“Sì, ho mentito ai pm” Ora Castellucci & C. rischiano ad Avellino

Giovanni Castellucci teme il processo di secondo grado che dovrebbe iniziare stamane davanti alla Corte d’Appello di Napoli per i 40 morti del viadotto di Acqualonga (Avellino). Sa che da qui potrebbero arrivare brutte notizie. Dopo l’assoluzione in primo grado, sono in cottura istanze della Procura generale e degli avvocati difensori per riaprire il dibattimento, tra le quali quella di acquisire l’imbarazzante telefonata intercettata a Genova dell’ex dirigente Paolo Berti (condannato in primo grado ad Avellino a 5 anni e sei mesi), che rivela a un altro tecnico di aver mentito al processo per non mettere nei guai altre persone. Ci sarà battaglia intorno all’interpretazione dell’articolo 270 del codice di procedura penale sulle intercettazioni provenienti da altra inchiesta, non sempre utilizzabili. Da imputato Berti aveva – e ha – il diritto di mentire, ma l’accusa vuole farla acquisire per dimostrare l’esistenza di una sorta di ‘metodo della menzogna’.

Ma a prescindere da condanne o assoluzioni, con la rinnovazione del dibattimento o una sentenza meno favorevole potrebbero arrivare nuovi argomenti a supporto della decisione del rinnovato management di Autostrade per l’Italia di sospendere all’ex super manager la liquidazione ultramilionaria. L’ex amministratore delegato di Aspi e di Atlantia ne è talmente consapevole che fino a quando ha potuto, ha provato a orientare le strategie difensive del pool di legali di questo processo. Lo ha scoperto – e messo agli atti di un’altra indagine – la Procura di Avellino guidata da Rosario Cantelmo. Come riferito dal Fatto a novembre, Castellucci, pur non avendo più titolo formale dopo le dimissioni a interloquire con gli avvocati, scambiava con loro telefonate e mail “utili ai suoi interessi processuali” nell’ambito delle istanze di Aspi per provare a ottenere il dissequestro delle barriere di un paio di dozzine di viadotti sparpagliati in mezza Italia, e messi ‘al riparo’ su interventi dell’autorità giudiziaria di Avellino con la chiusura delle carreggiate bordo ponte. Provvedimenti motivati da perizie e pareri indipendenti di tecnici esterni e del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici che ritengono i sistemi di ancoraggio dei new jersey scelti dopo il disastro di Avellino, rischiosi come quelli che il 23 luglio 2013 cedettero all’urto del pulmino coi freni rotti.

Le interferenze di Castellucci sono state rivelate da un verbale del direttore legale di Aspi, Amedeo Gagliardi: “Castellucci – ha detto l’avvocato – dopo aver concluso la sua esperienza in Aspi, era molto attento nel seguire il possibile sviluppo che poteva avere ricadute sul processo di appello relativo all’incidente del viadotto di Acqualonga. Castellucci infatti riteneva che le risultanze del procedimento in corso potevano essere oggetto di valutazione in sede di appello”. Dalla documentazione fornita agli inquirenti risulta che Castellucci supervisionò l’iter e diede l’ok finale via mail: “Punto. Ogni altro riferimento è fuorviante. A mio avviso”.

Non appare un comportamento penalmente rilevante. Ma è indicativo delle preoccupazioni dell’ex Ad, che secondo il Gip di Avellino Fabrizio Ciccone era ancora detentore di “una posizione di supremazia all’interno della concessionaria della rete autostradale tanto da prendere decisioni societarie a cui, invece, dovrebbe essere del tutto estraneo”. Il nuovo ad, Roberto Tomasi, sul punto avrebbe aperto un procedimento disciplinare interno all’ufficio legale aziendale. Non è rilevante penalmente, come abbiamo già scritto, nemmeno la telefonata di Berti. Uno di quelli che in ogni caso ha già pagato: Aspi lo ha licenziato.

Il processo che inizia stamane si annuncia agguerrito. Il sostituto pg Stefania Buda intende portare avanti il ricorso della Procura di Avellino, che è convinta della colpevolezza di Castellucci perché secondo loro le barriere insicure di Acqualonga furono il frutto di “una chiara e inequivoca scelta operativa con una contestuale assunzione di responsabilità” e l’ex ad deve assumersi le conseguenze penali dell’approvazione della delibera Cda datata 18 dicembre 2008, che aveva a oggetto, tra l’altro, “il piano pluriennale di riqualifica del bordo laterale”. In cui fu stabilito che non esisteva l’obbligo di sostituire le barriere di seconda generazione, come i new jersey del viadotto irpino. Castellucci è stato assolto con la motivazione che la responsabilità della manutenzione era esclusiva in capo ai dirigenti di Tronco come Berti (tutti condannati a pene tra i cinque e i sei anni).

