Operazione rilancio M5S: c’è il team dei facilitatori

Il Movimento 5 Stelle prova a uscire dalle secche attraverso l’operazione di rilancio, anche di tipo organizzativo, a lungo attesa. In un quadro di alleanze profondamente mutate, sono cresciuti i malumori interni (si temono nuovi abbandoni dopo quelli di Ugo Grassi, Salvatore Urraro e Stefano Lucidi in direzione Lega) che sembrano aver messo un’ipoteca sulla leadership di Luigi Di Maio. Nella nuova struttura, il capo politico sarà affiancato da Enrica Sabatini (una dei quattro soci dell’associazione Rousseau presieduta da Davide Casaleggio) a cui saranno affidati il coordinamento e gli affari interni. Vicina a Casaleggio anche la senatrice Barbara Floridia (responsabile e-learning di Rousseau) che si occuperà di formazione e personale. Nella squadra dei facilitatori la pasionaria Paola Taverna (attivismo locale), l’eurodeputato Ignazio Corrao (supporto agli enti locali amministrati), l’ex ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli (campagne elettorali) ed Emilio Carelli, ex direttore di SkyTg24 (comunicazione).

La squadra ha ricevuto il placet dell’84% dei 24.326 votanti (i voti a favore sono stati 20.584, i contrari 3.742, pari al 15,4% del totale) sulla piattaforma Rousseau. Di Maio li presenterà questo pomeriggio al cinema Adriano di Roma insieme ai team del futuro che dovrebbero fare da cinghia di trasmissione tra il vertice e la base che si promette di tornare a coinvolgere nell’elaborazione di idee e progetti da mettere nell’agenda politica del Movimento.

Si tratta di team composti ciascuno da 8 persone che saranno guidati da Gennaro Saiello (imprese), Andrea Cioffi (trasporti e infrastrutture), Dino Giarrusso (istruzione, ricerca e cultura), Valentina D’Orso (giustizia e affari costituzionali), Valentina Ciarambino (sanità), Vincenzo Presutto (economia) e Maria Pallini (lavoro e famiglia). Che lavoreranno insieme a: Luciano Cadeddu (agricoltura), Giampiero Trizzino (ambiente), Iolanda Di Stasio (esteri), Luca Carabetta (innovazione), Luca Frusone (sicurezza e difesa).

I 12 team preposti alle aree tematiche avranno il compito entro tre mesi di raccogliere e valutare i progetti presentati dagli attivisti da discutere ed elaborare durante gli Stati Generali del MoVimento del prossimo marzo. Durante la consultazione online sono state espresse 143.438 preferenze. “In bocca al lupo e buon lavoro”, ha scritto Luigi Di Maio su Facebook. Dove, nel frattempo la polemica investe il transfugo Grassi. Rispondendo a un commento ribatte all’accusa di essere passato con il “nemico” per soldi. “Tra Lega e M5S, come prelievo siamo lì, se volevo arricchirmi passavo al misto”, si difende. Scatenando una gragnuola di dichiarazioni di esponenti di primo piano del Movimento quando ammette che il contributo da 3.000 euro che verserà alla Lega servirà “anche a restituire i 49 milioni” di rimborsi indebitamente percepiti. “Se avesse un minimo di dignità dovrebbe dimettersi”, chiosa Francesco Silvestri, capogruppo M5S alla Camera.

La Ferrara di “Aldro” che dorme con l’incubo di Salvini e “Naomo”

A Ferrara nevica fitto. La prima immagine per chi arriva in treno sono due torri di cemento imbiancate che paiono calate dall’alto, una follia urbanistica degli anni 70. Alla base due uomini di colore controllano i movimenti. Nel sottoscala ci sono una decina di ragazzi africani in piedi, si tengono vicini come un gregge che si difende dal freddo. Banconote in cambio di bustine, il solito spaccio.

Ogni campanile ha la sua periferia: anche la piccola Ferrara, la città delle biciclette e del Partito, ha scoperto nel suo ventre una creatura deforme. Le due torri sono “il Grattacielo”, il quartiere ai loro piedi si chiama Gad (Giardino Arianuova Doro). In principio era una pregiata zona residenziale per la borghesia cittadina. Poi è arrivato “il degrado”: un po’ di incuria pubblica, i ferraresi che ripiegano e affittano agli stranieri, i prezzi che si abbassano. Ora il Grattacielo è un micro ghetto nigeriano, lo spaccio è a cielo aperto: sembra una miniatura di periferie più spaventose di città più grandi.

Ferrara non si dà pace. Inorridisce. Le due torri di cemento diventano il simulacro della campagna elettorale. La Lega batte come un martello: al Gad “c’è la mafia nigeriana”. Il Pd risponde ai ferraresi incazzati che l’insicurezza è solo percepita. Quelli si incazzano ancora di più.

