Bankitalia, autodifesa col buco sull’affare “spintaneo” Tercas

Della vicenda si occuperà, se mai partirà, la nuova commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. Già oggi, però, è possibile individuare i buchi nell’autodifesa che Bankitalia ha dato ieri in una nota dopo che il governo ha deciso via decreto di salvare la Popolare Bari con un’iniezione da 900 milioni. I nodi riguardano la vicenda Tercas e la sostanziale inattività dei vigilanti seguita al ritorno di Vincenzo De Bustis alla guida della banca.

Ieri l’istituto guidato da Visco ha replicato agli attacchi del M5S, con Di Maio che rilancia la commissione d’inchiesta e chiede i verbali delle ispezioni, ma anche di Salvini e Renzi. La nota spiega che su Pop Bari “accertamenti ispettivi” erano partiti già nel 2010, dando una “valutazione parzialmente sfavorevole”, con “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni”. Ispezioni ripetute nel 2013 e nel 2016. In tutto l’arco di tempo, Via Nazionale ha tenuto “continui scambi informativi” con Consob, “numerose e continue” interlocuzioni con la magistratura e, nel 2019, con il ministero dell’Economia.

Il primo buco riguarda, come detto, l’acquisizione della disastrata Cassa di Risparmio di Teramo, chiusa a luglio 2014, che ha scassato i conti di Bari. La nota la liquida così: “Nel 2014 Bankitalia autorizza Bpb all’acquisizione di Tercas. (…) un intervento di ‘salvataggio’ volto alla salvaguardia dell’interesse dei depositanti e al rilancio commerciale del gruppo abruzzese”.

Tutti sanno che Bankitalia non si limitò ad “autorizzare”, ma caldeggiò vivamente l’operazione. Le trattative iniziano a ottobre del 2013. Una data indicativa. In quel periodo gli uomini di Bankitalia hanno appena terminato la terza fase di una lunga ispezione. Il verbale si concluderà con un giudizio “parzialmente sfavorevole”, soprattutto a causa di una certa disinvoltura nel concedere prestiti. Eppure Via Nazionale decide, proprio in quel periodo, di bussare a Bari per salvare Tercas, allora commissariata già da due anni.

La Popolare accetta e, prima ancora di conoscere l’esito dell’ispezione, decide di subentrare nella liquidità d’emergenza fornita dalla Banca centrale a quella abruzzese (l’Ela, Emergency liquidity assistence) per quasi 500 milioni evitandone l’implosione.

La trattativa viene poi instaurata fra le due banche e il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), che interviene con 250 milioni. Pop Bari chiede e ottiene di poter effettuare una due diligence di Tercas, inizialmente non prevista. Il tutto si chiude a luglio 2014. Giusto un mese prima Bankitalia aveva rimosso il divieto di fare nuove acquisizioni imposto alla Popolare nel 2010. Curiosamente la nota di Via Nazionale non menziona i giudizi negativi dell’ispezione del 2013, anzi sostiene che “le verifiche hanno messo in luce progressi rispetto a quanto riscontrato nel 2010”. Non solo. In seguito a un “internal audit” fornito dalla banca, decide dopo pochi mesi di rimuovere il divieto di espandersi. L’ispezione si concluderà senza multe per i vertici dell’istituto: presidente Marco Jacobini e ad Vincenzo De Bustis.

L’acquisto di Tercas si è rivelato disastroso: la qualità del credito era molto più scadente di quel che appariva nel 2014. Bari si è caricata di quasi 1,2 miliardi di crediti deteriorati lordi. Il successivo stop di Bruxelles all’uso del Fitd, nell’aprile 2015, provocò poi una fuga dei depositi da quasi 800 milioni di euro. A Popolare Bari non è stato sufficiente neanche l’aumento di capitale del 2015 (500 milioni) per rimettersi in sesto, complice anche il pesante peggioramento della qualità del credito.

L’altro buco riguarda il ruolo di De Bustis, tornato a fine 2018 a Bari, dove era stato dg tra il 2011 e il 2015. È indagato dalla Procura per aver cercato (invano) di rafforzare il capitale con una strana operazione che coinvolgeva una società maltese: a segnalarlo ai pm è stata Bankitalia, che però lo ha fatto solo di recente, mentre l’operazione risale a gennaio. Cosa ha fatto la vigilanza in quasi un anno? Una risposta può arrivare dalla decisione di Visco di trasferire Lanfranco Suardo, l’uomo della vigilanza che aveva seguito con apparente benevolenza le evoluzioni di De Bustis.

“Drogati” e canne, e l’aula si accende

“Drogato!”. L’occhietto mefistofelico di Ignazio La Russa si accende durante la discussione al Senato sulla cannabis. E la voce cavernosa dell’ex missino si leva verso i banchi grillini. “Drogato!”, strilla a un collega ignoto, forse il 5Stelle Alberto Airola, che qualche minuto prima aveva pronunciato un accorato intervento sulla canapa legale. Accanto a La Russa c’è la sorella d’Italia Daniela Santanchè, la quale un po’ gioca a scandalizzarsi, prova a contenerlo, a placarlo: “Ma dai, Ignazio, dai”. Lui però è inflessibile, punta il dito: quando ci vuole, ci vuole. I Cinque Stelle rumoreggiano. Agostino Santillo si rivolge alla presidenza: “Non si può definire drogato un altro collega”. Dall’alto del suo scranno, la presidente Casellati risponde serafica: “Ognuno esprima le sue opinioni senza trascendere”. Fine.