Così Atlantia è alle corde: 4 fascicoli e 100 indagati

Il muro è crollato a settembre. Con l’ordinanza della Procura di Genova che chiedeva misure cautelari e interdittive per dirigenti di Autostrade e Spea, la controllata che si occupa di sicurezza. Quelle 106 pagine hanno fatto capire che i pm Massimo Terrile e Walter Cotugno avevano raccolto un mare di materiale. Oggi i fascicoli ormai sono quattro, con almeno cento nomi iscritti (alcuni citati in diverse inchieste). Ma partiamo dall’inchiesta madre, quella sul Morandi: qui gli indagati sono 74, più due società (Aspi e Spea). L’ultimo tassello è emerso poche settimane fa: il “Catalogo dei rischi” (un documento di Autostrade sulla sicurezza delle opere) dal 2014 al 2016 aveva parlato di un “rischio crollo” per il Morandi. L’analisi – come raccontato da Repubblica – sarebbe passata in vari cda.

Dopo il 2016, però, nel” Catalogo” il giudizio passa da “rischio crollo” a “rischio di perdita di stabilità”. Ma le indagini e le ispezioni tecniche hanno rivelato altri elementi che rinforzano la ricostruzione dei pm. Primo, dal 2013 non venivano effettuate ispezioni nei cassoni, quelle paratie poste sotto il piano stradale che potrebbero essere la causa del disastro. A ipotizzarlo, oltre ai periti della Procura, sono gli indagati in un’intercettazione: “…O che il cassone ha mollato, perché metti che le campane, metti la sfiga che sulle campane ci percolava dell’acqua che entra in soletta, te l’hanno corroso, vum… ha mollato subito”. Secondo: dal 2016 i sensori per rilevare eventuali cedimenti del ponte erano fuori uso. Terzo: la Procura vuole sapere perché il report di sicurezza prima del crollo attribuisse al Morandi un rassicurante voto 40 mentre i tecnici del ministero, esaminando il materiale raccolto dopo il disastro, gli hanno dato almeno 60 (più alto il voto, maggiori sono i rischi). Da qui parte la seconda inchiesta, quella per falso sui report taroccati e i cassoni degli altri viadotti (altri venti indagati).

I primi a finire sotto la lente di ingrandimento sono stati il Pecetti (A26, vicino al Morandi) e il Paolillo (a Cerignola, Puglia). E proprio dalle carte depositate per quell’inchiesta emergono frasi ormai diventate famose: “Come si fa a chiedere una verifica su un manufatto ammalorato… con un trasporto eccezionale che lo porta al limite della resistenza, con un ponte che è appena venuto giù… Non è possibile una superficialità così spinta dopo il 14 agosto, cioè vuol dire che non hanno capito veramente un cazzo… eticamente”. Dice così Andrea Indovino, ingegnere di Spea.

Ma ci sono anche intercettazioni scomode per le società, come quelle di Michele Donferri che per Autostrade si occupava della manutenzione: “Devo spendere il meno possibile… sono entrati i tedeschi… a te non te ne frega un cazzo sono entrati cinesi… devo ridurre al massimo i costi… e devo essere intelligente de porta’ alla fine della concessione”.

Ancora Donferri, di fronte a un report dove molte strutture riportavano come voto di sicurezza 50 (alto, sono a rischio), sbotta: “Me li dovete toglie tutti… li riscrivete e fate Pescara a 40… perché il danno di immagine è un problema di governance”. Scrivono i magistrati: “Si evince che la logica che guida le scelte e indirizza i comportamenti dei soggetti che operano in Aspi e Spea… è quella strettamente commerciale, che prevale sulla finalità di garantire la sicurezza delle infrastrutture, in spregio all’affidamento di un pubblico servizio”. A colpire gli investigatori, guidati dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco, sono anche i voti di sicurezza assegnati ai viadotti: in quattro casi sono peggiorati improvvisamente nel giro di tre mesi, in alcuni casi passando da 40 addirittura a 70 (limitazioni immediate del traffico o chiusura). Da qui i magistrati hanno ordinato – per le indagini, ma anche per tutelare la pubblica incolumità – controlli a tappeto sui ponti autostradali liguri.

Sulla A26 è stata necessaria una temporanea chiusura dell’autostrada; su diversi viadotti della A7 (Genova-Milano) si circola solo su una corsia per senso di marcia. Sono emerse infiltrazioni “preoccupanti” anche sulla A12 (Genova-Livorno) e sulla A10 (Genova-Savona).

