Salvini pompiere: la “pace” è durata cinque minuti

Stavolta non c’è manco la scusa del mojito o del caldo torrido di Ferragosto. Capita che Matteo Salvini, dopo aver chiesto ossessivamente per mesi un ritorno alle urne qui e ora, invochi all’improvviso la nascita di un “Comitato di salvezza nazionale” per evitare che il Paese, fra crisi bancarie e industriali, “sprofondi nel baratro”. Il segretario della Lega ha detto sabato: “Stiamo vivendo un momento drammatico in cui tutti dovrebbero fermarsi, smetterla di far polemica. Chiediamo di sedersi tutti intorno a un tavolo a riflettere sui rischi che l’Italia sta vivendo. Se rischia di saltare una banca come la Popolare di Bari e con i licenziamenti all’Ilva rischia di saltare un’intera Regione e con lei l’Italia”. Inaspettatamente, dopo mesi di polemica quotidiana, non è più il momento della polemica. Fermi tutti. O meglio fermatevi, anzi fermiamoci. “Faccio un appello a tutti quelli che hanno a cuore il futuro dell’Italia, fermatevi, fermiamoci. Sediamoci attorno a un tavolo. Scegliamo alcuni interventi urgenti comuni, ridisegniamo le regole, salviamo il Paese che altrimenti rischia di affondare”.

Come abbiamo più volte sottolineato è da qualche decennio che i politici, quando per una qualunque ragione si trovano in un momento di impasse, invocano una ridefinizione delle regole, come se il guaio fosse nelle regole e non in chi gioca. Larghe intese, assemblee costituenti, riforme costituzionali, governi di salute pubblica, governi tecnici, governi di unità nazionale, monocameralismo, presidenzialismo… E attenzione: il riformismo a vanvera è un vizietto di destra quanto di sinistra (ammesso che esista ancora una sinistra in Italia e che l’ultimo esecutivo che tentò una riforma costituzionale si potesse chiamare di sinistra). Ora sul fronte del riformismo sono più attivi a destra: ha cominciato il Richelieu della Lega, qualche settimana fa, con la Costituente per cambiare tre o quattro regole. Ora Salvini si accoda a Giorgetti, avendo capito che per ora le urne sono un miraggio. Giorgia Meloni non è d’accordo perché non vuole allungare la vita alla legislatura (la quale però non pare per adesso sul punto di cadere); ma soprattutto dice che le riforme sono una cosa seria e per evidenti ragioni non le può fare questo Parlamento. Però vuole subito l’elezione diretta del capo dello Stato, riforma per la quale sta raccogliendo le firme. Come se trasformare una Repubblica parlamentare in un sistema presidenziale fosse una cosa che si fa dalla sera alla mattina.

Detto tutto ciò è abbastanza chiaro che il problema non sono le regole. Il fatto è che il funzionamento delle istituzioni è diventato il miglior alibi di una classe politica non solo inetta (e già questo è grave) ma anche cinica e opportunista come mai. Prima bisognava sapere chi aveva vinto la sera delle elezioni, adesso quasi tutti invocano il proporzionale per questioni di sopravvivenza. Prima si invocava la governabilità, ora si porta di più la rappresentanza… Per quanto riguarda Salvini, sarebbe già qualcosa se si fermasse lui e provasse a non contraddire se stesso un giorno sì e l’altro pure perché non si sa a quale dei due Salvini dare retta: all’incendiario o al pompiere? Ieri per dire ha detto che il prossimo governo dopo questo lo decidono gli italiani. “Non penso a un governo senza prima passare dal voto, con un altro presidente del Consiglio, con Renzi, Di Maio e Zingaretti”. Quanto alla vis polemica e al fermiamoci, è durata poco: ieri ha annunciato ricorso alla Corte costituzionale per denunciare la mancata trasparenza sulla manovra, criticando i tempi e i modi dell’esame parlamentare.

Queste classifiche sono come il pollo di Trilussa: farcite di luoghi comuni

L’Italia reale, dunque. O almeno l’Italia reale delle classifiche. O meglio l’Italia reale delle classifiche che il Sole 24 Ore compila con certosina perizia ogni anno, e quest’anno anche. Sei maxi-indicatori, raccolta dati impressionante, che consente una divertente immersione, un carotaggio nelle sfighe (parecchie) e nelle gioie (pochine) del Paese, e che dovrebbe rispondere alla ferale domanda: alla fine, dove sarebbe meglio vivere?

A Milano, dicono.

Ora è chiaro che bisogna fare la solita premessa, sulle medie, gli indicatori, le somme e le sottrazioni, oltre al dubbio se si possa davvero fotografare una cosa personale e variabile come la “qualità della vita”. “Non mi fido molto delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media”. Lo diceva Charles Bukowski e tenderei a dargli ragione.

È comunque istruttivo, quando si hanno dei numeri in mano, giocare un po’ alla ricerca di paradossi. Esempio: se davvero siete ossessionati da Giustizia & Sicurezza, come la grancassa mediatico-salviniana ci fa intendere da un paio d’anni, dovete andare a vivere a Oristano, prima in classifica per questo indicatore.

