Caro Enrico, ecco un anniversario da celebrare. Il 23 dicembre del 1969 nacque a Milano il primo Comitato per la libertà di stampa e per la lotta contro la repressione. Ossia il gruppo Giornalisti Democratici, un manipolo di coraggiosi cronisti stufi di farsi manipolare e condizionare. Fu ufficializzato il 12 gennaio 1970, vi aderirono più di 100 giornalisti. Volevano raccontare fedelmente quello che avevano visto e sentito, “invece di ricostruire i fatti con le veline, ossia sulla base delle versioni fornite dalle autorità”, disse Marco Nozza, inviato di punta del Giorno. A quei tempi, esercizio arduo: “Per mesi i giornali di informazione, compresi in parte quelli di sinistra”, avevano “macinato la farina delle notizie false, diversive”, ricordò Giorgio Bocca (Le bombe della destra, in Le bombe di Milano, AA.VV). Giornalisti sospettosi, tenaci, ma non arroganti. Tantomeno acquiescenti. Soprattutto dopo il misterioso “volo” dell’anarchico Giuseppe Pinelli da una finestra del quarto piano della Questura Centrale di Milano il 15 dicembre, tre giorni dopo Piazza Fontana. Troppe cose non quadravano. E le verità precostituite erano decisamente orientate in una sola direzione, verso gli ambienti anarchici e l’estremismo di sinistra, trascurando la pista “nera”. I “giornalisti democratici” misero in dubbio “il punto di vista dominante”, rievocò lo storico Enzo Traverso (Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Ombre Corte ed. 2006). Confrontarono le fonti e le verificarono. Furono loro a scrivere per primi che la democrazia era in pericolo, non parteciparono al linciaggio mediatico contro Pietro Valpreda, sollevarono dubbi sulla testimonianza del tassista Cornelio Rolandi. Corrado Stajano sintetizzò la svolta mediatica: “Questori, prefetti, commissari di polizia, magistrati, abituati a venire esauditi nei loro desideri dalla stampa amica, sono esterrefatti di dover rendere conto di quel che dicono, fanno o non fanno, non soltanto ai giornalisti sovversivi della stampa d’opposizione, ma ai giornalisti della stampa borghese”.
Miracolo Atalanta, già trent’anni fa
È vero, la storica qualificazione dell’Atalanta ai sedicesimi di Champions, che ha emozionato e commosso l’Italia, arriva per la prima volta (e non potrebbe essere altrimenti: l’Atalanta è addirittura al suo debutto); ma anche se pochi lo ricordano, non è questa la prima volta in cui il club bergamasco sbalordisce il mondo mettendosi a sfoderare prodezze in Europa. Era già successo 32 anni fa, nell’87–’88, e se vogliamo, visto che l’Atalanta giocava allora in serie B, lo stupore fu addirittura superiore. Vi domanderete: che c’entra l’Europa con una squadra di serie B? C’entra eccome. A fine anni 80 i tornei Uefa erano tre: la Coppa dei Campioni, riservata ai detentori del titolo, la Coppa Uefa, riservata ai club meglio piazzati in classifica dopo i vincitori e la Coppa delle Coppe, riservata ai trionfatori nelle coppe nazionali. Ebbene: a vincere la Coppa Italia, nell’86–’87, era stato il Napoli di Diego Armando Maradona dopo la doppia finale con l’Atalanta di Nedo Sonetti, appena retrocessa in serie B.
Il Napoli, però, avendo vinto lo scudetto avrebbe disputato l’anno successivo la Coppa dei Campioni; e per regolamento in Coppa Coppe avrebbe trovato posto il club sconfitto in finale di Coppa Italia, cioè l’Atalanta. Squadra di serie B, per l’appunto. Il presidente Bortolotti ha affidato la squadra a Emiliano Mondonico. In porta c’è Piotti, in difesa Progna e Carmine Gentile, a centrocampo Stromberg, Icardi, Nicolini e Andrea Fortunato, in attacco Cantarutti e Garlini (detto “Oliviero bomber vero”). E pensate un po’, l’avventura europea incomincia in malo modo esattamente come quest’anno in Champions con la batosta (0–4) in casa della Dinamo Zagabria: l’Atalanta va in Galles e sul campetto del Merthyr Tydfil (alzi la mano chi mai l’ha sentito nominare: oggi non esiste più) rimedia una non proprio onorevole sconfitta per 2–1. Per fortuna, nel match di ritorno vince 2–0 e salva la faccia passando agli ottavi; dove opposta ai greci dell’Ofi Creta inizia, pur da declassata, a mostrare di che pasta è fatta. Sconfitta 1–0 a Creta, nel ritorno a Bergamo ribalta i greci (2–0, Nicolini–Garlini) e accede ai quarti di finale dove incrocia un club di rango come lo Sporting Lisbona.
Nella storia della Coppa delle Coppe non è mai successo che un club di 2ª divisione sia approdato alle semifinali, ma i ragazzi di Mondonico entrano nel Guinness dei Primati: all’andata, in casa, trascinati da Stromberg (che si procura il rigore dell’1–0 trasformato da Nicolini) rifilano ai portoghesi un 2–0 durissimo da rimontare; e al ritorno, sotto di un gol segnato al 66’ da Mario Jorge, pugnalano lo Sporting con un contropiede italian style finalizzato da Cantarutti. 1–1, l’Atalanta di serie B è in semifinale e qui incontra la squadra rivelazione del calcio belga, il Malines del leggendario portiere Preud’Homme. Andata in Belgio e grande prova dell’Atalanta che annulla con Stromberg l’1–0 di Ohana e solo nel finale cede al 2–1 di Den Boer. Al ritorno basta vincere 1–0 per volare in finale: e il sogno sembra avverarsi quando “Oliviero bomber vero” segna al 39’ un calcio di rigore. Bergamo non crede ai propri occhi, ma il miracolo non si compie: nel secondo tempo Rutjes pareggia al 59’, l’Atalanta ci prova in tutti i modi ma nel finale la trafigge Emmers: 1–2, ma grazie lo stesso, piccola, grande Atalanta! Oggi bella come ieri.
Crescita delle disuguaglianze: il razzismo dilaga tra i poveri
Mentre la Lega è ormai saldamente primo partito del paese, scopriamo da Swg che il 55% degli italiani considera gli atti di razzismo potenzialmente giustificabili. Un altro studio (della Liuss) ci informa intanto che il supporto per la Lega è particolarmente forte nelle classi povere. Il quadro è chiaro: la Lega e il suo messaggio xenofobo sono egemonici tra le fasce più deboli, nelle quali quello dell’immigrazione è ormai divenuto tema dirimente.
Come è potuto accadere? Cosa è cambiato? Il presupposto di molte analisi è che gli italiani fossero prima meno razzisti e si debba ora comprendere la loro “conversione”. A me pare invece che il fenomeno vada letto altrimenti: a cambiare non è stata la diffusione della xenofobia ma piuttosto la sua priorità relativa nella definizione delle identità dei singoli. Persone cioè che hanno sempre occasionalmente espresso pregiudizi xenofobi ne hanno ora fatto la base ossessiva del loro senso di sé stessi. Lo vedo tra tanti vecchi amici: la battuta, il pregiudizio razzisti c’erano anche prima, ma marginali. Erano forse razzisti, ma non votavano razzista, non “vivevano” razzista. Le priorità erano altre. In anni recenti, invece, i loro profili social si sono trasformati in mitragliatori di propaganda antiimmigrati; la xenofobia è diventata lente privilegiata con cui leggere ogni aspetto della realtà. Quali sono state le ragioni di questo salto? Paura, ignoranza, disinformazione? Sono spiegazioni superficiali, parziali. Non spiegano cioè le spinte profonde dietro a questo trincerarsi delle classi più deboli in un’identità razziale che era prima marginale.