Intanto altre inchieste si aprono: l’ultima è quella sulle barriere fonoassorbenti installate sulle autostrade liguri e cadute sul percorso mettendo a rischio l’incolumità degli automobilisti. La Procura ha ipotizzato i reati di frode in pubbliche forniture e attentato alla sicurezza dei trasporti. Altri 4 indagati. Altre perquisizioni. Dalla corrispondenza – tra Autostrade, Spea e Pavimental – nei giorni del distacco dei pannelli sarebbe emerso uno scambio di mail nel quale venivano lamentati difetti di progettazione, fabbricazione e problemi di installazione del materiale.

Mentre Autostrade cerca di correre ai ripari con oltre cento cantieri che hanno bloccato la circolazione intorno a Genova. Importo totale: quasi 9 milioni, poco più della metà della stratosferica liquidazione prevista per l’ex ad di Atlantia, Giovanni Castellucci (indagato): 13 milioni di cui la società ha appena sospeso il pagamento della seconda tranche.

Presto potrebbe aprirsi un nuovo fronte: quello sul crollo del viadotto sulla A6, la Savona-Torino, avvenuto a novembre. In questo caso il concessionario non era Autostrade, ma il gruppo Gavio. Indagano la Procura e la Finanza di Savona. Sul registro degli indagati non compare ancora nessun nome.

40 anni di Rai3 allo specchio: ne vale la pena, diaspora inclusa

La tv non fa che parlare di sé, ma la puntata della Grande storia dedicata ai quarant’anni di Rai3 è un raro caso in cui è valsa la pena di guardarsi allo specchio. Angelo Guglielmi, direttore di rete dal 1987 al 1994 fu l’uomo giusto al momento giusto nel posto sbagliato. Giusto, perché arrivando dalla letteratura senza complessi di superiorità seppe creare un corto circuito tra mezzo popolare e “la realtà raccontata con la realtà” (il critico si fa narratore). Sbagliato, perché la Rai viveva una profonda crisi d’identità, ma questa spianò la via a un progetto editoriale il cui influsso sopravvive, nel bene e nel male, nella Tv epigonale di oggi; la trasformazione in genere televisivo della cronaca (Telefono giallo) e della politica (Samarcanda, Profondo Nord), il bar sport e il fantacalcio quali archetipi del talk-show (Il processo del lunedì), l’indagine dei luoghi oscuri del video (Blob). Tutto affidato in molti casi a debuttanti assoluti. Se il fantasma di Rai3 vive e lotta ancora insieme a noi, è fatale interrogarsi sull’esito della sua diaspora. C’è chi crede fermamente nella relatività, il tempo è un’illusione (Corrado Augias), chi tende al vintage di se stessa (Serena Dandini), chi ha venduto l’anima a Mediaset (Chiambretti), chi ha barattato la cronaca per l’ideologia (Lerner), chi si è ritirato in meditazione (Santoro), chi esibisce una coriacea coerenza (Leosini). Ma la più coerente di tutti è stata Donatella Raffai, sparita nel nulla: chi l’ha vista?

Harakiri di Senaldi: non essere Feltri, ma pagare per lui

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Ho visto Giuseppe Cruciani entrare in studio dalla D’Urso vestito come una sfera umana, denti gialli e capelli-blob cementati con la sugna, per giunta impacchettato come una caramella sporca da un accappatoio bianco-incubo che voleva forse omaggiare Isaac Asimov, ma pareva disegnato dal Poro Schifoso in persona. Ho visto Matteo Renzi, e già questo era tremendo, ma l’ho visto scimmiottare il cazzaro verde anche nei post bulimico-pancioni per farci sapere che i Nutella Biscuits sono “tanta roba”. Ho visto Mario Giordano mangiare sardine con Giorgia Meloni, e il bello è che nel farlo davano come la sensazione di sentirsi simpatici. Ho visto Maria Teresa Meli raggiungere vette di Meli (cioè di niente) tali da far sembrare quasi credibile Matteo Salvini (ho detto “quasi”). Ho visto Claudia Fusani, riesumata credo dall’ultimo fustino del Tide, ridursi una volta di più a fiancheggiatrice di terza fila di quel che resta di un marginale cazzaro rosé.

Ma tutto questo se ne andrà come lacrime nella pioggia, assieme alle navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e ai raggi B balenati nel buio vicino alle porte di Tannhäuser, se rapportato al martirio che si è autoimposto il poro Senaldi Pietro martedì scorso da Floris. Una macellazione a cielo aperto. Il sedicente scriba ha praticato troppo a lungo uno stentato mirror climbing per difendere l’articolo orrendamente sessista da lui pubblicato su Nilde Iotti, per poi perire mediaticamente sotto la mitraglia di Elsa Fornero (avessi detto Rosa Luxemburg). E più in generale sotto i colpi della ormai morta decenza minima. È stato uno degli harakiri più avvilenti e stordenti degli ultimi anni, paragonabile addirittura a quello della Borgonzoni con Calenda, e il fatto che Sallusti sia corso in soccorso del poro Senaldi non è stato che il bacio della morte.

