Prescrizione: sventato il blitz del centrodestra

Le due spine nel fianco del governo, prescrizione e intercettazioni viaggiano su binari paralleli e – per ora – non si scontrano. Per trovare una quadra sulle modifiche alla legge Orlando, bloccata per la quarta volta dal ministro Alfonso Bonafede, ci sono sei mesi: è stato inserito nel mille proroghe, infatti, il posticipo della sua entrata in vigore, anche quella prevista, come la prescrizione, il primo gennaio.

Il ministro ha chiesto il rinvio fino al 30 giugno con la stessa motivazione delle tre proroghe precedenti: non ci sono i mezzi e manca la norma transitoria. Ma Bonafede si è affrettato a dire che prevede un accordo sulla sostanza, addirittura possibile entro fine anno. Sul fronte prescrizione, invece, non si contano più i tentativi di affossare la riforma che sarà in vigore il primo gennaio, come ha detto ieri anche il premier Conte. In Senato, alla commissione Giustizia, la maggioranza, compatta, ha sventato per un soffio, con un solo voto di scarto, il blitz di Fi, Lega e Fdi, che volevano calenderizzare un ddl per far entrare in vigore la riforma Bonafede nel 2022.

È finita 12 a 11, con Giacomo Caliendo, Fi, ex magistrato che urlava “È mancanza di democrazia”. Con altri parlamentari dell’ex Pdl, nel 2013, marciò su palazzo di Giustizia di Milano, pro Berlusconi. Alle opposizioni si rivolge il vicepresidente della Commissione, Mattia Crucioli, M5S: “Avrebbero fatto bene ad ascoltare le testimonianze di chi, dopo aver perso i propri cari in circostanze tragiche, subisce anche la beffa di processi che svaniscono nel nulla”.

Negli stessi momenti, alla sala Nassirya del Senato, diversi familiari delle vittime, del comitato “Noi non dimentichiamo”, hanno lanciato un appello a favore del blocco della prescrizione dopo il primo grado. Lo hanno fatto con il cuore e senza alcun interesse personale perché i suoi effetti ci saranno a partire dal 2024. “È un atto di doverosa giustizia per tutti noi e sarà di sollievo per chi – ci auguriamo nessuno – ne beneficerà nei prossimi anni. Speriamo che cambi la percezione della giustizia e siamo qui per difenderla”, ha detto la presidente Gloria Puccetti. È la madre di Matteo Valenti, un giovane operaio morto nel rogo della fabbrica dove lavorava nel 2004. Antonio Morelli, ha perso la sua bambina a San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre del 2002 per una scossa di terremoto che fece crollare la scuola, morti 27 bambini e una maestra. In lacrime, ha chiesto un dono di Natale: “Una legge che fa giustizia per le vittime”. E rischia, in parte, di finire con la prescrizione anche il processo appena cominciato per il depistaggio nel 2009, 2015 e 2018, sulla morte di Stefano Cucchi, imputati 8 tra ufficiali e carabinieri dell’Arma: “Mi auguro, ci ha detto l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, che i reati commessi nel 2009, di cui sono accusati i vertici della scala gerarchica dei carabinieri, non giungano a prescrizione ma si entri nel merito, come la drammatica morte di Stefano Cucchi esige. È una corsa contro il tempo, la prescrizione è ad aprile 2022”.

Caso Open, la Gdf a caccia dei soldi in Lussemburgo

La Guardia di Finanza è a caccia dei soldi della società lussemburghese legata a Marco Carrai e ad altri finanziatori della Open. Parliamo della Wadi Ventures Sca. La società è al centro delle informative agli atti della Procura di Firenze, che ha indagato l’ex presidente dell’allora cassaforte del renzismo, Alberto Bianchi, per traffico di influenze e finanziamento illecito, e l’imprenditore Marco Carrai per il solo finanziamento illecito.

Nelle informative della Finanza si legge che la “Wadi Ventures sca risulta destinataria di somme di denaro provenienti, fra gli altri, da investitori italiani collegati a Marco Carrai e alla fondazione Open, risorse finanziarie che sembra siano state utilizzate per acquisire partecipazioni in società allo stato ignote”. I finanzieri vogliono verificare di quali partecipazioni si tratti e ricostruire i flussi finanziari della società lussemburghese.

La Wadi Ventures Sca è stata fondata nell’ottobre del 2012 e Carrai ne è stato membro del consiglio di sorveglianza fino al luglio del 2016. La società era partecipata dalla Wadi Ventures Managment Company Sarl costituita poco prima, il primo agosto del 2012, da Carrai e altri. Proprio di quest’ultima gli investigatori hanno analizzato i bilanci scoprendo che “la società (…) avrebbe eroso il capitale sociale evidenziando un patrimonio netto negativo”. Il patrimonio netto della Wadi Ventures Management Company, segnala la Finanza, è passato da un attivo di 226 euro del 2012 a un negativo di 1.713 euro nel 2013, per poi risalire a un attivo di 13.621 nel 2014 e passare a un passivo di 159mila euro dal 2015 al 2017. Nel 2014 – continuano le Fiamme Gialle – Carrai possiede il 12 per cento della Wadi Ventures Management Company con una quota di 2.500 euro.

A questo punto, il prossimo passaggio degli investigatori sarà quello di capire in quali partecipazioni societarie siano state investite le risorse finanziarie dell’unica società controllata dalla Wadi Ventures Management Company, ovvero la Wadi Ventures Sca: l’unica possibilità – oltre a interpellare la Financial Intelligence Unit – è quella di inoltrare al più presto una rogatoria alle istituzioni lussemburghesi.

Intanto c’è un aspetto che ha colpito gli investigatori: alcuni soggetti che in passato hanno finanziato la Open, hanno anche investito nella società lussemburghese Wadi Ventures Sca. Si tratta di Fabrizio Landi (nel cda di Leonardo, ex Finmeccanica), del finanziere Davide Serra e dell’imprenditore Michele Pizzarotti (tutti e tre sono estranei alle indagini). “Sono risultati – è scritto negli atti – sia quali finanziatori della Fondazione Open che essere parti attive (soci o cariche) in società italiane e lussemburghesi riconducibili a Carrai”.

