In un sabato senza rabbia il peggio sembra passato

 

 

 

“C’è un’aria formidabile le stelle sono accese. E sembra un sabato qualunque un sabato italiano. Il peggio sembra essere passato. La notte è un dirigibile che ci porta via lontano”.

Sergio Caputo, “Un sabato italiano”

 

All’ora di pranzo, in attesa delle Sardine, il faccione di Matteo Salvini in tv ci propone un comitato di salvezza nazionale. Con la forchetta a mezz’aria stento a crederci: “Non è più il momento della polemica, faccio un appello a tutti quelli che hanno a cuore il futuro dell’Italia, fermatevi, fermiamoci, sediamoci attorno a un tavolo, ridisegniamo le regole, salviamo il Paese che altrimenti rischia di affondare”. Il cinico che è in me subito sospetta fortemente del truce capitano che si camuffa da infermiere dell’Esercito della salvezza.

Mi do possibili spiegazioni. Il solito trucco della Bestia per oscurare piazza San Giovanni. Oppure si è reso conto che il Conte bis, malandato fin che si vuole, rischia di essere il più longevo dei governi morenti. Il Parlamento che non vuole andare a casa visto che abbondano i cosiddetti “responsabili” (in arrivo, i 25 ex forzisti di Mara Carfagna). Il gran casino grillino che partorisce soltanto tre tristi topolini. Gli ultimi sondaggi che lo danno in calo sotto la soglia del 30% (prima del Papeete veleggiava verso il 40). L’Emilia Romagna dove il vantaggio minimo ma costante di Bonaccini sulla Borgonzoni lo preoccupa. La Meloni, che sale sottraendo consensi alla Lega. O chissà, un altro mojito di troppo. Forse però Salvini è sul serio preoccupato e si è convinto a dare retta al pragmatico Giorgetti (“a che serve governare sulle macerie?”). A Roma c’è il sole, in una piazza gremita insieme a decine di altre piazze gremite in tutta Italia. Dove si legge la Costituzione, dove si canta Bella Ciao, dove le ong chiedono tra gli applausi la cancellazione dei decreti sicurezza, dove parla una ragazza transessuale a nome del movimento LGBT. Quel cambiamento, quelle persone, quelle storie che dopo anni di incontrastato dominio politico e mediatico la destra pensava di avere definitivamente espulso, cancellato dal discorso pubblico. Una piazza dove non c’è CasaPound: il fascismo del terzo millennio che infatti non può esserci dove c’è l’antifascismo.

E dove c’è anche la sinistra ma non chiamatela piazza di sinistra, almeno non di quella sinistra vetusta, sfiancata, usurata che le piazze non le riempie più da un’eternità. Come la sinistra autolesionista di Corbyn che ripiegata su se stessa, scollegata dalla realtà, anacronistica, ha spianato un’autostrada a Boris Johnson e alla Brexit.

Non sappiamo se questa piazza, queste piazze siano davvero l’inizio di qualcosa di nuovo. Se questi ragazzi (ma non solo ragazzi) sapranno tenere la barra dritta senza farsi fagocitare dal troppo ego (o dalle lezioncine ammuffite dei cattivi maestrini). Le Sardine adesso sanno di avere davanti delle praterie tanta è la voglia di partecipare, di parlare, di condividere che anima quest’Italia che non odia e non schiuma rabbia. Il peggio sembra essere passato. Almeno per stasera.

Antonio Padellaro

Viva L’Italia cuore di Panna

Secondo noi i giornali e le Tv non stanno prestando la dovuta attenzione alla nuova, durissima battaglia condotta da Italia Viva. Ce ne dà conto su Twitter la ministra renziana Teresa Bellanova: “La #sugartax è una tassa sulla dolcezza, ecco perché siamo contrari”.

Sono parole forti, come non speravamo più di sentirne dopo “Proletari di tutti i Paesi, unitevi”.

Nell’intervista a Tv2000, Bellanova, ministra del governo che vuole mettere la sugar tax, argomenta: “Ci sono bevande che si fanno solo con lo zucchero. Per esempio il chinotto. Non vogliamo mettere in discussione una filiera di qualità”. Vero. Chi vuole un chinotto amaro? Costruiamo città di zucchero filato, un Tav di marzapane, le rotaie di canditi: sai come s’impenna il Pil, col picco glicemico nazionale.

Aspettiamo la guerra contro l’Iva sul lievito e l’emendamento per calmierare i prezzi di farina e strutto (che servano a questo le donne nel partito di Renzi?). Il partito dell’amore e del sorriso vuole un mondo di crostate appena sfornate e bambini grassottelli come nelle fiabe dei Grimm; è un partito-cuore di panna. Una tassa sulla dolcezza… Capite che qui la satira tace sconfitta, al massimo c’è il Bagaglino.

