Morti in mare, il pm chiama i parenti: è la prima volta

Un neonato abbracciato a sua madre sul fondale. Tredici donne senza vita. Decine di corpi dispersi. Ancora restano nitide nella memoria le immagini del barchino naufragato la notte tra il 6 e il 7 ottobre a 6 miglia da Lampedusa. A bordo c’erano 50 persone (22 sopravvissute), partite da Libia e Tunisia.

La Procura di Agrigento ha aperto un procedimento contro ignoti e, per la prima volta, ha convocato i familiari come persone informate sui fatti. Il procuratore aggiunto Salvatore Vella e la pm Cecilia Baravelli hanno ascoltato venerdì scorso quattro mamme tunisine. “Un atto di giustizia inedito” lo hanno definito le associazioni CampagnaLasciateCIEntrare, Borderline Sicilia, Rete Antirazzista Catanese e Carovane Migranti, che hanno collaborato con l’associazione tunisina Terre pour Tous. “Sotto l’aspetto investigativo – fa sapere al Fatto il legale delle donne, Leonardo Marino – la convocazione dei familiari da parte degli inquirenti è una novità che è stata possibile grazie alla collaborazione tra i due Paesi”. Zakia, Soulaf, Hamida e Gamra, questi i loro nomi, dopo essersi sottoposte al prelievo del dna in Tunisia, hanno ottenuto il visto per raggiungere la Sicilia.

Due di loro hanno riconosciuto i cadaveri dei figli. Si attende il nullaosta della Procura per il trasferimento delle salme. Non sono stati ritrovati, invece, i corpi degli altri due: un ragazzo di 18 anni e un uomo di 32. Quest’ultimo, malato di tumore, si era legato all’addome le cartelle cliniche. Secondo quanto riferito dall’avvocato, le madri non erano d’accordo con la decisione di partire. Una di loro non ne sapeva nulla. Un’altra, invece, è riuscita a parlargli poco prima del naufragio. Non erano benestanti, ma neanche poveri. Sognavano semplicemente l’Italia. L’unica speranza, ora, è che almeno i corpi facciano ritorno a casa.

Di Maio “pontiere” tra Serraj e Haftar. “In Libia recuperare il tempo perduto”

Mentre il presidente russo Vladimir Putin e quello turco Recep Tayyip Erdogan lavorano per spartirsi la Libia, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio vola a Tripoli, Bengasi e Tobruk per incontrare i principali protagonisti della crisi, a partire dal premier Fayez al Sarraj e Khalifa Haftar, comandante generale dell’esercito nazionale libico. Durante l’incontro con il vicepremier Ahmed Maitig, alla sua sinistra è seduto Luciano Carta, direttore dell’Aise. “L’Italia ha perso terreno in Libia, ma deve riprendersi il suo ruolo naturale di principale interlocutore”, ammette Di Maio in serata. E annuncia l’istituzione di un inviato speciale, che risponderà alla Farnesina, il cui nome è ancora al vaglio. E l’intenzione di varare una missione europea sotto la guida del nuovo Alto rappresentante Ue, Josep Borrell. Il ministro vede tutti. A Serraj, pur ribadendo il massimo sostegno dell’Italia, rimprovera l’accordo stretto con i turchi (“Dovevate dircelo”) per sentirsi rispondere, tra le altre cose: “Ma voi avevate fatto un passo indietro”. Mentre ad Haftar rimprovera l’avanzata verso Tripoli, incassando una sorta di endorsement (“Se l’avessi conosciuta prima, oggi forse avremmo già firmato un accordo”) e la promessa di una visita a Roma nelle prossime settimane.

Da entrambi, però, riceve una cauta apertura di massima sulla Conferenza di Berlino, che dovrebbe riaprire il dialogo. Dopo il vertice di Conte a Bruxelles con la Merkel e Macron, chiesto e ottenuto anche per rilanciare l’appuntamento (rimandato più volte e previsto ora per gennaio), lo sforzo diplomatico dell’Italia, dopo qualche mese di “distrazione”, riprende. La situazione è però deteriorata, cosa particolarmente grave per l’Italia, con in gioco il rischio dell’aumento dei flussi migratori, la minaccia terroristica e i contratti petroliferi dell’Eni. Haftar da mesi ha iniziato l’avanzata su Tripoli, aiutato da truppe di mercenari russi, vicine al Cremlino e Erdogan ha promesso a Serraj l’invio di truppe turche in suo aiuto. Proprio ieri, il portavoce dell’esercito nazionale libico denunciava che sul terreno operano già milizie turche, tra cui cecchini e un’unità di artiglieria.