Ma poi, se i luoghi comuni sono comuni un motivo ci sarà, e quindi ecco Milano al primo posto per Affari & Lavoro, al secondo per Ricchezza & Consumi (dopo Aosta, saranno milanesi espatriati in montagna, vai a sapere), terza per Cultura & Tempo libero. Peccato certi dettagli: Milano vanta il primato nella densità dell’offerta culturale (2.059 spettacoli ogni 10 km quadrati), ma è quarantunesima per librerie (8,3 ogni 100.000 abitati), e ancora più giù per quanto riguarda le biblioteche: sessantaseiesima. Bene ma non benissimo. Prima per reddito medio complessivo per contribuente, prima per depositi bancari pro-capite, la capitale morale, faro e modello per il Paese, è prima anche per il totale dei delitti denunciati, piazzata benissimo su rapine, estorsioni e reati informatici, e insomma, dove ci sono i soldi ci sono anche quelli che li fregano, sembrerebbe una legge di natura. Risponde il sindaco Sala che è un posto dove i reati vengono denunciati, e questo spiega il dato. Vero, probabilmente. Emerge anche, però, un certo nervosismo degli abitanti, dato che ogni 100.000 milanesi ci sono più di 3.600 cause civili, e questo a parte il fatto che è piuttosto rischioso girare a piedi, in macchina o con altri mezzi (8,2 tra morti e feriti ogni 1.000 abitanti). Qualità della vita, ma attenti a attraversare.

Del resto, il primato di Milano, se ci aggiungiamo anche l’exploit della Brianza Ridens (Monza e Brianza sale al sesto posto, dal ventesimo di quattro anni fa) non è che la conferma di quel che si sapeva: il Nord nelle alte posizioni, il Centro piazzato decentemente, il Sud tramortito ai piani bassi della classifica. Nelle prime venti posizioni (con l’eccezione di Roma e Cagliari) c’è solo Nord; nelle ultime venti (con l’eccezione di Rieti e Imperia) c’è solo Sud, e la prima città meridionale in classifica è Bari, sessantasettesima.

Rimane aperto il quesito iniziale, cioè se si possa veramente disegnare una mappa della “qualità della vita”, ma è argomento troppo vasto per questa piccola rubrica. Tocca accettare la media come ulteriore beffa a chi viene per ultimo, a chi la abbassa, a chi non è primo per reddito, né per depositi bancari, oppure a chi nella tabella Affari & Lavoro non può dire quanti lavori o lavoretti deve fare per mettere insieme un reddito quasi intero. Spiacenti, la classifica ci dà la media, il famoso pollo di Trilussa, la cui funzione specifica è compattare gli estremi, il reddito medio è quello di chi ordina il sushi più il reddito di chi glielo porta in bicicletta, diviso per due. La qualità della vita, la testa nel forno, i piedi nel congelatore, appunto.

I conti pubblici sono impazziti

Per il secondo anno consecutivo, il Parlamento non avrà la possibilità di discutere e modificare una legge di Bilancio che, di fatto, è stata scritta dal governo, anzi, dai partiti di governo. Eppure la legge di Bilancio, che una volta si chiamava Finanziaria, è il cuore della politica economica italiana: non dovrebbe essere gestita come un decreto legge di emergenza. Ma questo è soltanto l’ennesimo segnale che tutto il processo decisionale della politica economica è impazzito. Anzi, per garantire il rispetto formale di vincoli e scadenze, negli ultimi dieci anni, governi di ogni colore politico ne hanno ribaltato lo scopo e l’effetto previsto.

Dal 2011, regole europee comuni a tutti i Paesi hanno trasformato in un processo lungo un anno quello che una volta era un natalizio assalto alla diligenza a colpi di emendamenti notturni per spostare qua e là milioni o miliardi a beneficio di amici e famigli. In teoria i governi cominciano a gennaio a discutere con Bruxelles le misure per la crescita, poi entro giugno devono elaborare una strategia, a metà ottobre presentare i saldi di bilancio da raggiungere e nei due mesi e mezzo seguenti tradurre gli obiettivi in legge. Risultati di questa programmazione: in Italia nessuno.

Il moltiplicarsi delle scadenze ha anzi generato un incentivo perverso, ogni governo sa di avere un’ulteriore opportunità di spiegare, di negoziare e così il risultato concreto è che gli esecutivi cercano di tenere le carte coperte fino all’ultimo secondo, per nascondere coperture fantasma o spese eccessive. Aver comunicato alla Commissione Ue i saldi di bilancio a ottobre non ha impedito, per l’ennesima volta, che la manovra piovesse sulle Camere senza discussione o analisi approfondite. L’effetto è evidente: misure come la tassa sulla plastica (dimezzata) o quella sulle bevande zuccherate (slittata a ottobre) o provvedimenti molto più complessi sul fisco entrano ed escono dalla legge di Bilancio senza che ci siano audizioni, simulazioni degli effetti, confronti con i soggetti interessati. Men che meno testi ufficiali, solo bozze, scambiate via Whatsapp. Tutto si decide a colpi di dichiarazioni sui giornali o in tv (Qual è la logica della tassa sulla plastica? La pagheranno le imprese o verrà trasferita sui consumatori? Con quali conseguenze? L’unica risposta onesta è “boh”).