Fava: “Ercolano pericoloso, non è al 41bis”

Aldo Ercolano sta scontando l’ergastolo (ostativo), dal 2015 non più al 41bis, si trova in Alta sicurezza a Oristano. Classe 1960, arrestato nel 1994 a Desenzano sul Garda, è stato per anni al vertice, insieme a Nitto Santapaola (di cui è nipote), della “famiglia” catanese di Cosa nostra Santapaola-Ercolano, ancora la più forte nella Sicilia orientale. Tra gli altri crimini è condannato per l’omicidio del giornalista Pippo Fava, avvenuto il 5 gennaio 1984 a Catania.

È proprio Claudio Fava, figlio di Pippo, oggi presidente della commissione Antimafia della Regione siciliana a lanciare l’allarme con una lettera al guardasigilli Alfonso Bonafede. “Sono 61 i detenuti del Catanese ristretti al 41bis – scrive Fava –, non pochi. Ma non vi figura più Aldo Ercolano, nonostante sia considerato dall’autorità giudiziaria l’esponente apicale, assieme a Benedetto Santapaola, della famiglia criminale egemone di Cosa nostra in questa parte della Sicilia”. In audizione “tutti hanno messo in evidenza lo stridente contrasto tra l’intatta autorevolezza e la pericolosità criminale che viene a tutt’oggi riconosciuta a Ercolano e la revoca del 41bis che lo ha restituito al circuito detentivo normale: recenti indagini giudiziarie, e la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia, hanno confermato la capacità di controllo e di comando che Ercolano, sia pur detenuto da molti anni, conserva pressoché intatta sugli affiliati del suo gruppo criminale”, di cui fanno parte ancora “oltre la metà di tutti gli affiliati a Cosa nostra di Catania”. A Ercolano, che si trovava nel carcere di Cuneo, è stato revocato il carcere duro una prima volta nel marzo 2014: per il Tribunale di sorveglianza di Roma il boss non poteva più avere collegamenti con l’attuale mafia siciliana. Dopo un passaggio in isolamento nell’aprile 2014 il “padrino” fu riportato al 41bis, intervenne il ministro della giustizia Andrea Orlando. Ma c’è poi stata un’altra revoca del carcere duro, settembre 2014, da parte del Tribunale di sorveglianza, a cui è seguita addirittura la bocciatura del ricorso della Superprocura antimafia presentato in Cassazione.

Ormai Ercolano non è più al 41bis da cinque anni, passati in Alta sicurezza in Sardegna. Era il 2013 e nelle intercettazioni dell’operazione “Reset” della procura di Catania Giuseppe Zucchero, genero di Nitto Santapaola, spiegava: “A capo di tutti quelli che siamo qua dentro portiamo il nome dello zio, il nome è uno solo o il suo o di Aldo e niente, c’è stato di colpo l’applauso”. Più recentemente il killer da 100 omicidi, ora pentito, Maurizio Avola ha accusato Ercolano di avere avuto un ruolo, col superlatitante Matteo Messina Denaro e altri boss, nell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, assassinato in Calabria il 9 agosto 1991. Per questo assassinio è adesso indagato a Reggio. E per il Ros dei carabinieri l’operazione Samael avrebbe rivelato i rapporti attivi di Ercolano con esponenti di spicco di Cosa nostra, come suo cognato Giuseppe Enzo Mangion e con l’imprenditore Giuseppe Cesarotti che, intercettato, dice: “Servono soldi anche per sostenere chi è nell’altra vita”; per la Dda di Catania il riferimento è a Nitto e Aldo. Ma mentre Santapaola porta ormai il peso dell’età, 81 anni, e del tempo passato al 41bis dopo l’arresto nel 1993, Ercolano ha 59 anni.

Il legale del detenuto, Fabio Federico, replica: “Ercolano ha detto di non avere più niente a che fare con Cosa nostra dal 1994. Perché l’onorevole Fava non va a trovarlo a Oristano?”. Invito respinto da Fava: “Io faccio il mio lavoro di presidente della commissione Antimafia… cercano di buttarla sul personale, ma io non ho niente da dire a quei personaggi”. Ricevuta la lettera di Fava via Arenula ha “avviato le necessarie verifiche”.

Il governatore si dimette, “chiedeva aiuto alla ’ndrina”

Antonio Fosson si è dimesso. Il presidente della Regione Valle d’Aosta, indagato per voto di scambio politico-mafioso lascia l’incarico “per salvaguardare – dice – la mia personale dignità, profondamente ferita dalle infamante ipotesi che vengono formulate”. E non si può che essere d’accordo con lui, almeno dopo aver letto le centinaia di pagine della relazione della Legione dei Carabinieri Piemonte e Valle d’Aosta dalle quali emerge – con una chiarezza disarmante – come la locale ’ndrina di Aosta, facente capo ai fratelli Di Donato imparentati con il potente clan Nirta, sia l’assoluto ago della bilancia dei flussi elettorali della Vallée.