Dunque, a questo punto quella della diplomazia è una mission veramente difficile. Qualche giorno fa il premier andava commentando: “Fermare Erdogan è difficile. Tanto più davanti a un conflitto armato”. E – a conferma delle difficoltà dell’Italia – raccontava: “Nel bilaterale durante il vertice Nato, Trump mi ha detto ‘Ma perché non vai tu a conquistare la Libia?’. Gli ho spiegato che non lo possiamo fare”. Il disimpegno e le ambiguità degli Usa hanno contribuito a facilitare le mire di Russia e Turchia. Per cercare di evitare la saldatura tra i due, la Merkel ha sentito Putin lunedì. Conte, che avrebbe dovuto chiamare solo Erdogan, ha chiesto una telefonata anche al presidente russo. Un modo per ristabilire la centralità dell’Italia. Le due conversazioni sono in agenda e dovrebbero avvenire entro fine settimana. Con quali esiti, è tutta un’altra storia.

Rimpatri in aumento: Lamorgese batte Salvini

Tutti ricordano che Matteo Salvini nel giugno 2018 arrivò al Viminale annunciando il rimpatrio di quelli che chiama “clandestini”, gli stranieri in situazione irregolare, oltre cinquecentomila nel nostro Paese secondo le stime più attendibili (Fondazione Ismu) anche se il capo della Lega a un certo punto disse che ne risultavano solo novantamila. La propaganda salviniana dovette scontrarsi con le difficoltà degli accordi con i Paesi d’origine, più interessati alle rimesse dei migranti e soprattutto con i costi esorbitanti dei viaggi e delle scorte oltre che della permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, prolungata fino a sei mesi con tutte le critiche e le perplessità che suscita una detenzione amministrativa. I costi sono nell’ordine di 10 milioni di euro annui, in crescita.

Così i rimpatri forzati sono aumentati di poco anche quest’anno. Al 15 dicembre erano 6.892 contro i 6.602 del 15 dicembre 2018: circa il 4,4 per cento in più. Alla fine dell’anno scorso erano stati 6.820, nel 2017 erano stati 6.514 e quindi l’aumento consistente, metà sotto il governo Gentiloni con Marco Minniti al Viminale e metà con il governo Conte 1 e il “capitano” leghista agli Interni. Vanno prevalentemente in Tunisia (1.562), Albania (1.342), Marocco (866), Nigeria (318), Egitto (311) secondo i dati al 17 novembre scorso. Con altri Paesi non ci sono accordi.

Quest’anno l’aumento sembra leggermente più consistente negli ultimi mesi, quelli del Conte 2 che si è insediato a settembre e al Viminale ha l’ex prefetta Luciana Lamorgese: sono infatti 2.300 i rimpatri forzati dal 1° settembre al 15 dicembre, tre mesi e mezzo, cioè 657 in media contro i 4.589 dei primi otto mesi dell’anno quando Salvini minacciava deportazioni di massa e la media mensile era 574. È una differenza minima, i numeri grosso modo sono quelli, tra i 450 e i 790 al mese (luglio), dipendono soprattutto dai mezzi a disposizione e dall’organizzazione della polizia.

Poco meno di 7.000 l’anno vuol dire poco più dell’1 per cento degli irregolari. Che nel frattempo, anche per effetto del primo cosiddetto decreto Sicurezza di Salvini, aumentano: Openpolis (Il Fatto del 9 novembre scorso) stima per quest’anno una crescita di 58 mila, altri 160 mila nel 2020 e altri 60 mila nel 2021 fino a 753 mila in totale (il totale degli stranieri è 5,5 milioni). L’abolizione della protezione umanitaria (decreto Salvini 1) e la stretta sull’asilo (iniziata con Minniti) producono irregolari, esposti all’indigenza e al rischio di diventare manovalanza criminale. Peraltro il decreto Salvini ha escluso 30 mila su oltre 100 mila richiedenti asilo dal sistema dell’accoglienza. È l’esatto opposto di una politica di sicurezza. E il governo Conte 2 non è intenzionato a cancellare questi aspetti problematici della legislazione salviniana: i decreti saranno modificati solo in base alle indicazioni del presidente Sergio Mattarella e cioè sulle multe alle Ong e sulla non punibilità degli oltraggi a pubblico ufficiale di lieve entità.

Il successo più significativo della gestione Conte-Lamorgese in materia di immigrazione, riferito a poche centinaia di persone l’anno ma di grande rilievo simbolico e politico, resta l’aumento dei ricollocamenti nei Paesi Ue grazie ai rapporti più distesi inaugurati dal Conte 2 e al preaccordo di Malta (23 settembre) firmato da Lamorgese con i suoi omologhi di Francia, Germania, Finlandia e appunto Malta, relativo ai richiedenti asilo soccorsi in alto mare dalle Ong. Come riferito ieri dal Fatto, c’è stata un’accelerazione impossibile quando Salvini alzava la tensione a ogni sbarco: un nuovo volo previsto il 18 ottobre per la Francia con 65 persone e la partenza entro Natale di 149 per la Germania portano il totale a 402 da settembre, ovvero 102 al mese contro gli 85 degli otto mesi di Salvini, una media di appena undici al mese.

