto tre anni fa ndr) era riuscita a far scendere in strada così tanta gente” sbotta Mallika Taneja, 35 anni, artista di Delhi. “Domenica, poi, la violenza della polizia contro gli studenti dell’università di Jamia Millia Islamia ha scatenato l’indignazione generale”. Quella notte centinaia di persone si sono radunate di fronte al quartiere generale della polizia di Delhi per protestare: “Non era la solita manifestazione cui siamo abituati, dove arrivi, resti un’oretta e torni a casa. Siamo rimasti seduti a terra, pacificamente, dalle nove di sera alle quattro del mattino, nessuno voleva andarsene. Mi sono detta: questo è cibo per la rinascita della società civile”.

La reazione, nelle stesse ore, è dilagata tra le università più prestigiose della nazione, da nord a sud, unendo gli atenei di Mumbai, Calcutta, Pondicherry, Hyderabad, Lucknow e Bangalore: “Per le strade non ci sono solo ragazzini ma persone di ogni età, provenienza, professione. Casalinghe e ristoratori, tassisti e nonne. C’è rabbia, c’è voglia di combattere un’idea ristretta del nazionalismo indiano” spiega la scrittrice Snigdha Poonam, 36 anni. “Quel che sta avvenendo è inquietante per chiunque creda nella costituzione secolare d’India. Si sta indebolendo la storica pluralità nell’accogliere i rifugiati indipendentemente dalla loro fede, ma c’è anche il timore che i musulmani che vivono nel Paese possano essere perseguitati politicamente. Pochissime persone in India sarebbero in grado di fornire i documenti di nascita che abbracciano generazioni della loro famiglia”. A protestare anche induisti come il filmmaker Nakul Singh Sawhney, 37 anni, rientrato nella Capitale dalla vicina Meerut dove, racconta, è stata bloccata la rete Internet: “Vogliono sabotare l’organizzazione delle proteste e bloccare la libera informazione. Ma se l’intento era metterci gli uni contro gli altri, hanno fallito. In tanti mi dicevano che esageravo a considerare questo governo teocratico, e ora si stanno ricredendo”. Dal canto suo, il premier Narendra Modi, che alle ultime elezioni ha ottenuto una maggioranza schiacciante, è intervenuto cercando di calmare gli animi via Twitter, chiarendo che la legge non è contro i musulmani e, al tempo stesso, puntando il dito contro gli atti vandalici che hanno accompagnato alcune proteste: “Il dibattito, la discussione, il dissenso sono elementi essenziali della nostra democrazia: azioni che danneggiano le proprietà pubbliche e stravolgono la vita normale non fanno parte della nostra etica”. Domani, intanto, è attesa una maxi-manifestazione nazionale: “Lo slogan sarà Ham Bharat Ke Log, noi cittadini dell’India” spiega Hasina Khan, 50 anni, storico volto dell’organizzazione delle donne musulmane Bebaak Collective, di Mumbai. “Siamo tutti cittadini di questa nazione. Come osa questo governo metterlo in dubbio, come osa violare in questo modo i principi della nostra Costituzione?”. La società civile, ripete, lo ha capito: “Ieri mentre manifestavo mi si è avvicinata una signora anziana, spaesata, con stretto al petto un giornale. Era la prima volta in vita sua che sceglieva di scendere in piazza. Ma ora, mi ha detto, è tempo di farlo”.

Sui crediti deteriorati l’Ue prepara un disastro

Le banche, è risaputo, prestano denaro e prosperano con la restituzione di capitale e interessi. Da sempre, la cultura di sana amministrazione insiste sulla prudenza del prestito e sul controllo della solvibilità del debitore per tutta la durata del prestito. Certamente fatti economici sistemici come le crisi economiche creano le condizioni di aumento delle insolvenze, la mancata restituzione dei prestiti ricevuti, così le banche sane esercitano la delicata arte tra il sostegno del debitore per superare le crisi e, dunque, rientrare in bonis, e l’extrema ratio di recuperare il recuperabile tramite l’escussione delle garanzie che accompagnano il credito concesso. Il rapporto tra cliente e banca si basa su fiducia e reputazione; la banca è consigliera degli imprenditori. Avendo conoscenze dei mercati tramite propri dipendenti specializzati, si chiamavano “settoristi”, e gli analisti degli uffici studi, le banche devono essere in grado di badare ai rischi della clientela e ai macro-rischi dell’economia e dei settori specifici.

