Furbissimo Smartbox: “Poche tasse e ultradestra”

Chi di noi non ha mai comprato o ricevuto uno Smartbox, il cofanetto regalo che promette soggiorni meravigliosi da scegliere fra centinaia di località? È pratico, economico, simpatico. Report, in vista del Natale, è partito da alcune recensioni negative sul web per andare a vedere cosa c’è davvero dentro (e dietro) i cofanetti regalo e ha scoperto quello che non ti aspetti. Che il cliente Smartbox è trattato come “un cliente di Serie B” e comprando i cofanetti si finisce per finanziare, in Francia, una sorta di progetto politico a metà tra l’ultradestra conservatrice e la privatizzazione del welfare. Il quasi monopolista del settore è monsieur Pierre Edouard Sterin, imprenditore di successo che ha acquistato tra l’altro la veronese Wish Days e il marchio “Emozioni al cubo”, mandando a casa i lavoratori. Ha fatto lo stesso con alti 90, nel suo Paese, quando ha trasferito tutto in Irlanda per pagare meno tasse come fanno altri alti giganti del web e non solo. Fattura attorno ai 500 milioni di euro l’anno.

La trasmissione di Sigfrido Ranucci lo racconta stasera alle 21.30 su Raitre nel servizio di Giuliano Marrucci, che ha mobilitato tutta la famiglia per fare la prova. Tanto per cominciare con Smartbox è difficile trovare posto, Marrucci ha chiamato 26 strutture ricettive e ben 19 gli hanno risposto che erano al completo: il 75 per cento. A volte però il posto c’è con Booking o chiamando direttamente alberghi e bed and breakfast. Quando poi si trova posto, a volte, trovi la moquette usurata, i materassi macchiati, il frigobar vuoto. E magari la stanza del vicino è più bella. Perché? Spiega un albergatore: “È a nostra discrezione accettare o rifiutare. Ognuno ha la sua politica. Noi mettiamo a disposizione una camera, questa. Più di una non la mettiamo. Denunciatemi, fate quel che volete. Il cliente Smartbox è di serie B, perché di questi 60 euro, quello che voi pagate, levata la luce, l’acqua, le coperte, la commissione eccetera, a noi rimangono 2 euro”. La commissione di Smartbox, secondo l’albergatore, è del 30 per cento, mentre le altre piattaforme di prenotazione, dice lui, prendono “massimo il 18”, magari il 20.

Marrucci è andato a chiedere a monsieur Sterin, uno che ha “il desiderio di diventare un santo” e lo dice. Nel merito risponde che “non è normale”, che a lui “risulta che solo il 15% dei nostri partner non rispetta le regole e la prima regola è che il cliente Smartbox è come tutti gli altri. Se lo tratti come cliente di serie B, ti sbattiamo fuori” Promette che in futuro saranno “più esigenti”. I soldi che risparmia sulle tasse, spiega, li dà in beneficenza. Così a esempio finanzia “La nuit du bien commun”, una serata per raccogliere fondi per le ragazze madri e contro la pornografia. Tra gli organizzatori, racconta Marrucci, c’è anche “Stanislas Billot De Lochner, figlio di François Billot de Lochner, tra i principali animatori del movimento Manif pour Tous, nato per opporsi alla legge che introduceva il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Francia. Oppure Xavier Caïtucoli, storico dirigente del Mouvement national républicain, piccolo partito di estrema destra alleato della Le Pen”. Il nemico, per Sterin, è l’alta burocrazia di Stato: “In Francia i funzionari sono una dinastia, figli di funzionari pubblici, nipoti di altri funzionari pubblici. Non sanno niente dell’economia privata, e vogliono solo rafforzare il monopolio dello stato in più ambiti possibili. Noi invece sappiamo quanto lo stato abbia dimostrato di essere poco efficiente; il nostro obiettivo è rompere il monopolio dello Stato: dalla sanità, all’istruzione”.

“Giovani, bruciate Genova e ricostruite tutto da zero”

“I giovani dovrebbero dare fuoco a Genova. E dopo dire: belin, ora come ricominciamo?”

Maurizio Maggiani, lei da scrittore ne La Regina disadorna ha scritto pagine stupende su Genova. È inutile che neghi, lei ama questa terra…

Genova è la più bella città d’Europa, ogni epoca ha lasciato tracce. Ma è il suo fascino e la sua dannazione. Ci voleva un incendio, come a Parigi e Londra. Qui tutto si conserva, non si volta pagina.

Bè, adesso ci sono le elezioni regionali…

Non mi ci faccia pensare.

Che cosa ne pensa di Toti?

La sua essenza è non fare un cazzo, per questo è gradito a tutti. Non disturba.

L’immagine della Liguria non è cambiata in questi anni?

Per carità. L’unica novità sono stati i tappeti rossi di cui ha riempito la regione. E quel turismo d’accatto, le strade delle nostre città cosparse di ombrellini colorati. Guardi… io vivo tra la mia Liguria e l’Emilia-Romagna, ma la residenza l’ho presa a Faenza perché qui ho visto cosa significa avere un sistema sanitario che funziona. Certo, mica è solo colpa di Toti, lui ha proseguito il lavoro del centrosinistra.

Già, il centrosinistra…

Non mi ci faccia pensare che sennò devo prendere il Lexotan.

Cos’ha sbagliato la sinistra?

Alla fine hanno confuso il governo con il potere. Si sono ridotti a piccoli potentati locali in disfacimento. Hanno cementificato tutto, pensavano di avere più potere a ogni metro cubo che costruivano.

E i Cinque Stelle?

Qui in Liguria come cazzate hanno battuto perfino il Pd.

Ma cosa resta della sua Liguria?