Anche gli strumenti introdotti dai trattati europei per limitare i comportamenti scorretti degli Stati membri hanno ottenuto risultati perversi. Le “clausole di salvaguardia”: dovevano essere tagli di spesa automatici per evitare che i governi prendessero impegni di spesa futura senza coperture. Nella pratica anche il governo Conte – come tutti quelli precedenti, tranne quello Letta, che fece salire l’Iva – “disinnesca” le clausole con nuovo deficit, e la Commissione dice sì. Tradotto: tagli di spesa per evitare che salga il deficit vengono evitati facendo salire il deficit. L’anno prossimo si ricomincia, visto che ci sono altri 20 miliardi da trovare o sale l’Iva (Scommettiamo che sarà nuovo deficit?).

L’approvazione preventiva della Commissione europea dei progetti di legge di Bilancio doveva evitare che i problemi esplodessero quando gestirli diventa impossibile, vedi Grecia 2009 o Italia 2011, tra fughe di capitali e costi insostenibili di debito pubblico. Ma non ha funzionato, la Commissione adatta i suoi giudizi in base all’impatto politico nel Paese membro. Nel contenzioso istituzionale intorno alla legge di Bilancio 2019, abbiamo imparato che c’è un curioso effetto di questa discrezionalità: il presidente della Repubblica può firmare una legge di Bilancio in violazione dei parametri europei se la Commissione è d’accordo, altrimenti il provvedimento rischia di essere incostituzionale, perché quei vincoli europei sono recepiti dalla Costituzione.

Anche lo spettro dell’esercizio provvisorio, cioè di dover usare la legge di Bilancio dell’anno prima se non viene approvata quella nuova entro il 31 dicembre, ottiene risultati politici opposti a quelli desiderati: invece di spingere partiti e governo a impostare la politica economica col giusto preavviso, incentiva l’esecutivo a mandare la legge di Bilancio in Parlamento all’ultimo momento utile, cosicché deputati e senatori non abbiano altra scelta che votare a scatola chiusa, prendere o lasciare.

La conseguenza di questa palude istituzionale è che non c’è più modo di varare provvedimenti di politica economica significativi: riforme ambiziose che muovono miliardi di euro dovrebbero entrare nella legge di Bilancio, perché quello è il contesto per trovare coperture e ponderare gli effetti. Ma se la legge di Bilancio è un testo blindato che ha il solo scopo di fare il massimo deficit consentito dall’Ue, le riforme vengono rinviate all’infinito. Ma di tutto ha bisogno un Paese a crescita zero tranne che di ordinaria amministrazione.

Soldatessa suicida. “Nessuno cura i depressi in divisa”

“Le donne belle sono quelle felici”. C’è questa frase nell’ultima immagine pubblicata sul profilo Facebook di Caterina Glorioso, la militare di 30 anni di Vitulazio, in provincia di Caserta, che si è tolta la vita nella mattinata di ieri in un bagno della stazione Flaminio della Metro A di Roma. Il suicidio numero 60 in questo 2019 fra le forze armate italiane (nel 2018 furono 47) più di un caso a settimana, secondo quanto riferiscono i sindacati militari e gli avvocati che seguono le vicissitudini di uomini e donne in mimetica. Nel conteggio sono compresi Carabinieri e Guardia di Finanza ed escluse Polizia di Stato e Polizia penitenziaria. Il 4° caso in due anni fra i militari impiegati nella cosiddetta operazione Strade Sicure, ovvero i piantonamenti in città e nei siti sensibili a supporto delle forze di polizia.

Caterina faceva parte del secondo reggimento pontieri di Piacenza ed era in servizio nella Capitale con la Brigata Garibaldi. Una “volontaria in ferma breve”, come si definiscono in gergo i precari delle forze armate, di quelli – “circa 60.000 in tutta Italia”, secondo il sindacato dei militari – che si arruolano alla ricerca di un posto fisso che bramano per anni (l’80% proviene dal sud Italia). Nella sua cameretta alla caserma di via dell’Esercito, alla Cecchignola, che condivideva con altre tre soldatesse, ha lasciato una lettera di 15 pagine, scritte probabilmente nella notte. Poco dopo aver preso servizio, intorno alle 8.45, si è chiusa in un bagno della stazione metro e si è tolta la vita. A dare l’allarme, immediato, la collega, che ha atteso l’arrivo dei vigili del fuoco, con la fermata chiusa per tutta la mattinata per i rilievi del caso.

La Procura di Roma ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. Dalla lettera emergerebbero “problemi sentimentali”, derivanti dal fatto che la 30enne “si stava separando dal compagno”, come riferiscono le fonti dei carabinieri che coadiuvano l’inchiesta condotta dalla procuratrice aggiunta, Nunzia D’Elia. Il manoscritto della ragazza è stato secretato. Altre fonti inquirenti confermano il disagio della donna e i problemi con il compagno, ma spiegano anche che nella lettera ci sarebbero riferimenti alla lontananza dal partner e dagli affetti, rimasti tutti in provincia di Caserta, frequentazioni incompatibili con i ritmi lavorativi della militare.