Nel suo libro Umanità in rivoltà, Aboubakar Soumahoro ricorda un episodio di ordinario razzismo: una macchina si accosta al marciapiede dove sta camminando e il guidatore (italiano) gli dice, semplicemente: “Tu sarai sempre a piedi”. Come la si spiega una cosa del genere? Paura? E di cosa? Volontà di umiliare? Certo, ma non tanto di umiliare lui specificamente. L’umiliazione dell’immigrato non è il punto. I greci la chiamavano hybris: la sopravvalutazione, l’affermazione eccessiva del proprio diritto al rispetto che ha l’effetto di umiliare il prossimo. Il punto di simili comportamenti, ci spiega Aristotele, è il piacere di affermare una superiorità, di imporre un senso sproporzionato del proprio valore. Il mio sospetto è che dietro a tanti atti quotidiani di razzismo, che si coagulano poi in scelte politiche xenofobe, ci siano proprio dinamiche di questo tipo: il bisogno, cioè, di affermare il proprio diritto ad un riconoscimento specifico e differenziale.
Che il bisogno di rispetto sia la leva fondamentale dell’identità soggettiva e delle azioni che ne derivano è dato acquisito in tanta filosofia e psicologia sociale e cognitiva. Già Aristotele aveva capito che i meccanismi motivazionali fondamentali dell’essere umano sono il desiderio di guadagno e quello di onore. Questo bisogno lo si può normalmente soddisfare in tanti modi: c’è chi è stimato per le sue capacità professionali, per la sua generosità, per il suo ruolo di marito, di madre, per le sue doti calcistiche o quel che sia. Questo pluralismo del rispetto permette a una varietà di individui di crearsi identità confortevoli, degne di stima.
Ciò che è davvero cambiato negli ultimi decenni non è né la famigerata “invasione” né vette nuove di disinformazione, ma il livello delle diseguaglianze. E accanto all’impoverimento generale che ha colpito soprattutto le fasce più deboli c’è stato un processo di umiliazione collettiva. Un criterio di valore unico, il successo economico, si è mangiato tutti gli altri, compreso quello del merito, a dispetto di quanto vanno ripetendo i “vincenti” di questo tardo capitalismo. Non è cioè il successo a seguire il merito, ma l’opposto: i criteri del merito sono definiti a posteriori a giustificare e consolidare una superiorità materiale esistente. Così chi sta peggio si è scoperto anche sfaticato, bamboccione, fallito, ignorante, stupido – le sue scelte di vita sistematicamente derise e squalificate.
L’identità cucita addosso a numeri crescenti di italiani è umiliante, insostenibile. Qual è davvero l’appeal del razzismo per queste masse bistrattate e schernite? È la possibilità stessa di sentirsi degni di rispetto, di vedersi riconosciuto un valore – anche come superiorità in qualcosa, su qualcuno! – sulla base non di criteri di successo sempre fuori portata, ma della semplice appartenenza etnica. Affermare la propria superiorità razziale significa cioè investire su un criterio di valore a buon mercato, nel quale ci si possa avviluppare e stare caldi, sicuri nel rispetto di sé stessi e di un gruppo definito di altri che sposano quella stessa identità e quello stesso criterio di valore.
È una scelta identitaria brutta, un criterio di valore escludente e violento. È anche, in fondo, un vicolo cieco che produce rispetto finto, insicuro, ansioso. Eppure, in una società che riserva risorse, prospettive e soprattutto rispetto a un’élite sempre più ristretta, non sorprende che questa appaia alle fasce più deboli l’unica scelta identitaria ancora aperta (e legittimata da forze politiche opportuniste), capace di garantire un modicum di autostima, di riconoscimento. È giusto deprecare, criminalizzare il razzismo, ma non basterà. Solo in una società più equa, in cui esistano altre vie, aperte a tutti, per costruirsi una vita degna, il razzismo potrà essere marginalizzato.
Antisemita a corte: foto con Macron imbarazza l’Eliseo
Stanno sollevando polemiche le foto di Emmanuel Macron e di sua moglie Brigitte insieme a Elie Hatem, monarchico, amico del “patriarca” del Front National Jean-Marie Le Pen e fervente ammiratore di Charles Maurras, uomo politico antisemita. Gli scatti sono stati realizzati l’8 novembre scorso, all’Eliseo, durante una cerimonia per la consegna della Legione d’onore agli attori Jean- Paul Belmondo e Robert Hossein e allo stilista Ralph Lauren. L’Eliseo ha parlato di “incidente” e di “manipolazione”. Ma intanto le foto, pubblicate sul profilo Facebook di Hatem e poi ritirate, in cui si vedono Emmanuel e Brigitte Macron posare insieme al controverso avvocato franco-libanese, hanno fatto il giro dei social network giovedì scorso.
Molte personalità hanno gridato la loro indignizione, tra cui l’intellettuale socialista Raphaël Glucksmann e Alexis Corbière della France Insoumise, partito della sinistra radicale, ma anche l’Unione degli studenti ebrei di Francia (Uejf).
“Come è possibile che Elie Hatem, ex membro di Action Française e cospirazionista di estrema destra, sia stato ricevuto in pompa magna all’Eliseo?” ha scritto l’Uejf su Twitter. Mediapart ha ricostruito la storia di questi scatti. L’8 novembre, dunque, all’Eliseo, Jean-Paul Belmondo, Robert Hossein e Ralph Lauren hanno ricevuto la prestigiosa medaglia da Emmanuel Macron. Elie Hatem era tra gli ospiti della cerimonia. Sentito da Mediapart, Hatem ha spiegato di essere stato invitato “dai suoi amici Belmondo e Robert Hossein, a titolo personale e per amicizia”. Ci ha spiegato: “Una volta alla cerimonia, come fanno tutti, ho scambiato qualche parola con il capo dello Stato e ho fatto delle foto insieme a lui. Mi sono anche congratulato con lui per la sua politica estera fedele alla tradizione diplomatica della Francia”.
Cosa le ha risposto il presidente? “Che è amico del Libano e dei libanesi. Sono stato molto impressionato dalla sua visione delle relazioni internazionali! Emmanuel Macron – ha aggiunto Hatem – conosce il mio percorso: sa che sono stato stretto consigliere di Boutros Boutros-Ghali, dell’ex presidente del Libano Amine Gemayel e dell’attuale Michel Aoun. Sa anche quali sono i miei legami con il Medio Oriente e con la Siria”. Ieri – ha continuato Hatem – si è tenuta a Parigi una riunione, voluta da Emmanuel Macron, per tentare di risolvere la crisi in Libano. Ho colto l’occasione per ringraziarlo per i suoi sforzi ed ho pubblicato quelle foto. Non pensavo che avrebbero sollevato polemiche”, ha aggiunto, divertito da tanto “scalpore”.
