“Ottimo ragazzo, da solo 130 voti. Non male”

C’è un altro nome nell’inchiesta per corruzione elettorale sul deputato regionale di Italia Viva Luca Sammartino. Si tratta della compagna e senatrice renziana Valeria Sudano, iscritta tra gli indagati nell’informativa di reato trasmessa dalla Digos alla Procura di Catania. Un documento con 14 nominativi, risalente al 22 febbraio scorso, in cui nei confronti di Sudano si ipotizzano però, in concorso con Sammartino, i reati di abuso d’ufficio e falsità materiale.

Sotto la lente d’ingrandimento il periodo in cui entrambi erano deputati regionali all’Ars ma con la bandiera del Partito democratico. Il 16 aprile 2015 Sudano, stando alle accuse, avrebbe firmato al posto del collega durante una seduta della commissione Cultura e lavoro. Quel giorno Sammartino si trovava in Brasile insieme alla mamma. Presenza fuori dai confini nazionali che gli investigatori hanno accertato incrociando sia i dati dei passeggeri forniti dalla compagnia aerea Alitalia ma anche analizzando gli scambi di messaggi tra i due deputati. “Ho firmato ora per te, così non perdi i soldoni”, scriveva Sudano. Il deputato da oltreoceano avrebbe dato indicazioni precise: “Mettetemi in congedo solo quando necessario”. Per gli inquirenti il falso sarebbe “assai grave e rilevante in relazione alle figure istituzionali che lo hanno realizzato”.

Sulla vicenda uno dei magistrati titolari dell’inchiesta, il sostituto procuratore Fabio Saponara, il 7 novembre scorso ha disposto lo stralcio della posizione della senatrice. Poco prima, a settembre, lo stesso pm aveva ottenuto alcuni chiarimenti dall’ufficio legale dell’Ars tramite una nota di poche pagine. Documento in cui da Palermo confermano l’assenza di Sammartino ad aprile 2015 ma in cui evidenziano anche come il regolamento interno del parlamento siciliano dia la possibilità di firmare in sostituzione di un deputato assente senza prevedere compensi. Tutti elementi che porterebbero dritti a una probabile archiviazione per la senatrice.

Fondamentale nel filone principale dell’inchiesta è l’iPhone 6 di Sammartino. Lo smartphone viene sequestrato al deputato durante l’indagine sul voto di alcuni anziani all’interno di una casa di cura. Procedimento che per Sammartino, eletto nel 2017 con 32 mila voti, si conclude con l’archiviazione ma dal quale, di fatto, prende il via l’inchiesta sulla presunta corruzione elettorale. Il telefono diventa una fonte inesauribile di informazioni. I numeri sono spaventosi: 74 mila pagine di messaggi trascritti, 1.200 video analizzati e oltre 2.000 audio WhatsApp ascoltati. Conversazioni in cui il luogotenente di Matteo Renzi in Sicilia chiede il massimo impegno in campagna elettorale e assicura assunzioni in alcune società private. Nello scambio di messaggi c’è una sorta di borsino in cui ai sostenitori viene pure chiesto l’elenco con il numero di consensi che ciascuno è in grado di racimolare. I più meritevoli sarebbero stati segnalati direttamente al deputato. “Ottimo ragazzo, buon potenziale. Da solo 130 voti. Mica male”, gli scriveva Carmelo Santapaola, ormai ex vicesindaco di Misterbianco, costretto alle dimissioni dopo il coinvolgimento in un blitz antimafia.

I galoppini a caccia di favori, come l’indagato Damiano Capuano, avrebbero cercato di accreditarsi al cospetto di Sammartino in ogni modo. Emblematico il caso in cui proprio Capuano inoltrava al deputato la foto con una scheda elettorale votata in suo favore. Altri avrebbero adottato metodi diversi predisponendo un servizio di accompagnamento ai seggi elettorali. A chiederlo sarebbe stato proprio il renziano: “Chiama tutti. Portate la gente a votare”, chiedeva all’assessore di Mascalucia Nino Rizzotto, anche lui finito indagato.

Formazione nuovi avvocati In cattedra il prof. Salvini

Domani a Roma si terrà un convegno dell’Ordine degli avvocati valevole tre crediti formativi per la categoria. Nulla di strano se non fosse che tra gli ospiti ci sarà anche il segretario della Lega Matteo Salvini, diplomatosi al liceo classico nel 1992 e politico di professione. L’unica attività degna di nota dell’ex ministro dell’Interno è quella giornalistica svolta, verso la fine degli anni 90, al quotidiano la Padania e l’emittente radiofonica collegata, ma l’associazione forense #Noi Professionisti ha pensato bene di invitarlo come esperto sul tema dell’incontro, “Flat Tax, semplificazione burocratica, giustizia tributaria, minimi tariffari”, e l’Ordine degli avvocati di Roma ha dato il suo via libera per l’acquisizione dei relativi crediti formativi.

Ma l’ordine forense non è stato messo a conoscenza della presenza dell’ex ministro dell’Interno: “Al momento dell’accreditamento dell’evento – sottolinea un consigliere dell’Ordine degli avvocati di Roma – bisogna presentare tutta una serie di documentazioni, compreso l’elenco dei relatori, per ottenere dall’Ordine i crediti formativi. In questo caso però – prosegue il consigliere dell’Ordine – l’associazione #Noi Professionisti non ha fatto nessun accenno alla presenza di Matteo Salvini”. L’ex ministro dell’Interno non figura nella locandina che promuove l’evento, “soltanto in seguito – evidenzia un avvocato che vuole mantenere l’anonimato – l’associazione #Noi Professionisti ha mandato, qualche giorno fa, una mail agli iscritti con la quale annunciava, trionfante, la presenza di Salvini all’evento formativo. Ogni associazione è libera di fare le iniziative che vuole e invitare chi preferisce – prosegue il legale – ma in questo caso no. Qui si parla di un incontro, approvato dall’ordine degli avvocati, inquadrato nell’attività formativa obbligatoria della categoria. Cosa ci azzecca Salvini nel mio percorso formativo di avvocato? Visti i temi che verranno affrontati durante l’incontro – conclude – più che un corso di formazione mi pare un’attività propagandistica bella e buona”.