Penso alla mia La Spezia. Era nata dietro alle passioni risorgimentali. E c’era un sogno: mettere insieme i migliori ingegneri e i più bravi artigiani. E Genova? Ha quel porto vecchio mille anni. E i porti sono un luogo di relazione con il mondo, dai moli tutto e tutti arrivano e partono. Sei per forza cosmopolita. Nel dialetto abbiamo parole di cento lingue diverse. Oggi la grande ambizione è trasformare le nostre case in bed and breakfast.

Eppure in questa terra è nata la Resistenza…

Non c’è solo la Resistenza. La Liguria aveva il maggior numero di società di mutuo soccorso d’Europa. A Savona nel 1871 hanno fatto il primo congresso del continente. In quelle parole c’è tutto: mutuo soccorso significa desiderio di aiutarsi l’un l’altro e di stare insieme. Ma c’è stata una grande opera di disgregazione del senso di comunità. È durata decenni, non è solo colpa del centrodestra.

Non c’è più anima?

Se sorvolo la Liguria dall’alto vedo una terra di vecchi spaventati ed egoisti. Attaccati a quello che sembra vita, ma è solo il contrario della morte. Però se poi scendi, se cammini per la Liguria, ci sono posti dove ancora trovi lo spirito di comunità. Sì, qualcosa è rimasto.

Vuole condannare la Liguria, ma la ama troppo. Queste elezioni possono segnare la rinascita?

Ci vorrebbe un miracolo. Se esistesse un dio che illumina centrosinistra e M5S… Non servirebbe tanto: basterebbe una proposta con dignità e buon gusto. Se ci fosse una persona con un animo puro, prenderebbe l’80 per cento dei voti. La gente non aspetta altro.

Liguria, ancora Toti per assenza di avversari

Una comitiva di malati di tumore su un pullman. Costretti a farsi curare in un’altra città perché la radioterapia a Genova è in tilt. Non un bel biglietto da visita per la sanità ligure e per il candidato Giovanni Toti. Ed è arrivato anche Maurizio Crozza ad appiccicargli un soprannome: Yoghi, l’orso dei cartoni e animati. Mentre dal suo centrodestra Claudio Scajola lascia intendere che potrebbe proporre una lista alternativa. Eppure Toti pare destinato a riconquistare a maggio la Liguria per mancanza di avversari. Una corsa incontrastata se il M5S correrà da solo. Alice Salvatore, consigliera regionale, non ha dubbi: “Correremo da soli, senza alleanze con chi ha contribuito a mettere la Liguria in ginocchio”. Leggi il Pd con cui si governa a Roma. Ma tanti nel Movimento non la pensano come lei. Perché è quasi matematico: centrosinistra e M5S perderanno.

“Ma qui non siamo in Umbria!”, sbotta il deputato genovese Luca Pastorino (LeU), che cerca di tessere la trama: “In Liguria M5S e centrosinistra sono all’opposizione. Non ci sono scandali da superare. E c’è il tempo per preparare una proposta seria. Vogliamo lasciare che il centrodestra distrugga sanità pubblica e ambiente?”.

Sono circolati tanti nomi: l’ultimo è l’ex preside di Ingegneria Aristide Massardo. Ma non c’è lo schieramento. Per dirla con Stefania Dellepiane, militante Pci di lunga data: “Come fai a proporre a qualcuno di candidarsi se non sai per chi? È come chiedere a uno se vuole sposarsi, senza dirgli chi sarà la moglie”. Nel frattempo nascono voci nuove, come le Sardine che a Genova hanno raccolto 10 mila persone: “Mi sento più rappresentato da questa folla che dai partiti”, sentivi dire da quei volti che prima trovavi sotto insegne Pd e Cinque Stelle.

Nel frattempo Toti si sfrega le mani: “Più corta sarà la campagna elettorale e maggiore il vantaggio del governatore uscente”, è convinto il genovese Edoardo Rixi, delfino di Matteo Salvini. E c’è chi ipotizza di aspettare l’esito delle elezioni in Emilia-Romagna: altri due mesi. “Basta subordinare la scelta ad altre scadenze. A gennaio decideremo il nostro candidato”, sostiene Simone Farello. Il neosegretario ligure del Pd spera ancora: “È un momento difficile, ma potrebbe essere un’occasione. Serve un programma di rottura”.

Ma i giallorosa, ammesso che vogliano correre insieme, devono decidere una strategia. Perché, va detto, Toti è piuttosto popolare: è ottavo (39,2%) nella classifica dei governatori più amati stilata dal Sole 24 Ore. Vero, la sua stella si è un po’ appannata da quando in una manciata di anni aveva conquistato la Regione e poi Savona e Genova, La Spezia e Imperia. Filotto. Merito suo e di un centrodestra che a livello nazionale galoppa.

Governare, però, è un’altra storia, come racconta Sergio Cofferati, ligure di adozione: “Se dovessi dire cosa ha fatto Toti in questi cinque anni sarei in difficoltà. Non ha fatto niente”. E anche Rixi è misurato: “Ha ereditato una situazione pesante, ma la Regione ha fatto passi da gigante nel pagamento delle aziende, nella digitalizzazione dei bandi. Abbiamo anche ridotto le imposte regionali e siamo riusciti a essere più efficienti con i finanziamenti europei. Ma soprattutto la Liguria è più presente sulla scena nazionale”. Poi Rixi fa una pausa: “C’è ancora molto da fare. Toti non è un politico di rottura, ma resta il migliore governatore degli ultimi anni”. Insomma, non bastano i tappeti rossi di cui il governatore aveva disseminato la Liguria. Il tasso di disoccupazione in Liguria si attesta al 9,4%, con le ore di cassa integrazione aumentate dell’84% rispetto al 2018. L’elenco delle imprese liguri in crisi – dalla Piaggio Aerospace all’Ilva passando per la Bombardier – non finisce più. Senza citare banca Carige arrivata a un passo dal tracollo. Certo, Toti non poteva fare miracoli. Ma anche nella sanità, di competenza regionale, la Liguria non brilla: nel 2018 era in coda tra le regioni del Nord per i Lea (Livelli essenziali di assistenza garantiti ai cittadini). Già, sanità, ambiente e trasporti sono i nodi del potere regionale. E qui l’impronta di Toti si vede. “Si sta attuando una privatizzazione della sanità a danno del sistema pubblico. Nel Ponente ligure si vuole affidare ai privati la gestione di diversi ospedali”, attacca Farello, “C’è il rischio di una sanità di classe. Noi dobbiamo puntare su un’assistenza pubblica d’avanguardia per tutti”.