Contattato da Mediapart, l’Eliseo ha dovuto ammettere: “È stato un incidente”. E ha riconosciuto che, in tutta questa vicenda, è stato vittima di “manipolazione”. L’entourage del presidente ha confermato la presenza di Elie Hatem alla cerimonia di consegna delle medaglie, ma ha anche precisato: “Non è stato invitato da noi. Quel giorno c’erano più di duecento persone nella Salle des fêtes”. L’Eliseo nega che si sia tenuta tra Hetem e Macron una conversazione su temi di geopolitica. “Ovviamente, il presidente non ha mai parlato di Libano con Elie Hatem. In questo genere di ricevimenti, capita spesso che le persone avvicinino il presidente per consegnargli dei fascicoli o per illustrare la loro situazione personale”, è stato spiegato. Come è possibile che un personaggio così dubbio sia riuscito a trovarsi al fianco del presidente e di sua moglie senza alcuna allerta da parte degli uffici dell’Eliseo? “Verifichiamo eventuali precedenti di polizia degli ospiti che figurano sulla lista, per ovvi motivi di sicurezza, ma è impossibile ricostruire la carriera politica di ognuno di loro”, hanno risposto. Di fronte alle reazioni scatenate dagli scatti, la stessa fonte ha spiegato che “sarà portata avanti una riflessione sulla questione delle liste degli invitati nelle cerimonie di quel tipo all’Eliseo”, in modo tale che la situazione non si ripeta.
La presidente della Uejf, Noémie Madar, intervenuta sul quotidiano Le Parisien, ritiene che “bisogna essere prudenti: stiamo parlando di un fedele seguace di Maurras che mostra di avere una certa vicinanza con il presidente della Repubblica”. Per Macron, in effetti, la presenza di Elie Hatem all’Eliseo è più che imbarazzante. Il franco-libanese, 54 anni, avvocato di professione (ha in particolare difeso in passato il mercenario francese Bob Denard), è stato per molti anni membro del comitato direttivo di Action française, un movimento politico filomonarchico e nazionalista. È sempre stato un fermo difensore delle idee di Charles Maurras (1868-1952), il maître à penser di Action française, teorico dell’“antisemitismo di Stato”. Lo scorso aprile, ha tenuto una riunione ad Avignone in omaggio a Maurras. Ha partecipato a alcuni raduni organizzati dal movimento cattolico fondamentalista Civitas. Il 19 gennaio 2019, Hatem è stato anche invitato a un convegno in presenza di diverse figure vicine a Alain Soral, il saggista più volte condannato per antisemitismo e istigazione all’odio razziale. Erano presenti: Hervé Ryssen, condannato a sua volta a più riprese per dichiarazioni antisemite, Jérôme Bourbon, direttore del giornale negazionista Rivarol, e Yvan Benedetti, ex membro del movimento di estrema destra l’Oeuvre française e sostenitore del maresciallo collaborazionista Pétain. “Il mio nome è stato fatto, ma non sono andato a quell’incontro. La riunione mi era stata annunciata come patriottica. Avrei dovuto illustrare la mia visione della protezione delle identità nazionali. In Francia, non si riesce a capire che si può partecipare a una riunione politica anche senza condividere le idee degli organizzatori – ha detto Elie Hatem a Mediapart –. Quali frasi antisemite mi possono essere rimproverate? È l’Uejf a tacciarmi di antisemitismo. Io sono “anti-niente” – ha commentato infastidito -. Non ho pregiudizi. Ho cugini di confessione ebraica e drusi, quindi non posso essere contro una comunità o una nazione. Posso essere in disaccordo con delle idee o con delle figure politiche, o anche con dei progetti politici”.
Eppure, al quotidiano Libération, il franco-libanese aveva spiegato di non essere andato all’incontro di gennaio solo per “motivi di agenda”, ma di aver “acconsentito a tenere un discorso a nome di Action française su invito di Yvan Benedetti”.
Dopo l’episodio della riunione intorno a Alain Soral, persino la stessa Action française aveva finito col prendere le distanze da Hatem. L’organizzazione, tramite il suo portavoce Antoine Berth, aveva spiegato all’epoca a Mediapart che Elie Hatem, “rinchiuso nella sua follia razzista”, non faceva più parte di Action Française e del suo comitato di direzione. L’università Paris XIII aveva a sua volta annullato il corso di diritto che l’avvocato franco-libanese teneva nell’ateneo, in particolare dopo la protesta degli studenti ebrei dell’Uejf. Elie Hatem aveva risposto su Facebook, denunciando una “cabala mediatica” contro di lui. Ma c’è di più. Intervenendo più volte sui media di estrema destra, il franco-libanese ha anche difeso delle teorie cospirazioniste. Lo aveva fatto notare il Journal du Dimanche: Hatem ritiene che l’Isis e il Fronte Al-Nusra siano degli “esecutori”, si “interroga” sulle responsabilità degli Stati Uniti e di Israele, ed è apparso in un video in cui “rende omaggio alla memoria” del maresciallo Pétain.
Nel febbraio 2016, in un’intervista alla tv saudita Al Arabiya, aveva dichiarato che i “movimenti sionisti e la massoneria controllano la stampa e il governo in Francia”. Hatem non ha mai neanche nascosto la sua vicinanza a Jean-Marie Le Pen, fondatore del Front National (oggi Rassemblement national, la cui leader, Marine Le Pen, è la figlia di Jean-Marie, ndt), il quale, nel corso degli anni, ha moltiplicato le dichiarazioni a sfondo antisemita.
Nel 2016, Elie Hatem aveva raccontato a Mediapart come è nata la sua amicizia con la famiglia Le Pen: “Ho incontrato Marine quando aveva 18 anni, in una serata tra amici. Avevamo probabilmente delle conoscenze in comune. Ho solo due o tre anni più di lei. Siamo diventati amici. Un giorno mi ha chiesto: “Ti interessa conoscere un po’ di gente?”. Abbiamo cominciare a fare delle interviste, delle altre cose, ed è così che sono diventato amico di Jean-Marie Le Pen”, ci aveva raccontato. Ci aveva anche spiegato perché non ha mai aderito al Front National: “È contrario alle mie idee e al mio concetto di democrazia diretta, in altre parole alle idee di Maurras. Ritengo che i partiti politici deformino il gioco democratico, perché gli elettori votano per le idee e non per le persone”. L’avvocato invece è stato candidato per il Front National alle municipali di Parigi nel 2014. Alle elezioni legislative del 2017, si è presentato nel dipartimento del Var (sud) con l’etichetta comune dei comitati “Jeanne au secours” di Jean-Marie Le Pen, di Civitas e del Parti de la France, altro partito di estrema destra.
Nel febbraio 2017, Elie Hatem era intervenuto inoltre per agevolare il viaggio di Marine Le Pen in Libano e il suo incontro con il presidente Michel Aoun. Ben inserito a Cipro e a Mosca, si è anche mostrato al fianco dell’oligarca russo Konstantin Malofeev, che dice di frequentare regolarmente. Il mecenate e uomo d’affari, accusato in particolare di aver finanziato i separatisti russi in Crimea, ha incontrato almeno due volte Jean-Marie Le Pen: a Montretout, la dimora dei Le Pen, a fine 2013, e nella sede del suo fondo di investimenti, a Mosca, nell’ottobre 2014. Malofeev è sospettato di aver svolto un ruolo attivo nel prestito russo ottenuto quell’anno dal fondatore del Front National: nel 2014, infatti, a cavallo dei due incontri citati sopra, 2 milioni di euro erano comparsi nelle casse di Cotelec, il micro partito di Jean-Marie Le Pen. Il bonifico era stato effettuato via una società con sede a Cipro.