Il poro Senaldi, nello sgangherato ecosistema giornalistico, serve unicamente come foglia di fico di Feltri, che con una mano sdraia l’ultimo gin e con l’altra butta là l’ennesimo articolo a casaccio per poi dar la colpa al Senaldi. Vittorio fa la cazzata e i ceffoni li prende Pietro: funziona così. Non pago della mattanza patita a DiMartedì, dove era riuscito pure a scimmiottare odiosamente Ilaria Sotis, poche ore dopo il poro Senaldi ha concesso la non richiesta politica. Ancora a La7 (stavolta L’Aria che tira), ancora con Concita De Gregorio. Stavolta il poro Senaldi era in collegamento, ma la lontananza non l’ha aiutato granché. Chiamato a dar conto di come lui o i “giornalisti” di Libero possano mai sapere se Nilde Iotti fosse brava a letto, considerato poi che a giudicare dalle loro fattezze sghembe l’ultima volta che hanno fatto sesso è forse coincisa con la conferenza di Jalta, il poro Senaldi ha sconfinato con agio indefesso nella leggenda imperitura. Ascoltiamolo: “Non posso sapere se Nilde Iotti era brava a letto, però immagino che per aver indotto il segretario del Partito Comunista a mollare moglie e figlio autistico…”. Gianni Cuperlo, seduto accanto alla De Gregorio, ha fatto per andarsene. Schifato e disgustato. Poi ci ha ripensato, conscio che dare importanza a certe bocche non è che una colpevole perdita di tempo. Il giornalismo e la tivù son messi male, ma forse Libero e Senaldi esagerano. Anzi tolgo il forse.

A Torino i Beni comuni possono essere di tutti

Se si volessero affrontare seriamente i problemi non si polemizzerebbe sul luogo in cui il movimento delle Sardine ha tenuto la sua prima riunione nazionale – lo Spin Time Labs di Roma, luogo occupato anche a scopo abitativo – ma su cosa rappresentano luoghi come quello.

E per farlo sarebbe molto interessante andarsi a leggere il nuovo regolamento comunale “Per il governo dei Beni comuni urbani”, approvato dal Comune di Torino il 2 dicembre.

Si tratta di beni comuni “emergenti, in quanto funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali delle persone nel loro contesto ecologico e urbano”: nel caso specifico torinese si è partiti dalla necessità di regolare la destinazione della Cavallerizza Reale, occupata nel 2014 e gestita da un comitato di artisti, militanti e intellettuali e ancora senza una sistemazione finale. Ma vale per ogni bene “pubblico o privato che sia riconosciuto comune e pertanto oggetto di attività di cura e gestione e/o rigenerazione”.

Il regolamento, dopo aver individuato i principi generali a cui deve ispirarsi la gestione partecipata dei Beni comuni – trasparenza, inclusione, pari opportunità, accesso, etc. – e dopo aver incaricato la Giunta comunale di stilare un elenco di immobili “che versino in stato di parziale o totale inutilizzo” e che “si prestano a interventi di rigenerazione, cura e gestione da realizzarsi mediante forme di governo condiviso o di auto-governo” individua quest’ultime in: “Le forme dell’uso civico e collettivo urbano, della gestione collettiva civica e della Fondazione Beni Comuni”.

Sembra un linguaggio giuridico complesso, che tra l’altro si avvale del contributo di Ugo Mattei, non solo giurista ma promotore del Comitato Rodotà sui Beni comuni, eppure si tratta di proposte semplici. Le forme dell’uso civico sono state sperimentate a Napoli nel caso dell’ex Asilo Filangieri, anch’essa occupazione culturale e artistica, concessa dal Comune a una comunità di gestione stilando insieme una “Carta dell’autogoverno”. La proprietà resta al comune, “l’uso” al comitato di gestione. Nel regolamento torinese l’iniziativa dell’uso civico è assunta dalla Città, mentre quando viene assunta dalla comunità di riferimento assume la veste di “Gestione collettiva civica”.

Ma è il terzo strumento, la Fondazione Beni Comuni, che costituisce la novità più rilevante e, non a caso, anche la più discussa. Secondo questo articolo, infatti, la Città può affidare “in usufrutto di breve durata i beni comuni urbani” a una apposita Fondazione. Anche in questo caso, dice il regolamento, “il bene resta patrimonio della Città, che si impegna per questo stesso periodo a non alienarlo, non cartolarizzarlo oppure a non darlo in garanzia per assolvere ai suoi eventuali debiti”. Quindi, a non privatizzarlo. Non solo, “al termine del periodo di affidamento in usufrutto, il bene può essere conferito in via definitiva alla Fondazione”.