A Vitulazio, poco più di 7.000 abitanti nel Casertano, regnano commozione e sconcerto. “Una famiglia meravigliosa, una ragazza solare. Ho fatto visita alla famiglia, sono tutti sconvolti”, spiega il sindaco Raffaele Russo. La famiglia si è chiusa nel silenzio, come il compagno Giovanni. “Siamo sconvolte – raccontano alcune amiche d’infanzia – ogni volta che Caterina tornava per noi era una festa. Non capiamo cosa possa essere accaduto”. Alla Cecchignola, la 30enne viene descritta come “una ragazza introversa ma gentile e sempre con il sorriso”. Dall’Esercito Italiano riferiscono che “in queste settimane la ragazza non aveva mai dato alcun segno che potesse portare a pensare qualcosa di così tragico”. Ma alcuni commilitoni non la pensano allo stesso modo: “Era triste, aveva detto che voleva lasciare, andare via, non si sentiva gratificata”, spiega una soldatessa che ha chiesto di restare anonima: “Purtroppo quando hai certi pensieri e un’arma in mano, è più facile che un momento di sconforto lasci spazio alla tragedia”.

Il caso di Caterina potrebbe aprire uno squarcio definitivo sul tema dei suicidi in divisa. “Questi ragazzi sono una mandria di sbandati ai quali lo Stato non potrà garantire un lavoro”, dice senza mezzi termini Luca Marco Comellini, segretario del sindacato dei militari. “I volontari in ferma breve – spiega il sindacalista – possono stare anche 5 o 6 anni lontani da casa, precari, sottopagati e senza la prospettiva concreta di essere assunti. Ragazzi di 30 anni che, in gran parte, si ritroveranno in mezzo a una strada senza né arte né parte. In un ambiente maschilista dove persistono episodi di mobbing”. Esistono poi parecchie inibizioni nel socializzare i propri disagi psicologici, come spiega Michela Scafetta, avvocato esperto di diritto militare e legale di decine di arruolati nell’Esercito Italiano: “Socializzare i propri malesseri psicologici – afferma – significa rischiare uno stop lavorativo che, se arriva a 735 giorni in 5 anni, può portare anche al congedo forzato. Essere depressi, in questo ambiente, significa essere trattati da appestati, fino a perdere il lavoro”.

Problematiche in parte confermate dell’ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, che proprio quest’anno aveva promosso un tavolo sulla prevenzione dei suicidi con tutti i capi delle forze armate: “Abbiamo avviato corsi per psicologi, per il personale e per gli ufficiali. Un miglioramento c’è stato, ma c’è ancora molto da fare. Veniamo da anni di noncuranza sul tema. Sui ragazzi impegnati in Strade sicure c’è stato un miglioramento, ma molto dipende dalle prefetture”.

Suicida il parroco stupratore di scout

“Care sorelle e cari fratelli della comunità dell’arcidiocesi, di fronte alla morte del nostro fratello Eduardo Lorenzo, che si è tolto la vita dopo lunghi mesi di enormi tensioni e sofferenze, non ci resta che unirci in una preghiera per lui affinché il Dio della vita lo riceva nel suo amore infinito”.

È la tarda serata di lunedì a La Plata, provincia di Buenos Aires, Argentina, quando l’arcivescovo della comunità Víctor Manuel Fernández diffonde questa orazione tra i fedeli. Il parroco si è suicidato con un’arma da fuoco nella sede della Caritas locale nella quale risiedeva, a poche ore dall’ordine di detenzione per pedofilia. “Non sono un pedofilo”, aveva urlato contro i giornalisti de La Nacion padre Lorenzo in una delle sue ultime interviste. Peccato che il procuratore non fosse della stessa opinione, soprattutto dopo la perizia psichiatrica, “determinante” per l’incriminazione per cinque casi di abusi sessuali con violenza carnale. Così, nonostante per il monsignor Fernández deve essere “il Signore ad aiutarci a capire qualcosa in questo mistero oscuro”, la giustizia terrena ha fatto il suo corso. Ed è proprio sotto il peso delle pesanti accuse nei suoi confronti che il prete si è tolto la vita.

Cinquantanove anni, cappellano del servizio penitenziario di Buenos Aires per 14 anni e organizzatore dei gruppi di boy scout, padre Lorenzo fu denunciato per la prima volta nel 2008 da Leon, (nome di fantasia), figliastro di un poliziotto, per averlo sottoposto a ripetute violenze “perché negro”. Ma la denuncia non ebbe nessun seguito. A coprirlo, secondo uno degli avvocati delle vittime, furono gli alti prelati dell’arcidiocesi che “hanno protetto, promosso e nascosto un mostro, almeno quanto il potere politico e quello giudiziario per anni hanno ostacolato la verità”. Prima l’allora arcivescovo Héctor Aguer, che per l’accusa di Leon aveva rivolto a padre Lorenzo solo un richiamo, e poi il successore Fernández, in carica dal 2018, che lo scorso 19 novembre, durante la messa nella Cattedrale per l’anniversario della capitale argentina ha negato l’apertura del dialogo tra le vittime e la diocesi, hanno coperto il pedofilo. “Che io sappia l’inchiesta a carico di padre Lorenzo è stata chiusa nel 2009”, aveva riposto ai manifestanti che all’uscita ne chiedevano l’arresto immediato. In realtà l’inchiesta era stata riaperta l’anno scorso, a dieci anni dalla prima denuncia, dall’avvocato Juan Pablo Gallego, lo stesso che era riuscito a far condannare un altro prete pedofilo a 15 anni per violenza sui minori. A testimoniare accanto a Leon erano stati anche Bartoli, ex scout, 13 anni, e Gustavo, 16 anni, rimasto in stato di choc per le violenze. Grazie ai loro atroci racconti padre Lorenzo è stato riconosciuto colpevole. Peccato che anche questa volta, “in linea con l’egocentrismo”, riconosciutogli dalla perizia psichiatrica, uccidendosi “abbia spostato l’attenzione su di sé”, chiosa l’avvocato Gallego.