“Regeni, 4 depistaggi sull’inchiesta”. Il carteggio con il nuovo pm egiziano

Un carteggio che va avanti da qualche mese nella speranza che i rapporti tra la Procura di Roma e quella del Cairo sull’omicidio di Giulio Regeni possano partire da zero. E non continuare con la collaborazione – tale solo negli annunci – del passato, con i tanti depistaggi consegnati all’Italia. L’occasione è stato il cambio, avvenuto a settembre, del procuratore generale egiziano: con Nabil AhmedSadek in pensione, è stato nominato Hamada al-Sawi. I contatti con il nuovo gruppo investigativo quindi sono stati avviati dal procuratore facente funzioni di Roma, Michele Prestipino. Si spera dunque che le cose vadano diversamente dal passato.

Intanto si attende ancora una risposta all’ultima rogatoria inviata in Egitto: le autorità italiane hanno chiesto chiarimenti su Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, uno dei cinque ufficiali della National Security Acengy (Nsa), l’intelligence egiziana, indagato a Roma.

Il punto è capire se Sharif nell’estate del 2017 si trovasse in Kenya. È stato un poliziotto kenyota a raccontare al pm di Roma Sergio Colaiocco di aver sentito Sharif (che si trovava a Nairobi) affermare che Giulio “era stato preso e picchiato perché sospettato di essere una spia inglese”. Una rogatoria è stata inviata pure in Kenya.

Intanto ieri Prestipino e Colaiocco sono stati sentiti (una parte dell’audizione è stata secretata) in commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio del ricercatore friulano. I pm hanno ricostruito le fasi della loro indagine. A cominciare dai quattro depistaggi degli apparati egiziani. All’inizio, spiega Colaiocco, c’è stata “l’autopsia svolta al Cairo che fa ritenere il decesso legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Un altro depistaggio è stato quello di collegare la morte di Giulio a un movente sessuale”. E poi ci sono stati altri due tentativi di sviare le indagini: il primo alla vigilia della trasferta dei pm romani del 14 marzo del 2016. “Due giorni prima – spiega Colaiocco – un ingegnere parla alla tv egiziana e racconta di avere visto Regeni litigare con uno straniero dietro al consolato (…). È emerso che il racconto è falso”. L’uomo “ha ammesso di avere ricevuto quelle istruzioni da un ufficiale della Sicurezza nazionale”.

E c’è un quarto depistaggio, quello legato “all’uccisione di cinque appartenenti a una banda criminale morti durante uno scontro a fuoco. Per gli egiziani erano gli autori dell’omicidio”. Nonostante i depistaggi la Procura di Roma riesce a indagare cinque funzionari della Nsa. “Intorno a Regeni – ha aggiunto ieri Colaiocco – è stata stretta una ragnatela dalla Nsa (…) in cui gli apparati si sono serviti delle persone più vicine a Giulio al Cairo”. E poi c’è l’autopsia fatta in Italia che conferma come “le torture siano avvenute a più riprese, tra il 25 gennaio e il 31 gennaio. (…) I medici legali hanno riscontrato varie fratture e ferite compatibili con colpi sferrati con calci, pugni, bastoni e mazze. Giulio è morto, presumibilmente il 1º febbraio, per la rottura dell’osso del collo”. “La Procura – ha ribadito ieri Prestipino – continuerà con determinazione a compiere tutte le attività”.

Salvini, Renzi e Calenda: tre quarantenni annoiati

Cosa accomuna Matteo Salvini a Matteo Renzi e Carlo Calenda? Certi problemucci con la giustizia (ma non Calenda)? Il pigro bivaccare nel centrosinistra, facendo però finta di non starci (ma non Salvini)? L’idea di candidarsi, se non c’è niente di meglio da fare, a sindaco di Roma (ma non Renzi)?

No: i tre dell’Ave Maria hanno l’aria di annoiarsi maledettamente. Noia intesa non come mancanza d’interessi o passiva indifferenza nei confronti della vita. Bensì l’esatto contrario: se non si sentono abbastanza considerati e presi sul serio reagiscono all’avvilimento psicologico come bambini problematici che cercano di richiamare su di sé l’attenzione arrampicandosi sugli alberi, o mettendosi “a fare i pazzi” (copyright Giuseppe Conte).

Grazie a Maurizio Crozza, il più divertente risulta per distacco Calenda (“L’Italia non ha bisogno di un altro partitino, figuriamoci poi uno creato da me che so’ trent’anni che non ne imbrocco una”).

L’estroverso ex ministro sembra vivere quella fase irrequieta della mezza età maschile in cui hai avuto molto ma non ancora tutto e sei quasi tutto ma non ancora abbastanza. Quando, per colmare il disagio di certe mattinate domestiche (mentre stai sul divano la colf passa l’aspirapolvere e ti chiede, scusi dotto’, di sollevare i piedi) puoi decidere di iscriverti a una scuola di zumba o di inforcare una Harley sgassando ai semafori. Be’, lui ha fondato un partito.