Le famose relazioni annuali delle assemblee di Comit fatte redigere da Raffaele Mattioli, per quarant’anni timoniere e mentore della Banca commerciale italiana, dimostrano quella capacità di analisi e visione. Per gli sconquassi macro interviene la politica economica e monetaria dei Paesi. Come quando durante la crisi 1929, si risponde con una riforma bancaria coerente che salvaguarda il risparmio e separa nettamente la banca che fa il mestiere della banca, dalla impresa di speculazione finanziaria, che banca non è, e una politica economica e monetaria espansiva. L’annientamento della separazione tra la banca commerciale e l’azienda di speculazione finanziaria, realizzata sotto Clinton, ricrea le premesse del successivo tracollo bancario del 2008, travolto dalla finanza derivata e dei subprime.

L’allegra concessione di crediti e la boria degli amministratori delle banche sfocia in delirio di onnipotenza (Popolare di Vicenza, per dirne una); insieme al fallimento della Vigilanza, creano il cumulo dei crediti deteriorati, in gran parte frutto delle incrostazioni dei conflitti di interesse del capitalismo di relazione (i grandi crediti, in gran parte inesigibili) a cui si aggiunge il carico dei crediti sofferenti di imprese medio piccole e delle famiglie impattate dalla vera crisi economica (i medi-piccoli crediti, sovente iper garantiti). Il caso di Monte dei Paschi costretto a vendere 24 miliardi di Npl (Non performing loans, vale a dire i crediti deteriorati) al 18% del valore facciale, rappresenta la moda odierna della follia logica e strategica di svuotare le banche dei propri clienti in difficoltà. A livello nazionale sono stati venduti a saldo dalle banche, oltretutto beneficiarie fiscali per almeno 40 miliardi rigirati sul debito pubblico, dal 2011 a oggi, oltre 240 miliardi di euro. L’impatto su centinaia di migliaia di famiglie e decine di migliaia di imprese sarà conseguenza inevitabile.

Statistiche convergenti documentano che le banche recuperano direttamente gli Npl al doppio del valore di una vendita all’ingrosso ai fondi locusta, perché questi hanno promesso la rendita del 15% composto per 7 anni, che in Italia è il tempo medio di realizzo. I fondi locusta vogliono ora monetizzare gli Npl, ecco che necessita il grande mercato globale europeo degli Npl. Esauditi! Il Consiglio europeo ha così disinvoltamente sentenziato: “Tra gli elementi essenziali per il corretto funzionamento dell’Unione dei mercati dei capitali si annoverano mercati secondari dei crediti deteriorati ben sviluppati”. Una essenzialità affermata senza logica. La direttiva europea Npl 2018/0063 nasce da queste premesse e mira a creare il mercato unico europeo degli Npl regolando i gestori di crediti, gli acquirenti di crediti e il recupero delle garanzie reali. L’alimentazione al novello mercato di Npl freschi, verrà garantita costringendo le banche ad accantonare risorse aggiuntive quando nuovi crediti diventano deteriorati e addirittura coniando il concetto di inadempienze probabili, unlikely to pay, calcolate in astratto come probabili da modelli quantitativi (tecnicamente criticabili).

Una direttiva da votare a tamburo battente il prossimo 17 febbraio, farraginosa e potenzialmente distruttiva della crescita futura. La moda europea del momento è quella di svuotare le banche piuttosto che farle lavorare bene. In futuro ben più cautamente si prenderà il rischio di contrarre un debito, se così facilmente, alle prime difficoltà di rimborso, si viene intrappolati come tonni dalla rete bancaria e convogliati nella mattanza dei fondi locusta e/o del mercato europeo degli Npl.

La Commissione cita nella direttiva anche i rischi di riciclaggio e di terrorismo che possono inquinare il mercato Npl, ma decide di non affrontare la loro valutazione approfondita, rimandando la questione a un riesame della direttiva in un indeterminato futuro. La lotta alla criminalità non è questione così urgente, a quanto pare. Gli eurodeputati vanno a votare senza neppure il conforto di alcuna valutazione di impatto sociale ed economico. Le organizzazioni dei consumatori raccolte nel Beuc ( Bureau Européen des Unions de Consommateurs, Altroconsumo per l’Italia) hanno cercato di mitigare l’impatto sui più deboli, i consumatori clienti delle banche, proponendo una serie di emendamenti alla direttiva. Auspichiamo che Irene Tinagli, relatrice della direttiva, rimasta sorda a interloquire con il Beuc che pur rappresenta milioni di consumatori europei, possa comunque comprendere la banalità del male esercitata tramite questa incredibile soluzione finale agli Npl, made in Europe.

 

Alitalia, chiusa l’inchiesta. Tremano gli ex vertici

Sta per chiudersi il cerchio dell’indagine per il crac di Alitalia Sai sancito dalla sentenza del tribunale di Civitavecchia dell’11 maggio 2017. La Procura di Civitavecchia in queste ore sta lavorando agli avvisi di conclusione delle indagini, condotte dai pm Allegra Migliorini e Mirko Piloni con l’aggiunto Gustavo De Marinis della Procura di Roma sotto il coordinamento del procuratore capo Andrea Vardaro. I magistrati hanno indagato per bancarotta fraudolenta i tre manager che hanno guidato la compagnia dal 1 gennaio 2015 al 2 maggio 2017: Silvano Cassano, Luca Cordero di Montezemolo, Cramer Ball.