Più che su tasse e “marchette” di Stato, il Senato si infiamma sulle canne. Maria Elisabetta Alberti Casellati ha deciso: l’emendamento alla legge di bilancio sulla cannabis è inammissibile. L’obiettivo del testo, presentato dai 5Stelle Matteo Mantero e Francesco Mollame, era la regolamentazione della canapa “ai fini industriali, commerciali ed energetici”. S’intende quella legale, con una percentuale di thc inferiore allo 0,5%.

Niente da fare, Casellati è categorica, vagamente provocatoria: “Se ritenete questa misura importante per la maggioranza, presentate un disegno di legge”. Fine dei giochi.

Nel frattempo, la destra porta il livello del dibattito alla solita retorica su drogati e spacciatori di morte. Tra i più pimpanti c’è il leghista Simone Pillon, già noto per le posizioni assai progressiste in tema di famiglia. “Volete vendere la droga ai bambini”, dice il senatore col farfallino ai colleghi della maggioranza.

Poi si alza Salvini. Ha fiutato che sulle canne s’è aperto un palcoscenico. Parla con tono grave: “Ci tengo a ringraziare tecnicamente il Presidente del Senato a nome di tutte le comunità di recupero dalle dipendenze che lavorano in Italia, e delle famiglie italiane per aver evitato la vergogna dello Stato spacciatore di droga previsto in manovra economica”. I banchi di Lega e FdI si spellano le mani. L’ex ministro insiste: “Se alcuni colleghi mettessero per l’agricoltura vera la passione che ci mettono per le canne, l’Italia sarebbe un Paese più sano”. Salvini abbassa il microfono, ringrazia, saluta: per oggi ha dato.

Tutta questa esaltazione sulla cannabis è un po’ sospetta e qualcuno lo fa notare. Loredana De Petris, senatrice di LeU, lancia la sfida ai colleghi tarantolati: “Fate le vacanze tutti tranquilli e poi alla ripresa vediamo chi si sottopone al test antidroga e chi no”. In serata si aggiunge il viceministro grillino Stefano Buffagni, che fa anche i nomi: “Visto che Salvini e Meloni fanno i puritani sfido loro e tutti i parlamentari a fare il test anti-droga, non solo sulla cannabis light”.

La manovra passa al Senato, ma prima la riscrivono ancora

È ormai passata l’ora di cena quando la manovra fantasma ottiene il suo primo sì in un’Aula parlamentare, Aula che in larga parte non ha idea di cos’ha votato. Ha buon gioco, per una volta, Emma Bonino a sbatterlo in faccia ai colleghi: “A questa pseudo-farsa non voglio partecipare”. La legge di Bilancio passa comunque in prima lettura in Senato col voto di fiducia – 166 a favore e 122 contrari tra cui il senatore grillino Gianluigi Paragone – e se ne va a Montecitorio blindata: non potrà essere modificata dalla Camera, pena l’esercizio provvisorio, cioè proprio quel che questo esecutivo era nato per evitare.

La manovra che esce da Palazzo Madama ha gli stessi saldi di quando è entrata (il deficit 2020, per capirci, è ancora al 2,2%), ma la sua forma è profondamente cambiata persino nella giornata di ieri. La Ragioneria generale dello Stato ha chiesto la modifica di 39 misure quanto alle coperture e di altre 29 quanto al “drafting” (il coordinamento formale). Quantità di correzioni “nella norma”, le ha definite il relatore Dario Stefàno del Pd, che hanno però ulteriormente spostato l’arrivo in Aula del maxi-emendamento su cui si è poi votata la fiducia.

La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, aveva già deciso coi suoi uffici di cassarne 15 giudicate incompatibili con la legge di Bilancio. La cancellazione del via libera alla cannabis light si è presa tutto il dibattito, ma dentro le scelte della senatrice berlusconiana c’è assai di più e persino di peggio: cassata, ad esempio, la norma che avrebbe fatto slittare dal luglio 2020 al gennaio 2022 la fine del mercato tutelato per l’energia, un enorme favore ai big del settore (Enel in testa) a cui vengono regalati 24 milioni di clienti tra famiglie e aziende che finora avevano preferito acquistare l’elettricità attraverso le tariffe stabilite dall’Autorità per l’energia, che in un paio di decenni si sono rivelate inferiori del 20% a quelle “libere”. Il governo fa sapere che provvederà al rinvio nel cosiddetto decreto Milleproroghe: vedremo se vale più la potente lobby elettrica o un paio di decine di milioni di italiani.

Tra i provvedimenti cancellati da Casellati ci sono poi, ad esempio, le modifiche alla “Tobin tax” sulle transazioni finanziarie, il rafforzamento del ruolo di Consob contro le truffe finanziarie, gli interventi sul personale delle province o le assunzioni al Consiglio di Stato, al Tar e alla Corte dei Conti.

È in questi dettagli che si nasconde il diavolo del doppio standard di Casellati e soci: sui dipendenti delle Province, per dire, non si può intervenire, su quelli dei Comuni o delle aziende sanitarie sì; assunzioni stoppate tra i magistrati amministrativi e contabili e invece assunzioni concesse all’Avvocatura dello Stato (dove, malignano gli irritatissimi consiglieri di Palazzo Spada, lavora la figlia di Nitto Palma, ex ministro e potente capo di gabinetto di Casellati).