Nonostante lo slogan “la Liguria che vogliamo guarda all’ambiente”, l’idea di territorio di Toti è piuttosto chiara: più cemento, meno parchi. In una regione devastata dalle alluvioni. “In quattro anni abbiamo destinato 14 milioni alla manutenzione ordinaria e straordinaria, 192 milioni alla protezione civile e ben 344 alla difesa del suolo”, giura Raul Giampedrone, assessore regionale alle Infrastrutture e all’Ambiente. Ma Ermete Bogetti, presidente di Italia Nostra a Genova, non è d’accordo: “A parte proclami, nulla si è fatto contro il dissesto idrogeologico”. Italia Nostra elenca un rosario di provvedimenti regionali: “C’è il piano casa (perfino più aperto al mattone di quello del centrosinistra, ndr) che dà il via libera a costruzioni, ampliamenti, cambiamenti di destinazioni d’uso”. C’è poi la legge che ha sforbiciato i parchi naturali: secondo le stime degli ambientalisti, sono stati tagliati 540 ettari. Intanto il progetto per il Parco Nazionale di Portofino pare destinato a naufragare. Addio a decine di milioni. Ancora Cofferati: “Non c’è un disegno, un progetto. Anche nell’ambiente e nel turismo (che in Liguria vale il 20% del pil, ndr), ci si limita alla solita ricetta: mare e bagni. Bologna ha un aeroporto con 8 milioni di passeggeri, Genova nel 2019 non è arrivata a 1,5”.

C’è chi accusa Toti di essere stato molto ‘romano’ e poco ligure. Non è esattamente così, perché il governatore ha messo radici profonde nel potere locale. La mappa dei sostenitori di Toti la trovi tra i finanziatori della fondazione Change che raccolse 792mila euro, in parte finiti per finanziare altre campagne elettorali, come quella del sindaco di Genova Marco Bucci (102mila euro). Niente di illegale. E c’è chi ha arricciato il naso trovando il nome della famiglia Gavio – secondo gestore italiano di autostrade e concessionario della A6 (la Torino-Savona) dove a novembre è crollato un viadotto – che ha finanziato Toti con 35mila euro. Gavio molto attivo anche in porto. Già, i moli genovesi – primo scalo del Mediterraneo – sono roccaforte del potere totiano che ha sostenuto la nomina di Paolo Emilio Signorini (ex delfino di Ercole Incalza) a guidare l’Autorità portuale. Tra i sostenitori di Toti si trova anche Aldo Spinelli, re delle banchine e già sponsor dell’ex governatore Pd Claudio Burlando nonché azionista di peso di Carige. Altri 10mila euro sono arrivati dalla Gip spa, il Gruppo di Investimento Portuali, che da anni gestisce il colossale terminal Sech. C’è poi la Pessina costruzioni: 10mila euro nel 2016. Gli ex padroni dell’Unità in Liguria hanno in ballo un progetto da decine di milioni: la costruzione dell’ospedale di La Spezia contro il quale Toti nel 2015 – all’epoca era candidato – aveva scagliato pesanti critiche. “Se non interverranno fattori imprevisti, non vedo perché non puntare su Toti”, sembra piuttosto convinto Rixi. Ma nel centrodestra c’è chi non la pensa proprio così; come Scajola. L’ex ministro, ora sindaco di Imperia, è legato a Toti da una reciproca antipatia. E Scajola lancia un messaggio chiaro: “Toti è un ottimo comunicatore e ha buone capacità di amministratore, ma si è dedicato troppo alle sue vicende politiche”. Lo sosterrà? “Sosterrò chi dimostrerà un progetto concreto per la Liguria”. Potrebbe lanciare un suo candidato? “Voglio capire se sia necessaria una nostra presenza in Regione”. Intanto c’è chi sostiene che la sindaca di Savona, Ilaria Caprioglio (Forza Italia, poco amata dalla Lega) possa passare a Italia Viva di Matteo Renzi. La accoglierebbe la spezzina Raffaella Paita, ex Pd. Pastorino ci crede ancora: “La Liguria è contendibile. Mi batterò con ogni mezzo per uno schieramento ampio”. Luca Borzani, ex assessore comunale di centrosinistra e oggi anima del giornale La città, non risparmia critiche alla dirigenza di centrosinistra, ma immagina “uno schieramento il più largo possibile, con un programma condiviso che renda visibile e concreto un futuro diverso. In questi anni la Liguria ha sprecato capitale umano e sociale”. Già, è smarrita la Liguria: una volta simbolo di una riservatezza operosa, ricca di slanci, sembra diventata terra di tragedie. Cerca volti e segni intorno a cui ritrovarsi. Pare intenerita da se stessa, non solo per la tragedia del Morandi. Proprio il nuovo ponte sarà decisivo per le elezioni con la raffica di inaugurazioni, la ricostruzione gestita efficacemente da Bucci. Già, se l’opera sarà completata a maggio potrebbe essere decisiva, ma se ci saranno ritardi diventerà un boomerang.