L’inchiesta denominata “Egomina” (in cui è indagato il presidente dimissionario e che riguarda le ingerenze criminali nelle ultime elezioni regionali del 2018) è infatti figlia di un’altra inchiesta (“Geenna”, già a processo a Torino), relativa a precedenti tornate elettorali. Il senso di disagio traspare dalle stesse parole dei carabinieri i quali, nelle loro indagini, arrivano a documentare numerosi incontri decisamente imbarazzanti per Fosson e non solo: “Il fatto che gli ultimi tre presidenti della Regione – si legge nella relazione – si incontrino, anzi cerchino addirittura, due fratelli pregiudicati la cui parentela con la famiglia Nirta è notoria, è quantomeno allarmante”. Sono infatti tre i presidenti ad aver chiesto aiuto alla cosca. Oltre a Fosson, leader di una coalizione di liste autonomiste, è infatti indagato anche Laurent Viérin (Union Valdôtaine Progressiste), predecessore di Fosson ed ex (anche lui ha rimesso ieri l’incarico) assessore a Turismo e Agricoltura. Il terzo (ex) presidente è il predecessore Pierluigi Marquis (Stella Alpina), che però non incontra i favori dei suoi interlocutori.

Fosson e Viérin (indagati insieme a Stefano Borello, ex assessore alle opere pubbliche e al consigliere regionale Luca Bianchi) avrebbero attivamente cercato il sostegno elettorale della comunità calabrese. “Sostegno – scrivono i Carabinieri – non a titolo gratuito ma finalizzato a ottenere posti di lavoro, agevolazioni in pratiche amministrative” e sostegno a candidati “amici”. Il tutto grazie “a una capacità di intimidazione che prescinde dal compimento di atti di violenza e minaccia, grazie a una ‘fama’ in grado di porre i terzi in una condizione di assoggettamento e omertà”.

Con una particolarità tutta valdostana: in virtù dello statuto speciale, il presidente qui è anche il prefetto del governo. Dunque Fosson – raggiunto dall’avviso di garanzia in estate – ha approvato da indagato la costituzione parte civile della Regione nel processo “Geenna” sulle infiltrazioni mafiose in Valle e, soprattutto, ha trasmesso al Viminale le relazioni sulle verifiche avviate proprio in seguito all’inchiesta “Geenna”, nei comuni di Aosta e Saint-Pierre.

Il presidente-prefetto della Regione Valle d’Aosta, si legge sempre nella relazione, si rivolgeva a tal Petullà Giuseppe “soggetto vicino a esponenti del ‘locale’ di Aosta” a caccia di sostegno elettorale. “Da sottolineare – si legge nella relazione – che Fosson saluta sempre Petullà chiamandolo ‘capo’. Sembra incredibile – è l’amara conclusione – che un semplice anziano pensionato di origine calabrese possa influenzare, anzi dettare, la linea politica di un ex senatore della repubblica italiana quale Fosson Antonio”.

La nuova legittima difesa potrebbe “salvare” i condannati

Giovanni Capozzo, di Napoli, ha ucciso un ladro che aveva tentato di entrare in casa sua. Condannato in appello per omicidio colposo per eccesso di legittima difesa, ora potrebbe essere assolto. La Cassazione ha infatti annullato la condanna con rinvio a un altro collegio della Corte d’Assise di Appello di Napoli: deve riesaminare il caso alla luce della nuova legge sulla legittima difesa, approvata ad aprile, con l’ex maggioranza giallo-verde. Al centro della decisione della Cassazione, che ha depositato le motivazioni in questi giorni, c’è il concetto del “grave turbamento” attorno al quale ruota la legge voluta dalla Lega e votata anche da M5s.

Per comprendere la decisione della Suprema Corte riassumiamo in breve i fatti che hanno portato a questa sentenza, la prima dopo l’approvazione della nuova legge.

Una notte d’estate, un ladro prova ad entrare in casa Capozzo dal balcone della stanza dove dormono i figli. Capozzo sente i movimenti, si insospettisce, fa rumore. Il ladro, a sua volta, si allarma e si rifugia in giardino. Capozzo lo scorge e gli spara addosso 5 colpi, uccidendolo. Butta pure il corpo in un fiume. Quando viene scoperto, confessa l’accaduto. Per i giudici di primo grado è omicidio doloso. Il 27 novembre del 2018, la Corte d’Assise d’Appello di Napoli conferma la condanna ma derubrica il reato in omicidio colposo per eccesso di legittima difesa. Condannato, anche in Cassazione, per occultamento di cadavere. Nel ricorso, gli avvocati Ercole Di Baia e Luigi Iannettone, tra l’altro, appellandosi al principio del favor rei, chiedono che i fatti ora siano valutati alla luce della nuova legge sulla legittima difesa. Proprio su questo punto ottengono una parziale vittoria: annullamento con rinvio.

La terza sezione penale della Cassazione nelle motivazioni prima di tutto ribadisce che non si può sparare a un ladro che entra in una proprietà privata se non sta mettendo in pericolo le persone o non sta tenendo un comportamento tale da richiedere una reazione preventiva. E a questo proposito, ricorda la giurisprudenza della Cedu a Strasburgo: “Le circostanze in cui la privazione della vita può trovare giustificazione devono essere interpretate in modo stretto”. Quindi, anche con la nuova legge non sempre c’è legittima difesa. La Cassazione chiarisce che vige ancora il principio risalente al codice Rocco della doverosa proporzione tra offesa e difesa ma la legge di aprile rafforza il principio di autodifesa che già si era fatto largo in una prima modifica del 2006.