Al momento, l’ordine forense di Roma non ha intenzione di intervenire sulla vicenda, ma di sicuro monitorerà la situazione: “Se nelle 2 ore di corso – sottolinea il consigliere dell’Ordine – l’intervento di Salvini sarà limitato entro un periodo di tempo compatibile con l’attività formativa non succederà nulla, se invece farà un comizio di un’ora potremmo intervenire anche togliendo ex post i tre crediti formativi previsti”. Il Fatto ha chiesto spiegazioni all’organizzatore del corso ma non ha ottenuto alcuna risposta.

Il sospetto che il corso non sia esclusivamente formativo, guardando il curriculum del promotore dell’evento, l’avvocato Mauro Vaglio, componente del Consiglio Direttivo del Comitato Permanente #NoiProfessionisti, potrebbe non sembrare assurdo ai malpensanti. Il legale, infatti, già presidente per circa 7 anni dell’Ordine degli avvocati di Roma, sembra ben addentro alla politica nostrana essendosi candidato (non eletto) al Senato con i 5 Stelle alle ultime elezioni politiche. Chissà, forse Vaglio ha intenzione di intraprendere una nuova avventura politica, magari stavolta passando dalla casacca gialla a quella verde.

Matteo 1 e 2, i bimbiminkia all’assalto finale della Nutella

Che mondo sarebbe senza Nutella? Un mondo senza politici rincoglioniti, verrebbe da dire di questi tempi. Un mondo in cui i politici tornano a occuparsi di idee e non di algoritmi e l’elettorato non si trova a decidere se dare il voto a uno che preferisce la spalmabile o i biscotti. E invece ci tocca assistere ormai da un po’ a una deprimente gara al tweet più scemo che in questi tempi di già scarso ottimismo, mi fa inesorabilmente vedere il barattolo (di Nutella) mezzo vuoto.

Tutto ha inizio, a dire il vero, con una dichiarazione in tv nel 2015 dell’incauto ex ministro dell’Ecologia Ségolène Royal, oggi ambasciatrice francese per il polo Artico e Antartico, la quale disse: “Non mangiate la Nutella. Contiene olio di palma”. Quando la poveretta capì che Parigi rischiava una seconda occupazione nazista, nel caso specifico dei nazisti della spalmabile, chiese alla Nutella “mille scuse” via tweet e tornò a occuparsi di temi meno spinosi quali l’immigrazione e il sindacalismo di massa.

Nel frattempo, però, la politica italiana aveva già dato i primi timidi segnali di aderenza a quella corrente filosofica di chiara impronta kantiana denominata “bimbominkismo” e le aveva risposto per le rime. L’ex ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti replicò via tweet “Ségolène Royal sconcertante: lasci stare i prodotti italiani. Stasera per cena… pane e #Nutella”, della serie “’sti cazzi della deforestazione e dei gorilla e dell’olio di palma, W il colesterolo!”, e voglio dire, questo era ministro dell’Ambiente, mica il vicino di banco tutto ciccia e brufoli. Il giorno dopo, al Nutella Bar dell’Expo, apparve la first lady dell’epoca, Agnese Renzi. La fotografarono in versione Carosello mentre porgeva una crêpe con la spalmabile alla figlia piccola. Ci mancava solo Luca Lotti inviato al Louvre a vandalizzare la Gioconda spalmandole Nutella sul mantello.

La svolta, dopo anni, con Salvini

Dopo questo increscioso incidente diplomatico, per un paio di anni la Nutella è tornata a svolgere il suo compito, e cioè quello del più grande alimentatore di sensi di colpa dopo il divorzio con figli, finché non è arrivato Matteo Salvini. Il suo implacabile radar della propaganda intercetta la crema di Alba e il 26 dicembre dello scorso anno twitta: “Il mio Santo Stefano comincia con pane e Nutella, il vostro, amici?”. Quello di molti amici siciliani, per la cronaca, era iniziato con il terremoto, ma siccome #terremoto non era ancora trending topic non se ne era accorto. Il giorno dopo risponde alle polemiche così: “Questa mattina ho mangiato pane e Nutella senza pubblicare la foto sui social”, tanto per ribadire che quando c’è da stare in trincea nelle battaglie che contano lui non si tira indietro.

Un anno dopo, torna indietro. A Ravenna, esclama l’ormai celebre frase: “Ho scoperto che la Nutella usa nocciole turche. Io preferisco aiutare le aziende che usano i prodotti italiani!”. Il motivo del dietrofrónt è mistero. Qualcuno dice che è nella fase del sovranismo alimentare e che dopo quella dello stupratore marocchino e del ladro albanese vuole instillare quella del mais peruviano. Qualcuno dice che è per lanciare la volata ai prodotti Barilla. Qualcuno che Nutella in Francia ha tolto gli spot Ferrero a un conduttore sovranista e lui si è vendicato così. Qualcuno dice che va dietro agli algoritmi. Qualcuno, fornito di dati più empirici, dice che è scemo.