Su un punto, però, paiono tutti d’accordo: a maggio non si deciderà solo un candidato. Saranno elezioni chiave per la Liguria in cerca di identità. Per capire se Toti sia stato una parentesi o esprima la nuova anima di questa terra.

Il decreto del governo per Popolare di Bari

L’ultima via per il salvataggio di Popolare di Bari, l’istituto commissariato tre giorni fa da Bankitalia, porta la cifra di 900 milioni di euro. È quella scritta nel decreto che è stato all’esame del consiglio dei ministri di ieri, ancora in corso a tarda sera. La riunione di governo arriva dopo il nulla di fatto di venerdì, quando la maggioranza non ha trovato l’accordo – causa ostilità di Italia Viva e Cinque Stelle – per risolvere il problema, da tempo noto a tutti. Dopo un weekend di schermaglie, quindi, il governo si è presentato con un decreto che rimpingua con 900 milioni euro il patrimonio del Mediocredito Centrale “affinché questa promuova, secondo logiche di mercato, lo sviluppo di attività finanziarie e di investimento, anche a sostegno delle imprese nel Mezzogiorno, da realizzarsi anche attraverso il ricorso all’acquisizione di partecipazioni al capitale di società bancarie e finanziarie, e nella prospettiva di ulteriori possibili operazioni di razionalizzazione di tali partecipazioni”. Il che, appunto, significa salvare Popolare di Bari attraverso il fondo del ministero dell’Economia destinato “alla partecipazione al capitale di banche e fondi internazionali” e magari approfittarne per creare un grande polo bancario del Mezzogiorno. Nel decreto c’è dunque “la costituzione di una Banca di Investimento”, dicitura assai contestata ieri dai renziani, secondo i quali siamo di fronte a “nuove frontiere della tecnica legislativa” visto che “nel testo non si nomina neanche una volta una banca di investimento”: “L’impressione – aggiungono da Italia Viva – è che l’ossessione degli slogan stia debordando pure nei titoli dei decreti. Non c’è nulla di male a dire le cose come stanno: si sta ricapitalizzando la Banca popolare di Bari. Punto”. Per Di Maio è invece fondamentale continuare a battere sull’ipotesi di una “azione di responsabilità” nei confronti di chi quella banca l’ha ridotta così, questione che peraltro è al centro di sette inchieste della magistratura. “Noi lo sappiamo che la banca va salvata – spiegano i suoi – ma quello che non va è il metodo, non c’è condivisione (da parte di Gualtieri e Conte, ndr): non si può convocare un consiglio dei ministri così in fretta e furia come è successo venerdì”. Oggi, la maggioranza si vedrà per un vertice che si annuncia teso e travagliato. “Sarà così fino alla fine”, è l’amara constatazione di un ministro.

“Niente liste, ma vogliamo con noi più del 25%”

Nessuna indicazione di voto, non si candideranno, continueranno con le iniziative “sul territorio” nel Lazio, in Liguria, in Sicilia e soprattutto nelle regioni in cui si vota il 26 gennaio, Emilia-Romagna e Calabria, che più diverse non potrebbero essere. Anche perché di qua c’è Stefano Bonaccini, governatore uscente del Pd e del centrosinistra e il leader “sardiniano” Mattia Santori si è già fatto vedere a una delle sue manifestazioni; di là c’è il disastro del Pd locale e nessuno sembra sentirsela di appoggiare Pippo Callipo, al massimo faranno un appello al voto contro il sovranismo e il centrodestra a trazione leghista che sembra avere il vento in poppa.

Così è finita la prima volta delle Sardine in assemblea nazionale ieri mattina allo Spin Time Lab dell’Esquilino a Roma, a due passi da piazza San Giovanni “espugnata” dai 40-50 mila di sabato scorso (100 mila secondo loro, 35 mila per la questura).

È uno degli edifici più centrali occupati da senza casa italiani e stranieri, noto ai più perché nel maggio scorso l’elemosiniere del papa cardinale Konrad Krajewsk andò a riattivare la luce staccata dai fornitori e gestito da Action, nata da una costola dell’antagonismo capitolino. Porte chiuse ai giornalisti sotto uno striscione “Viva le sardine, abbasso gli sgombri”, intesi come sgomberi delle occupazioni. Tavoli tematici e quattro ore di discussione per 160 partecipanti, gli organizzatori della manifestazioni anti-Salvini che hanno riempito le piazze di mezza Italia e che non si erano mai incontrati. Solo Facebook e chat. È uscita per prima Grazia Desario, sardina pugliese: “Non faremo un partito, non ci saranno candidature e non ci saranno liste civiche in Emilia Romagna. Appoggeremo le liste di sinistra”, ha detto alle tv. Poi il bolognese Santori, intervistato in Mezz’ora in più di Lucia Annunziata, ha commentato un sondaggio che attesta l’interesse di un italiano su quattro per le Sardine: “Il nostro obiettivo è superiore a un italiano su 4”.E ancora: “Puntiamo a trovare un dialogo con la politica, non siamo ancora pronti a trovare né i punti del dialogo né un interlocutore del dialogo”.

Insomma, dopo la piazza, per ora c’è la piazza. Il comunicato di fine assemblea promette diverse iniziative: “‘Sardina amplifica sardina’, che sarà organizzato nel Lazio, per raccogliere i bisogni dei territori attraverso sardine che saranno raccolte in un’unica rete simbolica; ‘Tutti sullo stresso treno’, un treno di sardine che attraverserà la Liguria fino alla Francia; ‘Staffetta delle sardine’, che sarà realizzata in Sicilia per raggiungere anche le zone con situazioni critiche e complesse. Il resto è un po’ generico: “Attenzione alle zone periferiche”, “politica e partecipazione”, impegno non violento, fiducia nelle istituzioni. E la richiesta richiesta esplicita di “abrogare i decreti sicurezza” di Matteo Salvini a favore di “leggi che non mettano al centro la paura, ma il desiderio di costruire una società inclusiva”. Il premier Giuseppe Conte ha risposto subito che i decreti sicurezza saranno modificati solo negli aspetti censurati dal presidente Sergio Mattarella.