L’8 giugno 2019 succede l’imponderabile (nel frattempo trasformato in prevedibile): dopo 70 anni consecutivi di amministrazioni comuniste e poi di centrosinistra, Ferrara passa alla destra. Vince la Lega di Salvini e di Alan Fabbri, un omone di 40 anni – i biografi stimano un metro e 83 per 119 chili – con i capelli lunghi e la coda, il pizzetto e l’aria cortese. La città delle biciclette e del Partito (comunista) è il laboratorio del salvinismo emiliano in vista della caccia grossa: le Regionali di gennaio 2020.

Fabbri è leghista da prima che il suo “Capitano” cancellasse la parola “Nord” dallo Statuto: era un giovane padano, ha fatto tutta la trafila. Ha un profilo rassicurante, di buon senso. Nei primi mesi di mandato si è mosso con circospezione (e una prudenza che sfiora la paranoia: il suo staff ci ha negato un incontro e persino una telefonata con il sindaco o i suoi assessori).

Per molti ferraresi il vero volto dell’amministrazione è quello del suo vice: Nicola Lodi, detto “Naomo” (come il personaggio di Panariello). Lodi è tutto quello che Fabbri non vuole o non può essere: è la Lega delle ruspe e dei calci in culo, delle campagne sui neri e sui rom, della spada tratta in difesa della famiglia tradizionale. Gli è stata assegnata la delega più pesante, quella alla Sicurezza, malgrado nel suo passato ci siano cinque condanne in patteggiamento in sede penale (tutte per piccoli reati) e un ammonimento per stalking. E malgrado altre prodezze, come il video surreale in cui mostrava la sua vasca idromassaggio, costruita abusivamente (e poi smontata di corsa) nell’alloggio pubblico in cui vive. “Una casa del Comune modello Hollywood”, per dirla con le parole di “Naomo”. La Lega a Ferrara ha pure il volto del consigliere Stefano Solaroli, uno che si esibisce sui social mentre va a dormire con la pistola oppure invoca il “trincia-rom” da montare sui Suv. Come è successo? Come hanno fatto a vincere nella città delle biciclette e del Partito?

La prima risposta è che quel partito si è squagliato. Dalle Comunali del 2009 a quelle del 2019 il Pd è passato da 30mila voti a 15.500. Un disastro decennale anticipato nel 2018 dalla clamorosa sconfitta di Dario Franceschini nel collegio di casa, contro la sconosciuta leghista Maura Tomasi: Franceschini a Ferrara è il Pd. Il divorzio con la città ha poco a che fare con il livello dell’amministrazione, come spiega Giuliano Guietti (per 8 anni segretario della Cgil comunale, oggi presidente del centro di ricerca Ires): “Ferrara è tornata a crescere dopo la crisi. Redditi e il tasso di occupazione sono allineati a quelli dei capoluoghi emiliani”.

Ma è una città di sconfinate solitudini: “È tra i Comuni italiani con l’età media più alta. Il 20% della popolazione è formato da nuclei familiari di una sola unità. Tradotto: ci sono 27 mila persone che vivono da sole. Di queste, 11 mila hanno più di 65 anni, 8.200 di loro sono donne. La droga girava pure 20 anni fa e la spacciava la popolazione indigena. Il problema è che se sei solo e fragile, hai paura di tutto”.

Andrea Boldrini è un amico di Federico Aldrovandi, il ragazzo ammazzato di botte nel 2005 da quattro agenti della Polizia di Stato. Oggi “Aldro” è una bandiera che sventola ogni domenica tra i tifosi della Spal e un simbolo assoluto per chi non si arrende alle ingiustizie e alle verità negate. A maggio Andrea era candidato con il Pd. “Avevo scelto di dare una mano al partito perché vedevo che dall’altra parte c’era gente come Lodi e Solaroli. Gente che applaudiva gli assassini di Federico. Hanno vinto loro”. Perché? “Tutta la città chiedeva un volto nuovo, invece è stato scelto il massimo della continuità, l’ex assessore alla Sicurezza: con tutto il rispetto per Aldo Modonesi, la sua era una candidatura sbagliata. La destra ha vinto per il rifiuto della sinistra”.

La grande paura è che quel rifiuto si ripeta in Regione. Anche se a Ferrara – a sinistra – un po’ tutti mettono in circolo la stessa opinione: Stefano Bonaccini ce la può fare, ha governato bene. E poi ci sono le Sardine. Lunedì hanno riempito piazza Castello e oscurato il comizio di Salvini. Uno degli organizzatori è l’universitario Adam Atik. Volto pulito, espressione naif: “Ambiente, uguaglianza e diritti. Chiediamo solo tre parole. Molti di noi – dice – non voteranno il Pd ma la lista di Elly Schlein, che comunque va con Bonaccini”.

Intanto la nuova destra al municipio combatte lo spaccio togliendo le panchine dai giardini del Gad, e dà le armi i vigili urbani, nella città di Federico Aldrovandi. Il suo amico Andrea scuote la testa: “Ferrara è talmente spaventata che mette spavento”.