Lasciati da parte dettagli e piccole beghe – possibili però anche grazie al caos e al dilettantismo con cui la maggioranza e il governo hanno gestito l’iter della manovra – questo resta un Bilancio di piccolo cabotaggio: saldi sostanzialmente invariati, come detto, e d’altronde quelli si concordano con l’Ue mica col Parlamento; sterilizzazione degli aumenti dell’Iva per il 2020, ma conto che si ripresenta a 20,1 miliardi nel 2021, miliardi che diventano oltre 27 miliardi negli anni successivi; un accenno di riduzione del cuneo fiscale, qualche tassa e qualche taglio di spesa, alcune norme chiamate pomposamente “Green New Deal” che valgono la miseria di 500 milioni l’anno prossimo.

L’effetto totale sull’economia è leggermente recessivo se si tiene conto che solo disinnescando l’Iva il deficit per il 2020 sarebbe stato non molto sotto al 3% del Pil. Delle cose di cui si è a lungo discusso in questo mese e mezzo di iter parlamentare bloccato resta poco e niente. La cosiddetta “Plastic tax” da 0,45 centesimi al chilo, ad esempio, partirà dal 1° luglio 2020: doveva valere 1 miliardo, porterà all’erario 140 milioni (a regime invece di quasi due miliardi varrà circa 500 milioni, ma Matteo Renzi ha già detto che va cancellata del tutto insieme alla “Sugar Tax” che parte a ottobre); le coperture – bizzarramente – derivano in parte anche dall’ennesimo risparmio della “Quota 100” sulle pensioni (altri 300 milioni nel 2020, di più negli anni successivi).

Tra le scoperte dell’ultima ora, infine, c’è il passaggio dei 200 milioni stanziati per il “bonus merito” dalla Buona Scuola alla contrattazione integrativa del settore: sorprese grandi e piccole sono destinate ad aumentare ora che si può leggere un testo.

Il ritorno di Grillo a Roma per fermare l’emorragia 5S

L’ultima volta che è calato a Roma, in un fine settimana di novembre, i tanti malpancisti speravano che il Garante riempisse di scapaccioni Luigi Di Maio, e magari che gli togliesse i gradi di capo politico. “Invece è successo l’opposto, con quell’incontro lo ha rafforzato” sussurra un big dall’aria esausta. Meno di un mese dopo il faccia a faccia con il capo politico, riecco Beppe Grillo nella Capitale a cercare di tenere assieme i Cinque Stelle che perdono pezzi. E non è un modo di dire, visto che la scorsa settimana tre senatori hanno traslocato nella Lega, e ieri in cinque non hanno votato la manovra a Palazzo Madama.

Numeri e immagini che raccontano la fragilità del Movimento. Anche per questo, oggi il fondatore del M5S sarà a Roma. E proprio i 5Stelle del Senato sperano di averlo in assemblea con loro, nel pomeriggio. Mentre ieri a Palazzo Madama si è manifestato Davide Casaleggio, reduce dalla presentazione di domenica dei facilitatori del Movimento, infarciti di nomi a lui vicinissimi. Perché l’asse tra Di Maio e l’altro capo di Milano rimane una delle poche certezze del M5S. L’altra è che il Movimento è più o meno incontrollabile proprio lì, in Parlamento, almeno dal Di Maio che pure ha recuperato qualche eletto e risolto per interposto accordo la grana del capogruppo alla Camera.

Ma il capo non ha più presa sul grosso dei parlamentari, sente e subisce un diffuso scoramento che talvolta sconfina nella ribellione. “Noi abbiamo aperto delle crepe” rivendica nella buvette di Palazzo Madama Ugo Grassi, uno dei tre esuli in direzione Matteo Salvini. Duro: “Pochi giorni prima che me ne andassi, Di Maio mi ha scritto: ‘Hai mandato la lettera per dire che passi a ‘sta Lega?’. E non le dico cosa ha aggiunto poi”. Pochi passi più in là, un senatore al primo mandato: “Si stanno muovendo tante cose, aspetti dopo la manovra e vedrà”. In questo scenario, Grillo è ancora invocato da molti. Tanto che a Roma era già riapparso martedì scorso, solo per qualche ora. Una visita tenuta segreta, ma che conferma la sua voglia di tornare a essere più presente, accanto ai “suoi” parlamentari. “Io gli starò più vicino” aveva giurato il fondatore in quel video assieme a Di Maio del novembre scorso. Oggi però non potranno proprio incrociarsi, visto che il ministro degli Esteri sarà a Tripoli.

Però dovrebbe esserci tempo per un nuovo incontro, visto che Grillo si fermerà a Roma più di un giorno. E comunque, stando alle voci di dentro, Di Maio non deve temere nulla dal Garante. “Beppe resta convinto che il M5S si possa riprendere, e che Luigi rimanga l’unico capo possibile allo stato attuale” dicono un paio di veterani che hanno parlato con il fondatore negli ultimi giorni. Rimane sulla posizione che espresse già ad altri dopo l’incontro con Di Maio: “Se tolgo lui chi metto al suo posto?”.