Mattei fa risalire questa modalità all’esperienza romana del Teatro Valle che costituì la Fondazione, ma che poi, anche per le pressioni della Giunta che temeva l’intervento della Corte dei conti, preferì “auto-sgomberarsi” (e non risulta che il Teatro Valle abbia migliorato la sua situazione”.

La Fondazione Beni comuni viene contestata perché in qualche modo reintroduce la privatizzazione, sia pure in forma anomala e paradossale, e quindi il “rischio” del mercato. “Ma si tratta di una modalità – spiega ancora Mattei – che conferisce legittimità a qualcosa, le occupazioni, le attività di autorecupero, la gestione collettiva di beni comuni, che è ancora ‘illegale’”. E in questo sforzo di legittimare la cura del “comune”, in realtà c’è una risorsa di democrazia e partecipazione che andrebbe discussa sul serio.

Sardine, Cosa non va nel programma

Sabato a San Giovanni le Sardine hanno annunciato il loro programma, non economico né sociale, ma incentrato quasi interamente sulla comunicazione e sull’uso nonché controllo dei social network.

Essendomi occupata di questo tema nella scorsa legislatura europea, come relatore della risoluzione dell’aprile 2018 sul pluralismo e la libertà dei media nell’Unione europea, non posso fare a meno di esprimere disagio. Ricordo che le principali obiezioni a una piena libertà dei media e a un più scrupoloso rispetto del diritto internazionale sono venute – durante i negoziati che ho condotto con i vari gruppi del Parlamento prima che la relazione venisse adottata – dal Partito popolare, dai Conservatori e da buona parte dei Socialisti e dei Liberali. Le obiezioni non mi hanno permesso, tra l’altro, di mantenere nella sua integralità il paragrafo sul reato di diffamazione, di cui chiedevo la depenalizzazione.

Meglio dunque i silenzi e il vuoto di messaggio delle prime manifestazioni di piazza che la nuova Costituzione distopica “pretesa” dalle Sardine (ma da chi, fra le Sardine?) nei 6 punti indicati a San Giovanni. Eccoli elencati, in ordine di gravità.

Il numero 5 (“La violenza verbale venga equiparata a quella fisica”) non resisterebbe al giudizio di nessuna Corte: internazionale (Onu), europea o nazionale. Da anni – e soprattutto dall’inizio delle guerre contro il terrorismo – le Corti discutono e sentenziano su quale violenza sia condannabile, nei media offline e online: i verdetti invariabilmente e puntigliosamente separano la violenza verbale da quella fisica, pur fissando alcuni paletti molto ben definiti alla violenza verbale (in sostanza: la violenza che prelude inequivocabilmente a IMMINENTI violenze fisiche). L’equiparazione è un temibile novum giuridico, da evitare a tutti i costi e in tutte le sedi. Il reato di diffamazione, criticato da diverse Corti europee e internazionali che raccomandano di sostituirlo con l’imputazione di illecito amministrativo, viene rafforzato.

I numeri 3 e 4 promettono male, contaminati come sono, e forzatamente, dal numero 5 che introduce il novum giuridico sulla violenza. Il numero 3 pretende “trasparenza nell’uso che la politica fa dei social network”. Il numero 4 pretende che “il mondo dell’informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti”. Si profila l’aspirazione a un vasto controllo/soppressione dei media e dei loro contenuti, soprattutto online. Tutto quello che viene ritenuto violento (da chi? Da quale istanza?) è passibile di azioni che limitano la libertà di diffondere e ricevere informazioni.

Il numero 6 pretende l’abrogazione dei decreti Sicurezza. È l’unico punto veramente sensato, ma se la pretesa sulla violenza contenuta nel numero 5 (applicata in vari ambiti: media online e offline, manifestazioni pubbliche etc.) viene inserita nei decreti riscritti, è meglio forse tenersi quelli di Salvini.

Il numero 2 (“Chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali”) blinda le oligarchie e non le obbliga, come invece queste dovrebbero, a comunicare tous azimuts, anziché solo nei canali istituzionali. La comunicazione limitata le protegge da ogni sorta di attacco esterno, rinchiudendole in un recinto separato.

Il numero 1 recita: “Chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare”. È immaginabile che si faccia qui riferimento alle attività non istituzionali di Salvini ministro dell’Interno. Ma la pretesa viene generalizzata e ha un suono inquietante, soprattutto se legata al numero 2.