Il 22 maggio 2017 la Guardia di Finanza aveva perquisito gli uffici a Fiumicino sequestrando una enorme mole di documenti, personal computer, server. Sotto la lente dei magistrati sono passate le posizioni di decine tra amministratori, sindaci, manager, consulenti e commissari della compagnia aerea “risorta” dalle ceneri di Alitalia Cai, a sua volta nata nel 2008 dalla preesistente Alitalia Lai, con l’ingresso al 49% del capitale dal primo gennaio 2015 di Etihad. Perno dell’inchiesta è una mastodontica consulenza tecnica, contabile e finanziaria, realizzata per la Procura laziale da Stefano Martinazzo, responsabile forensic accounting di Axerta Spa, e dal commercialista Ignazio Arcuri.

Sono stati passati al pettine fine milioni di documenti tra mail, perizie, contratti, bilanci, prospetti di obbligazioni, il piano industriale e la relazione sulle cause dell’insolvenza commissionata a Pwc dai commissari che l’hanno depositata a gennaio 2018. Nel mirino sono la governance, le comunicazioni all’autorità di vigilanza, gli assetti organizzativi, il piano industriale e gli scostamenti tra le previsioni del management e i conti. L’obiettivo è verificare se vi siano stati “abbellimenti” contabili, l’impatto dei conti della società sul patrimonio netto, la liquidità e le perdite, con un focus sull’abbattimento del capitale e la sua integrazione dopo che le perdite avevano superato il limite legale. Attenzione è stata rivolta anche a spese e uscite.

Alcuni snodi della vita breve ma costosa di Alitalia Cai sono tra quelli che più hanno attirato le attenzioni degli inquirenti. Tra questi le plusvalenze realizzate dalle cessioni al socio di minoranza Etihad degli slot londinesi e della divisione loyalty “Mille Miglia”. L’attenzione si è concentrata soprattutto sulla perizia redatta a settembre 2015, con valore retroattivo a gennaio, del ramo d’azienda conferito da Midco, il socio di maggioranza col 51% del capitale, redatta da Enrico Laghi. Su quelle cifre fu costruito il piano industriale e i bilanci successivi.

Già, i conti. Dal 2009 Alitalia ha sempre volato in profondo rosso: l’era Colaninno e capitani coraggiosi si chiuse nel 2014 con 1 miliardo 992 milioni di perdite. Ma nemmeno Midco ed Etihad riuscirono a risollevare la situazione: perdite per 199,1 milioni nel 2015, per altri 492 milioni l’anno dopo e per altri 203 nei primi due mesi del 2017. Il tutto a fronte di un conferimento iniziale di capitale da 850 milioni e di due prestiti ponte per 1,3 miliardi circa. La domanda degli inquirenti è come sia stato possibile distruggere tanto denaro in poco tempo. Ancora oggi la compagnia brucia 1 milione al giorno e si regge solo sui prestiti-ponte dello Stato.

“Troppi fondi ai poli selezionati: fuori, agli scienziati, restano solo le briciole”

Elena Cattaneo, senatrice a vita (Pd) e direttrice del laboratorio di Biologia delle cellule staminali e Farmacologia delle malattie neurodegenerative dell’Università Statale di Milano, si è battuta per anni contro i privilegi, per legge, dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (Iit) prima e dello Human Technopole (Ht) poi. L’approvazione di un emendamento a sua e altre firme in Commissione bilancio ne apre ora le porte.

Senatrice, quali sono gli obiettivi dell’emendamento?

Ht sconta il “peccato originale” di essere nato senza una procedura competitiva pubblica e trasparente che selezionasse il progetto migliore da crescere in quell’area, arrivando a “escludere” molti ricercatori e le loro idee da una progettazione competitiva e garantendo fondi pubblici per sempre. Fuori da Ht il resto dei ricercatori pubblici sopravvive con le briciole dei bilanci dello Stato in perenne attesa di bandi in cui mettere in competizione le loro idee. L’emendamento, sottoscritto dai senatori a vita Carlo Rubbia e Liliana Segre e da oltre 40 colleghi di maggioranza e opposizione assicura che la parte maggioritaria delle risorse pubbliche che la legge assegna a Ht sia vincolata alla creazione di facilities tecnologiche, da identificare con consultazione pubblica, a cui potranno accedere, per via competitiva, i ricercatori di Università, IRCCS ed Enti pubblici di ricerca. Per ognuna di queste infrastrutture è anche prevista una quota congrua di risorse da destinare al loro uso e a copertura degli esperimenti e della mobilità dei ricercatori che vi accederanno.