(traduzione Luana De Micco)
Papa Francesco: l’Argentina lo conosce. E non si esalta
Qual è lo scenario religioso del Paese da cui il papa proviene e nel quale ha trascorso più di settant’anni della sua vita? E cosa pensano del pontificato di Bergoglio gli argentini a quasi sette anni dal suo inizio? Siamo in grado di rispondere a queste domande grazie ai risultati della “seconda inchiesta nazionale sulle credenze e gli atteggiamenti religiosi in Argentina”, presentata pochi giorni fa a Buenos Aires. Si tratta di un lavoro imponente, basato sull’analisi di un campione rappresentativo dell’intera popolazione nazionale. Tra quelli dei direttori del gruppo di ricerca troviamo i nomi di sociologi notissimi e prestigiosi come Fortunato Malimaci e Veronica Giménez Bélivau. Un ulteriore valore aggiunto proviene dalla possibilità di comparare i dati del 2019 con quelli di un’inchiesta analoga condotta undici anni fa dal medesimo istituto, il Ceil/Cinicet.
Il primo risultato è assolutamente clamoroso: in poco più di un decennio, la quantità di argentini che si definiscono cattolici è letteralmente crollata, passando dal 76,5 al 62.9%. Ad occupare lo spazio liberato dalla ritirata del cattolicesimo sono stati sia i protestanti evangelici, cresciuti dal 9 al 15,3%, che soprattutto i “senza religione”, arrivati in pochi anni a rappresentare quasi un quinto (esattamente 18,9%) della popolazione argentina (nel 2008 erano l’11,3%). Se questa tendenza proseguisse inalterata, nel volgere di mezzo secolo, il cattolicesimo si sarebbe in queste lande quasi estinto o perlomeno trasformato in una piccola confessione religiosa tra le altre. Per capire che quest’ultimo non è un pronostico assurdo basta osservare la distribuzione del campione per fasce di età: coloro che si dichiarano cattolici tra i maggiorenni under 29 sono poco più del 50%, una percentuale di dieci punti più bassa della media nazionale; tra gli ultrasessantacinquenni, i fedeli alla Chiesa di Roma sono più dell’80%. La tendenza opposta si riscontra tra i protestanti e i senza religione, in crescita impressionante soprattutto all’interno della popolazione più giovane. Insomma, il cattolicesimo argentino ha i capelli grigi, le altre componenti hanno un profilo nettamente più giovanile e smagliante.
Per giunta, la fede dei cattolici è, rispetto a quella dei protestanti, molto meno legata alla pratica: solo l’1,7% dei cattolici dichiara di andare a messa tutti i giorni e soltanto un altro 11,2% confessa di rispettare il precetto della partecipazione alla funzione domenicale. La maggioranza dei cattolici rivela di recarsi a messa solo in occasione di “eventi particolari”, di occasioni speciali. Al contrario, le chiese protestanti dell’Argentina sono strapiene, se è vero che ci vanno ogni giorno quasi il 30% degli aderenti ai gruppi evangelici e che un altro 23.7% di costoro dichiara di recarvisi almeno una volta alla settimana. In definitiva, è assai probabile che già oggi, in cifra assoluta, in Argentina, i protestanti praticanti siano più numerosi dei cattolici praticanti.
E veniamo ai dati sulla popolarità di Papa Francesco. Nell’insieme della popolazione argentina il sentimento nettamente prevalente, col 40,6% delle preferenze ottenute, è quello di una sonora indifferenza verso i gesti e le azioni del papa. Il resto del campione si divide perfettamente tra chi fornisce un giudizio positivo del pontefice (il 27,4%) e chi invece ne offre uno critico (il 27%). Il restante 5% non ha un’opinione al riguardo. Limitando l’osservazione agli intervistati che si dichiarano cattolici, scopriamo che solo un terzo di costoro valuta con favore l’azione del papa e che gli altri sono indifferenti o ostili.
Due considerazioni si impongono concludendo l’analisi di questi dati preziosi. La prima riguarda la reputazione di Francesco tra i suoi connazionali. Nel suo paese natale, a differenza che altrove, in pochissimi si sono fatti sedurre dal fascino del pontefice. Gli argentini conoscono troppo bene Bergoglio per pensare che egli possa mai trasformarsi in un coraggioso leader riformista capace di ristruturare il cattolicesimo.
La seconda considerazione concerne invece i contenuti del messaggio papale, la preferenza che Bergoglio accorda ai temi politici e sociali rispetto a quelli più strettamente religiosi. Leggendo i dati della ricerca, e avendo in mente anche lo scenario di molte altre regioni del continente sudamericano, si comprende che il papa proviene da un contesto che per l’organizzazione che dirige è il più difficile e complicato che si possa immaginare, giacché alla crescita dell’indifferenza religiosa si somma quella del pentecostalismo evangelico. Per il cattolicesimo è una situazione tragica, nella quale ad una secolarizzazione di dimensioni e rapidità europee si aggiunge una proliferazione di gruppi protestanti simile, almeno nel volume di proseliti, a quella in corso in Africa. Da questa spirale mortale, la Chiesa Cattolica non può certo uscire con un rigurgito tradizionalista, cioè ponendo l’accento solo sull’intangibilità dei “valori non negoziabili”, sulla immutabilità della dottrina tradizionale. Se seguisse questa linea, la situazione non potrebbe che peggiorare, il declino sarebbe ancora più rapido.
Servono rimedi strutturali e profondi. In attesa di trovarli, e immaginando che mai possano essere introdotti in un’organizzazione così rigida, il pontefice ha accettato di diventare il principale punto di riferimento morale di quella vasta galassia mondiale che denuncia l’ingiustizia sociale e l’inquinamento del pianeta. La gente continua ovunque a scappare dalle chiese, ma Francesco ha scoperto, per sé e forse per il futuro del papato, una nuova vocazione. Nei luoghi dove non è conosciuto sembra funzionare.
Micro-dittatori per gioco: “Così ho creato Molossia”
“Innanzitutto non sono un re, ma il dittatore e regnante sovrano della mia propria Nazione”. A lui ti puoi rivolgere chiamandolo Eccellenza. King Kevin è il fondatore della micronazione di Molossia, uno Stato che non esiste. Se non nel mondo parallelo dei dittatori–giocattolo e dei loro regni immaginari. Un inno, una moneta, una bandiera. A volte perfino costituzioni e leggi. Le micronazioni funzionano come Stati sovrani nella scala minore della parodia, ma sono scherzi presi sul serio dai fondatori. L’autoproclamato presidente Kevin risponde subito via mail spiegando che il sogno di Molossia è colpa di un film: “Il ruggito del topo”, visto da bambino insieme al suo amico James, compagno di un’adolescenza trascorsa fingendo di amministrare la “Grand Republic of Vuldstein”, nata dalla loro fantasia nel maggio 1977. Questo è l’inizio della leggenda, ma la fine arriva con una defenestrazione. Nel 1998 James diventò comunista e Kevin decise di deporlo, dichiarare la dittatura militare e creare – con un recinto per confine, manichini per doganieri e fucili finti –, la sua Repubblica di Molossia. Oggi Kevin riceve continuamente mail di aspiranti residenti, “soprattutto dal Medio Oriente, ma solo chi fa parte della mia famiglia può vivere a Molossia, dove sono bandite per motivi ambientali le lampadine, le sigarette, le buste di plastica, i pesci gatto”; perché Molossia ha una pietra angolare “sui cui è stata fondata: la fantasia”.