Mail box

 

La cinica e miope indifferenza dei potenti alla Cop di Madrid

Chiedo se il nostro giornale, il Fatto, possa dare voce, attraverso una pagina dedicata, a tutti quelli che come me sono indignati per l’assoluta indifferenza dimostrata a Madrid. Tutte quelle persone non hanno capito veramente la gravità dello stato di salute della nostra Terra. Si sono trovati per non fare nulla. Non si sono ricordati di noi. Non hanno capito nulla. Io potrei come loro non indignarmi, anzi fregarmene, tanto ormai io sono tra quei fortunati che hanno goduto dell’acqua pulita, dell’aria buona e del cibo genuino, quindi potrei disinteressarmi di Madrid. Quello che mi chiedo e che non riesco a capire è come fanno quelle persone a non fare nulla, a non arrivare a una soluzione e poi tornare a casa e abbracciare i loro figli. Mi chiedo come. Tra poco non potranno più raccontare loro delle storie, perché non ci sarà un lieto fine. Ci sarà solo una fine… e sarà quella che non volevamo vedere. È ora che i giovani prendano una vera posizione e siano loro i primi a prendersi sul serio, boicottando il superfluo. Ragazzi, solo voi potete cambiare colore e passare con il verde.

Gianni dal Corso

 

Transizione ecologica, i costi ancora troppo alti per la Cina

Il fallimento della Cop25 è un evento gravissimo che merita un doveroso approfondimento. Infatti i delegati dei paesi partecipanti non hanno trovato un accordo, osteggiati soprattutto dai paesi in via di sviluppo. La complessità dell’argomento non va certo sottovalutata perché implica ragioni politiche, economiche e tecnologiche. Vorrei perciò evidenziarne alcune. Il primo Paese al mondo per emissioni di anidride carbonica è ovviamente la Repubblica popolare cinese, che non solo vanta questo triste primato, ma sta attualmente costruendo nuove centrali elettriche a carbone che si aggiungono a quelle già esistenti. Inoltre sta realizzando altre centrali a carbone in paesi in via di sviluppo come il Pakistan. La Cina è anche il primo consumatore al mondo di petrolio e contribuisce alle esplorazioni petrolifere per la ricerca di nuovi giacimenti. Purtroppo non manca solo la volontà politica di sostituire le fonti di energia fossile con le rinnovabili, ma sono anche le questioni economiche e tecnologiche che rendono la transizione difficile, se non impossibile. Le attuali fonti di energia rinnovabili costano decine di volte di più rispetto agli idrocarburi e al carbone. La Cina non può permettersi un aumento dei costi dell’energia perché così non potrebbe più produrre a basso costo, e rendere più convenienti le proprie merci. Si capisce che è perciò necessario investire di più nella ricerca scientifica, per migliorare la produzione di energie alternative, o trovare sistemi per l’eliminazione dell’anidride carbonica, e ciò bisogna assolutamente farlo perché i mezzi tecnici per contrastare l’aumento delle emissioni di gas serra attualmente non esistono ancora.

Cristiano Martorella

 

Santori & C., il rischio è di finire ostaggio dei gattopardi

Le Sardine sono la dimostrazione di come sia facile radunare moltissime persone andando per esclusione. Nelle loro piazze non troveremo evasori, mazzettari e ladri in generale, ma nemmeno gli illusi che ripongono nell’uomo forte la speranza di risolvere i loro problemi. Mi domando se tra loro manifestino i poveri o i disperati veri, quelli del reddito di cittadinanza o quelli che non hanno nemmeno la capacità di accedervi: la risposta è no, questa gente o non manifesta o è costretta a schierarsi con le categorie sopra elencate. E allora chi rimane? La sinistra borghese che tenta il lifting senza Renzi e insieme ai 5 Stelle, delusi ed ex di sinistra che ritornano a sinistra?

L’Italia ce l’aveva, un Movimento in grado di contrastare in qualche modo le sue storture, ma tutto è finito nel momento in cui è avvenuta l’omologazione al sistema, che lo ha inglobato prima con la destra, poi – il colpo di grazia – con la pseudo-sinistra.

La mia opinione è che le Sardine saranno strumentalizzate a completamento dell’opera. II sistema, l’establishment, chiamatelo come volete, tenterà, attraverso questa spontanea e ingenua partecipazione, di riportare il Paese nel marcio dei suoi storici schieramenti, secondo il sempre indiscusso detto “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, richiudendo definitivamente quella famosa scatoletta, togliendo il tonno e stipando al suo posto le Sardine.

Maurizio Contigiani

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo da voi pubblicato il 14 dicembre dal titolo “Finanziatori convinti e benefattori (quasi) per caso” a firma di Vincenzo Iurillo, vorremmo chiarire, per evitare qualsiasi futuro fraintendimento seppur non vi siano passaggi inesatti nel pezzo, che Kairos non ha mai finanziato in alcun modo la Fondazione Open. Le donazioni sono state fatte da Paolo Basilico a titolo personale.