Partiamo dunque da Serra: nel 2012 ha versato 50 mila euro nella Wadi Ventures Sca “per futura sottoscrizione di azioni”. Quello stesso anno, “unitamente alla consorte”, eroga contributi volontari per 100 mila euro alla Fondazione Big Bang, poi diventata Fondazione Open. L’ anno dopo, il 4 novembre del 2013, Serra eroga un altro contributo da 25 mila euro alla Open.

C’è poi il manager Landi. Che nel 2012 versa un contributo volontario di 10 mila euro alla Fondazione Big Bang. Due anni dopo, e siamo al giugno del 2014, investe 75 mila euro nella Wadi Ventures Sca.

Lo stesso pensa di fare l’imprenditore Michele Pizzarotti, che ad agosto del 2014 versa 100 mila euro nella società lussemburghese, anche lui “per futura sottoscrizione di azioni”. Pizzarotti alla Open invece eroga come “contributi volontari” nel 2014 50 mila euro in tre tranche.

Già nei giorni scorsi i quotidiani si sono occupati delle società lussemburghesi e Carrai aveva ribadito: “Il sottoscritto non faceva parte del consiglio di amministrazione a cui è delegata la parte degli investimenti della Società di diritto lussemburghese ma solo, per un periodo limitato del consiglio di sorveglianza”. Per l’imprenditore amico di Matteo Renzi “non è vero, come dicono i giornali, che ‘le risorse finanziarie della Società appaiono essere utilizzate per acquisire partecipazioni in società allo stato non individuate’. Wadi Ventures ha investito in start-up israeliane che sono facilmente verificabili e individuabili su fonte aperta. Nessuna di queste start-up ha mai avuto nulla a che fare né con il senatore Matteo Renzi né con la Fondazione Open”.

No, il dibattito no!

Com’era naturale e prevedibile, appena si sono riunite per parlare di programmi, le Sardine hanno cominciato a discutere. E, come chiunque discuta, a dividersi. Nulla di strano o scandaloso: un conto è organizzare bellissime manifestazioni di piazza per levare il monopolio a Salvini&C., un altro è mettere nero su bianco un manifesto politico o una dichiarazione d’intenti. La domanda è: ma che bisogno hanno le Sardine di un programma, visto che giustamente non vogliono diventare un partito né presentarsi alle elezioni? Dopo due mesi di vita, tutti già le stressano e le tampinano perché dicano “cosa vogliono fare”, come se quello che già fanno non fosse abbastanza. Noi non abbiamo titoli per dare consigli, per giunta non richiesti. Però al posto di Mattia Santori&C. non partiremmo dal “che fare”, ma dal “che non fare”. E terremmo sempre a mente due definizioni degli italiani. Quella di Rudyard Kipling: “Un italiano, un bel tipo; due italiani, una discussione; tre italiani, tre partiti politici”. E quella di Winston Churchill: “Bizzarro popolo, gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. L’indomani 45 milioni di antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti…”. Anche le Sardine in piazza sono italiane.

Poi, volendo esagerare, mi riguarderei il celebre sketch di Corrado Guzzanti nei panni di Fausto Bertinotti che teorizza la sinistra dei virus: “Dobbiamo continuare a scinderci sempre di più e creare migliaia di microscopici partiti comunisti, indistinguibili l’uno dall’altro, che cambiano continuamente nome e forma e attaccano la destra come insetti invisibili. Compagni, sparite dal mondo del visibile, scindetevi e moltiplicatevi, diventate microorganismi politici neanche rilevabili dall’elettorato. La sinistra deve tornare a essere un mistero: sei tu che devi cercarla, ma lei sparisce continuamente. E poi un giorno, magari fra cent’anni, dopo vari colpi di Stato, una guerra nucleare e il mondo ridotto in macerie, la sinistra tornerà e dirà una cosa fondamentale. Mi ha cercato qualcuno?”. Non c’è miglior analisi degli eterni vizi che hanno dannato la sinistra nostrana: massimalismo, settarismo, velleitarismo, frazionismo, scissionismo e minoritarismo. Ecco: se vogliono durare e continuare a svolgere la loro funzione di anticorpi, le Sardine devono fare l’esatto opposto. E guardarsi da un’altra sindrome: quella di Brian di Nazareth, il personaggio dei Monty Python nato nei giorni di Gesù e, a 33 anni, scambiato per il Messia da una folla di fanatici e dementi solo perché ha detto alcune banalità assolute che quelli interpretano come messaggi divini.