E non è un quesito ozioso, per il M5S dove in molti continuano a tifare per un cambio di vertice, magari con un triumvirato o uno schema più largo. E a guidarlo, è la speranza che riaffiora, dovrebbe essere l’attuale ministro allo Sviluppo economico Stefano Patuanelli, popolarissimo tra i parlamentari. “Non ho mai pensato di fare il capo al posto di Luigi” ha precisato più volte il ministro. Però è un fatto che pochi giorni fa sia servito il suo intervento di ex capogruppo a Palazzo Madama per fermare almeno un altro paio di senatori pronti a lasciare il M5S, e in particolare il molisano Luigi Di Marzio. Difficile trovare un centro di gravità permanente, anche se ieri Casaleggio assicurava ai cronisti: “Il governo mi pare solido”. Però non deve esserne così sicuro il Di Maio che ieri sera ha riunito i ministri in Senato, ufficialmente per discutere di come rapportarsi con i nuovi facilitatori, ma di fatto per catechizzarli sul vertice di maggioranza notturno sulle autonomie.

Soprattutto, ci sono quei quattro voti che mancano alla manovra di ieri sera. Partendo dal no di Gianluigi Paragone: “Non sono stato eletto per tenere gli italiani ingabbiati in un bilancio imposto dall’Europa, e la Lega non c’entra nulla: a Salvini andrebbe bene Draghi premier o al Quirinale, a me no”. E il suo voto contrario potrebbe creargli problemi, visto che il regolamento del M5S obbliga a votare i provvedimenti blindati con la fiducia. Però c’è anche il passo di lato di Primo Di Nicola: “Non ho votato la legge di Bilancio, e non è certo un fatto di strapuntini. Chiedevo da mesi di mettere fondi per le scuole a più alto rischio sismico, ho rivolto anche un appello a Conte. Ma nulla. E poi io sono abruzzese, so cos’è il terremoto”. Ma la manovra non l’hanno votata neppure Mario Giarrusso, siciliano al secondo mandato, e i pugliesi Cataldo Mininno, membro della commissione Difesa, e Lello Ciampolillo. Oggi toccherà a Grillo (atteso anche alla Camera) provare a rimettere assieme i pezzi. Anzi, i cocci.

Conte frena sulla resa dei conti

“Un vertice, un incontro, nessuna verifica”. È Giuseppe Conte ad abbassare la temperatura della giornata politica intorno all’ora di pranzo. Per chi non avesse capito bene, rincara la dose: “Non staccherò la spina”. Eppure per giorni da Palazzo Chigi era filtrata la sua volontà di trasformare quello di ieri sera in un momento chiarificatore. Ma alla fine all’ordine del giorno del vertice entra solo l’autonomia. Quella che era partita come una riunione dei capidelegazione di maggioranza con il premier per fare il punto a 360 gradi su tutti i passaggi dirimenti che attengono il governo, viene ridimensionata. Almeno ufficialmente. Perché poi nella notte si parlerà pure d’altro. Ma senza la volontà di arrivare a conseguenze finali.

Che è successo? È stato il Pd a chiedere di rimandare il momento del redde rationem. “Bisogna chiudere la manovra. Il resto si vedrà dopo”, spiegano al Nazareno. In una situazione politica già sfibrata e sfilacciata, meglio scavallare questa scadenza. Poi, per i dem sono prioritarie le elezioni in Emilia-Romagna, più ancora che l’agenda di governo. A gennaio si vedrà. Conte si concentra sulla pars costruens. L’esecutivo – è il suo ragionamento – ha superato tre scogli non secondari: il dl sulla Popolare di Bari, la manovra e la risoluzione sul fondo salva-Stati. Scogli oltrepassati con qualche perdita (nel M5S), con altissime tensioni tra i partiti e dentro i partiti ma con un margine di numeri che a Palazzo Chigi si reputa ancora solido. Anche se a Palazzo Madama la maggioranza è in costante rischio.

Per dirla con un Matteo Renzi che monopolizza il Senato con uno show che va avanti a varie riprese per tutta la giornata: “Se il governo dura? Fino a gennaio potete andare in vacanza”. Le manovre e le contromanovre vanno avanti. “Il bicchiere è più che mezzo pieno, ma serve un cambio di passo”, dice il fu Rottamatore. Che poi intervenendo in Aula per la dichiarazione di voto sulla fiducia provoca: “Io voglio credere ai capi della Lega che evidentemente hanno superato la sbornia antieuropeista del no al Mes visto che sono arrivati a proporre un governo di unità nazionale. Una simpatica tarantella. Se davvero hanno voglia di essere seri e responsabili verso questo Parlamento, votino il piano choc sui cantieri”. Un amo “pubblico” lanciato al Carroccio: e infatti nella riunione preparatoria del Cdm dei ministri M5s escono le preoccupazioni per l’asse tra i due Mattei. Per ora, l’operazione proposta da Salvini pare non decollare. Dicono di no Pd e M5s. Ma un domani l’operazione potrebbe persino nascere attraverso la disarticolazione dei due principali partiti della maggioranza, con i renziani rimasti nel Pd a fare da sponda (ieri Renzi e Andrea Marcucci sono stati notati in fitta conversazione) e una parte di ribelli M5S pronti a uscire. Nel frattempo, tra i dossier irrisolti c’è quello sulla prescrizione. Andrea Orlando e Alfonso Bonafede continuano a trattare. La norma che la blocca entrerà in vigore il primo gennaio 2020, poi un aggiustamento si troverà. Almeno così pare.