Cristina Fossati, Image Building

 

Domenica 15 dicembre abbiamo pubblicato per errore nella grafica della cena della fondazione renziana Open la foto di Fabrizio Palermo di Cassa depositi e prestiti al posto di quella di Luca Palermo, ex ad di Nexive e ora di Edenred. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Fq

Il lato oscuro del botteghino: è l’ultimo capitolo, e pure senza forza

Gentile Pontiggia, sono madre di un’adolescente innamorata della saga di “Star Wars”. Ho anni sufficienti per ricordarmi il primo film e ho i capelli abbastanza bianchi da non poterne più di trilogie, sequel, prequel e quanto ingrassi il botteghino a spese nostre. Siccome ho letto che questa settimana uscirà l’ultimo (si spera) capitolo di questa saga che definire longeva sarebbe un eufemismo, in attesa di stappare una bottiglia le chiedo: cosa dobbiamo aspettarci? Riusciranno i nostri eroi a comunicarci un briciolo delle emozioni dell’inizio? Oppure ci porteremo in sala le cuffiette per ascoltare musica in attesa della fine?

Laura Rogadio

Cara Laura, che lo Sforzo sia con te! Grande è la confusione sotto il cielo, ma non ce ne voglia Mao, la situazione potrebbe non essere eccellente. Per i mass media sì, basti compulsare online: da “un ostello a tema in Islanda” agli pseudo-tutorial “come guardare i film della saga”, passando per “‘L’ascesa di Skywalker’ chiude con un ‘finale degno’” e “JJ Abrams affronta le polemiche della fandom”, l’attesa parrebbe tale, ma lontani da clickbait e proselitismo lo è davvero? A chiedere – l’ho fatto – ai fan, pardon, agli esegeti delle “Guerre stellari” la realtà è diversa, la frenesia residuale, l’hype questa sconosciuta: la colonna sonora è di John Williams, ma pare più acconcio il 117° singolo di Mina, scritto da Cristiano Malgioglio e musicato da Alberto Anelli, “L’importante è finire”. Siamo al capitolo finale della terza trilogia, la perfezione dovrebbe essere d’obbligo, addirittura elevata a potenza, però l’epilogo di JJ Abrams non arriverà fuori tempo massimo, ma con le pile scariche sì: gli spiegoni nerd la fanno da padrone, il grande futuro è alle spalle, neanche la sceneggiatura rubata fa primavera, l’unico attore eccellente della compagnia, Adam Driver, trascende il suo personaggio – a proposito, qual è? Si sta, dunque, come d’autunno sugli alberi le foglie, e il problema è che manca il vento, l’emozione dell’inizio e pure quella della fine: vince l’accanimento terapeutico, spremere lo spettatore perché il botteghino s’ingrassi, sarà così anche stavolta? Da “Una nuova speranza” del 1977 sono passati quarantadue anni, nuova non è più, speranza nemmeno: la coazione a ripetere ha messo a dura prova la Resistenza, la nostra, e anche Chewbacca non si sente tanto bene. “Star Wars: L’ascesa di Skywalker” arriva nelle nostre sale domani, le recensioni – sulla carta stampata – solo il giorno dopo: una buona notizia c’è, forse.

Federico Pontiggia

“Metalli pesanti nel sangue dei malati”

Le tragiche conseguenze sulla salute pubblica delle attività criminali perpetrate nella Terra dei Fuochi non possono più essere negate. Lo dicono i dati. Nel sangue dei residenti malati oncologici ci sono alti livelli di metalli pesanti. Nove su 95 sono minori. Vivono tra Napoli e Caserta, dove per decenni la camorra ha fatto incetta di rifiuti tossici per poi bruciarli. Lo ha reso noto ieri alla Camera il team di ricercatori guidati dal professor Antonio Giordano dello Sbarro Health Organization, che ha collaborato con il dipartimento di Farmacia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.

Lo studio pilota fa parte del progetto Veritas, promosso dall’associazione A Sud e dalla Rete di cittadinanza e comunità. I risultati, emersi dall’analisi del dosaggio di metalli pesanti cancerogeni e inquinanti organici persistenti nel sangue di 95 pazienti oncologici e di 27 soggetti sani, sono stati pubblicati sul Journal Cellular Physiology.

“Abbiamo osservato alti livelli di concentrazione ematica di metalli pesanti in alcuni comuni, come Pianura, Giugliano, Qualiano e Castel Volturno”, fa sapere la dottoressa Iris Maria Forte dell’Istituto nazionale tumori “Fondazione Pascale”. Significativo è il caso di Giugliano, dove nel sangue dei pazienti oncologici è stata riscontrata un’elevata presenza di cadmio e mercurio. Si conferma ancora una volta il nesso causale tra sviluppo tumorale ed esposizione a questi metalli. Secondo il professor Enrico Bucci dello Sbarro Institute, “il superamento costante dei limiti di legge anche nel piccolo numero di individui esaminati è un fatto di per sé allarmante che richiede l’immediata estensione dell’analisi ad una popolazione più ampia”. Già nel 2016 l’Istituto Superiore della Sanità aveva reso noti dati inquietanti: in provincia di Napoli l’incidenza tumorale e la mortalità supera la media nazionale tra gli uomini dell’11% e tra le donne del 9. I bambini nel primo anno di età ricoverati per tumore superano del 51% i coetanei di altre zone d’Italia. Il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri, che ha partecipato alla presentazione dello studio alla Camera, ha annunciato per la prima settimana di gennaio un appuntamento con i ricercatori e il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. Quest’ultimo ha ribadito che “ambiente e salute sono in una correlazione strettissima”. “Dobbiamo debellare quest’enorme piaga”.