Vedono miracoli dappertutto e si riducono ad adorare come reliquie una zucca vuota e un sandalo puzzolente. Brian prova a esortarli a ragionare con la loro testa, ma niente: più lo fa e più quella massa di superstiziosi e feticisti si convince che è proprio il figlio di Dio. Ecco: le cronache della riunione delle Sardine di domenica nel centro sociale occupato dai senzacasa segnalano tutti questi pericoli incombenti. Tant’è che Mattia Santori ha fatto benissimo a fare il leader e a ricordare chi ha fondato il movimento (lui e tre amici di Bologna); a mettere un po’ d’ordine fra le aspiranti o sedicenti Sardine ansiose di parlare per tutte in tv; e a difendere la scelta iniziale di enunciare pochi principi generali lasciando a chi fa politica l’onere di tradurli in pratica. Una scelta saggiamente “ecumenica” che ha consentito al movimento di portare in decine di piazze centinaia di migliaia di persone e di interessarne milioni, e che già il manifesto contro un non meglio precisato “populismo” e l’enunciazione dei 6 punti di San Giovanni – in parte molto discutibili, per le ragioni esposte sul Fatto da Barbara Spinelli – hanno parzialmente contraddetto. Bene ha fatto Santori, a costo di prendersi del “capetto” da qualche invidioso, a respingere al mittente i consigli tutt’altro che disinteressati delle mosche cocchiere, degli intellettuali organici, degli aspiranti ideologi e degli eterni imbucati a caccia di carri dei vincitori che vorrebbero trasformare un movimento giovane, fresco e creativo come le Sardine in un’associazione seriosa e barbosa di combattenti e reduci, nell’ennesima listarella de sinistra, nel solito gruppuscolo autoreferenziale e cacofonico di tromboni che mettono bocca su tutto senza sapere nulla e abbracciano tutte le cause perse dell’umanità. Qualcuno invocava una vibrante presa di posizione sul caso Regeni, come se chi scende in piazza con le Sardine ne sentisse il bisogno, e come se in Italia qualcuno plaudesse all’uccisione dello studente al Cairo. Altri patrocinavano la causa palestinese, anch’essa nobilissima ma lievemente fuori tema. Alcuni sognavano proclami sull’autonomia differenziata e l’ambiente (e perché non una soluzione facile facile per Ilva e Alitalia?). Altri ancora tuonavano contro i decreti Sicurezza, di cui probabilmente ignorano i contenuti, criticando Santori per aver detto che vanno modificati ma non cancellati perché contengono anche misure sensate. C’era pure chi strillava “riapriamo i porti”, avendolo letto su Repubblica o sul manifesto, che da mesi raccontano la balla dei “porti chiusi” a maggior gloria di Salvini. La risposta del leader non è stata ambigua o paracula, ma onesta e matura: “I temi politici specifici sono complessi, non si possono affrontare in una mattinata in modo adeguato”. Saggia prudenza, per un movimento in fasce strattonato da tutti perché prenda la laurea senz’aver fatto un giorno di asilo. Basta sapere che l’infanzia e l’adolescenza sono stagioni bellissime. Che il candore e l’ingenuità non sono vizi, ma virtù. E che nessuno può obbligare un bambino a invecchiare senza diventare adulto. Che vuoi fare da grande? Il piccolo, tiè.

“Il Boss è garbato, Clapton un amico e io poeta rissoso”

Zucchero: artista vulcanico. Anima inquieta. E miniera vivente di aneddoti seriali.

Ha appena suonato a New York. C’era anche Springsteen.

Un evento di beneficenza organizzato dal mio amico Sting. Conoscevo Bruce, ma non ci avevo mai suonato. È un uomo garbato, di poche parole. Dopo il concerto, mi ha detto: “Great job!”. E mi ha abbracciato. Il massimo dello slancio, per lui.

E Clapton?

Venne a vedermi in incognito nell’88 ad Agrigento, ce lo portò Lory Del Santo. Entrò a fine concerto e disse: “Il mondo ti deve conoscere, mi segui in tour?”. Tra noi è nata così. È un amico vero, spesso se ne sta in Islanda a pescare i salmoni col leader dei Procol Harum.

Nel suo D.O.C., racconta un’umanità intrisa di apparenza.

Sognavo un mondo autentico. Sono cresciuto tra il sacro e il profano, studiavo l’organo in Chiesa e frequentavo i bar del Pci. Mio zio era leninista, litigava sempre col prete, ma poi la domenica lo invitava a casa per non farlo stare solo. Don Camillo e Peppone. Un mondo genuino e vero.

E adesso?

Accettiamo tutto e non scendiamo in piazza per niente. Sì, ora ci sono le Sardine, ma devo capirle: chi sono? Chi c’è dietro? È presto per valutarle. Scenderei in piazza subito per l’ambiente, ma i potenti se ne fregano. Anche con Live8 o “cancella il debito” di Bono non è cambiato un cazzo. E questa impotenza mi fa male.

Si descrive come un cane che torna a casa “a sbranare gli aquiloni”.

Da bambino fui sradicato. Seguii mio padre e da Roncocesi mi trovai a Forte dei Marmi. Non mi sono mai ambientato e ne ho sofferto. Gli aquiloni sono la mia infanzia sbranata.

Lei ha un feeling particolare con Panella.

Non l’ho mai visto dal vivo. Dice che, se dovesse venire da me, sarebbe costretto a viaggiare in treno e vedere le bruttezze del mondo. Lavoriamo così: io gli mando le musiche con un inglese maccheronico, lui usa quel cantato come componente “pretestuale” e dopo poche ore mi manda cinque versioni di testo per ogni musica. Un genio. Io ci lavoro e qua e là abbasso, perché Pasquale vola sempre alto.

De Gregori, Fossati, Guccini.

Tre persone dritte, serie, senza falsità. Come piacciono a me. A De Gregori chiesi il testo di Diamante: parlando di mia nonna, mi serviva un poeta “esterno”. Io sarei stato retorico: le volevo troppo bene. Ci trovammo a Modena e la scrisse in due ore. Fossati l’ho sempre trovato bravissimo e Guccini è il mio fratellone. Vado spesso da lui a Pavana. Quando sua madre Rina era ancora viva, me la ricordo che mi diceva in dialetto: “Adelmo, fai qualcosa con mio figlio, è uno bravo!”. E Francesco che borbottava: “Che due maroni, mamma!”. Lui è bravissimo. E lentissimo.

I suoi sfoghi sono noti.

Ricordo Cala di Volpe. Salgo e mi trovo davanti una tavolata di russi che mangia. Una di loro parlava forte al telefono mentre suonavamo. Dopo un po’ le chiedo di spegnere e lei mi fa il gesto del dito medio. La Santanchè mi grida che sono lì per cantare e non per parlare. Accanto mi pare avesse Totò Cuffaro. Qualcuno mi grida “comunista!”. Mi è partito il poeta dentro e son partito col “monologo del baraccone”. Loro mi tiravano i limoni, io gli lanciavo i Gatorade. Una guerra. Volevo smettere, ma il manager mi ha detto: “Devono ancora pagare!”. Così son risalito.

A marzo partirà con un tour mondiale.

All’inizio era dura. Al Live in Kremlin ebbi un attacco di panico prima di salire. Guardavo la band per nascondermi e il pubblico non applaudiva mai. Gli avevano detto di farlo solo alla fine, ma questo lo scoprii soltanto dopo. Ero convinto di fargli schifo. Per il tributo a Freddie Mercury sudavo freddo. Nel camerino accanto c’erano Annie Lennox e David Bowie. Leggo il cartello: “5 minutes Zucchero”. Penso: “Sto andando al patibolo”. Dovevo attaccare il brano con la chitarra, ma sul palco la chitarra non c’era: tutta Wembley che mi guarda fallire. Osservo con aria atterrita Brian May: lui per fortuna capisce, parte con la chitarra. E mi salva.

