“Cucinano per i riflettori più che per i fornelli: chef vuol dire solo capo”

La sua Disneyland è il mercato ortofrutticolo, la sua bestemmia (culinaria) è dietro il termine “rivisitazione”, il suo mantra è “l’imperfezione”, e il suo nome, Fulvio Pierangelini, è diventato un paradigma sottaciuto o esplicito per la maggior parte degli chef stellati e osannati in televisione.

Lui è il “maestro”.

La sua “passatina di ceci con gamberi” è uno dei piatti più copiati al mondo. Eppure in tv ci va pochissimo, (“non mi interessa”), tanto da diventare con gli anni una sorta di Keyser Söze dell’alta cucina, una presenza-assenza per chi appare e crede di essere, per chi arriva a pontificare “attraverso strumenti simili a quelli delle estetiste”. La sua sicurezza lo consente.

E in questo viaggiare in direzione ostinata e contraria, nel 2008 ha chiuso il suo ristorante (Il gambero rosso a San Vincenzo) quando gli appassionati, i curiosi o i parvenu sgomitavano per un tavolo, e ha iniziato una serie di consulenze, l’ultima ora a Roma, e nell’hotel dove lavora è una processione per assaggiare un suo piatto.

Sono passati anni dalla chiusura del suo ristorante.

Allora la gente sentenziava: “In questo mondo così veloce, tra sei mesi nessuno si ricorderà di te”.

E lei…

Ero conscio di perdere potere e visibilità, da numero uno tornavo un signor nessuno, ma non mi interessava, avevo deciso; comunque sono passati anni e ancora oggi mi fermano per parlarmi del cibo provato da me, delle emozioni suscitate; pensare che ho iniziato solo per necessità.

Quale?

Magari, e inconsciamente, per ottenere un bravo da mio padre, non me lo aveva mai detto; ma è una supposizione, perché in realtà non c’era uno scopo specifico.

Ha conosciuto tutti.

Ogni tanto accendo la televisione mi sento come Manuel Fantoni in Borotalco.

Cioé?

Molti di quelli che appaiono li conosco: il mio ristorante non era in una traiettoria semplice, però alla fine venivano a trovarmi, a partire dal primo anno di apertura, quando un giorno si presenta un signore: “Voglio il locale per due giorni e solo per me”. “Va bene”. Di quel gruppo la più sconosciuta era l’Infanta di Spagna, poi c’erano gli Agnelli e gli altri invitati al matrimonio di Noemi Cinzano.

Ha cucinato per i potenti del mondo.

L’altro giorno ero all’Hotel de Russie a Roma, entro e mi trovo davanti a un cordone di sicurezza; poi vedo Tony Blair, lo saluto, lui si gira e urla: “Fulvio!”.

Proprio Manuel Fantoni.

Sono stato il suo regalo di compleanno per i sessant’anni.

Ha spesso attaccato i blogger.

Vent’anni fa sostenevo che stanno alla gastronomia come un pedofilo all’amore.

Sobrio.

Allora per me Internet era una dittatura, non era democrazia, portata avanti da soggetti che una volta restavano a casa, chiusi in stanza con i loro brufoli, e il resto dell’umanità li definiva degli sfigati. Ora la situazione è migliorata.

È nato a Roma.

In via Teulada, accanto alla Rai, però da bambino raramente ho frequentato per due anni consecutivi la stessa classe e nello stesso paese: mio padre metteva i cavi per la Sirti, quindi la nostra vita era lo stato di avanzamento di papà.

Ha vissuto il ‘68 nella Capitale.

Uno choc: arrivavo da un paesino toscano dove si girava in bici, si andava al mare, una partita a pallone, si ascoltava il juke box anche se non avevo una lira, allora aspettavo i portatori sani di monetina, e invece all’improvviso mi ritrovo nel caos di Roma, dove tutto era veloce, urlato e violento.

Stordito.

Non solo, mio padre decise di iscrivermi a un Istituto tecnico industriale, pieno di geni di elettronica, il mio vicino di banco aveva inventato il sintetizzatore, un altro costruiva giradischi; io non capivo nulla.

Come ne è uscito?

La fortuna è stata quella di trovare un professore di elettronica con la sensibilità giusta per comprendere la mia condizione: per anni mi ha protetto nonostante non potessi ambire a più del 3.

Elettronica proprio zero.

Aprivo il libro e dopo pochi minuti mi lacrimavano gli occhi e non vedevo più nulla, e non sto scherzando né esagerando; sono arrivato ad accettare il mese mariano, tutte le mattine alle sei ero in chiesa, e solo per non studiare.

Manifestava?

Certo, però non capivo le reali motivazioni, e poi la scuola era di soli uomini, e volevo vedere le ragazze.

Hobby?

A casa non c’era la possibilità di sprecare tempo e denaro: a 16 anni, per Natale, vendevo giocattoli, mentre l’estate diventavo bagnino.

Anche lì per le donne.

Arrivai in quella spiaggia perché la vulgata popolare inneggiava alla presenza di francesi in topless, e per le donne avevo studiato la chitarra classica con risultati disastrosi.

Meglio la cucina.

Se non sei bravo con la musica, i fornelli sono l’altra metà del cielo.

Quelle donne erano in topless?

Neanche una.

La cucina è potere?

Solo se riesci a realizzarne una in grado di suscitare emozioni forti; ma oggi i parametri sono differenti, i riferimenti sono più televisivi, spesso i cuochi sono portati ad avere più successo per i riflettori che per i fornelli.

“Cuoco”, non chef.

Chef significa “capo”.

I suoi colleghi ci tengono.

Petrolini rispondeva: “Io non ci tengo né ci tesi mai…”; a quel tempo per mantenere il Gambero rosso ero obbligato al secondo lavoro.

Eppure era iper stellato.

Se i locali vengono gestiti in maniera severa, e sono decentrati, quasi vivono con l’autosufficienza.

Addirittura.

L’unica macchina nuova l’ho acquistata quando mi hanno ingaggiato per due consulenze

Quali?

Se va al supermercato e vede i Bonroll o l’hamburger di prosciutto, arrivano da me. All’epoca non volevo che uscisse il mio nome, e utilizzavo il mio giorno di riposo per andare in macchina nelle Marche, chiudermi in fabbrica, tornare a casa entro mezzanotte, dormire poche ore e poi la mattina facevo la spesa.

Più semplice la tv.

All’inizio ci sono andato, ho smesso quando è partita l’infornata generale.

Da lei lo spaghetto al pomodoro costava come quello all’aragosta.