Kevin dedica la sua giornata ad incontri e apparizioni pubbliche, al varo di missioni navali – sua moglie o i suoi figli in canotto rosso nello stagno – al lancio di razzi del suo programma spaziale: fuochi d’artificio che fa brillare nel deserto americano del Nevada, dalle cui autorità è palesemente da anni ignorato. “Le medaglie sulla divisa me le sono appuntate da solo, per tutto quello che ho fatto per Molossia”, e per i suoi cittadini. In totale 32, ma solo un paio sono umani. Ogni micronazione è un periscopico gioco di ruolo di bambini che, quando dovevano diventare adulti, hanno trovato un pezzo di terra abbandonato e si sono proclamati – colmi d’audacia e follia – tiranni assoluti del regno della loro immaginazione. Non si sa quante micronazioni esistono ma molte altre potrebbero apparire e scomparire da un momento all’altro. Ciò che accade una volta, può sempre tornare a verificarsi.
Prima di Molossia c’era Baldonia, micronazione ormai dissolta, ma fondata nel 1949 su quattro acri di terra britannica da un lobbista della Pepsi ubriaco di rum: Russel Arundel. Un’isola dai tre imperativi: la pesca era dovuta, il rum era obbligatorio e le donne erano vietate. Anche guerre immaginarie sono state combattute. Per un articolo apparso all’epoca sulla Literaturnaja Gazeta Baldonia nel 1953 dichiarò guerra all’Urss, che però non se ne accorse mai.
Esiste dal 2001 ancora oggi Westartica: un pezzo di Antartide che nessuna nazione vuole e ora è reclamato però dall’autoproclamato “duca Trevis”. Irreali, inverosimili e metafisiche. Le micronazioni sono decine, a volte anche virtuali per chi trova i confini degli Stati veri ed esistenti obsoleti. A un miglio dalle coste del Connecticut è stata disegnata un’altra eccentrica traiettoria geografica nel territorio indipendente di North Dumpling Island. Nata attorno ad un vecchio faro, l’isola funziona esclusivamente sfruttando l’energia solare ed eolica, per volere del suo “inventore”, l’ecologista Dean Kamen, che ha dalla sua parte l’assenza di timore e una ragione tutta verde per timbrare visti sui passaporti dei turisti che riescono a raggiungerlo tra le onde. Alcune micronazioni sono nate da battaglie legali: è successo in Svezia del sud, dove sono bastate sculture di legno dichiarate abusive dal Governo di Stoccolma per convincere l’artista Lars Viks a fondare Ladonia. Il principe Leonard (al secolo Leonard Casley) invece lo scorso febbraio è morto nel micro–impero da lui fondato a Hutt River Province, 75 chilometri quadrati di sabbia rossa e arsa dal sole a Nord di Perth, Australia occidentale. “Nella città più isolata del mondo, più vicina a Singapore che a Sydney”, Leonard si era incoronato come Napoleone nel 1970, aveva aperto una banca (funziona tuttora) e coniava francobolli e banconote con la sua faccia sopra. Alla sua morte il fisco australiano ha reso noto che è in debito di 3 milioni di dollari.
Le micronazioni sono figlie delle illusioni di uomini eccentrici e dei loro tentativi utopici, ma possono rivelarsi anche progetti economicamente maliziosi. A volte basta un’aia di casa, a volte una terra di nessuno, dove prova ad esistere da qualche anno Liberland. Lungo la lingua di terra disputata tra Croazia e Serbia sin dal dopoguerra, le richieste di cittadinanza sono migliaia perché l’economista ceco Vik Jedlicka ha dichiarato che nella sua micronazione non esistono tasse da pagare.
La solitudine dei regni irrilevanti. Indifesi e solitari, non riconosciuti dal resto della terra che non posiziona i loro domini sulle sue mappe ufficiali, i presidenti dei mondi sperduti o che non esistono hanno deciso di incontrarsi in un’aula nel 2017 al loro vertice mondiale: il Microcon. Un summit con una ventina di dittatori–giocattolo riuniti. Tra loro sua maestà Anastasia della Ruritania, – nome di una fittizia nazione europea inventata dallo scrittore Anthony Hope –, ha spiegato meglio di tutti perché si diventa senza vergogna fondatori di uno stato–scherzo: “Quando non sono la regina, sono quello che le persone vogliono sia, quando sono la regina, sono chi voglio essere”.
“Quel libro infangato dove Pavese scrisse il suo addio”
C’è un ricordo che riassume bene Franco Vaccaneo, figlio di contadini, classe 1955, una laurea in Lettere con una tesi sull’antropologo Arnold Van Gennep, svariati saggi letterari, e gli oltre 40 anni di vita trascorsi a Santo Stefano Belbo, il paese natale di Cesare Pavese (1908-1950). Oltre 40 anni, i suoi, vissuti in veste di bibliotecario civico e soprattutto di guida e artefice del Centro studi e poi della Fondazione dedicati all’autore di La luna e i falò. Era il novembre 1994. La grande alluvione aveva sommerso il Piemonte e le Langhe, non risparmiando la palazzina in riva al torrente Belbo dove, da qualche anno, era ospitato il centro pavesiano. Vaccaneo, che ne era stato uno dei fondatori, si aggirava desolato per i locali invasi dalla furia del Belbo. Aveva appena ripescato nella fanghiglia la copia originale di Dialoghi con Leucò su cui Pavese aveva scritto, nella notte del suicidio, il suo biglietto d’addio.
Il volume era tutto fradicio, forse perduto. “Pavese nel fango”, titolò L’Unità, “è il simbolo dell’Italia ferita”. Il libro, per fortuna, venne restaurato e salvato. Fu quello l’inizio di una nuova lunga avventura umana e culturale in un grosso borgo agricolo e vinicolo delle Langhe, che, per decenni, aveva ignorato Pavese, il suo cittadino più illustre, certo, ma, ahinoi, noto per essere “comunista e suicida”.
Vaccaneo è andato in pensione, ha lasciato la biblioteca di Santo Stefano Belbo e la Fondazione Pavese. Ciò che ha fatto, tuttavia, resta, anche se nel suo paese non gli è stato pienamente e ufficialmente riconoscuto. Ne ha affidato le memorie a un libro, Cesare Pavese e gli altri. Cronaca della mia anticarriera (Priuli & Verlucca, pagine 255, euro 14.90), frutto di un dialogo con Mara Chiritescu, traduttrice di Pavese e di altri scrittori italiani in Romania. Vi ha premesso questa considerazione, essenziale per capire da dove è partito e dove è riuscito ad arrivare: “La provincia in cui sono nato e quasi sempre vissuto, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, per la cultura era come una terra di missione. La cultura, come la intendiamo oggi, non aveva spazio alcuno e la presenza di Cesare Pavese, nato quasi casualmente a Santo Stefano Belbo, era più un ingombro da rimuovere che una sfida intellettuale da affrontare”.