Preti pedofili, il Papa cancella il segreto pontificio sui processi

Abolito. Il Papa ha eliminato il segreto pontificio nelle cause canoniche di abusi sessuali sui minori. “L’Istruzione sulla riservatezza delle cause” segna la nuova linea del Vaticano: “Non sono coperti dal segreto pontificio le denunce, i processi e le decisioni”.

L’articolo 2 spazza il campo: “L’esclusione del segreto pontificio sussiste anche quando tali delitti siano stati commessi in concorso con altri delitti”. Non solo: “A chi effettua la segnalazione – è scritto nel documento – alla persona che afferma di essere stata offesa e ai testimoni non può essere imposto alcun vincolo di silenzio riguardo ai fatti di causa”.

Resta il segreto d’ufficio, come nel diritto degli altri Stati: “Le informazioni sono trattate in modo da garantirne la sicurezza… al fine di tutelare la buona fama, l’immagine e la sfera privata di tutte le persone coinvolte”. Ma la riservatezza delle indagini non potrà più, come in passato, essere opposta alle autorità giudiziarie, per esempio italiane, che si trovavano di fronte a difficoltà spesso insormontabili.

L’Istruttoria voluta da Francesco in questo non lascia dubbi: “Il segreto d’ufficio non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili”.

Sempre ieri il Vaticano ha diffuso un secondo rescritto che raccoglie altre istanze avanzate dalle vittime di abusi: si stabilisce che ricada tra i delitti più gravi riservati al giudizio della Congregazione per la dottrina della fede anche “l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori di diciotto anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento”. Finora il limite era fissato a 14 anni.

Per questi delitti più gravi si aprono le porte ai laici: “Funge da avvocato e procuratore un fedele, provvisto di dottorato in Diritto canonico, che viene approvato dal presidente del collegio”. Viene ribadito, ma è un discorso ovviamente diverso, il segreto confessionale.

“Una novità storica”, tenevano a sottolineare ieri in Vaticano. Ma anche le associazioni delle vittime, pur con le dovute cautele, hanno salutato con soddisfazione la novità: “È un grande elemento positivo”, spiega Francesco Zanardi, un passato da vittima e un presente come presidente della Rete L’Abuso, in prima linea nella battaglia contro gli abusi compiuti da sacerdoti.

Zanardi mesi fa era stato finalmente ricevuto in Vaticano dove aveva avuto un lungo colloquio con Charles Scicluna, segretario della Congregazione per la dottrina della Fede. “Avevamo parlato per due ore – racconta Zanardi – e gli avevamo domandato proprio l’abolizione del segreto. È un passo notevole, ma non tutti i problemi sono risolti. Sarebbe importante che le nuove norme avessero effetto retroattivo”.

Non solo: “Ora le autorità ecclesiastiche dovranno consegnare la documentazione delle proprie indagini alle autorità giudiziarie (comprese quelle italiane, ndr), ma anche alle vittime. Però sarebbe importante che fosse previsto anche un obbligo di denuncia, quello che in Francia ci ha permesso di arrivare all’incriminazione del cardinale di Lione, Philippe Barbarin che è stato condannato in primo grado per aver coperto abusi. Ma è una questione che riguarda soprattutto la legislazione italiana, perché in Francia è prevista la denuncia obbligatoria, mentre in Italia no”.

Zanardi punta il dito proprio verso il nostro Stato: “Finora ha lasciato che a gestire la situazione fosse la Chiesa. Non ha fatto niente. Non è un caso se soltanto in Italia le vittime per avere giustizia si rivolgono proprio alle autorità ecclesiastiche”.

Un giudizio positivo, che dovrà essere confermato alla prova dei fatti: “Vedremo se la scelta del Papa sarà davvero seguita dalle Curie locali. Lo capiremo subito nell’indagine romana sui chierichetti del Papa e con la denuncia che abbiamo presentato (dopo gli articoli del Fatto) su abusi compiuti da un sacerdote della diocesi di Genova”.