È stata una provocazione di una settimana: volevo raccontare che la sfida non è solo gastronomica.

Traduciamo.

È come andare da un grande ortopedico e chiedergli di tagliare le unghie; lui magari accetta, ma dietro un lauto pagamento.

Ritraduciamo.

La sfida non è solo “è buono” o “non è buono”, la sfida tocca un aspetto emotivo forte, tocca i ricordi di ognuno, sollecita delle reazioni.

Un suo collega, Bruno Barbieri, ha spiegato: “Se mi tolgono una stella vado dallo psicologo”.

Probabilmente è vero.

E lei?

Mai avuto il cruccio, ho lavorato per me stesso.

La chimica è molto presente nella cucine?

È assente nei ristoranti dove lavoro io e probabilmente in altri otto; la chimica facilita i tempi ed evita l’errore: quando uno vede una goccia di salsa che resta lì fedele nei secoli, c’è un problema; la mia sarà più sgarbata ma è frutto solo della sua essenza.

Cosa la colpisce?

L’imprecisione. Sa qual è il capolavoro di Michelangelo? Non La Pietà scolpita quando aveva 25 anni, ma la Pietà Rondanini realizzata quando ne aveva quasi novanta, tutta sbozzata.

Perché?

L’imprecisione è spesso frutto di una ricerca maniacale; significa coraggio.

Altro che massificazione.

(apre un book fotografico e lo sfoglia con fastidio) Questi piatti sono uguali in tutto il mondo: c’è la cialdina, la fogliolina…

Chi lavora con lei la teme?

Non lo so, domandi a loro.

Sicuro?

Non ho mai sentito come prioritario l’insegnamento o la trasmissione delle mie idee, mentre ultimamente mi dedico, e forse questo è il primo segno delle vecchiaia; e sì, è vero, a volte li tratto male, e al confronto quello che uno vede a Master chef è un regalo.

Lancia i piatti…

Non sono così stupido. Utilizzo le parole.

Qual è l’articolo 1 della Costituzione gastronomica di Pierangelini?

La pari dignità degli ingredienti: patata e tartufo differiscono solo per l’artificio commerciale.

Non ama i talent di cucina.

Alcuni sono immorali, sono un grande fratello, e quando sento “sei fuori” provo fastidio fisico, non si possono trattare così le persone.

A lei capita.

Il percorso è differente: io sottolineo l’errore, gli autori dei programmi puntano allo show.

Va mai via da un ristorante?

No, mi siedo a tavola sereno, senza ansia o velleità.

Quando la riconoscono?

Oggi capita di raro; un paio di anni fa, in Sardegna, il cameriere mi ha spiegato alla lettera la passatina di ceci con gamberi.

E lei?

Ho risposto: “Deve essere un piatto splendido, ma preferisco un po’ di bottarga”.

I riflettori quanto le interessano?

Molto, adoro la televisione, mi diverto quando mi truccano, mi imbellettano, ma non a tutti i costi.

Ha spesso alluso al suo ego.

Per ridere.

Non solo per ridere.

Chiunque affronta un lavoro come il mio lo deve avere evidente.

(entrano due persone, lo vedono e s’inchinano)

Ha dichiarato: “Non ricordo il 99 per cento di quello che ho realizzato”.

Il professor Rodotà mi domandava di un’astice mangiato da me, e non sapevo cosa rispondere.

Un suo fan.

Mi ha difeso contro tutti, compreso Prodi.

Cioé?

Per un G7 è stato ingaggiato un catering straniero, e lui ha scritto: “Potevate chiamare i migliori d’Italia, compreso Pierangelini”, e poi ha aggiunto altri nomi di cuochi, altrimenti lo avrebbero impallinato. Risposta di Prodi: “Magari sarebbe costato troppo”. E Rodotà: “No, gratis; piuttosto mi mostri quanto ha speso”.

E poi…

Prodi una volta mi ha chiamato a Palazzo Chigi, però mi ha detto cose orrende.

Ha mangiato male?

No, ha definito il mio carattere di “merda”, e ha aggiunto “sei il più bravo di tutti, e qui non sei a Palazzo Chigi ma a casa tua”.

Dote nascosta?

So far ridere anche se non ci crede nessuno.

Una necessità.

Cucinare.

Quando ha intuito di avere un dono?

Non lo so, non mi sono mai soffermato sul presente; ho capito che ogni volta che cucinavo, a partire da casa, piaceva; e questo è un lavoro di coerenza.

Sport da ragazzo.

Sono stato un campione di karate, un’arte perfetta per acquisire sicurezza in se stessi e arrivare al punto di non cadere nella tentazione di stupide risse.

I suoi genitori si sono mai preoccupati per lei?

No, alla fine il mio lo portavo a casa, giusto in prima elementare non volevo andare a scuola e mamma restava tutto il tempo seduta su una panchina fuori dall’istituto. Così la vedevo.

Come in “Caos calmo”.

Veronesi mi cita nel suo ultimo libro, ma sono finito in vari romanzi.

In questi anni come l’hanno definita?

Mi sono beccato i peggiori epiteti: arrogante, presuntuoso, antipatico, e in parte è stato un modo di difendermi, e poi chi se ne frega.

Chi è il cuoco?

Noi siamo gli unici artigiani che entrano nelle persone con il proprio lavoro, ed è una grande responsabilità, e a volte suscitiamo emozioni, altrimenti sarebbe un po’ triste pensare che tutto il nostro lavoro termina in una fogna.

Va ancora al mercato?

È la mia Disneyland, lì mi innamoro di un pomodoro, di una triglia, accarezzo una rapa, e se non lo fai non potrai mai cucinare.

Chi è lei?

Uno che va a un convegno a Copenaghen e lì come musica in sottofondo mette A muso duro di Bertoli.

(E inizia a canticchiarla: “Un guerriero senza patria e senza spada, con un piede nel passato, e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”)

Twitter: @A_Ferrucci

Gli usa confessano: “In Afghanistan che ci stiamo a fare?”

In un dossier riservato di un’agenzia federale statunitense del 2015 che ha raccolto centinaia di testimonianze venuto ora alla luce grazie al Washington Post, il generale Douglas Lute, comandante in Afghanistan sotto le amministrazioni Bush e Obama, ha dichiarato: “Eravamo privi delle conoscenze basiche sull’Afghanistan, non sapevamo cosa stavamo facendo, non ne avevamo la minima idea”.