Verranno sottratte risorse al nascente tecnopolo?

Il finanziamento di 140 milioni euro l’anno continuerà ad arrivare a Ht e l’ente continuerà a sviluppare ricerche e progetti autonomi ma avrà in più una missione per il Paese. Il vincolo stabilito dall’emendamento, poi, scatterà dal 2021 per non incidere sulle attività già in corso, con un piano strategico che è chiaramente ancora da strutturare. Confido che fra qualche anno Ht possa essere l’epicentro dello sviluppo tecnologico del Paese, il punto di incontro di ricercatori da tutte le regioni. Nato come ente ingiustamente privilegiato, spero diventerà un luogo simbolo della coesione della ricerca nazionale acquisendo centralità tecnologica sempre più strategica.

Su che risorse può contare oggi la ricerca pubblica in Italia?

In Italia la ricerca va avanti grazie alla determinazione dei nostri ricercatori che competono per conquistare fondi messi a bando fuori dai confini. Basti pensare, ad esempio, che mentre Ht ha 140 milioni all’anno, per tutti i 51 ospedali italiani in cui si fa ricerca, gli IRCCS, le cui ricerche in molti casi portano l’Italia ai vertici della ricerca mondiale, il ministero della Salute ne mette a bando 159. La situazione della ricerca di base per l’università in tutte le discipline è anche peggiore: in Italia è finanziata dai bandi Prin, di cui da 2 anni si è persa traccia dopo quello– eccezionale – da 400 milioni (recuperati in parte dai fondi non spesi dell’Iit, ndr) fatto dalla ministra Fedeli. In un panorama di desertificazione, da questa legge di Bilancio emerge però, tra governo e Parlamento, un’attenzione non retorica alla ricerca pubblica da riconoscere e alimentare.

Zero trasparenza, tanti soldi. I peccati di ieri (e di oggi) dello Human Technopole

All’inaugurazione del nuovo centro di ricerca Human Technopole (Ht) nell’area Expo di Milano, il 5 novembre, il premier Giuseppe Conte lo ha definito “la casa degli scienziati”. Ma finora, o meglio fino all’approvazione di un emendamento in Commissione bilancio in Senato (10 dicembre), che stabilisce che ogni due anni arrivi alle Camere una rendicontazione sulle attività svolte e programmate e sul loro impatto sul sistema nazionale di ricerca, è stato piuttosto il regno di privilegi. Nel 2015, la progettazione scientifica del polo fu affidata da Renzi all’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova, scelto senza una consultazione pubblica. Dopo i primi 80 milioni stanziati, la legge di Bilancio 2016 ne ha previsti 10 per il 2017, da 115 a 136 per il 2018-2022 e poi 140 milioni “a decorrere dal 2023”, cioè senza data di scadenza. E senza l’obbligo di rendicontarne l’utilizzo né di competere con altri (università ed enti di ricerca) come previsto dal ministero dell’istruzione.

Fino a oggi, la gestione di Ht ha ricalcato quella dell’Iit di Genova. Nato nel 2005 per volere politico e finanziato per legge con 100 milioni di euro l’anno – circa la metà mai spesi per la ricerca – Iit è stato diretto per 15 anni dal fisico Roberto Cingolani. Ed è a Cingolani che Renzi ha affidato, nel 2015, la redazione del progetto esecutivo per Ht e anche la sua gestione iniziale. Due oasi nel panorama della ricerca pubblica, Iit e Ht, con certezza e continuità di finanziamento garantite per legge, nello stesso decennio in cui i tagli al resto della ricerca pubblica nazionale (circa 1,2 miliardi in meno rispetto al 2010) rischiano di trasformarla in un deserto.

Entrambe, inoltre, sono fondazioni di diritto privato e non hanno obblighi di trasparenza sull’utilizzo dei fondi come è invece per il resto di università ed enti di ricerca. E anche le poche regole fissate per Ht, non risultano rispettate. Lo Statuto, approvato con decreto della presidenza del Consiglio dei ministri nel 2018, prevede a esempio che il Consiglio di sorveglianza, che vigila sulle risorse e sui nomi, nomini i 15 membri del comitato scientifico che valuta i progetti di ricerca e la programmazione scientifica e che è soggetto alla disciplina sul conflitto di interesse. I membri del comitato eleggono poi un presidente.