Scilipeti

Ieri Libero, senza volerlo, ha reso un grande servigio all’informazione. Ha intervistato, l’uno accanto all’altro, i tre senatori eletti nei 5Stelle e passati alla Lega, sotto il titolo: “Ormai il M5S non esiste più. Ma i traditori non siamo noi”. Stefano Lucidi ce l’ha con Di Maio: “Un leader che passa dal 33 al 15% deve lasciare la poltrona”. Giusto. E lui lascia i 5Stelle perché “la democrazia dal basso resta inapplicata”. Vero. Però le due cose non stanno insieme. Di Maio fu scelto come capo politico nel 2017 dall’82% degli iscritti a Rousseau (“democrazia dal basso”) e a maggio, dopo le Europee, quando chiese loro se dovesse restare o andarsene, fu rieletto con l’80% (“democrazia dal basso”). Regole molto discutibili, ma piuttosto note a chi nel 2018 si candidò nel M5S guidato da Di Maio. Così come l’impegno, sottoscritto anche da lui, a mollare il seggio e versare 100 mila euro di multa in caso di cambio di casacca. Il che lo rende poco credibile quando accusa i 5Stelle di “incoerenza” sul Mes e s’imbroda per la propria “coerenza” nel “passaggio naturale alla Lega”. Naturale un par di palle, visto che Salvini ha tradito i 5Stelle prima su molti punti del Contratto giallo-verde, poi con la crisi di governo agostana per distruggerli con le elezioni subito. Quanto al Mes, Lucidi dimentica che i partiti scrivono il programma come se governassero da soli e poi, se non hanno i numeri, sono costretti a compromessi con gli alleati. Né il M5S né la Lega inserirono nel Contratto giallo-verde l’abolizione del Mes, ma solo la sua “revisione”. Ora non è stato firmato e si tenta di rivederlo, ma non dipende solo dal Parlamento italiano, che nell’Ue conta 1/27, e il M5S col suo 33% di seggi conta 1/81.

Ma ecco Ugo Grassi, nientemeno che docente universitario a Napoli: “La mia scelta non è contro il M5S, ma a favore del progetto della Lega”. Viva la faccia: poteva accorgersene due anni fa, candidarsi con Salvini e farsi sonoramente trombare. Invece si fece eleggere nel M5S e scrisse un dotto saggio sulla legittimità delle multe e delle dimissioni per i voltagabbana. “Non ho cambiato idea”. E allora perché non molla il seggio e scuce i 100 mila euro? Perché “la Lega riprende molte battaglie condivise nel contratto di governo”. Quali? “Riforma saggia della giustizia, sviluppo responsabile del Sud, difesa del made in Italy”. Se ci aggiunge la pace nel mondo, vince Miss Italia. Ma sa bene che la Lega non condivide nemmeno uno dei punti targati M5S nel fu Contratto: blocca-prescrizione, manette agli evasori, reddito di cittadinanza, dl Dignità, salario minimo, acqua pubblica, Tav, Tap, analisi costi-benefici sulle grandi opere ecc.

Il che rende molto comica la frase: “Il Movimento ha cambiato idea su Tav, Mes, Europa”. Se fosse vero, resterebbe da spiegare che ci faccia Grassi nella Lega, che ha cambiato idea sull’Europa (da no euro a sì euro, da no Draghi a sì Draghi financo al Quirinale), il Mes l’ha avviato nel 2011 col terzo governo B. e sul Tav ha votato insieme a Pd, FI e FdI contro la mozione No Tav dei 5Stelle. Che non hanno cambiato idea: sono finiti in minoranza perché la Lega ha tradito il Contratto. Cioè: Grassi contesta il M5S che non ha bloccato il Tav e passa con la Lega che gli ha impedito di bloccarlo, non è meraviglioso? Ma lui è fatto così: un anno fa votò la blocca-prescrizione, storica battaglia dei 5Stelle, ma ora s’è accorto che è “incostituzionale”. E commenta amaro:“In questo anno e mezzo ho imparato a mie spese che i vertici del M5S hanno difficoltà a capire cosa viene loro spiegato”. Tutti zotici tranne lui. Infatti, quando arrivò in Senato l’alt alla prescrizione dopo la prima sentenza, votò sì; poi, 12 mesi dopo, scoprì che era una boiata. Capisce tutto, ma con calma, perché ha i riflessi di un bradipo.