Con la gestione di Vaccaneo, il Centro studi e in seguito la Fondazione Pavese, ubicata nel centro antico con l’annessa ex chiesa dei santi Giacomo e Cristoforo, il paesone langarolo ha visto transitare scrittrici e scrittori famosi, pittori e registi di alto livello, studiosi e studiose di fama internazionale. Attraverso convegni, concerti, mostre, spettacoli, incontri, è diventato un polo di attrazione culturale proiettato ben al di là dei confini regionali. Alla stregua di Pablo Neruda, perciò, Vaccaneo può dire a ragione: “Confesso che ho vissuto”. E adesso può raccontare, assieme alla vittorie, pure qualche sconfitta e qualche amarezza di un intellettuale come lui e della sua “anticarriera”. Come quando, nel 2009, Oscar Farinetti, il patron di Eataly, lo volle presidente della Fondazione Emanuele di Mirafiore, nata per valorizzare e pubblicizzare, con alcune iniziative di cultura, l’appena acquistata tenuta vinicola di Fontanafredda, sempre nelle Langhe. La rottura con Farinetti, però, non tardò ad arrivare. Scrive Vaccaneo: “Chi capì per primo l’intento strumentale e commerciale di quest’operazione fu Danilo Manera, valente ispanista”, che aveva chiamato a fare parte del direttivo. In un primo tempo, continua, “ci rimasi male”, ma, “col senno di poi, devo ammettere che aveva ragione quando intravedeva in questo progetto di Farinetti, solamente funzionale ai suoi disegni di marketing e, soprattutto, al suo ego smisurato, una totale inconsistenza culturale”. Scrive ancora Vaccaneo del camaleontico Mister Eataly: “Poi ci fu il capitolo del renzismo nascente e anche qui mi trovai spiazzato perché per me la cultura è sempre stata un valore assoluto che non può essere asservita al potente di turno, tant’è che non partecipai mai agli incontri con Renzi, allora astro sorgente della politica italiana”. La morale? Le sue dimissioni dalla Fondazione farinettiana. “È stata, da parte mia”, ammette oggi Vaccaneo, “una imperdonabile ingenuità pensare che un commerciante con velleità pseudo intellettuali, potesse avere un qualche interesse liberale per la cultura”. Dopo Manera, in sostanza, “uno dopo l’altro se ne andarono gli altri amici, da me coinvolti, che avevano capito l’equivoco, e anch’io in seguito lasciai, avvilito e amareggiato” da questa “fenomenologia farinettiana, travestita da mecenatismo”. Una fenomenologia, rammenta, ben descritta in un articolo di Gilberto Corbellini sul Sole 24 Ore: “Farinetti racchiude quel mix di presunzione disinformata, simpatica aggressività da piazzista, vittimismo di fronte alle critiche, furberie e intrallazzi politico-amicali che è la cifra dell’irresponsabilità del self made man italiota”.
Sebbene sia stato anche altro (ha fondato, per esempio, un piccolo e vivace centro culturale nell’Alta Langa incontaminata di San Giorgio Scarampi), quello che si può chiamare, in ogni caso, il Bibliotecario di Pavese, si gode la sua pensione sempre nel segno pavesiano. Ha in cantiere, per il 2020, un nuovo libro su Pavese, con qualche inedito. E coltiva, realmente, il suo orto sulla collina: “La scuola dell’umiltà l’ho frequentata maneggiando la zappa e la vanga nel mio orticello, guardando in basso verso la terra dei padri, versando anch’io un giusto tributo di sudore e fatica”.
Franceschini, il ministero distrutto a colpi di riforma
Morire di riforme (senza mai verificarne i risultati): ecco il destino del ministero per i Beni Culturali. Un corpo esangue, anzi ormai uno scheletro ambulante, che ogni nuovo (o vecchio-nuovo) ministro si diverte a vestire con un vestito nuovo, a favore di telecamere. Pochi giorni fa, dunque, ecco la “nuovissima” riforma Franceschini ter, che riforma la riforma Bonisoli, che riformava quella fatta dal Franceschini bis (Gentiloni) che autoriformava quella del Franceschini primo (Renzi), che stravolgeva quella di Massimo Bray. “Che al mercato mio padre comprò”, verrebbe da celiare in questa eterna Fiera dell’est che è diventato il Collegio Romano: se la situazione non fosse tragica. Già, perché tra blocco del turn over, quota 100, promesse di concorsi non realizzati, ormai l’organico del Mibact è sotto di migliaia di unità: solo con circa 8.000 assunzioni immediate e lo sblocco istantaneo del turn over si potrebbe ricominciare a lavorare. Lo si vede in periferia, dove gli archivi e le biblioteche e i musei non di cassetta chiudono sempre più a lungo, ma anche al centro. Come presidente del Comitato tecnico scientifico delle Belle Arti ho appena chiesto formalmente al Direttore generale di inviarci in tempo utile le pratiche da esaminare, e la risposta è stata che “il carico di lavoro è diventato insostenibile”.