Mancano i giunti al viadotto, chiuso un tratto di tangenziale

Mancano i giunti definitivi e un tratto di tangenziale nel Pratese inaugurato nel luglio scorso, è già stato chiuso per motivi di sicurezza. Crepe sono comparse sull’asfalto e le verifiche hanno imposto di proibire il transito sul ponte che unisce Montale alla tangenziale che attraversa la piana di Prato e Pistoia. Il tratto di 1.730 metri è costato circa 6 milioni di euro. Ieri il Comune di Prato, che ha eseguito i lavori, ha deciso l’istallazione dei giunti definitivi per 35 mila euro circa di spesa. L’intervento durerà un mese. Ma ora c’è polemica, soprattutto dopo che l’ex direttore dei lavori avrebbe spiegato che una delle carenze dell’opera sarebbe proprio la mancanza di giunti definitivi al ponte. Affermazioni che hanno fatto reagire il sindaco di Prato Matteo Biffoni: “Chi ha sbagliato se ne assuma la responsabilità, è evidente che si tratta di una sottovalutazione tecnica. Non è compito del sindaco o degli assessori valutare se un ponte abbia bisogno di giunti o meno, ci sono i tecnici. Sono sbalordito – ha aggiunto – dalle dichiarazioni di chi aveva la responsabilità di aprire un ponte a lavori ultimati. Un cantiere si lascia aperto fin quando tutto non è terminato come dovuto e nessuno ha mai fatto pressioni per aprirlo, almeno per quanto ci riguarda”. A dichiarare che i lavori erano completati, sostiene il comune di Prato, e a chiedere la disponibilità del sindaco per il taglio del nastro sarebbe stato proprio l’ingegnere che dirigeva i lavori.

La Stazione del Tav non era pronta: indagato l’ad di Rfi

Intorno a questa faraonica stazione Tav che porta la firma di una archistar mondiale, ma che due pm ritengono insicura e priva di collaudi, stanno per piovere altre decine di milioni. Proprio l’altroieri l’amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) Maurizio Gentile era a Napoli in Regione Campania a stringere la mano del governatore dem Vincenzo De Luca. Motivo dell’incontro: la firma di un protocollo di 75 milioni di euro di investimenti pubblici tra Afragola e Maddaloni, al confine tra le province di Napoli e Caserta. Fondi connessi ai primi due lotti del corridoio Napoli-Bari, che hanno uno nel Tav di Afragola firmato da Zaha Hadid, inaugurato in fretta e furia il 6 giugno 2017 dall’allora premier Paolo Gentiloni a cantieri ancora aperti, e ora al centro di una clamorosa iniziativa della Procura di Napoli Nord guidata da Francesco Greco che chiede il sequestro preventivo “dell’intero corpo di fabbrica della stazione, del tratto ferroviario sottostante e dell’adiacente parcheggio auto” e in questi giorni sta notificando gli avvisi ai nove indagati di un’inchiesta che solleva seri dubbi sulla sicurezza della struttura, la regolarità dei collaudi e dei progetti.

Gentile è tra i nove indagati, insieme ad altri dirigenti e tecnici di Rfi e all’ex sindaco Pd di Afragola, Domenico Tuccillo, che secondo gli inquirenti era “il sicuro punto di riferimento politico per risolvere i problemi della stazione Tav di Afragola”, come si legge in un passaggio della richiesta di sequestro, a corredo di un’intercettazione del 15 giugno 2017 tra Tuccillo e un altro indagato, l’ingegnere Roberto Pagone, responsabile dei progetti Rfi per il Sud. Il brogliaccio la sintetizza così: il parcheggio è stato appena sequestrato perché la Metropark è priva delle autorizzazioni e l’ingegnere chiede al sindaco di intervenire presso il Prefetto “per evitare problemi di ordine pubblico”. Il sindaco – scrivono i pm –, è perplesso, ma poi la telefonata la farà. Il parcheggio resterà chiuso per molto tempo ancora.

Gentile è accusato di attentato alla sicurezza dei trasporti e di aver acconsentito all’apertura della stazione prima del rilascio del certificato di collaudo. Tuccillo è indagato per abuso d’ufficio e reati di inquinamento ambientale per presunte irregolarità delle procedure di bonifica dei terreni utilizzati per il parcheggio. Il Gip ha respinto la richiesta della Procura, che ha fatto ricorso. Il Riesame di Santa Maria Capua Vetere ha fissato un’udienza il 14 gennaio 2020.

Desecretando così le carte di un’indagine che il pm Giovanni Corona ha seguito da vicino sin dai giorni immediatamente successivi all’inaugurazione della stazione. Recandosi personalmente a coordinare le attività ispettive e i primi rilievi della polizia giudiziaria sguinzagliata alla ricerca di rifiuti nascosti.

Seguendo le labili tracce della spazzatura inerte, forse intombata nei terreni circostanti, si è arrivati alle tracce più consistenti di come gli 80 milioni di euro impiegati per la stazione di Afragola, ricavati attraverso le sole cinque righe inserite in un Contratto di Programma (Cdp) tra il Mit e Rfi per l’ammodernamento della rete Torino-Milano-Napoli, siano stati spesi all’interno di un programma complessivo di circa 500 milioni di euro.

Le circa 200 pagine della richiesta di sequestro, cofirmata dal procuratore aggiunto Domenico Airoma, provano a spiegare perché la stazione fu inaugurata nel giugno 2017 nonostante fosse evidente che i lavori erano ancora in corso, senza preoccuparsi di delimitarli per evitare che i passeggeri finissero per sbaglio nelle aree di cantiere.