“Eseguiti gli ordini”. Ora i carabinieri fanno scaricabarile

Il processo per il depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi si è appena aperto e già si capisce che tira aria di battaglia a colpi di scaricabarile tra le difese degli otto carabinieri di alto e basso grado. Da imputati hanno chiesto di costituirsi parte civile l’ex comandate della stazione di Tor Sapienza, Massimiliano Colombo Labriola, e l’ex carabiniere della stessa stazione, Francesco Di Sano. Sono accusati di falso per le modifiche a due note sullo stato di salute di Cucchi, arrestato a Roma la notte del 15 ottobre 2009, portato per una notte a Tor Sapienza e morto il 22 all’ospedale Pertini in conseguenza al pestaggio subito, secondo la sentenza di primo grado, da due militari, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati in primo grado a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale.

“Non sapevamo del pestaggio. Dopo Cucchi, le vittime siamo noi”, dicono Di Sano e Labriola attraverso l’avvocato Giorgio Carta. Sostengono che il 27 ottobre 2009, quando l’allora maggiore Luciano Soligo, comandate della stazione Montesacro, si presenta a Tor Sapienza “ci fu una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all’epoca non capivamo. Oggi sappiamo tutto e per questo abbiamo deciso di costituirci parte civile. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l’abbiamo subita, erano ordini”. Cioè, l’ordine di aggiustare le relazioni di servizio sarebbe partito da “chi sapeva qualcosa di più”, Soligo e Francesco Cavallo, all’epoca tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma. Anche loro sotto processo.

“Colombo e Di Sano, insiste la difesa, hanno subito un danno di immagine, sono nella stessa condizione degli agenti penitenziari”. Il riferimento è ai tre agenti che finirono ingiustamente imputati al primo processo, poi sempre assolti. Ora sono parti civili come al processo per l’omicidio di Cucchi. Per corroborare la richiesta di costituzione di parte civile, il difensore di Di Sano, fa la sua ricostruzione dei fatti: “Adesso non parti e modifichi l’annotazione di servizio”, avrebbe detto l’attuale tenente colonnello Soligo al carabiniere.

Di Sano ha sostenuto con il suo avvocato che “quel giorno era in partenza per la Sicilia, ma fu contattato da Soligo affinché modificasse la nota”. Colombo Labriola e Di Sano, ha proseguito l’avvocato Carta, “non sapevano niente del pestaggio e Labriola non fu neppure informato quando Cucchi fu portato nella sua stazione”.

Infine, la conclusione che scarica tutto sui due superiori: “Non c’è alcun falso, se non avessero eseguito gli ordini sarebbero stati puniti con reato militare che prevede la reclusione. Di Sano e Labriola non avevano nessun potere decisionale, non erano di pari rango a Cavallo e Soligo”. Dunque, “dovevano ubbidire”.

Già al processo per l’omicidio di Cucchi una parte dei fatti era emersa. Di Sano, il 17 aprile 2018, aveva ammesso di aver taroccato la nota ma non fece i nomi: “Mi chiesero di cambiarla, non ricordo per certo chi è stato, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico”.

Colombo Labriola, a ottobre 2018, disse ai giudici che Soligo, quando si presenta a Tor Sapienza parla al telefono, dice in continuazione: “Sì, signor Colonnello”, che poteva essere sia l’allora colonnello Alessandro Casarsa, oggi generale, imputato come ex comandante del Gruppo Roma, sia il tenente Colonnello Cavallo.

Labriola testimoniò pure di aver aperto i file delle note di Gianluca Colicchio (modificata a sua insaputa) e di Di Sano “al maggiore Soligo e poi li trasmisi a Cavallo”, che gli rispose via email: “Meglio così”.

Sempre ieri, Diego Perugini, avvocato di parte civile di un agente della polizia penitenziaria, ha chiesto di poter citare come responsabile civile (in vista di una richiesta di risarcimento) il ministero della Difesa “in quanto organo di riferimento dell’Arma dei carabinieri”. D’accordo i legali degli altri due agenti. Il ministero e l’Arma sono anche parte civile. La giudice monocratica Giulia Cavallone si è riservata su tutte le richieste e ha fissato la prossima udienza per il 20 gennaio.