Secondo la nuova legge c’è “sempre” legittima difesa quando si spara (o si usa un altro mezzo) per difendere se stessi o altre persone o “i beni propri e altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Cioè se il ladro non fugge e vi è il rischio di una violenza. Fin qui l’interpretazione sarebbe dettata da fatti solo pressoché oggettivi.

Ma con la nuova normativa, il lavoro dei giudici diventa scivoloso, si potrà assistere a sentenze di tipo opposto per fatti simili perché, nel caso di eccesso colposo nella legittima difesa, non è più punibile, come ha preso atto la Cassazione, se chi ha ucciso un ladro è mosso “da stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”, solo per la paura dell’aggressione personale o di chi gli è vicino. Non per i beni. Ecco perché si spiega la decisione della Cassazione, di annullo con rinvio.

Sulla base della nuova legge, i giudici di Napoli dovranno stabilire se l’imputato “pur eccedendo i limiti imposti dalla necessità” abbia ucciso “per la salvaguardia della propria o altrui incolumità, piuttosto che soltanto dei beni, poiché la nuova causa di non punibilità opera soltanto nel primo caso”. E se sì, “se abbia agito in stato di minorata difesa ovvero di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Le due condizioni per essere assolti.

La Cassazione ricorda che i giudici di merito hanno “rimproverato all’imputato di aver aperto il fuoco contro l’uomo che si era allontanato dal balcone (ma non dal domicilio), piuttosto che limitare l’uso dell’arma a scopo dissuasivo, esplodendo soltanto colpi in aria”.

Ma allo stesso tempo, nota ancora la Cassazione, i giudici che hanno condannato l’imputato, scrivono che agì “in stato di turbamento per difendersi… nella concitazione indotta dall’imminenza dell’indesiderata intrusione in casa, specificamente dove dormivano i figli minori”.

Quindi, anche nella vecchia legge aveva un peso il concetto di azione mossa da “grave turbamento” ma adesso, nelle condizioni appena spiegate, non c’è la punibilità.

Un concetto fluido, “un elemento psicologico”, come lo definisce la Cassazione, con il quale i giudici devono avere a che fare e che potrà essere come una fisarmonica: si può allargare o si può stringere. Dipende dall’interpretazione.

Il giglio magico e i grandi donatori. Tutti al tavolo dell’Harry’s Bar

La ricevuta fiscale da 1.610 euro è stata trovata dalla Guardia di Finanza durante la perquisizione dello studio dell’avvocato Alberto Bianchi a Firenze. Spillata al documento c’era la corrispondenza in mail con il commercialista Massimo Spadoni che chiedeva precisazioni a Bianchi al fine di imputare la spesa (non esosa visto il numero dei commensali) ai fini fiscali.

Spadoni scriveva a Bianchi: “Come gia richiesto piu volte da Marco sulle ricevute dei ristoranti in special modo quelle di un certo importo scrivere o allegare elenco partecipanti e motivo”. Bianchi allora invia a Spadoni la piantina del tavolo con i partecipanti. E così, grazie alla pignoleria del commercialista, disponiamo di uno spaccato dell’attività di fund-raising del Renzismo alla sua massima potenza.

La cena è del 15 gennaio del 2016 all’Harry’s Bar di Lungarno Vespucci, fondato nel 1953, classico ed elegante. La sconfitta del referendum di dicembre 2016 era lontana e il richiamo della Fondazione Open era forte per gli imprenditori. Nella sua nota Bianchi definisce l’evento “Cena conviviale con contributori”.

Nessuno degli imprenditori è indagato ma la piantina è un reperto importante del ‘renzismo’. Per la Fondazione Open c’erano i tre big: Bianchi, Marco Carrai e Maria Elena Boschi più l’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti e il deputato Ernesto Carbone. E poi una ventina di ‘contributori’.

La piantina piazza ai due capitavola Marco Carrai e Luca Lotti e al centro dei lati lunghi Bianchi e Boschi. C’erano i renziani della prima ora come Vito Pertosa (pugliese di Monopoli, 60 anni, titolare della Angelo Investments, fondo che investe in aziende innovative) e Luigi Pio Scordamaglia, amministratore delegato di Inalca, gruppo Cremonini ed ex presidente di Federalimentare. Secondo la Guardia di Finanza, a Pertosa “sono riconducibili contributi volontari a favore della Fondazione per complessivi 100 mila euro dal 25 ottobre 2013 al primo agosto 2014”. Mentre a Luigi Scordamaglia per la Gdf “risultano collegati i contributi volontari a favore della Fondazione Open, già Big Bang erogati da Luigi Cremonini, presidente della holding Cremonini Spa, e dalla Inalca spa per un totale di 100 mila euro nel periodo che va dal 9 settembre 2013 al 18 novembre 2014”. La Guardia di Finanza nelle sue informative riporta le mail del luglio 2014 nelle quali Bianchi inoltra un gentile sollecito al finanziere Davide Serra e anche a Scordamaglia e a Pertosa (tutti contributori della prima ora) per chiedere di continuare i pagamenti alla Fondazione sulla base della ottimistica tabella di marcia stilata da Bianchi: 100 mila euro all’anno in quattro comode rate da 25 mila.