Oggi lei ha tutto. O così sembra.

Dal ’90 al ’93 ho visto l’inferno. Il successo mi destabilizzò. Ero a un passo dall’inabissarmi per sempre, mi domandavo perché Miles Davis e Joe Cocker perdessero tempo con me. Non la auguro a nessuno quella depressione lì.

Mai pensato di andare ad abitare all’estero?

Mai. Non posso non stare a Roncacesi, nel mio mondo e fuori dal mondo. Devo però ammettere che in nessun altro Paese come l’Italia vedo questa rassegnazione e questo spegnimento. Com’è che diceva Gaber? Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.

 

L’intervista integrale sarà pubblicata domani sul nostro sito www.ilfattoquotidiano.it

Gino&Michele raccolgono in un volume tutte le facezie

È in libreria per Baldini+Castoldi “Il Formichetti 2020”, il dizionario delle Formiche dal 1990 a oggi. Pubblichiamo alcune delle battute più divertenti raccolte da Gino&Michele.

 

I test d’intelligenza cui venne sottoposto diedero risultati sorprendenti: messo davanti a un cubo di Rubik impiegò solo dieci secondi a inghiottirlo. (Gino & Michele)

Era così ignorante che credeva che la Cedrata fosse un’opera minore del Tassoni. (Enzo Biagi)

Io ho un amico così pigro, così pigro, ma così pigro che ha sposato una donna incinta. (Gino Bramieri)

Cara, dolce, buona Fatina – esordì l’omino – sono povero in canna, non posseggo più nulla, il mio campicello mi è stato tolto, non so più come sfamare i miei figli: piangono e mi chiedono cibo! Quando vedo le loro lacrimucce mi viene un nodo alla gola che mi rende disperato… Allora la Fatina sorrise con infinita dolcezza e con una vocina incantevole, flebile flebile sussurrò nella sua infinita dolcezza: “E chi se ne frega!”. (Paolo Panelli)

Non solo Dio non esiste, ma provate a trovare un idraulico la domenica! (Woody Allen)

Che Paese l’Italia: mi sono distratto un attimo e non è successo niente. (Pericoli & Pirella)

Malaparte è così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto. (Leo Longanesi)

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. (Bertolt Brecht)

Io credo che un artista non si debba mai prostituire se non per denaro. (Beppe Grillo)

Gli anni sembravano non aver avuto alcun effetto su di lei. Era rimasta la solita stronza che conoscevo. (Daniele Luttazzi)

Io e il mio psichiatra abbiamo deciso che non appena sarò pronto prenderò la mia macchina e mi getterò dal ponte di Verrazzano. (Neil Simon)

Il coraggio non mi manca. È la paura che mi frega. (Antonio Albanese)

Tra i 7 e 12 anni ho fatto sesso continuamente, in qualsiasi condizione meteorologica, sotto qualsiasi regime, sempre da solo. Con soddisfazione reciproca, mia e mia. (Paolo Rossi)

Andrei all’inaugurazione di qualsiasi cosa. Anche di una toilette. (Andy Warhol)

Massimo D’Alema mi piace per quella vaga aria da “ma vattela a pià ’n der culo!”. (Sabrina Ferilli)

Tendo a considerare molto intelligente chi mi dà ragione. (Massimo D’Alema)

Se lei vi ha detto: “Toglimiti da davanti, inutile ammasso di guano”, forse non è il caso di impegnarsi con quel mutuo prima casa. (Antonello Dose – Marco Presta)

Non voglio che attori e attrici capiscano le mie opere. Non è necessario. Se solo loro si limitano a fare i suoni richiesti, posso garantire il risultato. (George Bernard Shaw)

La grandezza politica di Berlusconi sta nella sua capacità di anticipare: lui dice le cose almeno due anni prima che i fatti le smentiscano. (Gino & Michele)

I ricchi non conoscono una delle più grandi emozioni dell’intera vita, ossia quella che consiste nel pagare l’ultima rata. (Anonimo)

Grazie a Dio, Gesù era figlio unico. Pensateci, chi avrebbe voluto essere Jerry, il fratello di Gesù? (Robin Williams)

Quando parli lasci il segno, quando ridi lasci il segno, con lo sguardo lasci il segno. Caro il mio Zorro, hai rotto i coglioni! (Flavio Oreglio)

Una volta la mia ragazza mi ha sorpreso mentre, sotto la doccia, mi stavo masturbando. “Non ti vergogni?” mi ha detto. E io: “Perché? Adesso uno non è più neanche libero di lavarsi l’uccello alla velocità che vuole?”. (Citata da Mister Forest “Michele Foresta”)

C’è una cosa per cui romperei con la mia ragazza. È se lei mi sorprendesse con un’altra donna. Quello proprio non lo sopporterei. (Steve Martin)

Astrochiromante diplomata con corso di formazione della Regione Campania predice futuro o effettua pulizie delle scale e finestroni dei palazzi a prezzi interessanti. (Annuncio apparso su un quotidiano napoletano)

Quando una donna nella corsa della vita vi bussa alle spalle non è perché è rimasta indietro, è perché vi ha doppiato. (Gepi)

Supposta di saggezza: qual è stato il primo piatto che Eva ha preparato per Adamo? La mela! Vedi che già allora non aveva voglia di lavorare? (Omen “Raul Cremona”)

Quando ero piccolo tutte le domeniche i miei genitori mi portavano dai nonni. Poi, alla sera, mi venivano a prendere. Sì, però io mi annoiavo a stare tutto il giorno al cimitero. (Natalino Balasso)

Ho visto Oriana Fallaci. Era a spasso con un dobermann, aveva dei denti lunghi così, la bava alla bocca e ringhiava. Allora ho fatto un passo indietro, spaventato. Il dobermann mi fa: “Tranquillo. Ha la museruola”. (Enrico Bertolino)

Gli uomini non si lavano mai; se gli dici: “Amore, ma non te la fai la doccia?”. “No, tanto domani vado in piscina”, oppure: “No, io mi lavo a pezzi”. “Ecco, giusto per sapermi regolare, oggi che pezzo hai scelto?” (Teresa Mannino)

Se fossi cane, bao. Se fossi gatto, miao. Se fossi tardi, ciao. (Brunello Robertetti “Corrado Guzzanti”)

L’oppio afghano ha sconfitto l’Onu

La guerra in Afghanistan è stata un fallimento a tutto campo: militare, politico, umanitario e finanziario. Ma si ostina a non terminare nell’unico modo in cui può cessare: un accordo di pace che apra la strada alla ricostruzione del Paese più tormentato della terra.