Gli americani hanno invaso e occupato l’Afghanistan senza conoscerne la mentalità, i costumi, l’organizzazione sociale e neppure la sua storia. Il primo errore lo commisero già al tempo del governo talebano del Mullah Omar che gli Stati Uniti videro sulle prime con favore perché avendo Omar sconfitto i “signori della guerra” potevano avere un unico interlocutore per trattare l’affare che in quel momento gli interessava e cioè la costruzione del lunghissimo gasdotto (1.800 chilometri) che dal Turkmenistan porta al Pakistan, e quindi al mare, attraversando l’intero Afghanistan. Al gasdotto era da tempo interessata la Unocal, potentissima multinazionale americana nella quale erano presenti Dick Cheney, Condoleezza Rice e altri pezzi grossi che di lì a poco avrebbero fatto parte dell’amministrazione di George W. Bush. I rappresentanti della Unocal arrivarono a Kabul con la solita prepotenza, dando l’affare per già concluso: come potevano quegli “straccioni” opporsi? Non sapevano che agli afghani piace trattare per giorni e giorni davanti a una fumante tazza di tè. Bisogna avere la pazienza di stare seduti a quel tavolo. La ebbero quelli della Bridas argentina, una società a conduzione familiare ma molto esperta e quotata nel settore, diretta dall’italiano Carlo Bulgheroni. Con gli italoargentini, più rispettosi, più ‘italiani’, si instaurò un ottimo rapporto e il Mullah Omar decise di affidare il colossale affare alla Bridas. Causa non ultima, questa, insieme alla decisione, sempre di Omar, di azzerare nel 2000 la coltivazione del papavero e quindi il traffico di stupefacenti, dell’aggressione americana all’Afghanistan. Gli americani presero il pretesto dell’attacco terrorista alle Torri Gemelle per invadere il Paese. Ma era appunto un pretesto perché come è saltato fuori da un’accuratissima inchiesta del Guardian, e come noi abbiamo scritto da sempre, “gli attacchi dell’11 settembre si fecero all’insaputa dei leader talebani dell’epoca”.

Gli americani non hanno tenuto conto che la società afghana è organizzata in grandi clan ognuno con i propri interessi, anche se Omar aveva cercato, riuscendovi, di dare al Paese un diritto uniforme basato sul Corano. Quante volte in questa interminabile guerra gli americani hanno attaccato un clan neutrale, cioè che non stava né con i Talebani né con gli occupanti? Se tu uccidi un uomo di un clan del genere non hai semplicemente ucciso un uomo ma ti sei fatto d’un sol colpo duemila o tremila nemici che sono andati a unirsi alla resistenza talebana.

Non sapevano neanche che è abitudine degli afghani durante un matrimonio sparare in aria coi kalashnikov (in Afghanistan tutti hanno un kalashnikov). E così sono decine le volte che gli americani, scambiando un matrimonio per un raduno di guerriglieri, hanno raso al suolo oltre agli sposi i loro ospiti. E costoro, o per meglio dire i loro parenti rimasti in vita, sono andati a unirsi ai Talebani.

Ma la cosa che ha mandato letteralmente in bestia la gente afghana, popolo fiero, orgoglioso e guerriero, è il modo di combattere, o per essere più precisi di non combattere, degli americani con i bombardieri e successivamente con i droni teleguidati da diecimila chilometri di distanza. Gli afghani sono sempre stati abituati a combattere avendo l’avversario di fronte, questo nemico invisibile e imprendibile non poteva andare loro a sangue. Ed è per tutta questa serie di motivi che i Talebani hanno potuto riconquistare chi dice il 70 chi l’80 per cento del loro territorio, soprattutto nelle zone rurali che rappresentano il 90 per cento del Paese. Inoltre hanno sempre confuso e continuano a confondere i Talebani con l’Isis, permettendo al terrorismo internazionale di penetrare in Afghanistan, mentre i Talebani, oltre a combattere l’Isis, non si sono mai resi responsabili di attacchi fuori dal loro territorio.

Gli americani non hanno avuto presente nemmeno la storia, passata e recente, dell’Afghanistan. Con tre guerre successive, e sia pure con lunghi intervalli, gli afghani ci hanno messo ottant’anni per liberarsi dell’Impero inglese. Con i sovietici sono bastati dieci anni e del resto i russi hanno avuto il buonsenso di ritirarsi avendo capito che era inutile continuare una guerra che non potevano vincere. Adesso tocca agli americani e alle loro frattaglie, fra cui purtroppo ci siamo anche noi italiani. Ma gli americani si illudono se pensano di poter coinvolgere nelle trattative con i Talebani attualmente in corso a Doha nel Qatar il governo di Ashraf Ghani. Ghani, laureatosi presso l’American University, che si è perfezionato successivamente alla Columbia University, funzionario della Banca Mondiale è di cultura yankee e solo un po’ più decente del suo predecessore Hamid Karzai, trafficante di droga insieme al fratello. Quando Karzai divenne per la prima volta presidente nel 2004, in elezioni farsa, la stampa internazionale non trovò di meglio che nominarlo “uomo dell’anno” per l’eleganza del suo abbigliamento. Questa “eleganza” è costata agli afghani centinaia di migliaia di morti. Ma se Ashraf Ghani è personalmente un po’ meglio di Karzai non migliore è il suo entourage: corrotta è l’intera amministrazione pubblica, corrotta è la polizia, corrotta è la Magistratura tanto che è da tempo che gli afghani nelle aree rurali preferiscono affidarsi alla giustizia talebana. Ciò ha fatto dire nel 2016 al colonnello Christopher Kolenda che la democrazia che gli americani volevano imporre in Afghanistan si era trasformata in una “cleptocrazia”.

Tu non combatti diciotto anni, con perdite rilevantissime fra guerriglieri e civili, per trovarti ancora sulla testa un fantoccio degli americani. E quindi la guerra continua. Solo due giorni fa un furgoncino-bomba è stato fatto saltare in aria da un guidatore kamikaze, uccidendo almeno 10 militari governativi di stanza presso una base del distretto di Nad Ali, nella provincia di Helmand, notoriamente talebana da sempre.

L’unico modo per porre fine a questa guerra priva di alcuna autentica legittimità, immorale, oscena, è che le truppe occupanti se ne vadano al più presto. Poi saranno gli afghani a vedersela fra di loro. Il solo modo per salvare l’Afghanistan, come disse saggiamente il generale sovietico che aveva guidato l’invasione russa in quel Paese (guarda da chi ci tocca prendere lezioni) è che “gli afghani si salvino da soli”.