Casaleggio c’è, i ministri no. Così Di Maio rifà i 5 Stelle

Come ai matrimoni e ai funerali, si notano prima di tutto gli assenti. E a questa kermesse domenicale che segna la nascita del Team del Futuro in casa 5 Stelle, di sedie vuote ce ne sono tante. Non regge la scusa del giorno di festa: ieri sera, tutti i membri del governo erano precettati per il consiglio dei ministri su Popolare di Bari. “Non era obbligatorio partecipare”, replica lo staff. E dunque bisogna prendere atto che, senza costrizioni, perfino un evento a suo modo “storico” come la riorganizzazione del Movimento viene snobbato in questo modo. Diamo l’onore di essersi presentati in maniera spontanea ai quattro presenti, invece: il ministro Vincenzo Spadafora, la viceministra Laura Castelli e i sottosegretari Manlio Di Stefano e Angelo Tofalo, oltre a qualche parlamentare come Sergio Battelli o Alberto Airola.

Per assurdo, dunque, l’evento che deve segnare l’inversione di rotta del Movimento, diventa una fotografia piuttosto impietosa dello stato dell’arte dei rapporti interni ai Cinque Stelle. La prima fila è composta così: alla destra di Di Maio, la fidanzata Virginia Saba; alla sua sinistra, Davide Casaleggio e lo spin doctor Pietro Dettori. Molta Milano, per capirci, e poca Roma. Molta piattaforma e poca politica. Tant’è che Di Maio ci tiene subito a specificare che il team del futuro “non si sostituisce agli strumenti tecnologici di cui siamo dotati”, ovvero a Rousseau. I 12 devono solo “facilitare” la discussione, mentre le decisioni si continueranno a prendere on line. Poi ci sono i 6 componenti del team scelti da Di Maio. E anche qui, come il Fatto ha già avuto modo di raccontare, la delega più importante la prende Enrica Sabatini, vicinissima a Casaleggio e socia della piattaforma su cui votano gli iscritti. “Lei si occuperà degli Affari interni – l’ha presentata ieri Di Maio – che poi praticamente vuol dire di tutto”. Sempre di “area milanese” ci sono Barbara Floridia, finora responsabile dell’e-learning di Rousseau e Iolanda Di Stasio, legata a Dettori. Il più applaudito – dalla platea che in buon sostanza è formata da parenti e amici dei componenti del team – è l’ex ministro Danilo Toninelli, rimasto nel cuore di chi crede che sia stato il capro espiatorio di tutti i mali del governo con Salvini.

Lui, come anche Paola Taverna, Ignazio Corrao e lo stesso Di Maio, insiste molto sul fatto che la riorganizzazione era necessaria (e forse fuori tempo massimo): “Guai a disperdere la voglia di fare delle persone perché manca l’organizzazione”, dice Toninelli. “Il Movimento tornerà ad essere quello della base, come abbiamo sempre auspicato”, aggiunge la Taverna. “Bisogna capire cosa non ha funzionato, dobbiamo rivedere il rapporto con i portavoce”, rincara Corrao. “Le cose finiscono e ne iniziano di migliori”, conclude Di Maio.

Il team – un totale di 18 persone, affiancate a loro volta da piccole squadre divise per competenze, dalle Infrastrutture alla Giustizia – è stato votato dagli attivisti on line. E certifica che il Movimento, dopo il boom delle ultime politiche, è tornato ad essere quasi del tutto a trazione meridionale. Tra i 12 facilitatori tematici, per intederci, 3 sono siciliani e 6 campani: da Napoli arriva anche il responsabile Imprese, Gennaro Saiello, che promette di occuparsi del “cuore pulsante del Paese” che, con tutto il rispetto, non è proprio sotto al Vesuvio. E ieri sera il sottosegretario all’Economia Stefano Buffagni non ha mancato di farlo notare: “Vedo profonde crepe e grossa divisione territoriale che dimentica sempre una larga parte del Paese – ha scritto su Facebook – Spero da domani di essere meno solo in questa battaglia”. Ce ne vorranno, di facilitatori, per raggiungere l’obiettivo che si è dato Di Maio: “Vogliamo far tornare la felicità nelle case degli italiani”, ha chiuso ieri il suo discorso. A pochi metri di distanza, una donna, evidentemente già al lavoro per la comune impresa, chiedeva a Casaleggio se avesse gradito il regalo che gli aveva fatto recapitare: “Non mangio cioccolata – l’ha gelata lui – L’ho regalata, avranno apprezzato”.

Le larghissime intese di Salvini anti-Conte le vuole anche Renzi

Nelle conversazioni settimanali tra Matteo Salvini e Matteo Renzi è entrata anche la possibilità di un governo di unità nazionale. La convenienza per il fu Rottamatore è evidente: scongiurerebbe le elezioni, che comunque continuano a essere un’ipotesi sul tavolo, dopo la manovra e dopo l’Emilia-Romagna. E si riposizionerebbe con il centrodestra in maniera graduale e non troppo smaccata. Più complicata la condizione di Salvini. Per lui, la strada maestra sono le urne. Ma potrebbe ancora una volta non riuscire a ottenerle, persino nel caso della caduta del governo giallorosso. Troppo forti le resistenze del Parlamento ad auto-sciogliersi. E allora, lo scenario da scongiurare con forza è quello di una legislatura che continua, con lui fuori dai giochi. Perché se le elezioni sono dietro l’angolo, può capitalizzare gli insuccessi del Conte 2. Altrimenti, il logoramento avanza.