Fatto sta che quando gli spiegano che in Italia non ci sono tutte le nocciole necessarie per soddisfare la produzione di Nutella, lui ricomincia a sponsorizzare la Nutella sui social e a dire che mangia Nutella, e a quel punto viene da rimpiangere Piccolo Lucio col suo tormentone musicale “A me m piac a nutell òpanin e a porkett voj ò prusutt cà pancett”. Piccolo Lucio era un precursore, uno statista in erba e non l’abbiamo capito.

Anche Giorgia Meloni fiuta l’importanza del tema e si fa un selfie sul tema, ma con un alto valore metaforico: Giorgia sceglie il Nutella Biscuits, l’ultimo uscito, come a dire “Salvini è Nutella, un classico, si spalma su tutto, da Forza Italia a CasaPound, ma io sono la novità sullo scaffale”. Ed è qui, nel bel mezzo di questa sfida tra menti eccelse, tra ideologie, tra programmi politici forti, che si inserisce, a sorpresa, la sinistra.

La sinistra dice la sua, col gemello diverso

La sinistra che vuole dire la sua, che vuole tracciare, netta, la linea di confine tra il becero populismo della destra e il pensiero lucido, onesto della sinistra in tema di crema gianduia. Matteo Renzi prende il coraggio a quattro mani e twitta: “E finalmente si provano i #NutellaBiscuits. Per me #TantaRoba”. Non solo un linguaggio giovanilistico, ma una foto, quella dei suoi biscotti, che è un chiaro messaggio alla destra. Non sono contenuti infatti nella busta, ma in un’inedita confezione tubolare, simile a quella dei Ringo, come a dire: se Salvini è il classico e la Meloni è la novità, noi siamo il futuro, quello che ancora non c’è. Pare tra l’altro che finiti i biscotti Renzi non abbia buttato via il tubo, ma ci tenga dentro tutte le tessere vendute di Italia Viva.

Insomma, se gli ingredienti della Nutella sono zucchero, olio di palma, nocciole (13%), latte scremato in polvere (8,7%), cacao magro (7,4%), quelli dei tweet dei politici sulla Nutella sono 80% propaganda, 20% bimbominkismo. Giudicate voi chi fa più male alla salute dei cittadini.

Perugia, la lista civica caccia il capogruppo e difende Arcudi

Ha la “colpa” di aver chiesto le dimissioni “senza compromessi” di Nilo Arcudi, ex vicesindaco e oggi presidente del consiglio comunale di Perugia non indagato nell’inchiesta “Borderland” ma tirato in ballo dagli ’ndranghetisti che al telefono si vantavano di aver condizionato le elezioni comunali del 2014: “Nilo lo abbiamo messo noi al comune” dicevano intercettati. Per questo Massimo Pici, capogruppo di “Perugia Civica” (lo stesso partito con cui è stato eletto Arcudi), sarà presto cacciato dal suo gruppo.

Durante il vertice di maggioranza convocato sabato mattina dopo l’inchiesta della Dda di Catanzaro sulle infiltrazioni in Umbria, Pici ha chiesto il passo indietro di Arcudi ma gli alleati che sostengono il sindaco Andrea Romizi lo hanno messo in minoranza. Non solo: domenica “Perugia Civica” ha attivato i probiviri per “radiare” il capogruppo e poi ha vergato un comunicato in cui “prende totalmente le distanze dalle improvvide e inaccettabili dichiarazioni di Pici” che, per il suo partito, “rappresenta solo se stesso”. “Come ‘Perugia Civica’ – si legge nella nota – esprimiamo piena solidarietà a Nilo Arcudi che è sottoposto a una indegna gogna mediatica nonostante sia totalmente estraneo all’inchiesta”. Pici, ex poliziotto, oltre a chiedere le dimissioni di Arcudi aveva anche rincarato la dose: “Non vorrei neanche sedergli accanto nello stesso gruppo, o cambio io o cambia lui” aveva attaccato. Presto sarà cacciato dal suo partito.

Ieri intanto si è tenuto il consiglio comunale dedicato all’inchiesta in cui il sindaco Romizi ha spiegato che “quanto emerso crea allarme e profonda preoccupazione” nonostante “l’integrità delle istituzioni non possa essere intaccata in alcun modo”. Durante la seduta i consiglieri Pd hanno chiesto ad Arcudi di dimettersi mentre lui è intervenuto per difendersi nuovamente, per il momento senza fare un passo indietro.

Il “patois” della Valle d’Aosta, nuovo dialetto di ’ndrangheta

La Vallée era ancora il paese felice, sano e alpino di una Heidi in versione francofona. In principio era Augusto Rollandin, il più longevo presidente della Valle d’Aosta, per gli amici “Guste” (traduzione in patois franco-provenzale-valdostano del suo nome Augusto), per gli avversari “l’Empereur” (l’imperatore), per tutti gli altri “Rolly”. Poi sono arrivate Mani pulite, la scoperta della corruzione, gli arresti per tangenti, il crac del Casinò di Saint-Vincent, le indagini per mafia.

In un paio d’anni si sono rapidamente susseguiti quattro presidenti regionali – Pierluigi Marquis, Laurent Viérin, Nicoletta Spelgatti, Antonio Fosson – fino a qualche giorno fa, quando quest’ultimo – accusato di scambio elettorale politico-mafioso e fotografato mentre entrava nel ristorante pizzeria “La Rotonda” del boss Tonino Raso, che secondo i magistrati “gli dettava la linea politica” – si è dimesso, pur proclamando la sua innocenza. Così Heidi si è trovata a cantare tristi canzoni in patois, aspettando che la bruma si diradi. Forse sta pensando che abbia proprio ragione quel rompiscatole di Roberto Mancini, uomo di cultura e giornalista free lance che da almeno dieci anni scrive che dietro la Valle d’Aosta da cartolina c’è un sistema di potere spietato, corrotto, incistato con la ’ndrangheta.