Quei bravi ragazzi russi ricercati dall’Fbi

In tasca hanno almeno 100 milioni di dollari delle banche saccheggiate da un lato all’altro del mondo usando malware conosciuti come Bugat, Cridex e Dridex. Si tratta di programmi che permettono di raccogliere informazioni durante le sessioni bancarie online. Le credenziali bancarie rubate vengono utilizzate poi per commettere transazioni fraudolente ai danni di piccole e medie imprese, istituti bancari, singoli cittadini. Per piazzare il colpo, dunque, rubare è bastato usare le tastiere restando al riparo dei monitor dei loro computer. Colmi di banconote spese nei più lussuosi locali russi o viaggiando a velocità in auto da collezione, gli hacker di Mosca sono ragazzi privilegiati del cerchio dell’élite russa. Ora sono finiti con i loro volti arroganti sui manifesti dei mandati di cattura dell’Fbi. Si sono battezzati da soli come i cattivi dei film: Evil corp, corporation del male, quella che ora il segretario del Tesoro americano Steven Mnuchin ha definito “una delle più prolifiche organizzazioni cybercriminali” del mondo. Una conclusione a cui gli Stati Uniti sono giunti dopo un’indagine congiunta con l’agenzia anti-crimine britannica, al cui vertice c’è Lynne Owen, che ha definito il collettivo “una delle minacce più significanti per il Regno Unito”. Identificati da due agenzie tra le più potenti al mondo, ma ancora fuggiaschi, i ragazzi della Evil nel mondo virtuale si sono dileguati velocemente come in quello reale, trascinandosi dietro le accuse di cospirazione e frode. Un’inchiesta si è legata all’altra, in una catena internazionale di ricerche, ma i tre uomini che secondo l’Fbi sono dietro il “più letale cyberattacco” del mondo sono sempre più irriverenti ed introvabili.

La mente della Evil è l’evanescente Maksim Yakubets, avvistato più volte sulla sua auto giallo fosforescente e verde mimetico a Mosca, con la targa personalizzata dalla scritta vor, ladro. Yakubets è un Huracan, come il suo modello di Lamborghini. Con i primi 400 mila dollari rubati finì sulle pagine del Washington Post nel 2009. Dopo ci sono stati i colpi in Nebraska e Pennsylvania. L’appartamento dell’hacker che sarebbe riuscito a rubare addirittura documenti all’Fsb, i servizi segreti russi, è stato attenzionato la prima volta nel 2010 dalle forze dell’ordine moscovite quando, quasi per gioco, si era infiltrato nel server di una banca e ha comprato un passeggino per suo figlio sul web. Quello è anche l’anno in cui i servizi russi smettono di indagarlo, perché, suppongono gli americani e la stampa russa, l’hacker viene reclutato per condividere business e informazioni con gli agenti del Cremlino.

Nel 2016 ha speso un milione di rubli in Crime, dopo il matrimonio con Alyona, figlia di Eduard Bendersky, ex membro dell’Fsb e ora imprenditore, riferisce Radio Svoboda. Yakubets vale cinque milioni di dollari: li promette l’Fbi a chi fornirà informazioni utili per la sua cattura: è la cifra più alta mai offerta per la cattura di un cybercriminale.

Yakubets non è il solo ad aver attirato l’attenzione: Andrey Strelchenko ama pubblicare sui social network sue immagini accanto a Lamborghini, una Cadillac Escalade, o una Chevrolet Camaro; con Mercedes, in mezzo a una collezione di modelli vintage delle sovietiche Zhigul. Andrey, sempre in posa in rete come se volesse asfaltare il mondo con i suoi bolidi da milioni di dollari. Ma quello che ha fregato i ladri che hanno fregato tutti, alla fine, è stato il peccato della vanità. E ora la taglia dell’Fbi ha fatto scattare la caccia ai ragazzi terribili della Evil corp.

I soldi spariti in cybervaluta: “Riesumate il corpo di Gerry”

Andarsene all’altro mondo, portandosi dietro la chiave d’accesso a 200 milioni di dollari? O andarsene altrove nel mondo con 200 milioni? Chi aveva affidato i suoi soldi a Gerald Cotten, fondatore di uno dei maggiori siti mondiali di scambio di criptovalute, perché li gestisse e li facesse fruttare, vorrebbe proprio sapere se il suo “banchiere” è davvero deceduto improvvisamente in India, a trent’anni, un anno fa, per complicazioni del morbo di Crohn, o se non si sia piuttosto eclissato con i soldi – sia pure cripto – e le chiavi d’accesso relative.

Cotten, il fondatore del sito di scambio canadese QuadrigaCX, se n’è andato – quale che sia il senso dell’espressione – portando per sempre con sé le chiavi di accesso alla piattaforma. Di conseguenza, i suoi clienti non possono recuperare le loro somme e neppure sapere se ci sono ancora.

A inizio anno, QuadrigaCX, che, nel frattempo, impossibilitata a operare, ha chiuso, aveva avviato un’azione legale presso un tribunale canadese della Nuova Scozia per proteggersi dai creditori, che volevano recuperare i loro soldi. La vertenza è approdata alla Corte Suprema della Nuova Scozia. Adesso, i creditori chiedono la riesumazione del corpo di Cotten e un’autopsia postuma, sospettando che lui non sia affatto morto. Nell’esposto, presentato alla Royal Canadian Mounted Police, le Giubbe Rosse, lo studio legale Miller Thomson, canadese, fa riferimento a “circostanze non chiare” del decesso e alle “perdite significative” che la sua scomparsa ha comportato per i suoi clienti. Informazioni raccolte nel corso dell’indagine avallerebbero dubbi sulla morte di Cotten. Jennifer Robertson, la vedova di Gerald, ha affidato al suo legale una dichiarazione in cui dice che, con la loro richiesta, i clienti le hanno “spezzato il cuore”. Per Jennifer, “non c’è motivo” di mettere in dubbio il decesso del marito; né si vede come un accertamento delle cause della morte possa “contribuire al recupero dei beni” custoditi in casseforti digitali inviolabili. La malattia di Crohn è un’infiammazione cronica intestinale, le cui cause sono ancora sconosciute, ma il cui decorso, pur fastidioso, è raramente letale. In totale, al momento del decesso di Cotten, QuadrigaCX gestiva, con beneficio d’inventario e citando la fonte più alta, circa 200 milioni di dollari in criptovalute dei suoi circa 115 mila clienti. Gerald aveva dotato la piattaforma di scambio di numerose protezioni, visto che strutture analoghe sono state spesso nel mirino di cyberladri. Una prevedeva l’utilizzo dal suo pc personale, dotato d’un sistema di crittografia. “Il computer che Gerry usava per gestire l’azienda è criptato. Io non ho idea di dove sia la password né l’ho trovata” aveva subito asserito e continua a sostenere la Robertson. Alla fine, Quadriga CX ha chiuso i battenti fisici e informatici, lasciando i clienti comprensibilmente. Le voci che Cotten abbia simulato la propria morte cominciarono a circolare da subito e continuano a essere insistenti, anche se, nell’anno trascorso dal (presunto) decesso, non è emersa alcuna prova. Alcuni esperti di valute digitali, come Crypto Medication, sospettano che i soldi in realtà non siano chiusi a doppia mandata in una cassaforte digitale, ma semplicemente non esistano e non siano mai esistiti e che alla base di tutto ci sia una truffa. Vanity Fair, in una ricostruzione ricca di particolari, non esitava a parlare di uno “schema Ponzi”, cioè di una truffa bella e buona, e d’uno yacht di lusso a bordo del quale – suggeriva l’illustrazione dell’articolo – il giovane Gerald starebbe veleggiando. Alcune circostanze possono avallare questo sospetto, ma si procede senza certezze. Mesi or sono, Ernst & Young, una delle più prestigiose aziende di auditing mondiali, scoprì “significativi problemi” nella gestione della piattaforma Quadriga: Cotten avrebbe pure trasferito somme sostanziose a suoi conti personali o a conti di terzi. I segugi di Ernst & Young riuscirono a recuperare circa 33 milioni di dollari canadesi, un sesto circa della somma globale stimata.