È in corso a Doha una trattativa tra il governo americano e i Talebani che dovrebbe portare al ritiro delle truppe di occupazione in cambio della rinuncia al sostegno del terrorismo nel quadro di un governo di unità nazionale che indichi elezioni democratiche e stabilizzi il Paese. Tutto qui. Nessun accenno ad altre questioni, tra cui la produzione dell’ oppio.

È la quinta o la sesta volta in diciannove anni che ci si siede a un tavolo di negoziato sull’Afghanistan. Le trattative precedenti sono fallite a causa dell’incapacità americana di accettare la sconfitta e di lasciare liberi gli afghani di decidere il proprio destino. Ma a ogni tornata, la forza negoziale dei Talebani è cresciuta e ora siamo al punto che agli Stati Uniti non resta che la richiesta di salvare la faccia, andandosene dal Paese senza una contropartita significativa, perché i Talebani poco o nulla hanno a che fare con il terrorismo internazionale.

Ben diverse erano le condizioni poste dalle Nazioni Unite per una rinuncia dei Talebani alle violazioni dei diritti umani e un loro rientro nella legalità internazionale già nel 1997, data della mia prima missione in Afghanistan come Vicesegretario Generale e Direttore del Programma antidroga dell’Onu.

Gli studenti del Corano erano un movimento di ultra-moralizzatori islamici, nato dalle viscere profonde di un paese semidistrutto da decenni di violenza e di caos. Controllavano l’ 80% del territorio e tassavano le coltivazioni di oppio facendo finta che l’Islam le consentisse. Sotto di loro, l’Afghanistan era balzato al primo posto nella lista dei fornitori mondiali, alimentando quasi l’intero mercato europeo dell’eroina.

Perché non provare a chiudere il rubinetto all’origine, dove con poche decine di milioni di euro da destinare alla riconversione delle miserabili economie locali si poteva disseccare il fiume dei 20 miliardi di fatturato criminale generato dal mezzo milione di consumatori europei? Kofi Annan mi autorizzò, prefigurando una trattativa sulla droga e sui diritti delle donne che sarebbe sfociata nel percorso verso un governo semi-decente, da far riconoscere alla comunità internazionale.

Lo zar antidroga di Clinton, un generale digiuno di politica, appoggiò l’iniziativa senza riserve, dato il momentaneo vuoto delle politiche americane nella regione. Solo il governo britannico si oppose, in nome di un patetico “diritto di zona di influenza” sull’Afghanistan – un paese dove gli inglesi, come feci notare all’ambasciatore di sua Maestà la Regina, avevano perso tre guerre. Feci confezionare una proposta di eliminazione totale delle coltivazioni illecite in 10 anni tramite sviluppo alternativo: il prezzo dell’oppio pagato allora ai coltivatori afghani era così irrisorio che l’importo totale era di soli 250 milioni di dollari. E non fu difficile perciò ottenere impegni di sostegno finanziario dai donatori del Programma.

Arrivai a Kandahar, la capitale talebana, nel novembre 1997 preceduto dalla BBC di lingua pashtun che aveva anticipato la mia proposta. Mi trovai di fronte il primo ministro talebano, Rabbani, che mi disse subito di accettare i contenuti del negoziato ma di dissentire sulla tempistica: perché volevo aspettare 10 anni quando – a fronte di un pagamento di 250 milioni di dollari – loro erano in grado di azzerare subito, nell’arco di un solo anno, l’intera produzione del papavero?

Superato il brivido iniziale, gli spiegai che non viaggiavo con i forzieri di Alì Babà al mio seguito, e che la pessima reputazione internazionale che si erano creati con il loro modo di trattare le donne mi avrebbe precluso qualsiasi finanziamento. Se volevano l’ aiuto estero, dovevano dimostrare di cambiare. Arrivammo a un compromesso secondo il quale si sarebbe fatto un esperimento di cooperazione nella zona di Kandahar: l’Onu avrebbe riattivato una grande fabbrica di cotone ferma da qualche anno per mancanza di energia elettrica, e il governo locale avrebbe proibito la coltivazione del papavero in tutto il distretto offrendo ai contadini soluzioni alternative, tra cui l’ impiego nella fabbrica stessa. Dove avrebbero lavorato tutte le donne che era necessario impiegare. Nel frattempo, il governo centrale avrebbe cominciato a dismettere le vessazioni più odiose contro le donne e fatto rispettare la proibizione di coltivare il papavero, appena definito come pianta “intossicante” dai teologi islamici da noi consultati (e finanziati).

L’accordo locale non funzionò perché un investitore straniero residente sul posto fiutò l’affare della fabbrica e l’acquistò escludendoci dalla scena. Lasciammo perdere la cosa, non perché l’investitore si chiamasse Bin Laden, ma perché si erano aperte altre prospettive di negoziato, su cui il governo di Kabul mostrava una certa flessibilità.

Ma i tempi cambiarono nel 1999-2000. Gli Stati Uniti decisero di porre fine al loro flirt con gli eredi dei mujaheddin, e con il consenso dei russi promossero due tornate di sanzioni anti-talebani del Consiglio di Sicurezza. Noi del segretariato Onu non ci opponemmo perché volevamo aumentare la pressione sui Talebani ed eravamo irritati con loro perché avevano scoperto la geopolitica ed avevano iniziato qualche giochetto con i Paesi confinanti per sottrarsi alle nostre determinazioni.