Rollandin, dunque. Presidente della Regione autonoma Valle d’Aosta per 15 anni, dal 1984 al 1990 e poi dal 2008 al marzo 2017. C’era ancora il partito-Stato, anzi il partito-Regione – l’Union Valdôtaine – da sempre al potere in Valle e da sempre filogovernativa, con la destra e la sinistra, purché continuassero ad arrivare i fondi pubblici che affluiscono in Valle.

È con “Rolly” che la storia politica della Vallée comincia a intrecciarsi con la storia giudiziaria. Negli anni Novanta scoppia lo scandalo dei “trasporti d’oro”, contributi illegittimi erogati alle autolinee valdostane. Nel 2008 torna a fare il presidente della Valle, con un plebiscito di 14 mila preferenze (il secondo si ferma a 5 mila). Il gioco s’inceppa nella primavera del 2017. L’eterno imperatore Augusto viene fatto fuori dagli stessi partiti autonomisti, da sempre padroni della Valle, che cominciano a scomporsi e ricomporsi a seconda delle stagioni. Si forma una nuova maggioranza con partiti dai nomi consoni alla Valle della Heidi patoisante: Stella Alpina, Alpe, Union Valdôtaine Progressiste. “Rolly” è sostituito da Marquis, mentre la sua Union Valdôtaine viene ricacciata all’opposizione insieme al Pd, eterno alleato di Rollandin. Intanto si rompe l’incanto arcadico del territorio tutto bellezze alpine e sane tradizioni. Il procuratore di Aosta facente funzioni, Pasquale Longarini, nel 2017 finisce agli arresti domiciliari: è accusato di sponsorizzare presso un amico albergatore l’imprenditore del Caseificio Valdostano, Gerardo Cuomo. Una delle aziende più importanti della regione, il Casinò de la Vallée, grande centro di potere e di clientele per i politici valdostani, arriva a un soffio dalla bancarotta. Per la gestione allegra del casinò sono messi sotto inchiesta 22 politici, tra cui l’immancabile Rollandin.

Poi arriva la scoperta – ma Mancini aveva lanciato l’allarme da anni ¬ che in Valle è saldamente insediata una “locale” di ’ndrangheta. Parte l’inchiesta “Geenna” della Procura di Torino. Un certo Giuseppe Nirta, di casa ad Aosta e in affari con il Caseificio valdostano di Gerardo Cuomo, grande amico del procuratore Longarini, viene ucciso nel giugno 2017 in Spagna. Omicidio di ’ndrangheta: Nirta secondo gli investigatori aveva messo su un bel traffico di cocaina tra Spagna, Calabria e Valle d’Aosta. A gennaio 2019 gli investigatori sostengono che il capo della “locale” valdostana è Marco Fabrizio Di Donato, cognato del Giuseppe Nirta ucciso in Spagna, fiancheggiato da suo fratello Bruno e da Tonino Raso, il titolare del ristorante pizzeria “La Rotonda”, dove avvenivano gli incontri in cui si decidevano scelte, strategie, business. Un bel gomitolo di appalti, incarichi pubblici, traffici di coca. Non senza rapporti eccellenti, con la magistratura e la politica. Il procuratore Longarini aveva qualche amicizia almeno inopportuna. Tre politici dell’Union Valdôtaine (Marco Sorbara, ex assessore ad Aosta e poi consigliere regionale; Monica Carcea, assessore a Saint-Pierre; Nicola Prettico, consigliere comunale ad Aosta) un anno fa sono stati arrestati con l’accusa di “essere a disposizione” del gruppo ’ndranghetista. Aiutavano gli affiliati della cosca a ottenere (o mantenere) incarichi pubblici, come il servizio di trasporto scolastico, effettuato dalla Passenger Transport, azienda intestata al cognato di Tonino Raso. In cambio, i calabresi davano una mano e i loro voti agli amici dentro la politica.

Fino all’arresto di Fosson – ex Union Valdôtaine, poi fondatore di Pour Notre Vallée, infine Stella Alpina – per due volte assessore regionale alla Sanità, riferimento di Comunione e liberazione in Valle e ora dimissionario, in attesa che Heidi patoisante ritrovi, se potrà, la sua spensieratezza.

Ora Santori fa il capo: “Chi va in tv senza permesso è fuori”

Nessuna richiesta al governo, se non quella (tentennante) di abrogare i decreti Sicurezza. Nessun dibattito sul documento (che poi è un post su Facebook) finale. E d’ora in poi niente interviste né ospitate in tv, a meno che non ti chiami Mattia Santori. Dal “congresso” di domenica al centro sociale Spin Time Lab, al netto dell’unità di facciata, più di una Sardina è uscita con l’amaro in bocca. A non convincere – soprattutto chi viene dalla militanza di sinistra – è la linea imposta dai “quattro di Bologna”, i fondatori del movimento: ecumenica, prudente fino all’estremo, più adatta, secondo loro, a un gruppo di scout che a un soggetto che vuol provare a far politica. Tant’è che nelle sei “pretese” elencate da Santori in piazza san Giovanni – anche quelle mai discusse con la base – di politica ce n’è ben poca: giusto l’invito a “rivedere” i decreti Sicurezza, poi corretto a furor di piazza in “abrogare”. Ma è lo stesso leader a dire ai microfoni, sotto il palco, che nelle leggi-simbolo di Salvini “ci sono anche aspetti positivi, che vanno mantenuti”.