Pensioni, no alla riforma. L’ultimo dei mohicani ora è l’“Eroe di Francia”

Sulla sua copertina del 5 dicembre scorso, primo giorno di sciopero generale contro la riforma delle pensioni voluta da Emmanuel Macron, Libération aveva pubblicato una foto con i volti di due uomini, di profilo, faccia a faccia, che si fissano negli occhi come per darsi battaglia. A destra, il presidente Macron, a sinistra Philippe Martinez, il segretario generale del sindacato Cgt (Confédération générale du Travail). Il quotidiano francese aveva visto giusto. Il principale oppositore del governo in questa crisi, che da più di dieci giorni paralizza il paese, esaspera i parigini e preoccupa i francesi che non sanno se avranno un treno per partire a Natale, è il patron della Cgt. In prima linea nei cortei, Martinez è l’uomo che ha ridato ai francesi il gusto della lotta sociale.

Da dati del ministero dell’Interno, il 5 dicembre è riuscito a portare nelle strade di Parigi almeno 65 mila persone, 800 mila in tutta la Francia. L’altro giorno il settimanale Le Point lo ha definito il “nuovo eroe dei francesi”. Poco più di un anno fa, quando sulle rotatorie di Francia erano comparsi i primi Gilet gialli, i sindacati erano stati messi da parte. I Gilet erano sorti quasi dal nulla, si organizzavano sui social, non volevamo etichette, né di partiti né di sindacati.

Un anno dopo, con la protesta in giallo che sfuma, divorata dai black bloc e dalle divisioni interne, la lotta sociale torna nelle mani dei sindacati. In questa battaglia per le pensioni è Martinez che porta la voce dei più intransigenti. Per lui non c’è Natale che tenga: “Andremo avanti fino al ritiro della riforma”. È la sua Cgt, spalleggiata dall’altro sindacato radicale Sud, a bloccare treni e metrò. Martinez si oppone al nuovo sistema “universale a punti” in salsa Macron perché “non porta nulla di buono”: “Bisogna conservare il sistema attuale perché è il migliore del mondo”, sostiene. Dopo l’annuncio delle misure della futura riforma, dettagliate dal premier Edouard Philippe mercoledì scorso, Martinez ha commentato: “Ci stanno prendendo in giro”. E ha inasprito la protesta. Sarà ancora in prima linea martedì in un nuovo corteo parigino, insieme a macchinisti e insegnanti. Martinez, 58 anni, è l’uomo che non sorride mai dietro i folti baffi. Non porta la cravatta neanche nelle riunioni all’Eliseo. È cresciuto a Rueil-Malmaison, periferia bene a ovest di Parigi, in una famiglia modesta di origini spagnole, padre operaio e madre donna delle pulizie. Negli anni del liceo si iscrive ai Jeunes communistes, più tardi al Pcf (da cui si è dimesso nel 2002). È un metallo (con la “o” finale accentata, ovviamente), cioè un tecnico della metallurgia. Nel 1982 comincia a lavorare alla Renault. Nel 1984 è delegato centrale della Cgt-Renault, nel 2013 membro della commissione esecutiva della Confederazione, nel febbraio 2015 ne è a capo. Ma eredita un sindacato in crisi. Il suo predecessore, Thierry Lepaon, coinvolto in uno scandalo, è stato spinto alle dimissioni. Storicamente primo sindacato di Francia, la Cgt, che ha sede a Montreuil, uno degli ultimi bastioni comunisti di Francia, sta perdendo iscritti.

Appena nominato, ospite a radio e tv, Martinez afferma subito il suo ruolo di chef rivoluzionario: “Ridurre l’orario di lavoro a 32 ore settimanali è indispensabile per creare nuovo lavoro” (in Francia, il tempo legale di lavoro è di 35 ore settimanali). Il 22 aprile 2016 viene rieletto con una standing ovation. Il 26 maggio, nel pieno della protesta contro la Loi Travail, la riforma del codice del Lavoro portata avanti da François Hollande e dal suo premier Manuel Valls, Martinez pubblica su L’Humanité un ampio testo in cui scrive: “La Cgt rivendica il diritto a lavorare meno, lavorare meglio e lavorare tutti per conciliare la creazione di posti di lavoro e il progresso sociale”. Malgrado gli scioperi, la legge viene adottata ad agosto 2016. Uno smacco segue l’altro. Nel marzo 2017 avviene lo storico sorpasso: il sindacato Cfdt di Laurent Berger, rivale di sempre, moderato e riformista, diventa il primo sindacato di Francia. Martinez è amaro: “Non fa piacere a nessuno arrivare secondo”. Nel 2018 la Cgt, ancora in calo, conta 581 mila iscritti, la Cfdt 623 mila. Martinez deve ingoiare un’altra delusione: i sei mesi di sciopero “a intermittenza” nei treni, portati avanti contro la riforma dello statuto dei ferrovieri e della Sncf, la società che gestisce le ferrovie, anche questa voluta da Macron, non portano i risultati sperati.