Renzi ha una sua complessità compulsiva: si agita, insulta, minaccia, annuncia querele, pasteggia sui social e parla, parla, parla. Dotato di notevole improntitudine psicomotoria una mattina ha creato dal nulla (e sul nulla) Italia Viva, fregando sul tempo Calenda che ha il risveglio lento. Entrambi però, come Salvini, riempiono i vuoti esistenziali come in preda a ossessiva bulimia mediatica, e non soltanto (visti di profilo, quanto a girovita mostrano lo stesso skyline). Come dire: se la comunicazione si è mangiata la politica noi ingurgitiamo comunicazione.

Il caso Salvini è il più sintomatico e dal decorso imprevedibile. Mentre infatti Calenda cerca di ingannare il tempo pontificando nei talk, e Renzi si balocca tirando le freccette contro il governo, l’ex vicepremier (un ex qualcosa come gli altri) dalle dimissioni di quel maledetto 8 agosto non riesce a darsi pace sparando a raffica idee strampalate e senza nesso alcuno con un pensiero coerente. Situazione aggravata dal ruolo che da leader sconclusionato esercita alla guida del partito di maggioranza relativa, egemone in tutto il nord produttivo. Così come capita: dalla proposta su Mario Draghi premier alla polemica (infondata) sulle nocciole turche nella Nutella, all’estemporanea candidatura in Campidoglio al posto della Raggi. “Bellissima idea”, ha subito chiosato malefica Giorgia Meloni impegnata a sgranocchiare uno dopo l’altro i voti leghisti (titolo del Foglio: “A forza di bighellonare, Salvini comincia a prendere schiaffi”).

Ora, nel chiederci che cosa avesse mai ispirato al bighellone l’idea scombiccherata di un comitato di salvezza nazionale (lui, Conte, Di Maio e Speranza a deliberare sui destini del Paese, figuriamoci), ultima pensata della politica vagotonica e postdigestiva, tra le tante ipotesi non avevamo considerato quella più terra terra e meno bislacca: forse quel giorno s’annoiava.

Siamo onesti, trascorrere quattro interminabili mesi a pestare l’acqua nel mortaio in compagnia di Centinaio e Calderoli, a girare l’Emilia Romagna come stuntman della Borgonzoni povera figlia, a inanellare ospitate nel circo Giordano o da zio Giletti, sempre la stessa minestra che pizza che noia avrebbero sfiancato un toro. Figuriamoci uno che al governo ci stava come un papa, che faceva il cavolo del comodo suo e che la salvezza nazionale avrebbe potuto convocarla al Viminale, con la solenne fanfara del tg collettivo.

Infatti la proposta, a parte un ringhio di Giorgia (“incomprensibile”) è caduta così nel vuoto che il compagno di merende, Matteo l’altro, non se l’è sentita di infierire (“tarantellata che va approfondita”). Non illudiamoci, le cose proseguiranno così a lungo perché se fare i pazzi non serve ai sondaggi comunque sui giornali ci finisci lo stesso (“Solo il nulla… non esistenza… Buio… Vacuità. Cosa dici? Faccio programmi per il futuro”. Woody Allen e Diane Keaton, Amore e guerra).

Sardine. Che cosa devono diventare da grandi?

Centomila Sardine in piazza San Giovanni. La manifestazione di Roma di sabato scorso è stata il definitivo rituale di iniziazione di un nuovo attore politico: il movimento giovanile nato in Emilia adesso è ufficialmente una realtà nazionale. Con tutto quello che comporta: esposizione mediatica e dibattito sulla sua natura e sui suoi destini.

Cosa devono fare adesso le Sardine? Devono darsi una struttura per radicare il consenso che hanno saputo generare? Devono trasformarsi in un partito a tutti gli effetti? Devono intervenire ufficialmente nella prossima, decisiva sfida elettorale, le Regionali in Emilia-Romagna? Sono un fenomeno effimero oppure saranno in grado di condizionare nel tempo lo scenario italiano? L’abbiamo chiesto ad alcuni tra i più autorevoli osservatori e commentatori della politica italiana.

 

Peter Gomez
Non cedano alle solite lusinghe. E adesso scoprano le periferie

Difficile dire cosa faranno le Sardine da grandi. Gli ideatori del movimento sono tirati di qua e di là da tutte le forze politiche anti-Salvini e da quei gruppi editoriali che nel recente passato hanno sostenuto molti leader di sinistra capaci solo di affossare la loro parte politica. Se sapranno resistere a questa rete di blandizie e di elogi (sperticati e interessati), dimostreranno umiltà e carattere costruendo il proprio futuro. Se si faranno avviluppare è ragionevole pensare che finiranno male. A oggi una base programmatica non c’è. I principi enunciati hanno un solo comune denominatore: il no alla Lega, declinato in no al sovranismo e al populismo. Non è molto, ma è già qualcosa perché spinge gli altrimenti addormentati avversari di Salvini ad andare con civiltà in piazza. Per questo è il caso che le Sardine nell’immediato pensino solo alle prossime Regionali andando, come promesso, a riunirsi anche nelle periferie delle città e nei paesi più piccoli. Per arrivare poi a elaborare delle vere proposte. Insomma: calma, attivismo e gesso.