Lo scorso 15 novembre, però, Ht annuncia che “la Fondazione ha nominato il proprio organismo di consultazione scientifica,” composto da 4 membri (non 15) di cui uno è il “coordinatore”. Cambiando il nome dell’organo, non si sa se varranno le regole previste dallo Statuto per il comitato scientifico e lo stesso presidente, ora “coordinatore”, non è stato eletto ma nominato dalla fondazione. Il nome non è nuovo: Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità dal 2015 al gennaio 2019 e protagonista di una vicenda rivelata dal Fatto lo scorso maggio.

Dal 2010 il Miur e dal 2014 al 2016 il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, l’allora direttore del Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) Luca Lotti e i vertici dei due più grandi enti pubblici di ricerca nazionali, Consiglio per le Ricerche (Cnr) e l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), si sono accordati per far arrivare decine di milioni di euro di fondi pubblici destinati alla ricerca sulle malattie rare al solo Pietro Di Lorenzo, produttore di fiction per la Rai fino al 2006, poi proprietario di una piccola azienda farmaceutica, la Irbm Science Park di Pomezia. I 60 milioni stanziati da Regione Lazio, Miur e Cipe sono stati prima traghettati dentro il Cnccs, consorzio pubblico-privato costituito nel 2010 da Irbm (70% delle quote), Cnr (20%) e Iss (10%), per poi trasferire 50 milioni direttamente alla Irbm di Di Lorenzo. Ricciardi è stato vicepresidente del consorzio Cnccs dal maggio 2016 al luglio 2019, durante la presidenza di Iss, sebbene lo Statuto di Iss lo vieti. La Fondazione Ht non ha risposto alla richiesta di chiarimenti del Fatto.

La tregua sui dazi cinesi spinge Trump

La tregua tra Stati Uniti e Cina nella guerra commerciale sembra una buona notizia. Ma dovrebbe anche preoccupare. A sorpresa il presidente americano Donald Trump ha sospeso l’aumento dei dazi previsto per il 15 dicembre (15 per cento su 160 miliardi di dollari di importazioni cinesi), Pechino ha congelato a sua volta le ritorsioni già previste su 3.300 prodotti americani. I dazi americani avrebbero avuto per la prima volta conseguenze dirette sui consumatori finali americani, rendendo palese la natura masochistica di una guerra commerciale che ha impatti prima di tutto sulle imprese americane che devono importare beni intermedi cinesi a prezzo maggiorato. Perché Trump ha sospeso la guerra commerciale?

Negli Stati Uniti l’ostilità anti-cinese ha raggiunto livelli senza precedenti. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, la percentuale di americani che guarda con sospetto alla Cina è passata dal 47 al 60 per cento nell’arco del 2019. I giornali si riempiono di reportage sulle condizioni terribili dei prigionieri nei campi di concentramento dello Xinjang dove Pechino rinchiude i musulmani Uiguri. L’ampiezza delle fughe di notizie e di documenti rende difficile pensare che i servizi segreti americani non stiano favorendo questa campagna. Washington, inoltre, si prepara a sanzionare tre banche cinesi per aver violato l’embargo verso la Corea del Nord. Un tribunale ha autorizzato il provvedimento a marzo, ma non è ancora stato attuato. Rischia di essere il detonatore di una crisi di fiducia nel sempre più fragile sistema creditizio cinese.

Perché, dunque, Trump cerca la tregua con il nemico cinese così impopolare? Perché Pechino ha in mano la sua rielezione: la sfida commerciale con la Cina può far perdere la Casa Bianca al presidente, nel caso una recessione si manifesti prima del voto nel novembre 2020, o lascargliela per altri quattro anni, se i problemi vengono rimandati di qualche mese. Trump lo sa, il presidente cinese Xi Jinping pure.

L’ex segretario Cisl alla Furlan: “Mostrate un gesto di dignità”

Che ne direste di un sindacato che difende retribuzioni d’oro, le proprie, da centinaia di migliaia di euro e si presenta in tribunale contro un semplice impiegato il quale avrebbe (il condizionale è super d’obbligo) rivelato lo scandalo? Chiedendogli anche 50 mila euro?

Il sindacato è la Cisl e l’accusa mossa ai suoi vertici, non proviene da un giornale come il Fatto, fissato con la moralità pubblica, ma addirittura da un ex segretario generale di quel sindacato, Savino Pezzotta. Il quale ha preso carta e penna e ha firmato una lettera-appello “alla presunta parte lesa” per chiedere di non contribuire a mettere nei guai un lavoratore dell’Inps la cui colpa sarebbe, a detta dell’accusa, aver fatto conoscere retribuzioni da favola dei dirigenti sindacali. Per questa presunta colpa l’impiegato dell’Inps di Verona – addetto allo sportello che gestisce le pratiche dei patronati – deve sottostare alle richieste del pm: 8 mesi e 10 mila euro di danni contro ognuna delle cinque parti civili. Tutte della Cisl.