La legge è votata durante l’estate 2018. Ora, contro la riforma delle pensioni, Martinez è tornato al metodo duro: paralizzare il paese a oltranza. L’obiettivo è piegare Macron come nel 1995 si era piegato Jacques Chirac dopo tre settimane di scioperi contro la riforma del servizio pubblico. Eloquente come sempre arringa le folle: “È in gioco il futuro di diverse generazioni a venire”. Martedì sarà un giorno-test per tutti, anche per la Cgt.

La matematica della Brexit spiegata da Amleto

La matematica della Brexit è complicata: estrarne una verità compatibile col pregiudizio di ognuno è praticamente impossibile, specie se “ognuno” vuole solo aver ragione sui social urlando che gli altri sono cretini e che lui – ognuno – è vittima dell’inaccettabile idiozia del mondo. L’ultima contrapposizione è: davvero gli elettori giovedì hanno scelto Brexit? Visto il largo successo di Boris Johnson si direbbe di sì. Ma c’è chi nega: i partiti anti-Brexit hanno preso 2 milioni di voti in più rispetto a quelli pro, solo la legge elettorale ha sancito il successo dei Tories. Ora lasciatevi presentare Lord Ashcroft – ricchissimo gentiluomo inglese, già dirigente del partito conservatore – e il suo sito di analisi elettorali. Quella sulle ultime Politiche pubblicata venerdì (12mila interviste) svela al pubblico italiano cose impensabili: solo il 57% dell’elettorato ha votato avendo Brexit come priorità (parecchi dei remainers del 2016 hanno accettato il risultato). E ancora: una rilevante fetta dell’elettorato laburista è per il Leave e Brexit non compare fra i primi 5 motivi per votare Corbyn; una piccola, ma discreta fetta dell’elettorato di Johnson è per il Remain, ma il primo motivo per votarlo è lasciare l’Ue. I laburisti vincono tra i giovani, i Tories (in vantaggio nella fascia da 45 anni in su) sono al 50% tra gli operai specializzati, etc. Insomma, ci sono più cose nell’urna, Orazio, di quante ne contengano la tua edicola e la tua timeline: basta non voler mettere le mutande della propria isteria politica al mondo e il mondo riderà con te mentre se ne fotte di quel che posti.

Salute e precarietà: i mali incrociati dell’odierna finanza

Precarietà è parola inflazionata. A ragione. Salute è un’altra parola molto usata. “Quando c’è la salute c’è tutto”. Salute intesa non tanto come “assenza di malattia”, ma come “benessere fisico, psichico e sociale”. Qual è lo scenario nel quale la dilagante precarietà odierna si inserisce? La parola chiave è: mercificazione. Obiettivo del modello di sviluppo dominante turbocapitalista è rispondere al “giogo” di domanda e offerta, dove tutto si trasforma in merce “prezzabile”. Questo fatto può avere una logica, nel bene e nel male, fino a quando le merci sono bulloni, cioè produzione manifatturiera. La finanza, in questo caso, è strumento di una economia reale. Reale al punto che sono chiari e individuabili i protagonisti: borghesia da una parte, e proletariato di fabbrica dall’altra. Ognuno dei protagonisti parte dai suoi bisogni. Per soddisfarli fa una “sana lotta di classe”, che altro non è che la difesa dei propri interessi. L’alienazione afflittiva “dell’operaio massa” provoca una sorta di “coscienza infelice” della parte etica della borghesia (esiste!), consapevole delle condizioni di sfruttamento spesso brutale (alienante, appunto) in cui versa l’operaio in nome del profitto, cioè del plusvalore di marxiana memoria. Questo scenario prevede che la maggioranza degli attori abbia un ruolo che rende possibile la comprensione della propria collocazione sulla scena e, quindi, avere un senso, una direzione, una sana e salutare motivazione. Quando, come oggi, la produzione manifatturiera viene sostituita dalla “bioproduzione”, (relazioni, informazioni, idee, innovazioni nel modo di vivere, servizi alla persona forniti da altre persone), il Capitale, cioè la finanza, tende a “dare un prezzo”, cioè a “mercificare” la vita stessa. L’organizzazione sociale viene forzata a diventare un piano inclinato liscio e senza increspatura, lungo il quale scorrono senza intoppi le “merci”. La contropartita della stabilità dei mercati sta nella precarizzazione del lavoro e delle vite delle persone che lavorano. La precarietà da lavorativa si trasforma in sociale: il luogo del lavoro è il complesso della società fatta, oltre che da attività di produzione, da un insieme di attività e occupazioni di riproduzione e di ricreazione difficilmente standardizzabili e, in quanto tali, prive di interesse, per il Capitale. Ma, alla fine, si chiederà il lettore: quale relazione tra precarietà e salute?

La salute, dicevamo, è “benessere fisico psichico e sociale”. La realtà socio economica dominante ci costringe a fare attività spesso sedentarie. Questi “lavori” sono spesso una sorta di spezzatino di attività molto diverse e ravvicinate tra loro, che impediscono quella “accumulazione identitaria professionale” (sono falegname, fabbro, fornaio…) che ci consente di essere riconosciuti, dice la psicologia sociale, all’interno della nostra “comunità empatica di appartenenza”. Infine, queste attività avvengono in uno scenario sociale di competizione conflittuale e orizzontale tra simili, negando l’umana e naturale attitudine collaborante e cooperativa. Proprio questo disequilibrio provoca una serie di reazioni adattative allo “stress” che, sul medio-lungo periodo sono alla base della insorgenza di malattie le più varie: l’ansia cronica che sfocia in depressione, malattie autoimmuni (la tiroidite, l’artrite reumatoide, la psoriasi etc.), patologia cardiovascolare (ipertensione, infarti, ictus). Per rimanere sulle principali. Anche in questo caso, se invece di partire dalle malattie, si partisse dalla definizione di salute si otterrebbero molti più risultati. Bisognerebbe iniziare a “pensare altrimenti” rispetto a un modello di sviluppo che ha smesso di funzionare e che sta distruggendo ambiente, società, comunità occupazionali e, quindi, la salute delle persone. Ma questa è un’altra storia.

È il tempo messianico: Segno e Parola rivelano il mistero di Gesù

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”. Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel Regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11,2-11).