“Mettiamoci tutti intorno a un tavolo e risolviamo le emergenze nazionali. E poi si vota”. Così ieri il leader della Lega ha ribadito la svolta riformista, dopo che sabato a Milano, con una mossa a sorpresa, aveva lanciato l’idea di un comitato di salvezza per l’Italia su cinque priorità (risparmio, infrastrutture, burocrazia, politiche di crescita e tutela della salute). Peraltro, “supportata” da un’intervista di Giancarlo Giorgetti a La Stampa, che si spinge a evocare per la guida di questo (ipotetico) esecutivo Mario Draghi. L’ex sottosegretario l’idea di un comitato nazionale l’aveva lanciata già due mesi fa. Allora, il leader del Carroccio lo aveva sconfessato, ora sembra sposare le sue posizioni. In realtà, i due non sono mai allineatissimi, ma è evidente che un allarme è scattato in casa leghista. Da notare: il punto 2 della novella agenda Salvini, ovvero le infrastrutture, è di quelli cari anche a Renzi.

Insomma, i due Mattei si trovano a remare dalla stessa parte, lavorando su più piani. Non vanno sottovalutati un paio di elementi. Prima di tutto, ci sono le Sardine. Porteranno voti a sinistra, daranno una mano al Pd (ma di certo non a Renzi) e – se si struttureranno anche per presentarsi alle urne – svuoteranno ulteriormente il bacino elettorale dei Cinque Stelle.

Per il senatore di Scandicci, il danno è evidente (e infatti ci ha tenuto a dire che oltre a loro servirebbero i “salmoni”). Ma esiste più di un rischio pure per Salvini: tanto per cominciare introducono una novità nell’offerta politica; e poi, gli creano più difficoltà anche con quella parte dei Cinque Stelle che potrebbe dargli una mano a far saltare il governo, ma che diventa sempre più debole, anche per una ricandidatura con la Lega. A proposito di movimenti in corso, c’è poi l’ascesa di Giorgia Meloni. Salvini la guarda con sospetto e con preoccupazione: per lui resta un’alleata scomoda, per quanto necessaria.

Come è evidente, visti anche i caratteri dei due leader in questione, che qualsivoglia ipotesi di patto possa realizzarsi, è tutto da vedere. C’è anche chi – nel centrodestra – derubrica la “svolta moderata” di Salvini a pura tattica per cercare di accreditarsi in maniera più istituzionale.

I tavoli da gioco sono più d’uno e non è secondario capire come finirà quello sulla legge elettorale, con il fu Rottamatore che cerca di portare il suo omonimo a un proporzionale con soglia nazionale al 4%, e Zingaretti che spinge per portare a casa anche con la Lega il modello simil-spagnolo. “Mi sembra una fantasia”, taglia corto Paolo Romani, che sta mettendo su un gruppetto di responsabili. Ma un governo come questo lui lo sosterrebbe? “Noi siamo e lavoriamo nel perimetro del centrodestra”. Quindi, in quello di Salvini. E i rapporti con Renzi sono antichi e consolidati. Intanto, il tentativo di Mara Carfagna per mettere su un gruppo di pressione da “vendere” al miglior offerente va avanti: “La proposta di Salvini è condivisibile”, ha detto lei.

Ma mi faccia il piacere

La Ruota della fortuna. “Renzi: ‘Non lascio, anzi raddoppio’” (Stampa, 1.12). Altro prestito, altra villa?

Il serial killer. “La sinistra sta morendo, meglio votare” (Fausto Bertinotti, La Verità, 12.12). Per darle il colpo di grazia.

Presunto giornalista. “Il Fatto quotidiano sbatte in prima pagina la presidente del Senato Casellati colpevole di aver fatto un selfie con un presunto molestatore (sai che scandalo…)” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 11.12). Talmente presunto che ha patteggiato 1 anno e 4 mesi per violenza sessuale. Tipico caso di innocente a sua insaputa.

Coerenza. “Plastica, quella tassa no” (Repubblica, apertura di prima pagina, 3.11). “Rinviata e dimezzata la plastic tax. L’etica è come il paradiso: può attendere” (Massimo Giannini, Repubblica, 11.12). Che anche Repubblica sia nemica dell’etica?

Colombi e Sardine. “Mi piace pensare che le Sardine siano almeno un po’ figli dei nostri girotondi. I 5Stelle invece volevano solo sostituirsi alla politica” (Daria Colombo, La Stampa, 14.12). Come Daria Colombo, che usò i Girotondi per candidarsi nel centrosinistra e poi negli Arancioni pro Sala a Milano.

Stampa Gretina. “A Greta Thunberg consegniamo il premio ‘Personaggio dell’Anno’ che i giornalisti de La Stampa le hanno assegnato” (Maurizio Molinari, direttore La Stampa, 14.12). Chissà se, mentre la premiavano, l’hanno informata di essere l’house organ della Fiat-Fca e del Tav Torino-Lione, sempre in prima fila per l’inquinamento del pianeta.

Lo sputo sulla tomba. “Riaprire il caso Pinelli. Dopo 50 anni sappiamo che quella notte in questura con Calabresi c’erano altri ‘10-15 signori’. Tu guarda le distrazioni” (Adriano Sofri, condannato definitivo a 22 anni come mandante del delitto Calabresi, Il Foglio, 14.12). Prima ti faccio ammazzare, poi 47 anni dopo ti insulto.