Domenica, nel palazzo occupato all’Esquilino, erano in 150. Hanno parlato in 20 circa, uno per ogni regione. Nessuno, per timore di rovinare il clima, è entrato in polemica diretta con la leadership. Ma quando Santori impone a tutti (meno che a se stesso, giovedì sarà a Piazzapulita) di evitare le interviste (“chi va in tv senza dire nulla può uscire dal gruppo e prendere la sua strada”), nelle chat delle Sardine qualcuno ha iniziato a sfogarsi. “Questo vuole fare il capetto, si è montato la testa. Ha paura che possiamo dire cose ‘divisive’ sull’ambiente, i decreti, l’autonomia e Regeni. Avete visto che faccia ha fatto quando l’avvocato di Regeni è stato applaudito in quel modo?”.

Già, perché uno degli episodi più discussi riguarda Alessandra Ballerini, avvocato della famiglia Regeni e convinta “Sardina” genovese. Anche lei era allo Spin Time, in rappresentanza della Liguria. Dopo il suo intervento Lorenzo Donnoli, un attivista di Bologna, ha chiesto all’assemblea un applauso per onorare il suo impegno alla ricerca della verità per il ricercatore ucciso in Egitto. Ma subito dopo l’ovazione, Santori avrebbe riportato tutti alla calma, invitando a non esagerare sui temi “divisivi”. Aggettivo speso anche per stigmatizzare le prese di posizione di alcuni attivisti su questioni ambientali o in opposizione all’autonomia differenziata. Provocando la rabbia (soffocata) di molti: “Come cazzo gli viene in mente di dire che l’ambiente è un tema divisivo?”, si sfoga una Sardina in un gruppo Whatsapp.

Non è strano allora che nel post-documento diffuso ieri non si faccia cenno a questioni politiche, ma solo a future iniziative (per ora piuttosto vaghe) sui territori e nelle periferie. La giustificazione è che “i temi politici specifici sono complessi, non possono essere affrontati in una mattinata in modo adeguato”. Ma gli attivisti più a sinistra non sono convinti: “La verità è che non vuole che i temi vengano fuori prima delle elezioni in Emilia, a lui importa solo di quelle. E non vuole dare fastidio a nessuno”, scrive un ragazzo. “L’ho visto in difficoltà, non si aspettava una conferenza così carica a sinistra”, gli fa eco un altro. Poi ci sono gli insulti sui social arrivati nelle ultime ore a Nibras Arfa e Sulajman Hijazi, due giovani palestinesi intervenuti a San Giovanni.

Giorgia Meloni e i giornali di centrodestra li hanno accusati, senza fondamento, di essere vicini ad Hamas. “Mi sono arrivati migliaia di minacce e messaggi terribili in posta privata. In Italia non si può parlare di Palestina senza passare per antisemiti”, dice Nibras, che ha 25 anni e studia Giurisprudenza a Milano. Ma né Santori né gli altri leader delle Sardine si sono spesi per difenderli. “Si vede che erano troppo divisivi anche loro”, dice una ragazza.

Euro-difensore civico. Lega e FdI candidano un condannato ex-An

Ha una condanna definitiva per rivelazione di segreti d’ufficio, ma la Lega e Fratelli d’Italia hanno individuato in lui l’uomo giusto per un incarico delicato: il mediatore europeo. C’è anche l’italiano Giuseppe Fortunato tra i candidati per l’incarico che a Bruxelles è il corrispettivo del difensore civico: il mediatore, infatti, indaga sulle denunce dei cittadini sui casi di cattiva amministrazione delle istituzioni Ue. Cinque i nomi sul tavolo del Parlamento, che da oggi comincerà a votare riunito in plenaria a Strasburgo: l’uscente Emily O’Reilly, giornalista irlandese sostenuta dal M5S (ma pure dai dem Massimiliano Smeriglio e Alessandra Moretti); l’ex commissario lettone del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks; l’ex eurodeputata svedese Cecilia Wikström e la giudice estone alla Cedu, Julia Laffranque, per la quale hanno firmato anche Franco Roberti, Caterina Chinnici ed Elisabetta Gualmini del Pd.

E poi, appunto, c’è Fortunato. “Sono l’unico appartenente a un Paese fondatore dell’Ue, l’unico col curriculum, i requisiti e l’esperienza adatta. Ma ho il torto di essere italiano, anche se noi italiani siamo gli eredi del tribuno della plebe, che è il primo difensore civico della storia”, dice lui. Già difensore civico della città di Napoli, della provincia e della Regione Campania, Fortunato ha corso per il posto di mediatore Ue nel 2003 e nel 2004. Adesso ci riprova grazie al supporto dei partiti di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Per candidarsi, infatti, servono le firme di 40 parlamentari di almeno due Paesi: per lui hanno firmato 26 europarlamentari del Carroccio, 5 di FdI, 3 di Forza Italia e pure due del Pd, cioè Andrea Cozzolino e Giuseppe Ferrandino. Ma anche i francesi del Rassemblement National di Marine Le Pen e i tedeschi di Alternative für Deutschland. Insomma: a destra l’avvocato napoletano ha successo anche fuori dai confini italiani.

E questo nonostante quella vecchia condanna. La vicenda risale al 1994 quand’era consigliere comunale a Napoli con Alleanza Nazionale. Da presidente della commissione Trasparenza si fece consegnare dalla Sip i tabulati del sindaco Antonio Bassolino e dei suoi assessori. E visto che tra quei tabulati c’erano anche alcune telefonate a linee erotiche, l’allora consigliere di An non si limitò a denunciare la questione alla magistratura penale e contabile. Nossignore: decise di divulgare il contenuto dei tabulati durante una conferenza stampa.