La svolta arrivò nel’ estate del 2001. Messi all’angolo dall’Onu e anche dai Paesi amici, i Talebani decisero, su nostra spinta, di far valere il divieto di coltivazione del papavero in ogni angolo dell’Afghanistan sotto il loro controllo. Nella sorpresa generale, l’interdizione funzionò: la superficie coltivata a papavero passò da 74mila ettari nel 2000 a zero nel 2001: era così dimostrato che è possibile azzerare la produzione di droga. Nel mese di agosto fui contattato dal nuovo capo talebano: avevano bisogno urgente di almeno 50 milioni di dollari per consolidare lo storico risultato.

Gli feci presente che era troppo tardi. Stavo per lasciare l’Onu perché con l’arrivo di Bush e Berlusconi in quell’anno avevo perso il sostegno politico necessario per ottenere un secondo mandato. E loro erano ormai nel mirino dell’America incattivita dei neocon. Due mesi dopo, infatti, la vendetta post 11 Settembre, invece di colpire la matrice saudita degli attentati, si rovesciò proprio su di loro, i Talebani, l’anello debole del radicalismo islamico.

Come poi abbiano fatto i Talebani a risorgere più forti di prima nei decenni successivi, è cosa che solo le politiche americane in Afghanistan possono spiegare.

Misurata dichiara lo “stato d’emergenza”

Misurata, la maggiore potenza militare libica e alleata del governo di Tripoli del premier Fayez al-Sarraj, ha dichiarato lo “stato d’emergenza generale” per frenare l’avanzata del generale Haftar su Tripoli. Inoltre, Misurata invita il Consiglio presidenziale di cui è capo Sarraj a “sfruttare tutte le proprie capacità per risolvere l’ultimo combattimento” e sollecita tutte le città libiche ad “assumere una posizione fissa e chiara” sul conflitto. Si tratta di una risposta ai proclami del generale di Tobruk che aveva auspicato “l’ora zero” per prendere definitivamente la capitale. La mobilitazione di Misurata non è cosa da poco: secondo stime dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, le milizie sono in grado di muovere 7.500 uomini fra cui 6.000 della “Bunyan al Marsus”, la più forte, e la “Brigata 301”. Un numero notevole rispetto all’altra alleata di ferro di Tripoli che è Zintan, con 4.500 uomini armati.

Questo è il contesto in cui il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si reca oggi a Tripoli per incontrare il premier riconosciuto dall’Onu Fayez al-Sarraj in rappresentanza anche di Francia e Germania. La decisione è stata presa la settimana scorsa al termine dell’incontro trilaterale Conte-Macron-Merkel, per trovare una risposta comune al recente mutamento degli attori “esterni” coinvolti nell’escalation della guerra in corso. Il governo di Tripoli si limita a dichiarare che “apprezza quello che l’Italia fa in termini di sostegno politico e di aiuti alla Guardia costiera”.

Nel frattempo sono divenute protagoniste Russia e Turchia. I mercenari e gli addestratori militari di Mosca combattono con Haftar, invece le armi inviate da Ankara sostengono le milizie al fianco di Sarraj, esponente della Fratellanza Musulmana. L’incontro avvenuto domenica a Istanbul tra Sarraj e il presidente turco Erdogan ha dato un’ulteriore accelerazione alla nuova rotta intrapresa dal leader di Tripoli per rimanere sulla poltrona di premier. Erdogan ha ribadito la disponibilitá a mandare non solo nuovi droni armati e artiglieria, ma anche i soldati della Mezzaluna per combattere contro Haftar. Prima di andare al cospetto del Sultano, Sarraj ha fatto tappa a Doha per incontrare i rappresentanti del Qatar. Il ricchissimo paese del Golfo presieduto dall’emiro al-Thani è alleato della Turchia (che ha una base militare proprio in Qatar) anche grazie alla comune appartenenza alla Fratellanza, ed è l’unico del Golfo a sostenere Sarraj. L’Egitto, per ragioni opposte, appoggia Haftar e il presidente al Sisi ha accusato Sarraj di essere a capo non di un’esercito bensì di “milizie composte da terroristi islamici” e ha sottolineato che “l’Egitto ha subito conseguenze negative dal conflitto in Libia”. Al Sisi si riferisce oltre che all’accordo sulla sicurezza anche a quello bilaterale di delimitazione marittima firmato tre settimane fa a Istanbul nel primo faccia a faccia mediatico Erdogan-Sarraj, ritenuto provocatorio anche da Grecia, Cipro-greca e Israele: tra questi ultimi tre paesi è in vigore da tempo un accordo di cooperazione per l’esplorazione dei giacimenti di gas e petrolio sotto le acque marine cipriote, ora annesse unilateralmente da Ankara, che ieri ha scortato fuori dallo specchio di mare in questione una nave da esplorazioni israeliana.

Adieu a Monsieur Pensioni: anche i medici si mobilitano

Il “signor pensioni” di Emmanuel Macron, l’artefice della contestata riforma che ha scatenato degli scioperi a oltranza in Francia, si è dimesso. Da qualche giorno i francesi hanno scoperto che Jean-Paul Delevoye, mentre negli ultimi due anni si occupava del loro sistema pensionistico, svolgeva anche altre attività in conflitto di interesse con la missione al governo. Una situazione così imbarazzante per Macron che ci si chiedeva quanto tempo ancora Delevoye potesse restare “alto commissario”, posto a cui lo stesso Macron lo ha nominato il 3 settembre scorso.

Il momento è critico: oggi, a pochi giorni dal Natale, un nuovo sciopero generale paralizza la Francia già ferma da più di dieci giorni. I parigini sono esausti per il caos nei metrò e sulle strade. Ieri più di 600 km di code si sono formate alle ore di punta intorno alla capitale. Si moltiplicano gli incidenti. Una donna, scendendo dalla sua auto, avrebbe accoltellato due ragazze in pieno centro, a causa di una lite scoppiata per il traffico, ha riportato Le Parisien.