 

Lorenza Carlassare
Bene così: la loro funzione è smuovere le coscienze

L’idea che qualche partito voglia mettere il cappello sulle Sardine mi spaventa. Lasciate in pace quei ragazzi, per carità. E neanche si può pretendere che abbiano chissà quali programmi o progetti futuri, non sono un partito e non vogliono esserlo, vogliono semplicemente esprimere sensazioni diffuse in migliaia di persone, come l’avversione a questo scivolamento a destra del Paese o la valorizzazione dei principi costituzionali. La funzione delle Sardine è quella di smuovere coscienze – o almeno, quelle che ancora non sono impermeabili – e dimostrare alla destra che il popolo non è tutto allineato. Mi sembra difficile che le Sardine possano diventare un partito anche perché mi pare che al loro interno ci siano anime e idee molto diverse. Piuttosto, consiglierei a questi ragazzi di non lasciarsi “intrappolare” dai media: la sovraesposizione è pericolosa e non c’è alcun vantaggio nell’esser trascinati in dibattiti politici quotidiani. Senza dimenticare il rischio di montarsi la testa.

 

Andrea Scanzi
Chi va in piazza non può essere timido, basta fare i boy scout

Era splendida piazza San Giovanni gremitissima, le Sardine mi piacciono, ma dall’onnipresente Santori mi aspettavo più contenuti. Cioè: sali sul palco, davanti a tutte quelle persone; mostri la faccia compiaciuta; fai battutine sui giornalisti; e l’unica cosa che partorisci sono 6 punti paurosamente impalpabili (a parte la sacrosanta abrogazione dei decreti Sicurezza)? Tutto ’sto casino per dirci che i politici non devono usare i social e che non dobbiamo dire le parolacce? Cosa siamo, agli scout o all’assemblea studentesca? Dai, su. Se vai in piazza e protesti, non puoi essere ecumenico. Il difficile, per le Sardine, comincia adesso. Surreale anche la pretesa di Santori, autoproclamatosi leader (?), di voler essere l’unico ad andare in tivù (peraltro senza regalarci indimenticabili perle di pensiero). Che fare? Apparire meno. Parlare solo quando si ha qualcosa da dire. Gigioneggiare zero. E non farsi mettere il cappello in testa da nessuno. Men che meno da quei tromboni, ormai bolliti, che cercano di sfruttare le Sardine per tornare in auge.

 

Daniela Ranieri
Altroché, sono i veri populisti: nei toni e nei (non) contenuti

Consapevole di incorrere nel reato di lesa sardinità, mi permetto di sollevare qualche dubbio sul movimento. Il nome è spiritoso, mediatico; sembra provenire più dal marketing che dall’afflato politico. Dicono di essere “contro il populismo”, come l’establishment mondiale, ma sono populiste nei toni e nei (non) contenuti. Il manifesto è scioccherello, un misto di manuale delle giovane marmotte e toni bulleschi che scimmiottano il “come osate” di Greta. Dicono di non essere né di destra né di sinistra, come i populisti 5Stelle: altro che politica con la “P” maiuscola. Dicono di ispirarsi alla Costituzione, poi stilano un programma che al punto 5 ingiunge: “La violenza verbale venga equiparata a quella fisica”, che forse è nella Legge fondamentale saudita (il loro “siete voi a dover aver paura” è violenza verbale? E chi stabilisce se ho scritto una cosa violenta, il ragazzo Mattia?). Nessun accenno ai poveri (5 milioni), alla Sanità pubblica, alla Scuola. Lodevole l’aver mostrato che non esiste solo il Papeete; ma spero non divengano mai un partito politico: ci mancano solo loro.

 

Gianfranco Pasquino
Devono darsi una struttura e indicare il voto in Emilia

Le Sardine sono un movimento che ha dimostrato grande capacità espansiva, perché altrimenti non si riempiono tante piazze in tutta Italia, mettendo insieme giovani e meno giovani. Ora però il passaggio è delicato, anche perché in Emilia, dove hanno fatto la loro prima manifestazione, ci sarà una elezione fondamentale. Se vogliono contrastare Salvini, dovranno trovare il modo di dare un’indicazione di voto che non sia adesione partitica, spiegandosi dunque molto bene. Il loro manifesto non mi è sembrato brillantissimo e Mattia Santori, che pare sia stato mio studente, dovrebbe sapere che i movimenti collettivi a un certo punto devono istituzionalizzarsi. Questo non significa per forza diventare un partito, ma darsi comunque una struttura, magari anche leggera. È indispensabile per poi tentare di incidere sulla politica, a condizione di essere capaci di scegliere i temi e i luoghi giusti. La riunione dell’altro giorno a Roma può essere un primo passo verso questa direzione.