Il terzo è Francesco Urraro, che è un po’ il buontempone del terzetto. Quando gli danno del “nuovo Scilipoti” si inalbera, perché “Scilipoti passò dall’opposizione alla maggioranza, noi facciamo l’esatto opposto”. Sì, passano dal partito più in crisi a quello più in salute, da mesi in testa ai sondaggi, per mettere in crisi il governo e avvicinare le elezioni e il ritorno al potere. Si portano avanti col lavoro, anzi con la lingua. Anche Urraro è un uomo tutto d’un pezzo: non aveva ancora cambiato casacca e già tentava di infilare nel dl Fisco un emendamento per cancellare la blocca-prescrizione che lui stesso aveva approvato l’anno scorso senza fare un plissè: ora anche questo giureconsulto ha scoperto all’improvviso i “profili di incostituzionalità” di quello che chiama “progetto Bonafede” (che è legge dello Stato da un anno). Anche lui ha molta nostalgia per la “democrazia partecipata”: infatti passa da un movimento che coinvolge 140 mila iscritti a un partito dove Salvini comanda con pieni poteri in attesa di farlo sul resto degli italiani (gli raccomandiamo le regole staliniste, tipiche della democrazia partecipata, dell’imminente “congresso” leghista). E lo fa perché “nella Lega è possibile impegnarsi in molte battaglie condivise nel Contratto di governo e dimenticate dal Movimento”: infatti, dopo aver imposto Tav e Tap, Salvini ha già annunciato condono fiscale tombale, inceneritori e trivelle à gogo, smantellamento del reddito, gran ritorno della prescrizione e del bavaglio sulle intercettazioni, abolizione dell’abuso d’ufficio, dell’appropriazione indebita e di altri reati da stabilire in base alle indagini future. Insomma, se non incontrano mai un elettore, i nostri tre campioni di coerenza hanno un futuro radioso. Sempreché Salvini non ribatta la testa e non torni quello che il 2 agosto 2016 tuonava: “Se vieni eletto in Parlamento con quel partito e poi cambi partito, te ne vai a casa e ti togli dalle palle… Vincolo di mandato. Sennò poi ti trovi gli Scilipoti e i Verdini”. Ma forse parlava a nuora perché suocero intendesse.

Eco-mania anche al sexy shop: giochi erotici “plastic-free”

Se pensate che il sesso sia cosa tutta naturale, vi sbagliate: plastiche, ftalati, pvc, nichel, derivati dal petrolio arrivano – attraverso preservativi e giocattoli erotici – nelle zone più irraggiungibili, provocando non solo infertilità, disturbi ormonali e metabolici, allergie, ma anche, tra un gemito e l’altro, irrimediabili danni all’ambiente. Fuck yourself not the planet, è uno degli slogan dei ragazzi di Greta: e per fortuna, infatti, l’alternativa esiste, visto che il mercato – che vale 15 miliardi di dollari ed è in vertiginosa crescita – sta producendo sempre più sexy toys e vibratori plastic free e carbon neutral. Il vibratore o il dildo? Oggi non solo molti sexy shop li riciclano, ma ne esistono tantissimi di tipo ecologico – alcuni con forme naturali, ad esempio di foglia – senza ftalati, con tanto di packaging naturale e ovviamente fatti di materiali biodegradabili o riciclabili: da quello realizzato con polimeri di mais a quelli in legno, magari proveniente da foreste sostenibili oppure abbinato a piani di riforestazione. Ma vanno forte anche i dildi – o le palline di geisha da inserire in vagina – in vetro, che si può scaldare ed è “immortale”, oppure in acciaio inossidabile, gomma naturale o silicone medicale. E le batterie del vibratore? Rigorosamente ricaricabili, anche se si possono trovare sex toys abbinati a piccole stazioni di ricarica fotovoltaica, oppure esemplari a energia cinetica che sfruttano i movimenti del corpo o con ricarica a manovella. Per i veri sado-masochisti – ma non verso la natura – esistono poi corde naturali per bondage e fruste di gomma riciclata, fatta addirittura con le camere delle biciclette. E poi c’è il tema preservativi, 4 miliardi quelli prodotti e buttati ogni anno: meglio in lattice bio, o realizzati con gomma del commercio equo e solidale o con budello di pecora –biodegradabile – oppure veg, senza sostanze di origine animale. Via anche i lubrificanti fatti coi derivati del petrolio, sì solo se composti di acqua e estratti di piante, olio di cocco, aloe vera.

Insomma, oggi il sesso etico non è quello unicamente coniugale, ma quello integralmente ambientale. E infatti, a rigor di logica, non bisognerebbe acquistare eco-dildi, ma usare le cose già a disposizione, dalle candele alle verdure (e come lubrificante? Niente di meglio che l’ecologica saliva). Inoltre, come suggerisce il movimento francese delle Générations Cobayes, promotore dell’ “eco-orgasmo”, bisognerebbe rendere tutto il sesso ecologico: e dunque farlo a luce spenta, all’aria aperta, cenando prima in un ristorante biologico, arieggiando bene la stanza, e ovviamente niente panna. Resta un unico dubbio: dal sesso climaticamente corretto, di sicuro piacevole, i figli nascono o no? Gli ambientalisti sono divisi tra chi sostiene che siamo in troppi e di chi dice che il problema non è il numero, ma i pochi che inquinano. Speriamo che il cruccio non si traduca in litigate rovina-tutto. Magari proprio sotto trapunte senza perfluorurato e lenzuola di cotone organico. Sarebbe davvero un (eco) peccato.

L’aumento di stipendio ai sindaci nella Val d’Aosta senza presidente

In Valle d’Aosta Babbo Natale è già arrivato. In anticipo. Sotto forma di un “pacco regalo” che riguarda, però, soltanto 148 valdostani (in prima battuta), cioè tutti i futuri sindaci e i loro vice. Potranno usufruire della nuova legge grazie alla quale aumenteranno decisamente le loro “indennità”. La decisione è stata approvata con 28 voti a favore su 35, poco prima che la Regione stessa rimanesse decapitata: il governatore Antonio Fosson si è dimesso dopo l’avviso di garanzia per scambio elettorale politico mafioso nell’inchiesta sul condizionamento delle Regionali del 2018 in Valle d’Aosta da parte della ’ndrangheta.