Per questo motivo l’8 marzo del 2002 la sesta sezione penale della Cassazione lo condannò a sei mesi. “Questa storia torna sempre fuori ma è un boomerang per chi la recupera. Io denunciai lo sperpero del denaro pubblico: all’epoca non c’era il Foia, quindi mi assunsi le mie responsabilità. Si facevano telefonate a luci rosse dai telefoni del comune: i cittadini dovevano saperlo. Fu una battaglia per la trasparenza e oggi quel fatto non sarebbe più reato”, sostiene lui. All’epoca, infatti, la legge sulla privacy non esisteva: la Suprema corte lo condannò per rivelazione di segreto ma nelle motivazioni citò l’articolo 15 della Costituzione, quello che considera inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”. “Per questa storia – si difende Fortunato – ho ottenuto la riabilitazione nel 2014 col parere positivo della procura. Grazie alla mia battaglia è stato sancito un principio. Altrimenti perché mi avrebbero nominato alla privacy?”.

Già, perché dopo quella condanna, l’avvocato venne nominato all’Autorità garante per la privacy, su indicazione del centrodestra di Silvio Berlusconi. Era il 2005 e il diessino Massimo Brutti fece notare il cortocircuito: “Così si manda all’Authority una persona che ha violato le norme sulla privacy e che dovrebbe invece garantirle”. La vicenda è raccontata anche in Inciucio di Gomez e Travaglio.

Adesso arriva in Europa, dove i grillini attaccano: “Ci vuole un bel coraggio a sostenere un candidato condannato in via definitiva per un ruolo così delicato e cruciale come quello di mediatore europeo. La Lega evidentemente non la pensa così”, dice Eleonora Evi del M5S. Fortunato replica: “Non voglio fare esempi fuori luogo ma sarebbe come contestare a Pertini di aver violato la legge sotto il fascismo”. Addirittura Pertini? Fortunato è sicuro: “La situazione è simile. La verità è che la mia candidatura dà fastidio alle lobby”.

I migranti ricollocati in Ue moltiplicati per cinque

Quasi non passa giorno senza che il capo della Lega o i leghisti attacchino la ministra Luciana Lamorgese. Ancora sabato scorso, Stefano Candiani e Nicola Molteni, sottosegretari agli Interni con Matteo Salvini, protestavano: “L’unico risultato certo del ministro Lamorgese è l’aumento degli sbarchi: a settembre 2.498 contro i 947 del settembre 2018, a ottobre 2.017 contro i 1.007 dell’ottobre 2018, a novembre 1.232 contro i 980 del novembre 2019”. Ora, però, atteso che l’Italia chiuderà il 2019 con meno di 12 mila sbarchi (21 mila nel 2018) e che le emergenze sono altre, dalle tragedie del Mediterraneo ai lager libici e all’abbandono di migliaia di richiedenti asilo già sul territorio italiano, questi numeri non sono merito o colpa dei ministri. Dipendono dalle dinamiche libiche e tunisine. L’impatto più rilevante l’hanno avuto i pur discussi accordi negoziati nel 2017 da Marco Minniti con le autorità di Tripoli e dintorni (nel 2017 erano sbarcati in 118.572, nel 2016 in 181.436). Quel che il governo può e deve fare è ricollocare i richiedenti asilo nei Paesi europei, almeno quelli soccorsi in alto mare da ong e altri, secondo la strategia degli accordi avviata dal Conte 1 con Salvini e proseguita dal Conte 2 con Lamorgese. E qui i numeri, ammesso che si possano ridurre persone e destini a numeri, danno ragione alla ministra Lamorgese.

Nei primi otto mesidel 2019, quando al Viminale c’era Salvini, secondo il ministero dell’Interno sono stati ricollocati in Europa 85 richiedenti asilo. Meno di undici al mese. Tutte le volte il presidente del Consiglio Giuseppe Conte doveva concordare le “quote”, magari mentre il vicepremier leghista strepitava e lasciava le navi in mare anche in pieno inverno. Negli ultimi quattro mesi, cioè dell’insediamento a settembre del Conte 2 e di Lamorgese al Viminale, i ricollocamenti effettivi sono stati 196, cioè 49 al mese. È in parte l’attuazione di accordi precedenti, come sottolineato nei giorni dagli ex sottosegretari leghisti. Per tutta una fase, infatti, erano rimasti sulla carta, come indicò per primo Matteo Villa dell’Ispi. Ora i più solerti sono i francesi, Spagna e Portogallo fanno la loro parte in misura minore e nel loro piccolo anche Malta e Lussemburgo e a volte la Finlandia. La Germania molto meno, come hanno scritto il 4 dicembre Maria Maggiore e Nico Schmidt di Investigate Europe e sul Fatto e sulla Berliner Tageszeitung, sottolineando che il governo tedesco non aveva iniziato a trasferire neppure i 53 sbarcati a giugno con la Sea Watch 3 comandata dalla tedesca Carola Rackete. Secondo il Viminale dovrebbero partire per la Germania altre 149 persone entro Natale: così i ricollocati salirebbero a 345 in quattro mesi, quindi 86 al mese contro gli 11 di Salvini. La situazione con Berlino è complessa anche perché dalla Germania cercano di rimandare in Italia migliaia di “dublinati”, coloro cioè che avevano chiesto l’asilo da noi e poi sono andati lì.

Ma intanto comincia a funzionare il preaccordo sugli sbarchi firmato a Malta il 23 settembre da Lamorgese con i ministri degli Interni di Francia, Germania, Italia, Finlandia e appunto Malta per una ripartizione parziale ma automatica. Il rapporto tra migranti “ricollocati” e “quote” offerte dai Paesi europei è all’82 per cento. Ora l’obiettivo è rispettare il termine di quattro mesi dallo sbarco. In attesa del ricollocamento, infatti, i migranti rimangono in un limbo giuridico, a volte privi di qualsiasi diritto.