La cena del 2016 serviva anche a rinsaldare i vecchi rapporti magari sulla base di quell’antico impegno contenuto nella mail dell’ottobre 2013 diretta a pochi eletti come Serra, Scordamaglia e Pertosa: “Marco (Carrai, ndr) e io siamo (Bianchi, ndr) il terminale delle vostre comunicazioni a Matteo ogni volta che non fosse possibile interloquire con lui direttamente, e comunque sapete che siamo sempre a vostra disposizione”.

Al tavolo quella sera nel gennaio 2016 troviamo l’armatore Vincenzo Onorato. Lui e le sue società hanno donato dal novembre del 2015 al luglio del 2016, secondo la Guardia di Finanza, 300 mila euro alla Open. Poi l’allora amministratore delegato di Nexive, ora passato a guidare il colosso dei buoni pasto Edenred, Luca Palermo. Come altri commensali dell’Harry’s bar (Roberto Maretto e Pietro De Lorenzo) Palermo non risulta censito nelle informative della Finanza come contributore della Open. Poi troviamo Roberto Naldi, vicepresidente di Aeroporti di Toscana, dove Marco Carrai è presidente, nonché presidente di Corporacion America. Da ottobre 2014 a novembre 2016 le società che fanno capo a Naldi hanno donato a Open ben 100 mila euro in tutto, secondo la Gdf.

A tavola quella sera c’erano due vecchi amici di Matteo Renzi, i fratelli Leonardo e Marco Bassilichi, titolari dell’omonima società e ora al vertice del gruppo Nexi, specializzato in carte di credito e servizi finanziari.

Le società Karat e Bassilichi hanno donato alla Fondazione renziana dal 2012 al 2016 una somma di 100 mila euro. A cena, seduto al fianco di Maria Elena Boschi secondo la piantina, c’era anche Paolo Fresco, l’ex amministratore del gruppo Fiat, notoriamente amico di Marco e socio del fratello Stefano Carrai (presente anche lui a cena) nella società agricola Chiantishire. La GdF riporta versamenti per 50 mila euro provenienti da Fresco e dalla moglie, risalenti al settembre del 2012.

Più recenti e importanti i versamenti riferibili secondo la Guardia di Finanza alla famiglia di Riccardo Maestrelli, seduto secondo la piantina dal lato di Lotti. La famiglia, secondo la Gdf ha donato a Open 300 mila euro nel 2017-2018. C’era anche Luca Garavoglia, del gruppo Alicros-Lagfin, titolare del marchio Campari. Secondo la Gdf a lui farebbero capo le donazioni delle società del gruppo per 60 mila euro complessivi. Mentre 50 mila euro sono stati bonificati alla Open nel 2014 da Michele Pizzarotti, vice presidente della omonima grande impresa di costruzioni, presente anche lui al fianco di Lotti, secondo la piantina, alla cena. Infine c’era Gianluca Ansalone, allora dirigente della British American Tobacco (che ha donato dal 2014 al 2017 170 mila euro a Open per la Gdf) ora a capo delle relazioni pubbliche di Novartis.

“A Luberto 212 viaggi pagati dal politico amico”

Viaggi pagati con l’American Express dell’ex parlamentare Ferdinando Aiello. Era lui a “regalare” alcuni soggiorni del procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto, indagato per corruzione e rifiuti di atti d’ufficio con l’aggravante dal favoreggiamento alla ‘ndrangheta. La Procura di Salerno ha scoperto versamenti in contanti ed assegni che consentivano a Luberto “uscite” sproporzionate per lo stipendio da magistrato. Sul conto corrente, “vi erano entrate nettamente superiori, e per rilevanti importi, ai redditi dichiarati”. Tanto che, negli ultimi cinque anni, il magistrato e la moglie “hanno effettuato ben 212 soggiorni in strutture alberghiere”. Soldi che gli inquirenti sospettano essere collegati al rapporto tra il magistrato calabrese e l’ex deputato del Pd Ferdinando Aiello – eletto nel 2013 con Sel – il quale, a sua volta, “risulta avere contati diretti con un soggetto che operava per conto di due persone ritenute appartenenti ad una storica ‘ndrina della sibaritide”.

Nel decreto di perquisizione, i pm campani sottolineano la “chiara e inequivoca gravità indiziaria” a carico di Luberto. Tra i “benefit” garantiti al magistrato ci sarebbero stati proprio i viaggi. Nel gennaio 2017, infatti, Aiello ha versato 5.677 euro in contanti per la settimana bianca di Luberto in Trentino presso l’hotel Gardena di Castelrotto. Nello stesso anno, Aiello ha pagato 1.140 euro con la carta di credito per la vacanza del procuratore nelle isole Eolie e, sei mesi più tardi, quella in montagna presso l’hotel Adler di Ortisei (600 euro).