Questa terza domenica, chiamata gaudete, prende titolo dall’invito gioioso espresso nell’antifona d’ingresso: rallegratevi…il Signore è vicino! (Fil 4,4.5). Stesso carattere festivo in parallelo con la IV domenica di quaresima denominata lætare (Is 66,10). Alla scuola dei grandi profeti Isaia e Giovanni Battista, che seppero leggere i segni dei tempi alla luce della Parola di Dio, dobbiamo davvero rallegrarci nel Signore che viene a noi come Dio di misericordia. Giovanni, il battistrada, imprigionato, sente parlare della predicazione e delle opere di Gesù e si pone la domanda: Gesù è realmente colui che lui stesso e i Giudei attendono come Messia? Vi sono, infatti, ragioni per mettere in dubbio questa identificazione: l’umile e inerme condizione di Gesù, insieme al fatto che Egli abbandona il suo precursore alla prigione e alla morte! Ecco allora, dal carcere, l’ambasciata: sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro? La risposta di Gesù è velata! Egli non dice apertamente chi è, ma rimanda i messaggeri a ciò che essi stessi possono vedere e udire con le parole di Isaia. Matteo, però, vuol rilevare qualcosa di più nuovo, di più profondo e sconcertante rispetto ai segni miracolosi: ai poveri è annunziata la buona notizia. È il passo che risuona nella prima delle Beatitudini (5,3ss.)! Il fatto che Gesù si rivolga ai poveri, agli oppressi, agli ultimi, ai peccatori, a coloro che si affidano esclusivamente a Dio, e presenti se stesso come l’Atteso annunciato dai profeti lungo i secoli, significa che segno e parola rivelano insieme il mistero della sua Persona. È arrivato il tempo messianico! Stupisce che i miracoli di Gesù non esercitino, in complesso, un effetto molto convincente; del resto Egli stesso li respinge se intesi come dimostrazione di pura potenza (Gv 4,48; Mt 4,7; 27,40ss). Meraviglia ancor più che la buona notizia, il Vangelo, sia considerato più importante di tutti i miracoli. Infatti, nella Persona di Gesù, Vangelo incarnato, si attua il disegno della salvezza: il Messia redime la storia! La Parola di Gesù non può essere separata dalla sua Persona, né la sua Persona dall’efficacia della sua Parola. Solamente colui che si lascia comprendere e avvolgere, come Maria, dalla sua Parola verrà illuminato e trasformato dal mistero redentore della Persona di Gesù. Questa è la beatitudine propria di chi si fa piccolo, dell’umile, di colui cioè che non si lascia scandalizzare dalla via scelta da Dio per redimere il mondo. È la vita di Gesù vissuta e donata fino alla croce che riscatta al perdono, all’amore e alla vita eterna i peccatori, compresi i suoi crocifissori. E nessuno, neppure il più grande tra gli uomini, come Giovanni il Battista, può ottenere da sé questa grazia senza che sia avvenuta una nuova nascita interiore (Gv 3,3ss). L’apostolo Giacomo raccomanda la pazienza in mezzo alle ingiustizie e ai soprusi. Ecco, per ciascuno di noi, l’invito ad esercitare la saggezza che dà ali alla speranza, che si rivela e si compie nella buona notizia dell’Evento del Natale.

L’Italia in fuga con la Libia

Abbiamo cominciato male con la Libia. E l’annuncio che adesso la guerra sta per dare il suo colpo finale (non sarà il colpo finale, solo più morti e distruzioni) non dovrebbe stupire nessuno. Non in Italia, dove tutto comincia (male) e alla fine le conseguenze si pagano. Una brutta Italia ha voluto, per affari, associarsi alla Libia di Gheddafi, ed è giunta fino al punto da offrire un “patto di amicizia, fraternità, parternariato”, con versamento di grosse cifre, legami fra i due eserciti, scambi di piani, tecnologie, intelligence.

Erano state date subito navi e armi per il pattugliamento costiero dello Stato più sprezzante al mondo di ogni diritto umano e civile. Nel maggio 2009 il Parlamento italiano è chiamato ad approvare. E lo fa subito, unanime, quasi niente discussione e molta euforia. Solo due deputati Pd (Colombo e Sarubbi) negano il voto. Prima del voto è toccato a me il discorso finale del “no”. Ed è toccato a D’Alema il discorso finale del “sì”: “I trattati si ratificano, non si discutono”, ha ammonito. Il nome del grande accordo era “Trattato di Bengasi” ed era stata l’opera più importante in politica estera di Berlusconi. A Roma è stato celebrato da un lungo festeggiamento a Gheddafi, accampato a Villa Torlonia, e dal sermone quasi religioso tenuto a Roma dal capo libico che ha voluto una platea di quattrocento ragazze italiane in abito blu-hostess. A ciascuna è stato dato un volume del Corano. Tutte sono state invitate, nel prossimo futuro, in Libia. La Lega era al governo, Maroni era il ministro dell’Interno. Quel prossimo futuro non c’è stato. Pochi mesi dopo, una rivoluzione furente e rabbiosa ha distrutto persone e cose – fra cui Gheddafi – fino alla cancellazione di tutto. L’Italia, qualunque fosse il governo, non ha cancellato niente. Si è detto, a destra e a sinistra, che il trattato sarebbe restato valido con la nuova Libia. Una nuova Libia non c’è mai stata.

Ma per l’Italia tutto resta come prima, come concordato con la Lega. Noi abbiamo sul posto un ambasciatore (è l’unico dei Paesi occidentali) presso un “governo amico” che controlla uno o due quartieri di Tripoli. C’è una Guardia costiera fatta di navi italiane e di equipaggi arruolati fra le bande armate, che non salvano nessuno. Catturano o sparano. Nel territorio accanto c’è un generale che ha un esercito e avanza distruggendo un po’ di tutto verso la sua ex capitale, che di tanto in tanto viene anche bombardata. È lui che sta annunciando più guerra. Da qualche altra parte dell’ ex Jamahiriya c’è un parlamento, che non risponde né al generale né al “governo”. Se si riunisce e quando, non lo sa nessuno. Ah, e ci sono anche le prigioni, le stesse di Gheddafi, perché peggiori non potrebbero essere, ma molto più affollate e dove ogni immaginabile diritto umano viene violato da soldati, mercenari, carcerieri e guardie armate senza specifica designazione. Ogni tanto un personaggio dell’uno o dell’altro governo italiano si reca in visita, non si sa per quante ore. Non sempre ci vengono date fotografie dell’evento, ma sempre segue un comunicato per spiegare che l’Italia ha in pugno la situazione. Altre volte portiamo a Roma a nostre spese o il capo del governo di due quartieri di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, o il generale in divisa della guerra armata. Evidentemente è meglio tenerli entrambi come buoni amici, con qualche gentilezza che non sarà solo diplomatica.