Macron, che da quando è all’Eliseo ha già perso diversi ministri per guai giudiziari, deve nominare un sostituto di Delevoye al più presto e accelerare il dialogo con i sindacati. Negli ultimi giorni il suo “signor pensioni” aveva perso ogni credibilità. Il 9 dicembre Le Parisien ha rivelato i legami del fedele macronista con il mondo delle assicurazioni: Delevoye si era “dimenticato” di dichiarare all’Authority per la trasparenza che era anche, a titolo gratuito, consigliere dell’Istituto di formazione degli assicuratori, organismo vicino alla Federazione delle società di assicurazioni francesi, quelle che stipulano polizze vita a fondo pensione.

A ruota Le Monde ha poi rivelato che Delevoye aveva omesso di dichiarare ben undici altre attività, alcune remunerate. Tra cui quella di presidente del think tank Parallaxe da cui ha preso più di 135 mila euro in due anni, 2018 e 2019. Domani l’Authority per la trasparenza dovrà decidere se trasferire il fascicolo alla procura. Delavoye, 72 anni, ex ministro di Jacques Chirac, e politico di altri tempi, ha commesso almeno due errori: ha continuato a svolgere attività remunerate mentre era al governo, cosa che è vietata dalla Costituzione francese, e ha fornito una dichiarazione incompleta all’Authority. Un organismo nato nel 2013 dopo lo scandalo di Jérôme Cahuzac, il ministro designato per lottare contro l’evasione fiscale ma che nascondeva un conto in Svizzera. “Che Delevoye si porti via anche la sua riforma”, ripetono gli esponenti della France Insoumise, sinistra radicale. Lo sciopero di oggi potrebbe essere ancora più seguito di quello del 5 dicembre. Vi aderisce anche il sindacato moderato Cfdt, favorevole alla pensione “universale a punti” difesa dal governo, ma contrario all’età “d’equilibrio” di 64 anni che, dal 2022, porterebbe i francesi a lavorare oltre l’età pensionabile legale di 62 anni. Scendono nelle strade macchinisti, insegnanti e personale sanitario.

Ma la protesta degli ospedalieri va oltre la riforma delle pensioni. Sono nove mesi che si mobilitano per denunciare la mancanza di risorse in un sistema sanitario per tanto tempo considerato uno dei migliori del mondo e che uno studio pubblicato sulla rivista medica Lancet colloca al 15° posto per qualità dell’assistenza. L’impegno di Macron preso a novembre di fornire finanziamenti ospedalieri e bonus per il personale è stato respinto dai sindacati dei medici perché non sufficiente. Ora, di fronte a un governo “sordo” alle loro rivendicazioni, più di 600 medici dei grandi ospedali parigini hanno minacciato di dimettersi: “L’ospedale pubblico sta morendo”, hanno scritto in un lungo testo sul Journal du Dimanche. Denunciano i tagli di budget, la soppressione di posti letto, la carenza di personale che ormai, dicono, rappresentano un rischio “per la sicurezza dei pazienti”.

Il “green deal” non si farà: tutta colpa di Trump&C.

Gli Stati Uniti di Donald Trump non c’erano. Ma il loro zampino c’entra, e non poco, nel fallimento della Cop25 di Madrid, la conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, che s’è chiusa domenica con un nulla di fatto. Non a caso, l’elenco dei Paesi additati dal Wwf come principali responsabili, India, Giappone, Brasile, Arabia saudita, comprende tutti gli “amichetti” del magnate presidente, cioè gli iper-liberisti nazionalisti Narendra Modi e Shenzo Abe, il piromane dell’Amazzonia Jair Messias Bolsonaro, il principe assassino Mohammed bin Salman.

“I Paesi più inquinanti – denuncia il Wwf – si sono sottratti alla responsabilità di ridurre le emissioni di gas serra” e continuano “ad anteporre i propri interessi alla crisi planetaria”. Nell’attesa che al club dei menefreghisti, più che negazionisti, dell’ambiente si aggiunga la Gran Bretagna di Boris Johnson, appena sganciata dai vincoli europei.

All’elenco dei responsabili del fallimento, va aggiunta la Cina, che pure per molti versi è leader, insieme all’Unione europea, della lotta al riscaldamento globale. E l’Ue stessa, al Vertice europeo del 12 e 13 dicembre, aveva mostrato le sue tare: i 27 non hanno trovato un’intesa unanime sull’obiettivo 2050 “emissioni zero” – a dire no, la Polonia che ancora (soprav)vive di carbone –.

La Cop25 era un seguito della riunione da cui scaturirono nel 2015 gli accordi di Parigi, l’insieme d’intese sul clima più importante finora raggiunto a livello internazionale: indica gli obiettivi Paese per Paese di riduzione delle emissioni inquinanti che contribuiscono al riscaldamento globale e, quindi, ai cambiamenti climatici.

La riunione di Madrid nasceva sotto una cattiva stella. Trasferita – quasi in extremis – da Santiago del Cile, per i fermenti sociali nel Paese latino-americano, aveva caratteristiche inevitabilmente interlocutorie: era la prima del genere dopo l’attuazione dell’uscita dagli accordi di Parigi degli Usa, decisa da tempo, ma effettiva da novembre; e coincideva con il dibattito, non conclusivo, nell’Ue sull’aggiornamento degli obiettivi europei. La spinta dei giovani dei Fridays for Future e della loro leader Greta Thunberg, l’eco ad essa data dai media e l’ipocrita attenzione dei leader avevano avallato attese e speranze. Ma una gran parte degli addetti ai lavori erano arrivati a Madrid già pensando a Glasgow, dove l’anno prossimo ci sarà la Cop26, il cui percorso d’avvicinamento passa per l’Italia – ed è purtroppo facile prevedere che ci sarà chi presenterà quei passi preparatori come decisivi, creando le premesse d’ulteriori delusioni e qualunquismi –. Ora, puntare il dito per il fallimento di Madrid sugli Stati Uniti aventiniani e sulla loro nefasta influenza soprattutto su India, Brasile e Arabia Saudita, è corretto, ma è anche facile e sterile, perché da New Delhi, Brasilia e Ryad non ci si può oggi attendere nulla di meglio e di diverso; tantomeno da Washington, almeno per un anno (e forse per cinque).