Si tratta della segretaria Cisl Annamaria Furlan, del suo vice Luigi Sbarra, di Pierangelo Ranieri, Antonino Sorgi e Valeriano Canepari.

I cinque erano i principali destinatari della denuncia di un militante della Cisl Renato Scandola

(nel frattempo deceduto) che aveva rivelato i loro sontuosi stipendi. Antonino Sorgi, allora presidente nazionale dell’Inas Cisl, nel 2014 aveva intascato 256 mila euro lordi: 77 mila euro di pensione, 100 mila di compenso Inas e circa 78 mila euro come compenso Inas immobiliare. Valeriano Canepari, ex presidente Caf Cisl Nazionale, nel 2013 aveva realizzato 97 mila euro di pensione, più 192 mila euro a capo della Usr Cisl Emilia Romagna: totale annuo, 289.241 euro. Pierangelo Raineri, leader della Fisascat Cisl, 237 mila euro grazie anche ai gettoni di presenza in Enasarco.

Renato Scandola aveva dichiarato in un’intervista a Repubblica di aver cominciato a incuriosirsi della questione “quando è scoppiato il caso della mega-pensione di Raffaele Bonanni” scoperto dal Fatto nell’ottobre del 2014. Per tutta risposta si è visto deferire prima ai probiviri del Veneto “per aver tenuto un comportamento indegno”, e poi espulso dal sindacato.

Ora rischia di andare molto peggio all’impiegato dell’Inps di Verona che è stato accusato di aver fatto trapelare la notizia degli stipendi d’oro da cui l’accusa di violazione della privacy e la richiesta del pm di otto mesi di condanna oltre ai 10 mila euro di risarcimento per ognuna delle persone “danneggiate”.

Da qui, la lettera firmata oltreché da Giovanni Graziani e Adriano Serafino della redazione di www.il9marzo.it anche da Savino Pezzotta, già segretario generale della Cisl dal 2000 al 2006.

“Ci è sembrato paradossale – scrivono i firmatari – che i dirigenti Cisl (…) invece di dare risposte documentate hanno invitato la Procura a indagare sulla fuoriuscita di quei dati dall’Inps e, infine, si sono costituiti parte lesa nel processo in corso a Verona contro un dipendente Inps, incolpato della diffusione di quei dati”. “Più che costituirsi come parte lesa – aggiungono – i dirigenti della Cisl dovevano fornire spiegazioni e chiarimenti rispetto a ciò che veniva sollevato. Sarebbe un gesto di dignità se ora rinunciassero al ricorso in Tribunale”.

I tre firmatari, in sostanza, affermano che tutti i fatti avvenuti, come il nuovo regolamento etico varato dal sindacato in seguito a quella vicenda, dimostrano che l’istanza della denuncia di Scandola era fondata e se “verifica” dei dati sugli stipendi c’è stata, “può essere considerata un peccato veniale a fronte di peccati mortali che si sono verificati, se non eresie, rispetto alla storia della Cisl”.

Pezzotta e amici si chiedono: “Chi diffonde dati sugli stipendi e contributi previdenziali di rappresentanti della democrazia delegata, vìola forse la privacy di un cittadino e deve essere punito?”. E poi sostengono: “Siamo fermamente convinti che quanto un cittadino percepisce a seguito d’incarichi elettivi o designati, pubblici e/o privati (compensi, consulenze, stipendi, liquidazioni, pensioni), non può rientrare nelle norme della privacy privata, ma deve in nome della tanto declamata trasparenza essere reso pubblico su siti di facile accesso per gli associati e/o per gli elettori. Chi ha avviato l’esposto in Procura e chi si è costituito parte civile aveva ben altri doveri da assolvere”.

Domani, giovedì 19 dicembre, si terrà l’ultima udienza e parlerà la difesa dell’impiegato. Che si dice tranquilla di poter provare l’innocenza del proprio assistito perché su quella postazione Inps avevano accesso molte persone del patronato. Dalla Cisl preferiscono non commentare la vicenda né replicare affidandosi alla sentenza del tribunale.

Ma, al di là dell’esito della vicenda giudiziaria la vicenda riguarda in profondità la moralità di organismi delicati e vitali come il sindacato. E il fatto che un ex segretario decida di intestarsi questa causa rende evidente la portata della questione.