Sul versante italiano ci sono due curiose abitudini che disorientano la diplomazia del mondo. Sia le fonti di informazione che quelle politiche, per parlare dell’ex dominio di Gheddafi, dicono Libia, come se ci fosse la Libia, e non regioni e province divise da guerre e divise tra bande, etnie e ambizioni ciascuna contrapposta all’altra. Se c’è una voce sensata nella ex Libia potrebbe dirci che la nostra ostinazione a non prendere atto della situazione (come si è fatto prontamente con la ex Jugoslavia) è colpevole e rende ancora più difficile e inspiegabile la situazione. Tutto si è svolto finora, con uno o con l’altro governo italiano, a carico della sofferenza e abbandono dei migranti, dei rifugiati, degli scampati al mare, e di coloro che sono nelle prigioni ex libiche. Non vi sono patti, non vi sono regole, non vi sono garanzie e restano solo i ruderi delle “politiche” di Salvini, tendenti al blocco del mare. Ma il mare intanto se lo sono diviso Erdogan e altri Paesi svelti e informati. Noi non c’eravamo e nessuno ci ha chiamato. Forse hanno capito che ci mancava il tempo (e un appunto o promemoria) per questioni così irrilevanti.

Mail box

 

 

Elogio del volontariato, patrimonio del nostro Paese

Abbiamo un patrimonio straordinario in questo Paese, ed è il volontariato: un’attività di aiuto e di sostegno libero per soccorrere il prossimo in difficoltà. Tante persone, in Italia, nel silenzio più assoluto e senza clamori danno un grande contributo dentro gli ospedali, le misericordie, le pubbliche assistenze e la croce rossa. Un’altra struttura importante è la Caritas, dove migliaia di persone ogni giorno distribuiscono pasti caldi. Non dimentichiamo i volontari la parte più bella di questo Paese.

Massimo Aurioso

 

La lettera della Casellati confonde l’onore col denaro

A proposito della nota vicenda di cui si è resa protagonista la Presidente del Senato nei confronti dei giornalisti del Fatto, penso che chiunque si ritenga diffamato da un articolo di giornale – specie se è un’alta carica istituzionale – non dovrebbe preannunciare richieste risarcitorie con lettere raccomandate, ma presentare una querela nei confronti di chi ritiene l’abbia diffamato. Nel corso del processo penale che seguirà può, eventualmente, costituirsi parte civile per ottenere un risarcimento danni. Ammonire, preventivamente e a mezzo lettera, di essere intenzionati a chiedere un risarcimento monetario significa ammettere, implicitamente, che l’articolo di giornale raccontava la verità e che la lettera ha solo lo scopo di “avvertire” il giornalista di evitare di reiterare, per il futuro, tale comportamento. La faccenda, invece, credo sia stata ridotta poco elegantemente a una mera questione economica. Chi si ritiene diffamato deve principalmente preoccuparsi di far valere la propria limpidezza morale e mettere in secondo piano il vil denaro perché, per quanto alta possa essere la cifra richiesta, solo una sentenza penale di condanna nei confronti di chi diffama può restituire l’onore alla persona diffamata.

Francesco Forino

 

L’ipocrisia auto-assolutoria dei pranzi di Natale coi poveri

Come ogni anno si svolgeranno, in occasione del Natale, pranzi e cene con i poveri di tutto lo stivale, che in quel giorno si troveranno a condividere un pasto caldo con i vari ricconi e nobili di questo strano Paese chiamato Italia. Niente illusioni, il giorno dopo – anche se ancora festivo – verranno tutti riaccompagnati presso le loro abitazioni, in strada e sotto i ponti, dopo aver recitato le preghiere e consumato l’ultima fetta di panettone.

Questa tradizione di lavarsi l’anima con ipocrisia va avanti da molti lustri, quasi un mea culpa di una società che non vuole cambiare. La cosa più irritante è che tanti ricchi che si prestano a queste idiozie di presunta beneficenza sono anche contrari a redditi di cittadinanza o sussidi di disoccupazione, che magari tolgono dalla miseria proprio quelle persone che vogliono portare a tutti i costi a cenare a Natale con loro. Mi scuso per il mio sfogo, ma io sono un nostalgico che non si è rassegnato al tramonto della sinistra di Enrico Berlinguer, e che forse si aspetta troppo da questa società.

Dario Folcarelli

 

Oltre quarant’anni in fabbrica, vittima della legge Fornero

I sostenitori della legge Fornero dovrebbero provare un mese nel tritacarne dell’impresa privata, con il “controllo qualità” sul collo. Otto ore al giorno, da lunedì a venerdì, in un regime somigliante a quello militare, per 43 anni e 8 mesi: sentirebbero addosso un assaggino della legnata “forneriana” che sostengono (senza conoscerla). Perché non provano? Chi produce beni e prodotti industriali non è un mulo da soma. Dopo 41 anni di vita confiscata e di contributi esosi, dico basta.

Fabio Baldrati

 

Chi abbandona i Cinque Stelle lo fa per essere ricandidato

Tre senatori eletti tra le file del M5S sono passati con la Lega. Probabilmente non saranno i soli. Questi saltimbanchi hanno lasciato il Movimento usando motivazioni nobili, ma il motivo vero è un altro: la regola dei due mandati. Io non conosco la storia di questo trio, ma credo che siano al secondo giro, per cui alle prossime consultazioni politiche non sarebbero stati candidabili. E quindi accetto scommesse: tutti coloro che hanno tradito e tradiranno nel prossimo futuro il Movimento sono al secondo mandato, e Salvini, a cui il pelo sullo stomaco non manca, sicuramente ha promesso loro la ricandidatura alle future elezioni. Quando si annusa il potere lasciarlo è difficile.

Anilo Castellarin

 

Piazza Fontana, il coraggio di dare alle cose il loro nome

La verità è alla base della riconciliazione. E sulla strage di Piazza Fontana finalmente abbiamo udito le scuse del sindaco di Milano a chi è stato ucciso e perseguitato per nascondere i veri esecutori e mandanti. E le chiare parole d’accusa del Presidente Mattarella contro le deviazioni di falsi servitori dello Stato e il tradimento della democrazia. Ci sono voluti 50 anni per arrivare a questo processo di “giustizia riparativa”, che ricorda quella realizzata in Sud Africa dopo l’apartheid, dove le ferite dell’odio e dei massacri si sono curate chiamando le cose con il loro nome.

Massimo Marnetto