Colpa di Virginia. “’Un po’ di pioggia e scuole chiuse’. I presidi romani contestano Raggi” (La Stampa, 14.12). “Roma città chiusa… allarme ordinario… Eccolo lo spirito di Roma: l’ordinario è preoccupante” (Mattia Feltri, La Stampa, 14.12). “Scende la neve a Milano, chiudono le scuole a Roma. Sala: ‘I milanesi non si spaventano…’” (il Giornale, 14.12). “A Roma l’emergenza non è l’acqua: è la Raggi” (Il Foglio, 14.12).

“E mettersi le galosce?” (Michele Serra, Repubblica, 14.12). Chiunque ci fosse cascato, non ha letto le cronache romane di Repubblica: “Le previsioni annunciavano tempesta, con raffiche di vento fino a 105 km orari”. E del Corriere: “Auditorium, tetto divelto dalla bufera sulla città”. Spiace per l’incolpevole Auditorium: le bufere dovrebbero scegliersi meglio gli obiettivi.

Il Cazzaro Azzurro. “Travaglio prescritto a sua insaputa” (Nicola Porro, nicolaporro.it, 7.12). Io scrivo che l’avvocato de l’Espresso chiese l’assoluzione del direttore e mia in Cassazione e in subordine la prescrizione, ma la sua istanza fu respinta. E Porro capisce che sono “prescritto a mia insaputa”. Che non sapesse scrivere era noto: il guaio è che non sa neppure leggere.

Quote rosa. “(Tra Sardine e 5Stelle) c’è una differenza: i 5Stelle… gridavano insulti e oscenità sessiste” (Corrado Augias, Repubblica, 1.12). In effetti Grillo sfanculava i 23 pregiudicati in Parlamento. Tutti maschi.

Perle di saggezza. “La Sugar Tax è una tassa sulla dolcezza, ecco perchè siamo contrari” (Teresa Bellanova, Iv, ministra delle Risorse Agricole, Twitter, 13.12). Tipica ministra più elegante che intelligente.

Viva la Fca. “Jaki, il Conquistatore. La fusione con Peugeot, l’acquisto di Rep. Elkann ora ha in mano un impero” (Stefano Cingolani, Il Foglio, 7.12). Vedi mai che, dopo aver comprato Il Secolo XIX, Repubblica, Espresso e 13 quotidiani Finegil, trovi qualche spicciolo pure per il Foglio. Meglio portarsi avanti con la lingua.

Levategli il fiasco. “L’orco di Bibbiano è stato scagionato dalla Cassazione, si è rimesso la fascia tricolore…” (Enrico Deaglio, Venerdì di Repubblica, 13.12). Purtroppo il sindaco di Bibbiano non è stato scagionato dalla Cassazione, che gli ha solo revocato l’obbligo di dimora lasciandolo indagato per abuso e falso. Lo sanno tutti i giornalisti d’Italia, dunque non Deaglio.

Il titolo della settimana/1. “Il film che spiega quanto ce l’ha duro Bossi” (Renato Farina, Libero, 11.12). Genere fantasy, fantascienza o commedia demenziale?

Il titolo della settimana/2. “I primi 100 giorni del Conte-bis. Vertici fiume e due traguardi raggiunti tra Iva e riforme, ma più della metà del programma è ancora nel cassetto” (Repubblica, 13.12). Perbacco, in meno di tre mesi e mezzo ha già realizzato metà del programma: miracolo! Ma chi è Conte: Mandrake?

La cultura oltre la compagnia di giro: “L’omologazione ci sta uccidendo”

Si amplia il movimento degli Imperdonabili, promosso da Veronica Tomassini e Giulio Milani, che ora lanciano un manifesto per aprire nuovi spazi culturali. Ne pubblichiamo alcuni stralci.

Questa è l’iniziativa di scrittori, poeti, librai, giornalisti, critici, editori e soprattutto lettori che ha per obiettivo comune quello di trovare un linguaggio e una prospettiva differenti rispetto all’omologazione culturale e artistica del nostro paese. Siamo contrari alla prevalenza del politicamente corretto, alla pedagogia sacerdotale, all’ideologia della verosimiglianza, al didascalismo dei professionisti dell’impegno politicizzato; vogliamo allargare i confini estetici e culturali della ridottissima compagnia di giro fatta di premiazioni, fiere, festival, passaggi radiofonici e tv, che non incide minimamente nella crescita dell’interesse per il libro e per la lettura ed è composta dai soliti noti: Corrado Augias non manca mai, col suo tono garbato e rassicurante; Beppe Severgnini, Lella Costa, Michela Murgia sono richiestissimi; Alessandro Baricco e Sandro Veronesi, se hanno un libro da promuovere, un invito lo accettano volentieri; quindi Ascanio Celestini per il teatro, Maurizio De Giovanni sulla Napoli noir, ma per la letteratura del Sud c’è sempre qualche assessore che invita al festival la tal scrittrice Elena Ferrante; per un programma equilibrato ci devono essere anche Vito Mancuso ed Enzo Bianchi; per la cronaca e l’attualità Giancarlo De Cataldo o Gianrico Carofiglio; per l’arte deve per forza venire Philippe Daverio; Goffredo Fofi non ha il cellulare, lo trovi solo in redazione; allora, in alternativa, si dice a Nicola Lagioia e Christian Raimo, più due o tre nuovi che saltano fuori perché li suggerisce Concita o Daria. Questi sono solo alcuni dei nomi di un fenomeno ben più ampio che testimonia una cultura da “specie letteraria protetta”, che si rinnova con difficoltà per una moltitudine complessa di fattori. […]