Il Green New Deal spiegato (bene) dall’ing. De Bustis di Popolare Bari

La verità è un animale infido: diffidente per natura, non si sa mai dove andrà a nascondersi. Stavolta, per dire, s’è infilata nella registrazione – pubblicata ieri da Fanpage – di una riunione dei vertici della Popolare di Bari coi dirigenti dell’istituto. Quell’audio contiene molte cose interessanti di cui si occuperà la locale Procura, ma tra loro c’è pure la migliore spiegazione su piazza del “Green New Deal” come predisposto dalla Commissione di Ursula von der Leyen e, a ruota, dal nostro governo. Come ricorderete questo New Deal, a differenza di quello di F. D. Roosevelt da cui pure prende il nome, non prevede l’intervento dello Stato, ma solo di appoggiare le imprese “verdi” con tanta finanza “verde”. Per questo proliferano i “green bond” su cui s’è buttato tutto il settore, ovvero – come ci spiega Borsa Italiana – “obbligazioni come tutte le altre, la cui emissione è legata a progetti che hanno un impatto positivo per l’ambiente”, anche se – purtroppamente – “non esiste uno standard globale per certificare come ‘verde’ un bond”. A questo punto cos’è questa roba ve lo spiega l’ad di Pop Bari, Vincenzo De Bustis, rimosso venerdì: “Perché io ho rotto tanto le scatole per lanciare ’sto green bond? Ma mica per il verde, ma a me che cazzo me frega del verde? Niente. Ma è un settore importantissimo… è la tecnica che sta sotto… il capital light, cioè fare assistenza alle imprese cercando di non assorbire patrimonio e portando i soldi a casa”. Oh, se non lo capite neanche così, è il caso di non pensarci più: tanto ci pensano loro.

Mail Box

 

La riforma che serve all’Italia: selezionare la classe dirigente

Gentile redazione, io, come molti altri, sono felice che le piazze siano piene di tanta gente con buone intenzioni, ma mi trovo assolutamente d’accordo con Barbara Spinelli e il suo articolo di ieri per quanto riguarda i punti proposti dalle Sardine dopo San Giovanni.

Per quanto nobile, la richiesta di normalizzare la comunicazione social di molti politici deve inevitabilmente fermarsi di fronte al fatto che siamo tutti (persino Salvini, nostro malgrado) in possesso di una libertà di parola che, piaccia o no, non prevede abusi di sorta se non quelli già puniti dalla legge. È evidente che il tentativo di non citare esplicitamente certi leader politici ha reso confuso il messaggio. L’eccessiva generalizzazione di queste proposte permette interpretazioni troppo elastiche, capaci di risultare inapplicabili, alla fine dei conti. E ciò non sarebbe accaduto se le Sardine avessero proposto l’unica riforma di cui l’Italia ha vitale bisogno: quella che permetta la rinascita di una classe dirigente degna di questo nome. Nel momento stesso in cui è la meritocrazia, non più i rutti, a definire chi deve prendere le decisioni, si risolve di conseguenza anche il problema dei rutti.

G.C.

 

Grazie a Barbara Spinelli che ci insegna lo spirito critico

Apprezzo da sempre Barbara Spinelli per la sua capacità di affrontare le questioni con analisi lucide e argomentate. I suoi ultimi due articoli sul fenomeno delle Sardine sono illuminanti e li condivido parola per parola. Invito tutti, in special modo i media, televisivi e su carta, a leggerli con attenzione. Lo spirito critico e laico dev’essere una bussola per chi si occupa di opinione pubblica e la orienta. Soprattutto rispetto a fenomeni che suscitano un’immediata e forse irriflessa simpatia. Abbiamo bisogno di pensare, sempre, prima di consentire. Grazie, Barbara.

Vanna Lora

 

Un contributo dallo Stato per salvare le edicole

Le edicole, una dopo l’altra, stanno chiudendo. La crisi della carta stampata rischia di estinguere una professione, quella del giornalaio, che ha un valore e un’utilità che travalicano il mero commercio. I giornalai hanno sempre ricoperto un ruolo importante nei quartieri, sono un punto di riferimento sia per i residenti che per chi è di passaggio. Si parla tanto di reddito di cittadinanza, di salario minimo, tutte cose sacrosante: sarebbe importante lanciare una campagna di sostegno alla sopravvivenza delle edicole. Visto il loro importante ruolo sociale propongo che le istituzioni pubbliche si facciano carico di contribuire affinché le rivendite di giornali possano sopravvivere. La spesa per lo Stato sarebbe minima, ma i vantaggi per i cittadini sarebbero inestimabili.