 

Marco Revelli
Meglio non cambiare niente: saranno i partiti a cercare loro

Le Sardine il loro miracolo lo hanno già fatto. Non mi arrovellerei troppo sul futuro, perché ciò che conta è già successo: hanno costituito il catalizzatore di una realtà molto forte e quelle piazze sono state una rivoluzione civile che nessuno si toglie più dalla testa, né chi c’è stato né chi le ha viste da fuori. La loro funzione etica, politica e sociale è già evidente, perché hanno materializzato un’altra Italia che non è assimilabile a quella delle volgarità verdi-brune. Non c’è bisogno di involucri, partiti, leader, anzi tutto ciò impoverirebbe le Sardine. Ciò che conta è che qualunque forza politica nei prossimi mesi non potrà prescindere dal pensare a quelle migliaia di persone in piazza e fare i conti con loro. Dunque anche in futuro credo che le Sardine possano essere assolutamente efficaci restando nelle piazze, “accendendosi” su specifici temi, oppure quando c’è un bisogno diffuso che non riesce a esprimersi. In quel caso ritrovarsi insieme ha una funzione salvifica.

“Lo so che siete incazzati, ma bisogna andare avanti”

Un tempo in cui Beppe Grillo camminava sulle folle sopra un canotto. Nove anni e un bel po’ di governi dopo, il Garante ammette che certe cose non può farle neanche lui. “Io non convinco nessuno a restare nel Movimento, se qualcuno cambia idea può farlo” confessa a telecamere e taccuini che lo assediano, a Roma. Già, perché Grillo è nella capitale per capire quanta febbre ha il M5S e per esortare i parlamentari a tirare dritto assieme al Pd e al governo e al capo, Luigi Di Maio.

E il senso della giornata è nel colloquio tra l’artista e il Direttivo in Senato, prima dell’assemblea con gli eletti. “Lo so che siete incazzati con Di Maio, con Casaleggio e con la piattaforma Rousseau” ammette. Ma non c’è alternativa, “dobbiamo andare avanti”. Nonostante il M5S perda entusiasmo e soprattutto pezzi. Dopo i tre senatori passati alla Lega, ora è in bilico Gianluigi Paragone, reo di aver votato contro la manovra blindata con la fiducia lunedì sera. Il capo politico Di Maio è cauto sul suo caso, raccontano: “Sa che mandare via Paragone potrebbe essere un problema”. Però quel voto contrario da regolamento vale l’espulsione. E in mattinata diversi senatori ne invocano la cacciata in una prima assemblea. Paragone si difende: “Sono rimasto fedele al programma di governo, tutto qui, e oggi (ieri, ndr) ho votato la fiducia sul dl fiscale”.

Ma il clima è plumbeo, anche perché altri quattro senatori non hanno votato la manovra. Per questo anche il Garante viene informato, mentre in assemblea uno dei quattro, Mario Giarrusso, protesta: “Perché mi fate il processo, non ve la dovete prendere con me”. E la collega Laura Bottici si infuria. Volano schegge, mentre Grillo riceve in hotel il senatore Elio Lannutti e il suo avvocato, l’ex pm Di Pietro. Ma parlano tutti di Paragone. “Se ne deve andare” sibilano diversi deputati. Mentre il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Devid Porrello, chiede: “Per lui le regole non valgono?”. Ma Casaleggio si fa di lato: “Paragone è un problema del collegio dei probiviri, non mio”. Sa di che grana di parli, anche perché ballano altri senatori, come il pugliese Cataldo Mininno. Però Grillo non vuole scomunicare nessuno. E schiva. “Sono un anti-emorragico” sillaba con una mascherina sul volto, e pare riferirsi al titolo del Fatto di ieri (“Grillo a Roma per fermare l’emorragia”). E parla d’altro, di Sardine: “Hanno capito che in Italia ci sono troppi che vivono in un mondo di rugbisti, nel fango, sporchi, violenti. Loro vogliono fare i tennisti”. Però attenzione, “non sono come il M5S delle origini”.

Nel pomeriggio si presenta assieme a Casaleggio a un convegno in centro. Dentro tanti big a 5Stelle: Laura Castelli, Alfonso Bonafede e vari altri ministri, anche del Pd. Ad aprire dal palco, il premier Giuseppe Conte, che andando via scambia un breve saluto con il Garante. Durante gli interventi l’artista lotta per non appisolarsi. Ma soprattutto a margine ostenta buon umore. Vuole sminuire la portata della sua visita. In serata, arriva in Senato. Sale dal Direttivo, e si informa: “Che ne pensate della nuova organizzazione con i facilitatori?”. Raccontano che “Beppe ci punti molto”. Poi scende in assemblea, dove non c’è Paragone. Predica: “Parlate di cose belle e di futuro”. E si raccomanda: “Dobbiamo andare avanti al Pd, portarlo sui nostri temi”. Gianluca Ferrara sposa l’ottimismo: “Senza di noi questi Palazzi tornerebbero a chi li ha devastati”. Ma si alzano voci critiche. Il ligure Mattia Crucioli attacca la piattaforma Rousseau, sotto gli occhi di Casaleggio. Ed Emanuele Dessì punge: “Tu Beppe hai creato un grande movimento progressista, ma una minoranza rimpiange la Lega”.