Cosa vogliamo. 1. Occorre capire perché bisogna salvare il libro, prima di stabilire come salvarlo: la prima cosa da fare è verbalizzare la crisi della civiltà del libro con tutte le categorie interessate. 2. Serve un nuovo network tra editoria di ricerca e giornalismo, per esempio un settimanale, dove sviluppare un pensiero libero e critico dell’esistente. 3. Serve una forza uguale e contraria per contrastare i simboli dello status quo: per esempio, un premio nazionale antitetico allo Strega – poniamo il premio Fattucchiera – che faccia conoscere al grande pubblico gli elementi di spicco della produzione letteraria libera. […] 4. Occorre liberare temi, autori, contenuti capaci di raccontare la nostra epoca selvaggia, paradossale. […] 5. Nello stesso tempo ci sono libri vecchi come il mondo – la Bibbia, il Corano, i Veda – o classici del pensiero dimenticati dall’editoria di massa, che vanno ritradotti. Ma si deve pensare anche al movimento inverso, come testi poetici o in prosa senza il nome degli autori, affinché tutta l’attenzione sia sulle opere. […]

6. La scuola è un luogo di formazione strategico, dove però il libro è trattato principalmente come strumento da cui trarre e memorizzare informazioni. Bisogna istituire la materia di scrittura creativa; ma anche aprire una collana legata alle produzioni dei ragazzi. Inoltre si deve portare il libro in luoghi imperdonabili come gli ospedali, per il sollievo, e le carceri, per la sollevazione. 7. L’Arte, settore attiguo ma non uguale, similmente si scontra con un mondo, quello dei musei e delle mostre, che in maggior parte ha paura del nuovo, è timoroso rispetto alle strade non percorse. […] Nonostante l’Arte Contemporanea mostri uno sperimentalismo di facciata, nella maggior parte delle istituzioni dedicate alla stessa vige un paradossale attaccamento a formule preconfezionate. Gli artisti imperdonabili sono pronti a collaborare insieme per l’emersione di nuove idee, luoghi, iniziative.

La critica

Il 21 novembre scorso dalle colonne del “Fatto” gli scrittori Giulio Milani e Veronica Tomassini hanno lanciato un appello/ denuncia, affinché il mondo della cultura italiana si apra ai giovani autori, quelli fuori dai “salotti” letterari, televisivi, radiofonici. Da allora sono state centinaia le firme raccolte a sostegno del loro manifesto

Ferrari in guerra per il Suv contro i podisti pro Africa

Una Ferrari “Purosangue”: che nome suggestivo per la neonata in casa Maranello, il primo Suv del Cavallino, in uscita nel 2020. C’è un problema però: “Purosangue” esiste già. È una piccola associazione dilettantistica, specializzata nella corsa e attiva in Africa, che ha anche una linea di abbigliamento. Che fare? Se non è possibile arrivare ad un accordo, basta togliere il nome ai rivali.

Le multinazionali sono da sempre gelose dei propri marchi. Per fare un esempio sempre nel campo dei motori, qualche anno fa Piaggio voleva impedire a Bruno Vespa di battezzare un vino col suo cognome, che sfortunatamente è anche il nome del celebre scooter. Le cause si sprecano. Qui i ruoli si ribaltano: la grande azienda vuole il nome della piccola Asd. La classica lotta fra Davide e Golia. La vicenda nasce un anno fa, quando la casa automobilistica in vista del lancio deposita il marchio “Purosangue” in varie categorie, non solo autoveicoli, anche abbigliamento, eventi sportivi, ecc. È prassi, per evitare speculazioni. Magari in Ferrari già pensano a possibili sviluppi di merchandising. Di sicuro non si preoccupano troppo di verificare che il brand non appartenga già a qualcuno.

Alla Asd Purosangue Athletics Club, per la precisione, e ai suoi due titolari, Max Monteforte e Nico Pannevis. Uniti dalla passione per la corsa, hanno fondato l’associazione nel 2014, tra Italia e Africa. Da noi organizzano corsi, allenamenti, eventi, con cui raccolgono fondi e materiale sportivo. Lì distribuiscono scarpe usate (oltre 20mila paia in 4 anni) a quei ragazzi per cui la corsa può rappresentare l’occasione per una vita migliore: hanno messo su due scuole d’atletica in Kenya e Mozambico e portano i migliori talenti in gara in Italia. Il progetto funziona e ha incuriosito anche Adidas, con cui è nata una collaborazione su una linea di scarpe con logo “Purosangue”.

Nel 2018, però, ecco l’altra Purosangue. Ferrari in realtà va per la sua strada, è l’associazione ad attivare gli avvocati per far valere i suoi diritti. Probabilmente cerca un riconoscimento economico, escluso però da Ferrari, per cui i due marchi possono coesistere. Così, quando l’associazione presenta opposizione, il Cavallino passa al contrattacco: cita al Tribunale di Bologna l’associazione Purosangue per far decadere i marchi per mancato utilizzo.

Nell’atto Ferrari spiega che la sovrapposizione è infondata, e che comunque sarebbe impossibile fare confusione perché il cavallino Ferrari è noto a tutti. Ma visto che “i convenuti non hanno sentito ragioni” e che il dialogo non ha portato risultati, “non ha alternativa che instaurare la presente azione”. Moltiplicando i fronti legali. Una strategia non proprio “sportiva”, ma da Maranello non commentano il contenzioso in corso. Ora però sono i titolari dell’associazione a doversi difendere, dimostrando come e quanto hanno utilizzato il marchio. Altrimenti lo perderanno: “Noi siamo una piccola associazione: negli Usa abbiamo già rinunciato a difenderci, non abbiamo le risorse per competere contro un colosso del genere”, spiegano. “Da anni dedichiamo la vita a questo progetto e ora vogliono portarci via il nome”. Perché loro sono la Ferrari, l’altra Purosangue è come se non esistesse. Se non esiste proprio, ancora meglio.