Le contraddizioni forse risolvibili sono quelle europee – appuntamento a giugno, quando i leader dell’Unione sono convinti di potere addomesticare le resistenze polacche, dopo esserci già riusciti con quelle ceche e ungheresi – e cinesi. La Cina, che è il Paese con maggiori emissioni al mondo, ha indicato il 2030 come anno di inizio della riduzione delle proprie emissioni: un obiettivo che appare ora ambizioso e difficilmente raggiungibile, perché Pechino, ai temi dei green deal, sta attuando un suo black deal.

Osserva Pietro Quercia, uno specialista del settore: “La fame di energia elettrica del quasi miliardo e mezzo di cinesi è impressionante e per questo il Paese si sta affidando pesantemente al carbone come fonte energetica, la più inquinante tra le fonti fossili. Solo nell’ultimo anno (da gennaio 2018 a giugno 2019) ha aumentato la produzione di elettricità da carbone di circa 43 Gw, pari a 16 volte la centrale italiana più potente. Contemporaneamente, invece, il resto del mondo ha ridotto di 8 Gw la propria dipendenza da questa fonte”.

E la situazione è destinata a peggiorare. Uno studio del Global Energy Monitor, una Ong che segue i progetti energetici a fonti fossili, rileva che Pechino programma altri 148 Gw di capacità a carbone – praticamente pari all’intero insieme di centrali a carbone di tutta l’Unione europea.

Paradossalmente, nota Quercia, la Cina è al primo posto anche per gli investimenti in energia pulita: dal 2010, ha investito 758 miliardi di dollari, facendo meglio in volume complessivo dell’Ue, che si piazza seconda con 700 miliardi, e staccando di gran lunga l’India, ferma a 90 miliardi.

Il conto ai Benetton arriverà dai tribunali Perciò vogliono trattare sulla concessione

I procedimenti giudiziari di Genova e Avellino per i due disastri autostradali che sono costati la vita a 83 persone decideranno la sorte della concessione del gruppo Benetton-Atlantia. Gli analisti che lamentano lo strapotere della magistratura sulla vita politica ed economica della nazione (talvolta retribuiti all’uopo da corrotti e corruttori) dovrebbero soffermarsi sul caso esemplare di Autostrade per l’Italia (Aspi) che descriviamo in queste pagine. Subito dopo il crollo del ponte Morandi (14 agosto 2018) il governo Conte 1 manifestò il fermo proposito di revocare la concessione autostradale ad Aspi per le gravi inadempienze che con tutta evidenza erano causa della morte di 43 persone. Da sedici mesi il governo, che nel frattempo è cambiato e si chiama Conte 2, gira a vuoto per un motivo semplice quanto scandaloso: la convenzione tra Aspi e il governo, che regola la concessione autostradale, prevede che anche in caso di colpa grave, gravissima o scandalosa, cioè in ogni caso immaginabile, la revoca della concessione (che scade nel 2038) implica il pagamento di una penale calcolabile dai 20 miliardi di euro in su. Tutti i giuristi interpellati assicurano che una clausola così sbilanciata a favore del concessionario e a danno dell’interesse pubblico sarebbe illegittima e causa di nullità del contratto. Sarebbe, perché quel contratto è stato approvato con voto del Parlamento, quindi è legge, legittima per definizione fino a quando non venga cassata dalla Corte costituzionale. Fu il governo Berlusconi a imporre nel 2008 e gli altri partiti, tutti abbondantemente finanziati da Aspi, fecero finta di non vedere. Di fronte a questo pantano il governo tentenna, ed ecco che il ruolo della magistratura diventa decisivo.

L’inchiesta della Procura di Genova sul crollo del Morandi sta inchiodando alle sue responsabilità il gruppo Atlantia. Anche il processo di appello per la strage di Avellino, che dovrebbe aprirsi oggi, promette dolori per la popolarità della famiglia Benetton: dei 40 morti caduti con l’autobus dal viadotto Acqualonga nel 2013 si è sempre parlato pochissimo grazie alla pressione sui media di uno dei maggiori investitori pubblicitari italiani. Ma adesso per la reputazione dei Benetton rischia di arrivare dai tribunali il conto salato che il governo non è in grado di presentare. Le notizie sulle acquisizioni della Procura di Genova dipingono l’affresco ripugnante di una grande società di servizi in cui i manager, per paura o per opportunismo, cercano il risparmio sulla manutenzione per ottimizzare i profitti, i dividendi per i Benetton e i loro soci, e i bonus se stessi. A cominciare dal numero uno Giovanni Castellucci. Non è un caso che pochi giorni fa i Benetton abbiano deciso di bloccare il pagamento a Castellucci della seconda rata della sontuosa buonuscita concordata poche settimane fa quando l’hanno cacciato. Pura operazione d’immagine. Di fonte alle gravi responsabilità emergenti dall’inchiesta di Genova, i Benetton scaricano le colpe su Atlantia, Atlantia su Aspi, Aspi sui manager di vertice, i manager di vertice sui manager di seconda linea. Lo stesso copione messo in scena ad Avellino che il processo di appello potrebbe smontare. Il finale è già scritto, e i Benetton lo sanno. Toccherà alla magistratura squadernare le colpe gravi di Atlantia e toccherà ai Benetton fronteggiare la rabbia dell’opinione pubblica. I garantisti a gettone diranno che non tocca alla magistratura governare l’economia, la politica replicherà che non si può governare il capitalismo a colpi di reato. I Benetton dovranno scendere a patti e accettare una profonda revisione della concessione, rinunciando ad almeno un terzo dei 2800 chilometri di rete e a buona parte dei profitti stellari ottenuti finora. Anche perché i viadotti fatiscenti sono ormai decine e i Benetton, o chi per loro, dovranno rifarli spendendo i soldi dei pedaggi anziché metterseli in tasca.