Dalla Pop Vicenza a Bari: la ragnatela di connessioni

È il 30 novembre 2011. Sono giorni tra i peggiori per il sistema bancario italiano: esplode la crisi del debito pubblico italiano, i Btp crollano aprendo voragini nei bilanci degli istituti, la liquidità del mercato interbancario evapora. Quel giorno Mariano Sommella, dal 2009 responsabile della segreteria generale di Banca Popolare di Vicenza, riceve da Giorgio Majorano una mail di presentazione del Fondo Optimum. Da lì iniziano alcuni incontri tra il dominus del Fondo, Alberto Matta, e la dirigenza di Bpvi per definire l’investimento della banca nei fondi. Poi, nella riunione del cda del 21 febbraio 2012, la Vicenza decide di investire un primo plafond di 500 milioni nei fondi lussemburghesi di Matta e di Raffaele Mincione. Il 28 febbraio 2012 vengono trasferiti i primi 100 milioni a Optimum Multistrategy 1 e 100 milioni al fondo Athena Balanced Found 1. Il 7 agosto 2013 e il 30 settembre 2013 BpVi Finance sottoscrive altri 150 milioni del Fondo Optimum Multistrategy 2.

Prende le mosse da qui una ragnatela di interconnessioni tra il collasso della Popolare di Vicenza e quello odierno della Popolare di Bari attraverso soggetti rappresentativi dei gruppi Marchini, Degennaro, Fusillo e Mincione. Le interconnessioni sono ricostruite da numerosi rapporti dell’audit interno della Vicenza datati maggio-luglio 2015. Rapporti sinora inediti che Il Fatto ha visionato. A metà 2015, nel fondo Optimum sono presenti investimenti per circa 25 milioni nelle società Fimco 2018 e Fimco 2019 e nella Maiora per 25 milioni. Tutte imprese della famiglia di costruttori pugliesi Fusillo, coinvolta nelle indagini della Guardia di Finanza del 2015 per le operazioni “baciate” della banca veneta e perquisita il 4 luglio scorso insieme alla Bari che negli anni passati avrebbe concesso prestiti alla Fimco e alla Maiora dei Fusillo per 140 milioni. Sempre nel fondo Optimum era presente un investimento nel Fondo Tiziano San Nicola di Sorgente Sgr per 22 milioni. Nel 2011 il fondo era stato sottoscritto dalla Bari per acquisire il Grande Albergo delle Nazioni di Bari venduto dalla Fimco dei Fusillo. Famiglia alla quale appartiene Nicola, ex parlamentare del centrosinistra, candidato alle Regionali nel 2015. Ma nei fondi Optimum sottoscritti dalla Vicenza c’era anche per 5 milioni Italfinance, società in precedenza della famiglia De Gennaro. Il gruppo De Gennaro appare tra i clienti “amici” che ricevevano fidi consistenti proprio dalla Tercas, finita in dissesto, che tra il 2013 e il 2014 venne rilevata dalla Bari con l’ok di Banca d’Italia.

Secondo l’audit della Vicenza nei fondi c’era anche la società Power Center sempre del gruppo Degennaro per la quale, “a fronte di una posizione di 22 milioni è stata prevista una svalutazione di 4,3 milioni, oltre a una svalutazione precedente di 3,6 milioni”. Quanto a Fimco, su una “posizione complessiva di 25 milioni” e a Maiora, su un’altra “posizione complessiva di 25 milioni a seguito della conferma della classificazione del Gruppo Fusillo tra le posizioni “sorvegliate” sono state azzerate le svalutazioni stimate inizialmente in 6,4 milioni circa”. Entrambi le posizioni apparivano nel rapporto ispettivo sulla Vicenza del 17 settembre 2015 redatto per la Bce dalla Vigilanza di Bankitalia.

Ma c’è di più. Secondo i documenti della Vicenza, “il legame tra le posizioni afferenti al gruppo Fusillo e all’“universo Marchini” è rappresentato da Girolamo Stabile, che riveste contemporaneamente il ruolo di gestore dei fondi Optimum/Futura (che hanno sottoscritto le emissioni Maiora/Fimco) e di vice presidente di Methorios Capital”. Quanto al gruppo De Gennaro, a maggio 2015 questo “starebbe valutando di cedere il Centro Commerciale Power Center (oggetto di finanziamento per il tramite dell’emissione Power Center sottoscritta dal Fondo Futura) al Fondo Kant, riconducibile al precedentemente citato ex-gestore dei fondi Optimum/Futura, Girolamo Stabile”. Ancora oggi il fondo Kant indica Stabile come “azionista fondatore”.

I rapporti dell’audit rivelano che nello stesso Fondo Optimum erano “confluiti” i minibond emessi dalla Vicenza per conto dei suoi clienti e le operazioni riconducibili ai gruppi Methorios, Marchini, Fusillo, Degennaro, come pure ad Arianna Sim.

Gli investimenti nei fondi erano sempre stati “condivisi” da Optimum con alcuni dei vertici della Vicenza: l’ex ad Sorato, l’ex chief financial officer Piazzetta e la direzione Finanza. In sostanza, la Vicenza si era apparentemente liberata dei rischi derivanti dall’esposizione diretta nei confronti delle aziende clienti grazie all’emissione di minibond, ma poi si era ricomprati questi titoli attraverso i fondi lussemburghesi che aveva rifinanziato. Così la Vicenza si riportò in casa anche i relativi rischi che causarono perdite per 230 milioni sui 350 investiti nei fondi.