L’apertura a tutti i costi viene collegata a un paio di articoli del Cdp: entro il 30 giugno 2017 Rfi era tenuta ad inviare al Mit la relazione annuale sullo stato di attuazione dei progetti, ed entro lo stesso mese dovevano essere comunicati gli obiettivi di performance. Che se raggiunti, facevano scattare riconoscimenti economici ai responsabili dei progetti.

Il nodo afragolese “completato” con collaudi ritenuti fittizi, sarebbe stato così inserito tra i risultati conquistati. E meritevoli di premio. Una fretta sospetta. Unita ad altre circostanze che preoccupano la Procura. Tra cui la qualità dei bulloni privi di marchio Ce ed utilizzati per stabilizzare alcune strutture metalliche portanti della stazione. Secondo i pm, che formulano anche un’accusa di frode nelle pubbliche forniture (per la quale Gentile non è indagato), “non sono idonei allo scopo, essendo la loro messa in commercio e la successiva installazione su parti di infrastrutture ferroviarie del tutto illecita”.

E parte della dirigenza Rfi, tra cui Gentile, “ne era consapevole”. Ma la stazione fu aperta lo stesso. E lo è tuttora, con l’ok del Gip.

“Stato e Bankitalia con noi: i concorrenti li sfondate”

Nel disastro della Popolare di Bari ogni giorno che passa assesta un colpo alla vigilanza di Banca d’Italia. Stavolta per bocca degli stessi protagonisti. I vertici erano talmente convinti di avere le spalle coperte da rassicurare i manager dell’istituto. “Non c’è rischio di commissariamento. Entro Natale la banca sarà salva, ci appoggia il mondo politico, ci appoggia anche la Vigilanza”. È il 10 dicembre e il presidente Gianvito Giannelli e l’ad Vincenzo De Bustis cercavano di tranquillizzare i dirigenti in una riunione. L’audio pubblicato ieri da Fanpage è doppiamente imbarazzante. Tre giorni dopo, Bankitalia ha infatti commissariato l’istituto, poi salvato via decreto dal governo il 15 dicembre. “Ci appoggia il mondo politico e ci appoggia la vigilanza”, dice Giannulli. “Bontà loro, e per ragioni strategiche altissime, qualcuno ha deciso che la banca debba sopravvivere”, aggiunge De Bustis.

Il banchiere caro a Massimo D’Alema, ritornato a fine 2018 a Bari – che aveva guidato già dal 2011 a al 2015 – non spiega quali siano le “logiche altissime”, ma delinea le tappe del salvataggio, che passano dal Cda che il 18 dicembre avrebbe dovuto approvare la trasformazione in Spa (“non ci sono più regole, contano solo i risultati”). Si spinge fino a teorizzare la vera natura dell’aiuto di Stato: “La banca diventerà molto forte, avrà lo Stato dietro – dice ai direttori di filiale – potrete dire ai clienti che la Popolare di Puglia e Basilicata ‘sta un po’ così’, che la Banca Popolare Pugliese traballa, che i soldi vi conviene darli a noi che c’abbiamo lo Stato dietro. Li sfondate, se c’avete la forza e l’energia commerciale”.

De Bustis tace sul fatto che pochi giorni prima i giornali hanno rivelato che è indagato dalla Procura di Bari per aver tentato di rafforzare il capitale con una strana operazione che coinvolgeva una società maltese. L’indagine, attivata da un esposto di Bankitalia, porta al commissariamento. Eppure l’operazione De Bustis l’aveva strutturata già a gennaio: la vigilanza tace fino a dicembre.

Sarà per questo che, a fine anno, sicuro che nessuno interverrà, l’ad si dedica a gettare le colpe del disastro su chi aveva gestito la banca prima del suo arrivo e dopo la sua uscita: “Quando sono arrivato la prima volta (nel 2011, ndr) – si sente nell’audio – c’era un signore coi capelli bianchi a capo della pianificazione e controllo, a cui chiesi di vedere i dati delle filiali. Tutti truccati. Truccavate persino i conti delle filiali. Chiesi di vedere la lista delle prime 50 aziende affidatarie e non me l’hanno mai portata. Quell’epoca è finita. I nuovi padroni vi faranno l’esame del sangue”. E ancora: “È stato irresponsabile quello che è successo negli ultimi tre, quattro anni. Questa banca è un esempio di scuola di management cattivo, irresponsabile, esaltato”. Per spiegare come si dovrebbe fare, De Bustis cita la recente emissione di un “green bond”: “Perché ho rotto tanto le scatole per lanciarlo? Mica per il verde! A me che cazzo me frega del verde? Niente! (…) È il capital light. Fare assistenza alle imprese cercando di non assorbire il patrimonio e portare i soldi a casa”.

L’audio complica una situazione già imbarazzante per la vigilanza. Tra il 2011 e il 2015, quando De Bustis lascia, i crediti deteriorati della banca triplicano da 970 a tre miliardi, L’istituto subisce un’ispezione nel 2013 che boccia la gestione del credito (“parzialmente sfavorevole”) eppure Bankitalia chiede nello stesso periodo alla Popolare di salvare la disastrata Cassa di Teramo che stava per implodere.