Grillo ammette “che la nostra comunicazione così non funziona” e che “dobbiamo parlare di più tra di noi”. E arriva a riconoscere: “I tre senatori se ne sono andati anche perché si sentivano soli”. Ma ribadisce il sostegno a Di Maio: “Ha solo 33 anni, non potete pretendere certe cose da lui”. Dopo le 20 è alla Camera, dove in assemblea lo raggiunge proprio il capo politico. Sferza: “Qualcuno si dimentica che siete qui come portavoce e non come parlamentari”. E precisa: “Bisogna fare chiarezza nel rapporto col Pd”. Di Maio ascolta. E annuisce.

Fioramonti pronto a dimettersi

I 3 miliardi per l’Istruzione, in manovra, non ci sono. Ce ne sono poco meno di un paio, un gruzzolo raggiunto sommando diverse misure da qualche centinaia di milioni provenienti anche da altri ministeri e poco convincenti per molte categorie. Mancano quindi i fondi senza i quali il ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti aveva parlato di dimissioni già quand’era solo sottosegretario. Ora l’addio sembra imminente, forse prima di Natale.

Gli ultimi mesi sono stati una guerriglia: da un lato lo sforzo del ministero dell’Istruzione di farsi sentire e dall’altro le necessità di far quadrare i conti del bilancio, poco sopra la linea di prassi di tutti i governi degli ultimi quindici anni sul tema scuola. Fioramonti ha vinto e perso diverse battaglie: è riuscito far parlare di scuola e a far rimuovere l’emendamento che riduceva i fondi per l’assunzione dei precari dei centri di ricerca ma, nella stessa lotta, non è riuscito a far cancellare l’istituzione dell’Agenzia nazionale della Ricerca, criticata da una buona parte degli accademici, ma voluta dalla Presidenza del Consiglio. L’esito è abbastanza scontato: quei 2 miliardi sono il frutto di lunghe lotte sulla manovra di Bilancio, tra emendamenti (anche a costo zero) bocciati senza spiegazione e altri approvati nonostante il parere negativo del Miur (quello sugli istituti tecnici superiori che ne porta la dotazione al Mise o quello che inserisce educazione finanziaria nell’educazione civica).

Chi ha potuto parlare col ministro in queste ore racconta che al momento il programma è votare la fiducia alla manovra di Bilancio alla Camera e poi dimettersi. Con serenità e la volontà di sostenere il governo. Non ci sarebbero offerte all’orizzonte, neanche il ritorno all’università di Pretoria pare in programma. Insomma, è lecito il sospetto di un ripensamento ma pare che la decisione sia stata talmente meditata da avere informato anche il premier Conte e Di Maio. Il ministro ha ripetuto più volte, a molti, che deve mantenere la parola. Anche perché il messaggio è sempre stato chiaro: le dimissioni senza quei miliardi sono state ribadite in decine di interviste e occasioni. Ora, il nome in quota M5s, è quello di Nicola Morra: un “successore naturale” visto che era già in lizza al posto del ministro nella fase di formazione del governo.

Farsa nomine: ancora proroghe per le Autorità

Va rimpianta la vecchia spartizione di un tempo che tutto aggiustava e incastrava. Adesso la politica s’inceppa pure per le nomine del Garante per la Privacy e per l’Autorità per le Comunicazioni (Agcom) e s’inceppa da mesi e dichiara la sua pericolosa impotenza con l’ennesima proroga per decreto di governo. Così i commissari di Privacy e Agcom, scaduti l’estate scorsa, sono costretti a restare con l’ordinaria amministrazione che serve a poco.

I membri di Privacy e Agcom, indicati dai parlamentari, sono 8 in totale, 4 per ciascuna Autorità. Il presidente della Privacy, secondo le regole vigenti, viene nominato all’interno del gruppo dei 4, ma se i partiti – come accade da giugno – non hanno un accordo solido, il più anziano diventa il capo. Al momento il più anziano dei candidati, sostenuto dal centrodestra, è il senatore Ignazio La Russa. Per bloccare l’ipotesi La Russa, il governo ha pensato di portare i membri della Privacy da 4 a 5 e di lasciare la scelta del presidente al governo con l’approvazione dei due terzi delle commissioni parlamentari, come per l’Agcom.