Il parlamentare e il magistrato erano amici, tanto che Aiello “era fra gli invitati alla festa di compleanno di 50 anni del Luberto, festa svolta a casa di quest’ultimo”. E un amico si aiuta. Stando all’inchiesta dei pm di Salerno, in cambio dei viaggi pagati, Luberto avrebbe “coperto” Aiello quando emersero a carico del parlamentare “corpose ipotesi di scambio elettorale-politico-affaristico e corruzione, il tutto in un contesto di ‘ndrangheta”.

A spiegarlo ai magistrati campani sono i carabinieri del Nucleo investigativo di Cosenza che un giorno, dopo averlo informato del coinvolgimento di Aiello in fatti di ‘ndrangheta, si sono visti piombare in caserma personalmente Luberto. “Sminuì la valenza indiziaria – raccontano i militari – e diede un’espressa direttiva orale al comandante del reparto di non riportare le conversazioni che coinvolgevano l’Aiello negli atti che sarebbero stati depositati”.

Nelle intercettazioni il deputato amico di Luberto non era l’unico parlamentare tirato in ballo. In realtà – si legge nel decreto di perquisizione – “si parlava di dazioni di beni a due parlamentari”, tra cui Aiello, che “sembrava ottenere altri vantaggi dagli indagati (in particolare assunzioni di persone)”.

Il procuratore aggiunto nascose, pure ai suoi colleghi pm, “le indagini che riguardavano i politici”. Nonostante il deputato del Pd godesse della “protezione” di Luberto, i carabinieri “di loro iniziativa effettuarono delle attività di riscontro al fine di verificare l’effettivo coinvolgimento dell’Aiello”. Indagini che “ebbero esito positivo” ma che, per volontà del procuratore aggiunto, non finirono mai nel faldone della Dda di Catanzaro. Il magistrato non ha mai iscritto l’ex deputato nel registro degli indagati, nonostante il suo nome fosse finito nelle intercettazioni dei carabinieri di Cosenza.

Ceccanti non vuole che pm e polizie battezzino le indagini

Vetro nero, Onda blu, Ombre. A scorrerne i nomi, per restare alle meno celebri, si potrebbe pensare ai finalisti dello Strega o alle uscite natalizie in sala. E invece, per la fortuna di chi fa i titoli sui giornali, ormai da anni gli organi di polizia giudiziaria e le Procure consegnano alla stampa inchieste con nomi degni delle agenzie pubblicitarie. Evocativi, ma non troppo. Spesso inglesi. Mai troppo lunghi e quasi sempre d’effetto, come a rimanere impressi a lode e gloria di chi quella inchiesta se l’è sudata e ora può finalmente renderla pubblica con un l’abito buono da talk show.

Ciò che però è manna per i media non piace a tutti, tanto che qualche giorno fa il deputato del Pd Stefano Ceccanti ha presentato una interrogazione ai ministri della Giustizia e dell’Interno per chiedere un intervento contro le denominazioni thriller delle inchieste, a suo dire lesive persino di alcuni principi Costituzionali: “Da diversi anni – si legge nel testo depositato alla Camera, a firma anche del 5 Stelle Paolo Lattanzio – è invalsa la prassi da parte di alcuni settori della magistratura inquirente e di alcune autorità di polizia giudiziaria di denominare operazioni e indagini da essere condotte con nomi in codice ad effetto, facendo uso di termini evidentemente scelti con cura al principale scopo di influenzare l’opinione pubblica e suscitare il consenso sociale intorno alle ipotesi accusatorie”.

Secondo Ceccanti, dunque, il nome scelto avrebbe un peso sulla percezione dell’inchiesta, naturalmente a sfavore degli accusati: “Ciò sembra dar luogo ad un vero e proprio marketing delle indagini giudiziarie e con l’assecondare forme inopportune di spettacolarizzazione, anche in considerazione dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa e della comunicazione via social, tutto ciò finisce con l’alterare l’equilibrio tra accusa e difesa e con l’attentare ai diritti delle persone coinvolte; il tutto, a giudizio dell’interrogante, in violazione di norme a partire dall’articolo 111 della Costituzione”. Il riferimento è al principio dell’equo processo e ai pari diritti di accusa e difesa, che Ceccanti ritiene in pericolo tanto da chiedere ai ministri “se intendano assumere iniziative, anche di carattere normativo, per disciplinare la materie, anche valutando che siano attribuiti nomi in codice con valenza esclusivamente pratica e interna”.