È l’operazione di sistema che Bankitalia aveva cercato di proporre nei mesi precedenti alla Popolare di Vicenza di Gianni Zonin, il banchiere più amato da Via Nazionale. I due istitui erano i preferiti dalla vigilanza. Un legame evidente perfino dal giro di prestiti incrociati ai clienti, sempre gli stessi. Tra il 2013 e il 2014, sotto la guida di De Bustis, Pop Bari si era messa in affari con alcuni veicoli finanziari maltesi (Futura) che, coi soldi della Popolare di Zonin, investivano nelle aziende di alcuni dei più grandi debitori di Bari, come le aziende della famiglia Fusillo, poi finite in dissesto. Le stesse aziende su cui avevano investito alcuni fondi lussemburghesi finanziati da Pop Vicenza.

Un cortocircuito singolare e documentato. Agli atti delle indagini di Vicenza, ha scritto il giornalista Renzo Mazzaro in Banche banchieri e sbancati (Laterza) restano decine di telefonate tra De Bustis e i suoi colleghi veneti, che seguivano i rapporti coi fondi maltesi. Un legame così forte che continua anche dopo la sua uscita da Bari (maggio 2015). A novembre 2015, il nuovo ad di Vicenza, Francesco Iorio, inviato da Bankitalia per tentare inutilmente di salvare Zonin e la sua banca dal disastro, assumerà il figlio di De Bustis, Giovanni, come dirigente. Posizione che ricoprirà per due mesi: lascerà a gennaio con un incentivo all’esodo da 44 mila euro.

La commissione d’inchiesta sulle banche slitta di nuovo

Lo “stallo alla messicana” è quando due o più persone si tengono sotto tiro a vicenda finendo, appunto, bloccate: la maggioranza giallorosa a quattro è in un classico stallo alla messicana, che al momento – insieme a giustizia, autonomia, legge elettorale, etc. – s’è portata dietro pure le due commissioni d’inchiesta votate con la Lega e ancora senza un accordo su chi debba presiederle.

Quella che più rileva in questa fase è quella sul sistema bancario, che dovrebbe occuparsi anche dell’ultima arrivata tra le “salvate”, Pop Bari (il decreto che dà a Mediocredito i soldi per entrare nell’istituto è in Gazzetta Ufficiale). Ieri l’ennesima convocazione per eleggere il presidente della commissione è stata rinviato e con la buona ragione che non è chiaro chi sarà. Il candidato del M5S è Elio Lannutti, ma il senatore è già bruciato: un po’ per l’infortunio social di qualche tempo fa, quando ritwittò un post antisemita, un po’ perché il suo nome fa venire la pelle d’oca a Banca d’Italia (a cui, tra gli altri, dedicò quattro anni fa il libro La banda d’Italia); senza senso, invece, invocare un conflitto di interessi perché suo figlio fa l’impiegato – e non certo il manager, neanche di filiale – in Popolare di Bari. In ogni caso Luigi Di Maio, davanti alle barricate del Pd, ha già deciso di cambiare cavallo, nonostante Lannutti – che ieri ha visto Beppe Grillo – ripeta che non rinuncia a candidarsi.

Chi sarà allora il presidente? Girano tre nomi, ma due hanno un problema: Carla Ruocco e Laura Bottici occupano già poltrone di peso – presidente di commissione alla Camera la prima, questore in Senato la seconda – e non è un buon momento per liberare caselle che non si sa come riempire. L’altro nome è quello di Raphael Raduzzi, giovane deputato con laurea in economia, che è stato il capofila della resistenza M5S alla firma del Trattato di riforma del Mes: un nome che non dovrebbe creare problemi al Pd e potrebbe avere anche i voti della Lega.

Certo, Raduzzi sarebbe meno inviso all’alta burocratja di Banca d’Italia rispetto a Lannutti, ma non è un profilo che lasci tranquilli Ignazio Visco e compagnia. È appena il caso di ricordare che nel caso della commissione sulle banche della scorsa legislatura, gli alti lai preventivi del governatore – assai amplificati dal Colle – portarono alla presidenza Pier Ferdinando Casini.

Stavolta un nome come quello dell’eterno parlamentare democristiano – così adatto a “troncare, sopire” – non sarà possibile ottenerlo, ma è la situazione a preoccupare Banca d’Italia ancor più dei nomi: lo stato gassoso della maggioranza e degli stessi partiti che la compongono fa sì che nessuno sia in grado, semmai partisse la commissione, di controllarla. Il rischio per Visco & C. è che i loro molti peccati – in opere e omissioni – durante gli ultimi anni del settore bancario vengano fuori senza filtro. Tanto più che i grillini continuano a picchiare sul quartier generale. Questo, ad esempio, è il ministro Patuanelli: “È evidente che nella vigilanza la Banca d’Italia non esercita fino in fondo la sua funzione”.

Lo stallo alla messicana e l’ostilità del M5S stanno pure bloccando la prossima nomina prevista a Palazzo Koch, cioè l’ascesa dell’ex Ragioniere generale Daniele Franco da membro del board a direttore generale (visto il trasloco di Fabio Panetta alla Bce): il direttorio di Bankitalia, convocato venerdì, dovrebbe slittare a dopo le feste. D’altronde, com’è noto, in politica meglio tirare a campare che tirare le cuoia. E poi chi lo sa che può succedere a gennaio.