È colpa di un avverso destino, o è il risultato di una attenta strategia? La risposta va cercata nell’avvento di Matteo Renzi che affida il Collegio Romano a Franceschini. Il mandato è chiaro: Renzi aveva scritto che “soprintendente è la parola più brutta del vocabolario”. Di lì a poco, in tv da Vespa, la Boschi e Salvini si dissero d’accordo nell’abolire le odiate soprintendenze. Tutta l’esperienza Franceschini va letta in questa ottica: stroncare la tutela sul territorio (ricordate lo Sblocca Italia e la riforma Madia?) e contestualmente spingere per la commercializzazione di ciò che rende. Presentando questa ennesima riforma, Franceschini ha dichiarato: “Abbiamo un patrimonio dati che nessun Paese al mondo ha, il cui valore culturale, ma si badi bene anche commerciale, è enorme e va gestito con intelligenza”. Dunque ormai non si parla più di valore “economico”, ma direttamente “commerciale”: e d’altra parte gli infiniti apologeti di Franceschini tendono a dimenticare il provvedimento forse più devastante che egli ha approvato, la Legge Marcucci (scritta direttamente dalle lobbies dei mercanti, insediatesi al Mibact) che equipara i beni culturali a merci, e permette di esportarli con una semplice autocertificazione di valore. Naturalmente in quest’ultima riforma non c’è il paesaggio, ancora una volta dimenticato e abbandonato. La strategia è fin troppo chiara: far dimenticare che al Mibact non spetta solo governare la bellezza, ma anche vegliare sul territorio e fermare cementificazione e speculazione edilizia. Per farlo, occorrerebbe mettere le soprintendenze in grado di funzionare, di dire di “no”: tutto il contrario di ciò che vuole Franceschini, lanciato a tutta forza verso la poltrona che Sergio Mattarella libererà nel 2022, e dunque determinato a dire solo “sì”. Tanto che le famose “soprintendenze uniche” (quelle miste), pensate per far contare la competenza (e dunque la capacità di tutela) sempre di meno, nemmeno in questa riforma vengono messe in grado di funzionare
Poi ci sono i conigli dal cilindro, pensati per far scattare l’applauso. La creazione di una Soprintendenza del Mare a Taranto, per esempio: città dove non solo non si riesce a governare la tragedia dell’Ilva, ma dove non funzionano (per inedia) le istituzioni culturali che già ci sono. O la creazione di un’ennesima direzione generale centrale (la storia è sempre quella: un corpo sempre più magro e macrocefalo), stavolta per la Direzione generale per la salvaguardia del patrimonio: idea in sé giusta, ma con questi numeri solo propagandistica e inerte se non si ridisegnano i confini delle competenze con la Protezione Civile e gli Enti locali, che nelle ultime catastrofi hanno di fatto esautorato ciò che resta delle soprintendenze (la tragedia del patrimonio del cratere umbro-laziale-marchigiano è lì a dimostrarlo). O, ancora, la creazione di un’altra (!) direzione generale, questa volta per la Digitalizzazione del patrimonio: diversa a quella per l’Educazione e ricerca, si badi. Un doppione assurdo: o forse la palmare dichiarazione del fatto che la digitalizzazione viene intesa in senso puramente commerciale, e dunque nulla a che fare con educazione e ricerca, pur estendendo il suo dominio sulle grandi Biblioteche nazionali, viste ormai come inerti depositi di immagini e testi da buttare sul mercato globale. Il vero fine, naturalmente, è l’ennesima accelerazione sui musei autonomi (che follemente includono ora lo scatolone del Vittoriano), in una balcanizzazione del patrimonio che condurrà – se il governo regge – alla loro trasformazione in fondazioni di diritto privato. D’altra parte, Alberto Bonisoli assicurava che, al suo arrivo, si era già ad un passo dall’andare dal notaio per far partire questa esiziale “autonomia differenziata” e privatizzazione del patrimonio. Ma come sempre – se togliamo le critiche della Cgil, di Emergenza Cultura e dei precari di Mi riconosci? – per Franceschini si leva solo un coro di elogi. La sua linea mette d’accordo Renzi e Salvini (non ci vuol molto, del resto), e ora che è diventato il perno del Conte bis, anche il mondo 5 Stelle o plaude o tace. Tuttavia, come diceva Gian Lorenzo Bernini, il tempo scopre la verità. Anche se spesso non la scopre in tempo.
“Non riusciamo a ricoverare 2 pazienti su 10”
Ettore Corradi, medico, specialista in nutrizione clinica, dal 1999 dirige la struttura complessa Dietetica e nutrizione clinica dell’ospedale Niguarda di Milano.
Qual è la situazione, dottor Corradi?
Valutiamo ambulatoriamente circa 2.000 pazienti con patologie di interesse nutrizionali ogni anno. Se ci focalizziamo su anoressia, bulimia nervosa e forme miste le persone sono 250 l’anno, di cui il 50 per cento necessita di una presa in carico almeno con un ricovero in regime diurno. Attualmente seguiamo circa 60 i pazienti.
Le altre?
Purtroppo circa il 15- 20% delle persone che si rivolgono a noi, le perdiamo al follow-up. In molti casi perché non siamo in grado di dare loro una pronta risposta di cura ai livelli adeguati. Questo per carenza di medici, risorse oltre a posti letto. Nel nostro reparto disponiamo di 6 letti: la metà dei quali dedicati a pazienti in cura per casi di malnutrizione organica ad esempio a seguito di interventi chirurgici, malattie che provocano malassorbimento o terapie oncologiche.
L’età di chi chiede aiuto?
L’età di esordio della malattia è, in genere, compresa tra i 15 e i 19 anni, ma negli ultimi anni abbiamo visto esordi anche di bambine di 11 anni e si iniziano a vedere in numero consistente anche pazienti cronicizzate di 40-50 anni. Nelle più piccole si vedono comportamenti particolarmente drastici: smettono di colpo di mangiare e bere, diventando subito urgenti. Ma ci sono altri due dati a mio avviso rilevanti.
Quali?
Negli ultimi dieci anni sono aumentati i casi che arrivano dal pronto soccorso: oscillano tra i 15 e i 20 l’anno e la tendenza è a crescere. La seconda cosa è che c’è poca percezione nel “sentire comune” del fatto che ci troviamo di fronte a patologie che si sviluppano nel tempo. Nell’anoressia nervosa, il tasso di remissione è del 20-30% dopo 2-4 anni dall’esordio e del 70-80% dopo 8 o più anni, mentre nella bulimia lo stesso tasso è di circa il 27% a un anno dall’esordio e di oltre il 70% dopo 10 o più anni.
Anoressia e Tso.
Il tema è sicuramente drammatico e complesso. Spesso mi chiedo se chi parla di Tso sappia di cosa si tratti. Bisogna ricordare che stiamo parlando di pazienti per cui la malattia è la soluzione. Sono soggetti “egosintonici” con la malattia, ovvero stanno bene con il loro sintomo, quindi quasi tutti hanno un atteggiamento ambivalente verso le cure e la reale “volontarieta” è sempre difficile da stabilire. Altrettanto difficile è stabilire i criteri di urgenza che possono consentire un Tso: e la legge parla di urgenza e non di gravità.
Quale è il vostro orientamento?
Noi puntiamo decisamente su altro. Cerchiamo di lavorare sulle famiglie nell’ambito di una équipe in cui siano presenti psichiatri e psicologi. È indispensabile una visione multidisciplinare: sono pazienti in cui la connessione tra corpo e mente costituisce un aspetto centrale. Se le cose funzionassero dovrebbero essere assegnate più risorse per attuare i livelli di cura considerati necessari e utili per queste patologie.
Resta una prevalenza di pazienti provenienti da contesti più agiati?
I fattori socioculturali nei disturbi alimentari sono molteplici. Secondo le prime osservazioni il disturbo colpiva in maggioranza adolescenti delle classi sociali più elevate nei Paesi occidentali, ora si presenta in maniera trasversale.
Proposta indecente: “Tso per i casi di anoressia grave”
Un paio di scarpe gialle. Martina (nome di fantasia) alza lo sguardo dal telefono solo per le scarpe color canarino della ragazza che attraversa la stanza. Nonostante la temperatura del reparto ospedaliero, Martina resta avvolta nel bozzolo del suo cappotto grigio perla, stretto al collo da una sciarpa di lana. I calzoni scampanati di colore nero lasciano intravedere gambe troppo secche. Lei continua a picchiettare sul suo telefonino. Nulla la distrae. Solo quegli scarponcini gialli: “Belle scarpe!”. “Grazie anche le tue”. Martina risponde prontamente all’altra ragazza: “Le tue di più”. Quel di più che nella vita di Martina corrisponde al sempre meno. Meno cibo.
“Tutti parlano di anoressia, bulimia e Tso per la cura di queste patologie”, esordisce Umberto Nizzoli presidente della Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare (Sisdca). “Stiamo parlando della prima causa di morte per malattia in pazienti di sesso femminile nella fascia di età compresa tra i 12 e i 25anni, ma la verità è che non interessa a nessuno”. Andrea Bacciga è solo l’ultimo, in ordine di tempo. Stiamo parlando del consigliere comunale della lista di centrodestra “Battiti per Verona” rinviato a giudizio pochi giorni fa per il saluto romano che rivolse, in aula consiliare, alle attiviste di Non Una di Meno; noto anche per la mozione secondo cui le istituzioni cittadine avrebbero dovuto denunciare per diffamazione il calciatore Balotelli per aver parlato dei cori razzisti dei tifosi dell’Hellas Verona. Bacciga ha presentato un ordine del giorno per proporre, nei casi più gravi di anoressia ( definita “restrittiva” ) che il sindaco possa disporre il trattamento sanitario obbligatorio (Tso).