I partiti di maggioranza non sono riusciti a infilare l’emendamento in legge di Bilancio e dunque si cerca riparo con la proroga, l’ennesima. Però una domanda sorge spontanea: che c’entra l’Agcom con la Privacy, perché vanno appaiate? Per semplificare la lottizzazione: un successo. I commissari Agcom, dal presidente Angelo Cardani in giù, sono a dir poco infuriati. Antonio Nicita potrebbe rientrare a insegnare all’università a gennaio, Antonio Martusciello fa sapere che si dimette se si arriva a febbraio. Oltre le intenzioni personali, l’Agcom è chiamata a muoversi con efficacia su cosette marginali tipo l’asta per le frequenze televisive, lo sviluppo del 5G per l’Internet veloce, l’applicazione dei divieti per la pubblicità sul gioco e altri temi che riguardano l’economia italiana, la stessa di cui si parla nelle interviste e che poi si mette da parte se una nomina rischia di venire male. Una manciata di poltrone (vuote) prende in ostaggio un pezzo di Paese.

Casellati brinda alla stampa ma solo se non parla di lei

Per l’occasione ha scelto l’abito della sartoria di fiducia, lo stesso con cui si è fatta immortalare insieme all’amica stilista e al di lei figlio Mauro, condannato per molestie dopo un casting di modelle andato oltre le formalità del provino. Un punto di verde assai natalizio, quello del tailleur pantalone che la presidente del Senato ha indossato al brindisi con la stampa parlamentare prima delle feste. “Che spilla meravigliosa”, salmodia la senatrice di LeU Loredana De Petris, indicando il gioiello che le decora la spalla sinistra. Maria Elisabetta Alberti Casellati solca con la consueta eleganza i tappeti della Sala Zuccari di palazzo Giustiniani, casa sua da un paio d’anni a questa parte. Il buffet è impeccabile, la maionese allo zenzero si sposa col salmone al forno, le parmigianine di melanzane sono dorate ma leggere, il chutney di pere si accorda coi formaggi. La perfezione, se non è qui, abita assai vicino.

Eppure basta una domanda per rovinare la festa e costringere la presidente a rintanarsi sui divanetti in fondo al salone, protetta da un cordone di fedelissimi, pronti a filtrare i commensali che tentassero di avvicinarla. Non gradisce, Alberti Casellati, che Il Fatto sia venuto a chiederle se non crede di aver esagerato quando ha spedito a casa di due colleghi una lettera intimidatoria.

La seconda carica dello Stato, come i lettori ricorderanno, due settimane fa ha indirizzato alle private abitazioni di Carlo Tecce e Ilaria Proietti – rei di aver scritto diversi articoli sulle gesta della presidente nell’esercizio delle sue funzioni – una raccomandata per annunciare l’intenzione di procedere a una azione civile risarcitoria nei loro confronti. Una modalità quantomeno inusuale, il preavviso di mediazione, che non contesta nel merito nessuna presunta diffamazione, se non un generico riferimento a “pubblicazioni ritenute lesive dei suoi diritti”. Le stesse che poi elencherà – di nuovo senza chiarire i dettagli – nella domanda di mediazione che ha recapitato al giornale l’11 dicembre, sostenendo non abbiano alcun legame col “legittimo diritto di cronaca”.

“Studiate il codice civile! Io non dovrei neanche parlarvi!”, si inalbera quando le si fa notare l’insolito preavviso a casa dei colleghi. “Funziona così!”, insiste, senza meglio specificare perché – se davvero lo prescrive la legge – non abbia fatto lo stesso col direttore Marco Travaglio, a cui la raccomandata è arrivata in redazione. Ma il punto resta un altro: quella comunicazione a casa dei colleghi non era la notifica della richiesta di mediazione, ma una semplice lettera – chiamiamolo un avvertimento – che è senza dubbio fuori dalla disciplina del codice civile che la presidente ci rimprovera di non conoscere.

Che il tema non sia solo procedurale, lo certifica il discorso che Alberti Casellati ha scritto per fare gli auguri di buone feste alla stampa. Primo, perché introduce una personalissima distinzione tra “il dovere di fare buona informazione” e “il diritto di cronaca”, come se non necessariamente raccontare quello che succede sia la cosa giusta da fare. Secondo, perché per la presidente del Senato “c’è giornalismo e giornalismo” e “questo va detto a chiare lettere e senza ipocrisie”. “C’è un giornalismo – spiega la presidente – fatto di professionalità, passione, devozione, di sacrificio e spesso di drammi”. Fa i nomi: Mauro De Mauro, Giancarlo Siani, Ilaria Alpi. Tutti colleghi tragicamente scomparsi. E poi c’è il giornalismo che è “facile polemica”, “congettura” e “sensazionalismo”. E che, spiega ancora Casellati, è il male primigenio delle “nuove moderne patologie dell’informazione, come le fake news e i deep fake”, su cui lei stessa si impegna a “promuovere nei prossimi mesi un momento di riflessione”. Così, la presidente che avvisa i giornalisti a casa si prepara a diventare la nuova paladina dell’informazione corretta. Perché “il pluralismo è un valore da difendere a tutti i costi e con ogni mezzo”. Purché non si parli di lei.