Bando quindi a “Mondo di mezzo” e “Mafia Capitale” (due appellativi per una sola inchiesta), agli “Angeli e demoni” di Bibbiano, alla “Mensa dei poveri” in cui è stata di recente coinvolta la forzista Lara Comi. Perfino a “Mani Pulite” (Tangentopoli ha invece il copyright di un cronista di Repubblica, non della Procura), espressione già utilizzata da Sandro Pertini per invocare moralità nelle istituzioni ma resa celebre nel 1992 dall’inchiesta che spazzò via la Prima Repubblica. Titoli troppo irrispettosi, secondo Ceccanti, troppo da salotto televisivo pomeridiano. E chissà come la prenderebbero, le Procure, una simile restrizione, data la raggiunta raffinatezza di certe trovate “di marketing”, come direbbe l’interrogante dem. Alcune inchieste sembrano pezzi della cinematografia italiana in bianco e nero. Tipo “Ossessione”, che infatti è un film di Luchino Visconti del 1943 ma è anche un’indagine sul narcotraffico calabrese; oppure “Ombre Nere” (sull’estrema destra), “Ampio Spettro” (sui clan pugliesi), tutta roba da Michelangelo Antonioni. Chi ha meno fantasia ricorre invece a schemi consolidati, forse un po’ stantii ma comunque efficaci: Last bet, Last travel, Last banner, Last generation, Last minute. Esistono tutte, per non dire dei chissà quanti altri “Last” ancora coperti da segreto in giro per l’Italia.

Meno fastidio dovrebbe forse dare a Ceccanti un altro grande classico delle Procure, ovvero i nomi riferiti alla mitologia o comunque al mondo antico, sobri stratagemmi di riservatezza. Ci sono Perseo, Heracles e Chimera (contro le cosche calabresi), Ippocrate (scandalo sanitario in Sardegna) e Tallone d’Achille (giro di cocaina in Abruzzo), molto più altisonanti di quel filone che, pur raccontando storie drammatiche, restituisce nomi quasi da lido della Versilia: Villa Paradiso, La Fenice, Tramonto.

L’orticaria di Ceccanti, se ne abbiamo intese le parole, si aggrava però quando le Procure cedono al fascino del bestseller, quello con copertina rigida e il nome dell’autore scritto enorme, in giallo, molto più evidente del titolo. Qualche esempio? Terminator, Criminal Drinks, Black Shadow, Tela di Ragno. Inchieste e processi preziosi per cui i pm spesso meritano gratitudine, ma con nomi in effetti fin troppo spettacolarizzanti. Eventuali sceneggiatori interessati possono prendere nota.

Pressioni su Casellati: “Vieti l’erba light”

A dire l’ultima parola sulla legalizzazione della cannabis light, o meglio a mettere una “manina” nel testo della manovra che la contiene, sarà la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. La seconda carica dello Stato, eletta dal centrodestra compatto, è propensa a dichiarare inammissibile il subemendamento approvato tre notti fa in commissione Bilancio del Senato. Una decisione che la Casellati dovrà prendere entro le prossime 24 ore, stralciando la norma prima che l’Aula del Senato voti la fiducia alla manovra.

A spingere Casellati è il pressing di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia che, per dirla con le parole di Giorgia Meloni, giudicano la norma “folle, perché permette di spalancare le porte alla vendita legale di cannabis light che il Consiglio superiore della Sanità ha giudicato estremamente pericoloso”.

La modifica legislativa, nella volontà dei firmatari dell’emendamento – i senatori M5s Matteo Mantero e Francesco Mollame –, serve a sanare il vuoto normativo presente nella legge 242 del 2016, regolamentando per la prima volta la commercializzazione di prodotti a base di canapa che abbiano un contenuto di Thc inferiore allo 0,5% dietro versamento di una accisa, lo stesso meccanismo applicato agli alcolici. Mettendo così la parola fine al caos che si è andato a creare dallo scorso maggio, quando una sentenza della Corte di Cassazione ha sancito che la vendita di prodotti derivanti dalla cannabis light è “da ritenersi illegale a meno che non siano privi di efficacia drogante”. Tanto che da allora sono numerosi i casi di sequestro da parte delle forze dell’ordine per chi commercia la canapa.

Il tecnicismo, o altrimenti detta “scusa”, che potrà spingere la presidente Casellati a cassare o meno la norma è la sua attinenza alla legge di Bilancio. “L’emendamento sulla cannabis light è del tutto estraneo alla manovra e avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile”, ripetono come una mantra i senatori forzisti Anna Maria Bernini e Maurizio Gasparri. Gli fa eco il leghista Nicola Molteni: “Il governo bastona famiglie e imprese, ma aiuta chi fa business con la droga”. Di opposto avviso il senatore Mantero. “Se verrà cassato l’emendamento, sarà una forzatura estrema della politica. Abbiamo introdotto un’accisa sulla biomassa di canapa di 12 euro per mille chilogrammi – spiega il Cinque Stelle – che potrà generare 500 milioni di gettito annui per lo Stato. Un’opportunità non solo per la ricerca e il superamento di un pregiudizio, ma anche per il settore agricolo”. Insomma, un po’ d’ossigeno per i 2.800 negozi e i 10 mila addetti di un settore che, prima dello stop della Cassazione, era stimato in 150 milioni di euro.

Chissà se la manina manderà tutto in fumo.