Dice la consigliera Patrizia Morelli (Alliance valdotaine), relatrice del provvedimento: “Punto rilevante è il ripristino dell’elezione diretta del vice sindaco anche nei Comuni sotto i mille abitanti (42 su 74), l’innalzamento della quota (che passa dal 20 al 35%) per la rappresentanza di genere e l’adeguamento dell’indennità dei sindaci”. Di tutt’altro avviso, ovviamente, Roberto Cognetta (Mouv’), uno dei 7 contrari. Sostiene, infatti, che con questa decisione le spese per la politica aumenteranno del 45% e si domanda: “In questo momento di difficoltà in cui si parla, al contrario, di ridurre i costi della politica, era proprio il caso di approvare questa legge? È uno schiaffo in faccia ai cittadini valdostani”.

Ma la ricerca di “guadagnare” di più non è solo valdostana. Nei giorni scorsi, a livello nazionale, grazie all’emendamento Mancini (Pd) al decreto fiscale, tutti i sindaci d’Italia dovrebbero vedersi riconosciuta una nuova indennità. “Un riconoscimento importante per gli amministratori che sono in prima linea”, ha detto Marco Bussone, Presidente nazionale dell’Uncem (Unione Comuni di Montagna). In particolare, nei Comuni sotto i mille abitanti, dovrebbero arrivare a 1.400 euro al mese. Oggi ne prendono 1.290. Chissà se sanno che i loro colleghi valdostani già prendono, oggi, e sempre per paesi sotto i mille abitanti, circa 1.750 euro: 500 di diaria fissa e 1.250 di “compenso”. D’ora in poi, con la nuova legge regionale approvata il 3 dicembre scorso, agli stessi sindaci (meno di mille abitanti) competerà un rimborso di 1.900 euro al mese. Diventano 2.100 per Comuni fino a 3 mila abitanti; 2.900 fino a 5 mila; 3.600 fino a 15 mila e 5.100 sopra i 15 mila residenti (solo Aosta). E “il consiglio comunale ha la facoltà di aumentare fino ad un massimo del 20 per cento l’indennità mensile lorda di funzione”. Naturalmente l’indennità è ridotta del 50% se i sindaci sono lavoratori dipendenti (e continuano a lavorare) o pensionati.

Nel vicino Piemonte, ad esempio a Carema (790 abitanti), al sindaco (secondo il decreto 119 del 2000) spettano 1.290 euro. A Perloz il suo collega valdostano, con meno abitanti (467) prenderà 1.900 euro. Ma i “rischi” e i “gravosi impegni” che citano i promotori della nuova legge non sono gli stessi dei colleghi di altre Regioni? E nella vicina Francia? Lì il sindaco di paesi fino a 500 abitanti prende 646,25 euro; 1.178,46 fino a mille abitanti e 1.634,63 se gli abitanti salgono a 3.500.

Il massacro dei cronisti messicani: “Chiediamo l’aiuto internazionale”

I capelli, serpentelli castani, li allunga sempre all’indietro. E anche gli occhi curiosi non si fermano mai. Dolenti pure quando ridono. Mai visto nessuno così, scoppi improvvisi di allegria e il dolore inchiodato nello sguardo.

Marcela Turati è venuta in Italia a portare nelle università la vita sua e dei suoi colleghi giornalisti tra lampi di orgoglio e groppi in gola. Voleva raccontare, dice, la denutrizione dei bimbi messicani, le disuguaglianze, il bisogno di riforme sociali. Erano i primi anni novanta. Ma bastò la boa dei Duemila per scoprire che molti come lei si erano ritrovati a fare i corrispondenti di guerra. Senza partire, senza essere andati da nessuna parte. Restando nel loro Paese, e senza che fosse dichiarata alcuna guerra. Semplicemente, a un certo punto la morte violenta e la sparizione diventarono la vera cifra di una terra ancora capace di divertirsi, di tifare calcio e di allevare moltitudini di bambini. Con ottimi musei e splendori antichi. Immersi nel sangue.

Marcela ha origini italiane: lombarde, precisa ai giovani che la fissano increduli e affascinati. Il bisavolo ebbe a che fare con l’ospitalità di cui godette Trotzky a Città del Messico quando tutto il mondo lo respinse. Poi si fa prendere dall’emozione. Recita il rosario dei colleghi uccisi, gli amici che più aveva cari. Due volte l’ho sentita, e in tutt’e due ho avvertito la fatica immane di pronunciare quei nomi senza scoppiare in pianto.

Pochi cenni per ognuno, pitture amorevoli e leggere. Armando Rodriguez, ucciso a Ciudad Juarez; Javier Valdés, “il maestro di noi tutti”, ucciso a Sinaloa; il fotografo Ruben Espinosa, che scappò a Vera Cruz, ma inutilmente, perché anche lì lo raggiunsero… Li nomina di corsa, difficile starle dietro sul taccuino. È un rimpianto senza colpa, quasi polvere d’anima. Sta costruendo la rete dei “periodistas da piè”, come vengono chiamati i giornalisti di inchiesta, quelli che non si incollano ai tavoli e ai video, ma vanno a vedere, cercano, camminano, chiedono.