Interessante la storia del minibond da 22 milioni di euro strutturato dalla Vicenza per il gruppo De Gennaro che era servito a finanziare il “Power Center”: “Stiamo per inaugurare questo nuovo centro che è il completamento del parco commerciale di Auchan”, spiegava il 25 settembre 2015 Davide De Gennaro a Repubblica. A maggio scorso proprio Raffaele Mincione e Conad hanno annunciato una maxi operazione da 1 miliardo per comprare gli iper della rete Auchan Retail Italia. Il fondo Wrm Group di Mincione ha acquisito gli immobili commerciali: il raider di Pomezia è divenuto proprietario degli immobili che affitterà a Conad. Coincidenze.

D’altronde anche la Popolare di Bari usava strumenti simili. Nelle sue ispezioni, la Vigilanza segnalò la prassi di sottoscrivere quote di fondi che investivano in immobili venduti da clienti finanziati dalla Bari stessa. Nel 2011 Pop Bari aveva sottoscritto tutte le quote del comparto San Nicola del Fondo immobiliare Tiziano di Sorgente Sgr che aveva acquistato dalla Fimco dei Fusillo il Grande Albergo delle Nazioni sul lungomare Nazario Sauro del capoluogo pugliese. Sempre la Fimco ha ceduto al Fondo Donatello di Sorgente Sgr l’Hotel Oriente di Bari. I fondi immobiliari nel bilancio 2015 della Bari valevano 122 milioni ed erano già stati svalutati per 13 milioni rispetto al 2014.

Il 4 luglio scorso la Procura di Bari ha inviato la Gdf a perquisire gli uffici della Fimco e della Maiora e la direzione generale della Popolare di Bari per presunte irregolarità commesse dopo l’ammissione delle due società al concordato preventivo. Secondo il Procuratore aggiunto Roberto Rossi e il sostituto Lanfranco Marazia, i Fusillo avrebbero distratto beni tra dicembre 2016 e luglio 2018. Una parte sarebbe stata ceduta al fondo Kant Capital Fund Strategic Business Unit PCC Ltd di Gibilterra. Lo stesso fondo Kant creato da Stabile al 30 settembre 2017 risultava detentore della Logistica Sud del gruppo Fusillo registrata tra i crediti “unlikely to pay” (incagli) di Mps per una esposizione netta di 4,76 milioni, mentre la società Area Bersaglio della famiglia De Gennaro appariva alla stessa data tra le sofferenze di Mps per un valore di 9,93 milioni.

Da Etruria & C. a Mps, i paragoni con il passato

La vera partita del salvataggio della Popolare di Bari si giocherà a Bruxelles. Spetterà alla mitica Dg competition decidere se il soccorso statale viola le norme Ue sugli aiuti di Stato. Il primo segnale è rassicurante per il governo. Ieri un portavoce della commissaria Margrethe Vestager ha detto che la Commissione è pronta “a discutere la disponibilità e le condizioni degli strumenti disponibili nell’ambito delle norme comunitarie”.

L’ok di Bruxelles è essenziale per evitare che nel salvataggio venga applicato il cosiddetto “burden sharing”, che impone di tosare non solo gli azionisti ma anche gli obbligazionisti subordinati – che nelle banche finite in dissesto erano quasi sempre in mano ai piccoli clienti – prima di salvare gli istituti (se non bastasse si provvede con i correntisti più ricchi: il famoso bail in). Ed è questo che differenzia il salvataggio di Pop Bari da quello di Etruria & C., messi in un unico calderone da Matteo Renzi: “Per anni – ha ripetuto ieri – ci abbiano attaccato con l’accusa di essere amici dei banchieri quando noi per il salvataggio delle banche abbiamo messo zero e salvato i risparmiatori”. Le cose, però, non stanno proprio così.

Con la decisione di mandare in “risoluzione” le 4 banchette (Etruria, Marche, CariChieti e CariFe) – che segna anche la sconfitta della ministra Boschi in cerca di aiuti tra regolatori e regolati – a novembre 2015 il governo ha azzerato sia gli azionisti che gli obbligazionisti subordinati (ne è seguito il balletto dei rimborsi, che non si è ancora concluso). Un scelta che ha terremotato il settore. Le banche sono state vendute “ripulite” con i soldi del sistema bancario (che si è rifatto sui clienti) e vendute a 1 euro a Ubi e Bper. Le popolari Venete sono invece state mandate in liquidazione dal governo Gentiloni nella primavera del 2017 e regalate per il solito euro a Intesa Sanpaolo insieme a oltre 5 miliardi di soldi pubblici cash (e quasi altrettanti di garanzie, che sicuramente saranno escusse). Anche in questo caso, oltre agli azionisti, sono stati azzerati anche gli obbligazionisti (poi rimborsati come Etruria). Nell’estate del 2017 è toccato a Mps, con l’ingresso dello Stato nella proprietà ma a tempo (dovrebbe uscirne nel 2021): i piccoli obbligazionisti hanno potuto beneficiare di un concambio con titoli più sicuri ma hanno perso parte del valore dei titoli detenuti. Carige è un caso a parte, visto che non aveva obbligazioni subordinate in mano alla piccola clientela (le altre in circolazione sono state convertite in titoli “senior”.

Ora la partita, come detto, si sposta a Bruxelles. Per le norme Ue la cosa che conta è che il salvataggio venga fatto a “condizioni di mercato” (che non alterino la concorrenza) o se la banca è “sistemica” (è il caso di Mps). Nel primo caso rientra il recente salvataggio, con soldi pubblici, della banca tedesca NordLb, autorizzato da Bruxelles perchè l’uso dei soldi statali è avvenuto, appunto, a “condizioni di mercato”, stabilite a insindacabile giudizio degli uffici della commissaria Vestager.

L’Italia può contare su un precedente pesante.