Oggi il decreto salva Pop Bari: dallo Stato almeno 500 milioni

Per una volta dovrebbero essere contenti tutti, politici e commentatori: il modello di intervento sulla Popolare di Bari – che il governo si appresta a varare stasera in Consiglio dei ministri nonostante i mugugni di Matteo Renzi e Luigi Di Maio – è quello “tedesco” visto all’opera recentemente con Nord Lb, istituto salvato con almeno due miliardi e mezzo di euro di soldi pubblici senza perdite per gli obbligazionisti subordinati (come invece successe in Mps). Rideranno meno i quasi 70 mila azionisti della banca pugliese, che però sono fregati da tempo. Gli vennero vendute azioni non quotate e illiquide – vedranno i pm se sempre in modo lecito – a prezzi che sono arrivati fino a 9,5 euro l’una: ora non valgono quasi nulla (quanto esattamente lo scopriranno solo a danno conclamato).

Detto questo, intervenire ora è necessario. Venerdì pomeriggio Pop Bari è stata commissariata da Banca d’Italia per “gravi perdite patrimoniali”: il 2018 si chiuse con un rosso di oltre 400 milioni e un patrimonio dimezzato, quest’anno andrà peggio. I motivi sono diversi: i soliti prestiti allegri agli amici degli amici, certo, ma anche la recessione specie al Sud di questi anni, le perdite sulle “sofferenze” (i crediti che non si riescono a recuperate) moltiplicate dall’obbligo di venderle a passo di carica, l’acquisto della disastrata Cassa di Teramo (Tercas) caldamente consigliato da Bankitalia nel 2013. La situazione di crisi era nota da tempo, ma da quando Ignazio Visco l’ha conclamata firmando il commissariamento, Popolare di Bari – l’unica banca del Mezzogiorno di un certo peso – è appesa a un filo: per questo stasera, prima che lunedì mattina riaprano gli sportelli, va approvato un decreto che tranquillizzi i correntisti.

Lo schema dell’intervento pubblico è noto: il governo rifinanzierà con circa 800 milioni Mediocredito centrale (Mcc) – banca controllata da Invitalia, a sua volta di proprietà del Tesoro – autorizzando l’istituto a partecipare con mezzo miliardo al prossimo, necessario, aumento di capitale della Popolare di Bari. Le risorse totali necessarie all’operazione sono calcolate in circa un miliardo, ma c’è chi parla di 1,2 miliardi per via di 200 milioni di buco ancora non emersi: Mcc potrebbe dunque arrivare a sborsare 700 milioni, il resto toccherebbe al Fondo interbancario di tutela dei depositi. L’idea è che, col sostegno pubblico, si crei – anche attraverso fusioni – un grande polo bancario del Mezzogiorno.

Nel testo, come in altri casi simili, dovrebbe essere garantita all’istituto anche una linea di liquidità. In alto mare, invece, la vicenda delle cosiddette “Dta”, crediti fiscali che sarebbero una boccata d’ossigeno per il bilancio: vanno autorizzate dall’Ue per la solita storia degli aiuti di Stato, ma – nel timore che la boccino – la richiesta di usarle non è ancora stata avanzata dal Tesoro.

Il resto è un balletto politico indecoroso iniziato venerdì. Nella maggioranza giallorosa, pur sapendo tutti perfettamente che il decreto è inevitabile, si gioca a fare distinguo: un Luigi Di Maio in crisi di identità teme – e fa bene – che gli venga rinfacciata una pubblicistica eccessivamente grossier sui soldi pubblici alle banche; Matteo Renzi rimugina vecchi rancori sui “baresi” (D’Alema e la famiglia Jacobini, dominus dell’istituto dalla fondazione) e su Banca d’Italia, mentre manda in giro i suoi a sostenere tesi ardite tipo che il decreto è troppo vicino al commissariamento, ma anche troppo in ritardo perché non si agisce mai “per tempo” ma “solo alla vigilia del disastro”). Di Maio ieri pretendeva addirittura che “in Consiglio dei ministri, prima si fa chiarezza sulla verità, su chi ha ridotto in quel modo la banca, lasciandolo agli atti, e poi provvediamo al resto”. Questo su un istituto su cui sono aperte alla Procura di Bari la bellezza di sette inchieste che coinvolgono tutti i vertici degli ultimi anni.

Queste polemichette – specie la decisione dei renziani di disertare il Cdm, scelta che ha spinto Di Maio a chiedere ai suoi di andarsene facendo uscire dalla grazia di dio persino il suo fedelissimo Riccardo Fraccaro – hanno bloccato il decreto venerdì sera, ma oggi dovranno lasciare il campo alla realtà.

Si potrebbe dire che si tratta, dunque, di una situazione sostanzialmente risolta, ma rischia di lasciare strascichi pesanti sulla maggioranza: Nicola Zingaretti si è convinto che tra la dissoluzione anche psicologica dei 5 Stelle e le furie “giudiziarie” di Renzi, che lo spingono all’accordo con Matteo Salvini per andare subito al voto, la situazione non sia più gestibile a lungo. Il vertice di maggioranza convocato per domani rischia di essere l’ultimo per la compagine che sostiene Giuseppe Conte.