Ti fa immaginare che siano in tanti. Ma appena scavi capisci che i “tanti” sono tenera utopia. Piccoli gruppi, piuttosto, che operano in quindici stati su trentadue, quelli dove la stampa ha ancora cittadinanza. Quanti per gruppo? Non si sa. Un po’ si trovano di persona, spiega, ma poi ci sono le chat. E tuttavia, precisa, sono voci “solitas”, che esprimono comunità “chiquitas”. Si perde, Marcela, sui visi degli studenti. E intuisci che a volte vorrebbe averne altrettanti davanti a sé nel suo Paese. Ci hanno costretto a diventare altra cosa dai giornalisti, confessa, annuendo con qualche malinconia alla domanda se siano, insieme, “periodistas” e “activistas”. D’altronde alcune inchieste le devono fare nel tempo libero, le direzioni di testata non amano che si infilino troppo nelle vicende dei narcos, o della corruzione che si fa sistema. Anche la conta febbrile dei morti, anche le riprese mozzafiato di chi va a cercarsi i suoi cari armato di zappa e unghie, sono scelte personali. Di gente che in gruppo ha bisogno di incontri emotivi, “psicologici”.

Lo stesso presidente dell’ultima rivoluzione, Lopez Obrador, non sembra considerare molto il valore sociale della libera informazione. A settimane alterne, spiega Marcela, ci sentiamo dire che la stampa è contro la patria e contro lo Stato, perfino “contra el pueblo”, che la “prensa” è una prostituta, che stampa e verità sono due cose opposte. “Ma ci si rende conto del messaggio che si dà a chi ci vuole uccidere? E in effetti il governo spende per la protezione dei giornalisti, nonostante le centinaia tra uccisi, sequestrati e torturati o minacciati fisicamente, meno di quanto dedichi al sostegno del baseball”. Lo dice, lo ripete, e un fremito fa sussultar la gola.

Le chiedono che cosa spera per il Messico dei prossimi cinque–sei anni. Lei risponde una cosa sola. Non benessere, né libertà, né pace. Ma l’istituzione internazionale di “una commissione contro l’impunità, per la verità”, la stessa che oggi pare un totem proibito, e a cui ha dedicato il suo libro sulle vittime, “Las cenizas” (“Le ceneri”). Se ha paura? Glielo domandano con rispetto, non così brutalmente. Spiega che abita a Città del Messico, ma che i suoi vivono nel Nord. E per questo, di alcune zone, preferisce non scrivere. Per non condannare a morte i suoi genitori. Quale libro vorrebbe scrivere? Uno sul massacro dei migranti, risponde. E ora capirete il mistero degli occhi che ridono dolenti.

Guai di Trump, Brexit, tregua sui dazi. È la calma prima della tempesta?

In questo scampolo di decennio l’economia mondiale è soggetta a numerose scosse telluriche. La settimana scorsa è iniziata con la richiesta di impeachment per Trump, la riunione della Fed, poi l’esordio di Christine Lagarde al Consiglio Direttivo della Bce, seguito a ruota dalla vittoria di Boris Johnson, e infine l’annuncio del primo armistizio nella guerra fredda commerciale tra Usa e Cina.

I mercati azionari e dei cambi hanno festeggiato il voto pro-Brexit con l’equivalente di una solenne sbornia. Una reazione dovuta principalmente a un senso di sollievo dopo tre anni e mezzo di farsesche tribolazioni politiche e allo scampato disastro di un governo Corbyn intento a nazionalizzare e tassare. Il futuro invece non si presenta a tinte rosee. Abbandonare il mercato più grande del mondo per inseguire l’illusione di una Singapore on steroids sull’Atlantico solleva più di un dubbio oltre ad una robusta dose di risate. Nell’immediato Johnson dovrà ingegnarsi ad onorare una cospicua mazzetta di onerose cambiali elettorali, dalla spesa pubblica per le infrastrutture ai sussidi per le regioni de-industrializzate (dove regna la convinzione che i loro guai dipendano dagli immigrati). Mentre il negoziato sui futuri rapporti con la Ue, che vede Johnson nel ruolo del chihuahua contro il doberman, naviga in alto mare col timone in avaria. Per finire, l’en plein dei seggi in Scozia ottenuto dai nazionalisti, prelude ad un nuovo referendum sull’indipendenza. Anche l’annuncio di un iniziale accordo tra Usa e Cina sulle dispute commerciali (confermato con scarso entusiasmo da Pechino) ha innescato una reazione di sollievo sui mercati finanziari. Dopo 18 mesi in cui si sono susseguiti ed intrecciati sussurri, grida e minacce sembra che si sia stabilito un minimo comun denominatore. In sostanza, il rischio di un’insana escalation stile anni ’30 di follie protezionistiche, è stato scongiurato. Ma sugli sviluppi futuri è bene riporre una non modica quantità di scetticismo. Non è improbabile che la tempistica dell’annuncio sia motivata da una strategia mediatica per contenere i danni politici dell’impeachment. Per il resto l’accordo prevede la sospensione delle nuove raffiche di dazi da ambo le parti che sarebbero scattati il 15 dicembre, mirabolanti acquisti di derrate agricole americane e impegni vaghi da rendere operativi in un imprecisato futuro su svalutazioni competitive, protezione della proprietà intellettuale, trasferimenti di tecnologia e tante altre questioni spinose.

Infine le due maggiori banche centrali non hanno riservato sorprese: Fed e Bce restano in attesa di un Godot chiamato crescita. Nel frattempo la Lagarde si dedica a lisciare il pelo ai politici ventilando nuovi impegni per la Bce sull’ambiente e la redistribuzione del reddito. Sono temi molto à la page ma su cui una banca centrale ha scarsi strumenti per influire.