Mauro Chiostri

 

 

DIRiTTO DI REPLICA

Gentile direttore, sul suo giornale del 12 dicembre la giornalista Barbie Nadeau interviene a sproposito, e non è la prima volta, sul tema della libertà di stampa, raccontando un episodio del 2010 in cui venne coinvolta Striscia. Barbie Nadeau scrisse un articolo per il settimanale Newsweek, in cui descriveva uno sketch andato in onda durante una puntata di Striscia la notizia, infarcendolo di falsità e mistificazioni. Raccontava di palpate di sedere alle Veline da parte dei conduttori, fellatio mimate e altre sconcezze da codice penale. Ovviamente nulla di tutto questo, come ben sanno milioni di spettatori è mai andato in onda. Scrivemmo immediatamente a Newsweek contestando la falsità delle accuse contenute nell’articolo di Barbie Nadeau, ma il giornale, con un concetto assai particolare della libertà di stampa, non pubblicò la nostra lettera. A quel punto Striscia per far valere il proprio diritto di replica fu costretto a denunciare per diffamazione Barbie Nadeau. Alla fine la nostra “martire della libera informazione” e Newsweek, il 12 dicembre 2012 patteggiarono con Antonio Ricci e Rti, impegnandosi a versare a titolo di donazione 7.500 dollari alla Women in the World Foundation e altri 7.500 al Gruppo Abele Onlus. Inoltre, su Newsweek del 24 dicembre 2012, ben due anni dopo i fatti che raccontiamo, venne finalmente pubblicata la nostra replica. Spiace per i figli piccoli della nostra Barbie che, come lei racconta, rimasero “increduli” nel vedere i carabinieri alla porta della loro casa, ma la realtà, assai meno drammatica, è che le forze dell’ordine stavano semplicemente consegnando alla loro “madre pinocchio” la notifica della denuncia per diffamazione che Striscia la notizia aveva depositato. Insomma, dove, come e quando la nostra Barbie sarebbe stata minacciata dalla “politica” nell’esercizio della sua professione? Mai.

Alberto Solenghi, Capo Ufficio stampa di Striscia la notizia

 

Non sono a conoscenza di un accordo del genere, ma è possibile che sia stato concluso per omettere anni di battaglia legale… e per tenermi fuori di prigione per giornalismo. Tuttavia, “the bottom line” è che se avessero pensato che ci fosse un errore nell’articolo avrebbero chiesto una correzione. L’invio della Polizia è solo per intimidazione. Ha funzionato: gli avvocati non volevano che dicessi nulla contro Berlusconi e il sessismo quando ho parlato all’evento Women in the World a New York.

Barbie Nadeau

Antirazzismo. Le scimmie di “Lega A”: una campagna a dir poco demenziale

 

Ho appena visto il lancio della campagna della Lega contro il razzismo e sono rimasto sbigottito davanti lo schermo, talmente sbigottito da credere di sbagliare la valutazione. Ho pensato: “O sono fuori di testa o sono io quello che non comprende il reale significato”. Così ho atteso, ho chiesto ad amici e letto le reazioni sul web. E alla fine ho capito: questi che governano il pallone sono completamente fuori da ogni contesto.

Giulio Cartone

 

È vero che ai tempi dell’attentato terroristico alla sede del giornale satirico “Charlie Hebdo” tutto il mondo si riconobbe nello slogan “Je suis Charlie”; era un modo per esprimere solidarietà alle vittime del massacro e per ribadire, al contempo, l’indispensabilità del valore della libertà di pensiero e di espressione. Premesso questo, la scelta della Lega di Serie A di combattere lo strisciante razzismo che da sempre serpeggia nei nostri stadi con la campagna pubblicitaria incentrata sul “Trittico delle tre scimmie” realizzato da Simone Fugazzotto – il volto di tre scimmie su cui compaiono i colori di squadre di calcio – appare a dir poco demenziale. Visto che in Italia le azioni dei giocatori di colore vengono accompagnate ancora oggi, anno di (dis)grazia 2019, dal verso della scimmia (leggi: i cori “buuu”) che cosa ti combina la Lega? Invece di affermare il principio che non esistono scimmioni, nel calcio come nella vita, fa passare il messaggio che gli scimmioni ci sono e che lo siamo tutti. Un po’ come se per combattere la violenza contro le donne dovessimo mostrarci tutti col viso deturpato dall’acido, come se per combattere l’omofobia dovessimo mostrarci tutti col viso tumefatto dopo un pestaggio selvaggio. Possibile che in Lega a nessuno sia venuto il sospetto che non dovrebbero più esistere visi deturpati dall’acido, volti resi irriconoscibili dalle botte e scimmioni che giocano a pallone? “Ancora una volta il calcio italiano lascia il mondo senza parole. Una campagna che sembra uno scherzo malato. Queste creazioni sono oltraggiose e perpetuano la disumanizzazione delle persone di origine africana”, è stato il commento di Fare (Football Against Racism in Europe), pensiero ripreso e rilanciato in tutto il mondo dai più importanti mass media, dal New York Times alla BBC, dalla CNN al Sun. E per fortuna, fin dal mattino, Milan e Roma avevano pubblicamente preso le distanze dall’ultima follia del Palazzo. Benedetta, se davvero fosse l’ultima.

Paolo Ziliani