Come brandire la clava in una cristalleria, parlare di Tso quale possibile soluzione di una tra le malattie mentali più devastanti per il corpo e la sua biologia. L’ordine del giorno di Bacciga verrà alla fine bocciato, ma il deserto rimane.
Nel 2015 poi era stata la deputata Pd Sara Moretto a presentare una proposta in materia di “accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per la cura di gravi disturbi del comportamento alimentare”. Su richiesta – precisa oggi Moretto – di alcuni genitori del Coordinamento nazionale delle Associazioni di cui fa parte, a Verona, anche Crisalide, presieduta da Luca Borini.
Lo stesso Borini che si è pubblicamente dichiarato contrario alla proposta di Bacciga: “A noi non è piaciuta la superficialità con cui è stata portata avanti la mozione”, il commento del genitore.
Il dottor Umberto Nizzoli della Sisdca intanto spiega: “Curare queste patologie non è facile, solo nel 70% dei casi si ottiene un esito favorevole. Nel restante 30%, la malattia diventa resistente ai trattamenti, si cronicizza. Chi soffre di anoressia nervosa e bulimia spesso pretende e ottiene da se stesso il controllo del proprio corpo rifiutando le cure. In Italia poi le attuali normative che regolano il Tso sono di impossibile applicazione. Proprio per questo sarebbero quanto meno necessarie nuove modalità operative che possano risultare più utili e praticabili, invece che ricorrere al Tso da attuare con i servizi psichiatrici”.
Esiste in Gran Bretagna e Norvegia: in Italia si può?
Chi ne è affetto da anoressia ha un quoziente di intelligenza spesso superiore alla media. Ottiene buoni risultati scolastici, nonostante il cervello lavori a bassissimo regime rispetto a quelle 500 kilocalorie di cui avrebbe bisogno ogni giorno per funzionare al meglio. La “macchina” viaggia perennemente in riserva, ma chi la guida – nonostante il regime di iponutrizione – riesce a non farla spegnere. Laura, mamma di Anna (nome di fantasia) descrive la malattia come “una torre d’avorio” in cui rinchiudersi per non essere raggiungibile da nessuno. L’anoressia è lenta, ma bisogna essere veloci nel riconoscerla. “Non ho avuto subito la consapevolezza di cosa stesse accadendo” ammette la madre la cui figlia, alta 162 centimetri, pesava solo 35 chili. Il non aver capito cosa stesse accadendo ha complicato le cose. Anna ha iniziato a soffrire a 12 anni, ma le cure sono arrivate due anni dopo. “Scegliere di ricoverarla in una clinica psichiatrica non ha migliorato la situazione. Anzi. Sono riusciti a farla arrivare a42 chili – racconta Laura – ma l’aumento di peso non è coinciso con una crescita psicologica, quindi per Anna quei chili in più erano solo un altro nemico da combattere”. Uscita dalla clinica la ragazza ha iniziato ad avere comportamenti autolesivi che prima non aveva manifestato. Per Anna la vita è difficile: difficile uscire con le amiche così come accontentarsi di un 8 a scuola. “Per noi – confida la madre – il dolore più grande è sapere che lei si colpevolizza per tutto, attorcigliandosi su se stessa. Ha sempre paura di disturbare. In fondo, pensa che anche il suo disagio sia un capriccio. Ma non è così. Sono malattie della mente che hanno percorsi lunghi, difficili” conclude la madre. “È una ragazzina piacevolissima che pretende di raggiungere sempre il massimo in tutto. Anche nell’anoressia…”. Una patologia, l’anoressia, basata su due pilastri: mancanza di consapevolezza della gravità della propria condizione e azzeramento della motivazione alla cura. Il Tso, laddove dovesse essere applicato, andrebbe accettato dalla paziente e richiederebbe dei protocolli che oggi l’Italia – con le sue carenze croniche di risorse, medici e posti letto – rende pressoché impraticabili. Non esiste neppure uno studio epidemiologico, nel nostro Paese.
In paesi come Gran Bretagna e Norvegia dove il Tso alimentare per la cura dell’anoressia viene utilizzato, le rilevazioni rispetto alle casistiche dimostrano come questo trattamento sostanzialmente non cambi la traiettoria della malattia a lungo termine. In Italia, l’incidenza dell’anoressia nervosa è di 8 nuovi casi per 100mila persone all’anno tra le donne e 0,02-1,4 nuovi casi ogni 100mila l’anno fra gli uomini. Nel Regno Unito le nuove diagnosi di anoressia sono rimaste stabili dal 1968 al 1990 pari al 2-3 per 100mila abitanti, mentre dal 2002 al 2011 sono aumentate al 5-6 sempre per 100mila persone. Ma le variabilità sono dovute più a una diversità dei criteri diagnostici che altro. Quello che invece è certo è che “in Italia manca persino la specialità di medicina – assicura il dottor Nizzoli – ed è per quello che stiamo per avviare un corso online. Eppure non dovrebbe dipendere da noi la formazione di figure specialistiche in un ambito così delicato e controverso che richiede approcci multidisciplinari integrati tra medicina, nutrizione, psichiatria e psicologia”.
Casi estremi: pazienti mini o in pericolo di vita
Caterina, oggi ha 19 anni e frequenta la facoltà di Lettere. Tre anni fa – aveva 16 anni – le è stata diagnosticata una forma di bulimia nervosa. “Sono stata fortunata perchè i miei genitori se ne sono accorti. Io non mi sono tirata indietro, lasciando che mi aiutassero”. Il ricovero in una grande struttura privata e l’approccio aggressivo della psichiatra non l’hanno però aiutata. Il Tso per casi estremi, per pazienti in pericolo di vita? “È evidente che se si tratta di minori può subentrare l’intervento dei genitori – puntualizza sempre il dottor Nizzoli – ma in caso di persone maggiorenni entrano in gioco anche temi di natura etica, come ad esempio la possibilità del rapporto con la morte come sfida permanente della persona. Inoltre, la maggior parte delle persone che ha una massa corporea incompatibile con la vita può avere marcatori ugualmente nella norma”. I valori del sangue, della pressione e dell’ossigeno possono essere pressoché regolari. “Nei casi di anoressia restrittiva si è in presenza di persone contente del proprio corpo, iper controllate, perfette e che trovano piacere nel ‘sopprimere’. La loro attività cognitiva non è mai intaccata dall’impoverimento nutrizionale. Soprattutto, hanno un elevato livello di competenze in materia”.
Caterina intanto racconta: “Prima di andare dalla dietista non bevevo perché l’acqua pesa”. Mi facevo scrivere il peso su un bigliettino perché non avevo il coraggio di sentirlo. Per me era impossibile entrare dalla psicologa senza prima andare in bagno a vomitare”.
Caterina era diventata bravissima a fingere con se stessa, ingannando il mondo intorno.