Più che i Girotondi evocano i cortei del 25 aprile

Le sardine sono il fenomeno del momento. A sorprendere sono le piazze sempre piene e la velocità di propagazione di questo movimento che, nel momento in cui è nato, non godeva della forza di traino di un leader già conosciuto o rodato. Un sondaggio dell’11 dicembre mostra che oggi un partito delle sardine, qualora si presentasse alle elezioni, potrebbe contare su un 11% di consensi e la forza di attrazione che esercita è ben più alta se è vero che un 20% di italiani potrebbe prendere in considerazione l’idea di votarlo.

Ma chi sono le sardine? I numeri ci dicono che anagraficamente non solo i manifestanti ma anche i simpatizzanti del movimento non sono solo giovani, prevalentemente risiedono in grandi centri e hanno un livello culturale medio alto. Inoltre coloro che si dicono interessati a un partito delle sardine nell’assoluta maggioranza dei casi in passato avevano votato per il Pd (42%) o il M5S (22%) e solo nel 15% dei casi questo interesse proviene dai così detti non schierati, ovvero coloro che negli ultimi anni non hanno votato o si sono astenuti.

L’identikit della sardina quindi è sovrapponibile a quello dell’elettore medio di area progressista e i valori in cui le sardine si riconoscono sono di sinistra o centrosinistra. (…). Il popolo viola o i girotondini sono stati evocati come gli antesignani più prossimi, ma forse la maggiore somiglianza è con i cortei per il 25 aprile, dove ogni anno non solo si manifesta per ricordare e onorare la memoria, ma dove il motivo della partecipazione viene declinato al presente e i valori dell’antifascismo e della resistenza sono vivificati e attualizzati dandogli ogni anno un significato attuale e concreto. (…).

L’elemento valoriale quindi per le sardine è importante, come a suo modo lo è stato anche per gli aderenti al Movimento 5 Stelle che dalle piazze è partito per affermarsi oggi come forza di governo. A differenza di quanto accadeva tra i simpatizzanti del Movimento ai suoi esordi, però, quando a portare in piazza era la rabbia e a chiamare alla partecipazione era una rivendicazione di rilevanza politica e sociale, qui, tra le sardine, uno non vale uno, e la motivazione a ritrovarsi sembra il desiderio di superare tutti insieme una “crisi di identità” per prendere forza e reagire all’irrilevanza.

Nelle manifestazioni di questi giorni infatti il desiderio di uscire allo scoperto, di riconoscersi e contarsi è stato per tante persone che negli ultimi mesi si sono ritrovate “ammutolite” il modo di manifestare e di manifestarsi. Queste piazze pertanto al momento non sembrano in cerca di un leader ma di un “noi” e ciò che conta e che serve affermare sembra il valore del branco, o meglio del banco, trattandosi di sardine.

A differenza di quanto accadeva nelle piazze convocate dal M5S, inoltre, in cui a essere oggetto di attacco erano tutti i partiti, in questo caso l’obiettivo polemico è precisamente individuato. L’attacco a Salvini da parte delle sardine però, a ben guardare, non entra nel merito: non sono i contenuti politici di destra o centro destra che esprime a essere contestati – Berlusconi o Meloni infatti non sono mai presi di mira – quanto piuttosto la forma che dà alla comunicazione del suo “discorso politico”. (…).

Ma al di là della presenza e della testimonianza, come il movimento intende portare avanti le proprie istanze? Le sardine ad oggi non propongono una ricetta. Malgrado la vivacità e l’allegria delle piazze c’è qualcosa di dolente in questo movimento che invita alla speranza e al coraggio ma che non si dice assolutamente certo dell’esito positivo della propria azione nel futuro. Il cambiamento, infatti, viene invocato come una necessità morale dei singoli (…) e questa mancanza di prospettiva e di visione è ad oggi un limite strutturale per il movimento che si è coagulato intorno a un invito a essere e a stare in un modo nuovo nella realtà più che a agire politicamente per cambiarla.

Tutto il mondo è pesce: fish-mob in 23 città all’estero

Giorgio Gaber, Lucio Dalla ma soprattutto la colonna sonora di rito: “Bella Ciao”. Per un pomeriggio le sardine hanno invaso le più importanti piazze del mondo: 20 città europee e persino 3 americane (New York, Boston e San Francisco) hanno partecipato al “sardina day” sulla scia della manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma. Giovani italiani (e non solo) sono scesi in piazza a Parigi, Londra, Vienna, Berlino, Bruxelles, Helsinki, Amsterdam fino a sbarcare oltreoceano a New York. “Rispetto a un mese fa sono cambiate tante cose – ha detto da Roma il leader bolognese Mattia Santori – ci sono piazze piene in tutta Europa”.

Tra le manifestazioni più partecipate c’è stata soprattutto quella di Parigi dove, per l’occasione, gli organizzatori avevano scelto il Parvis des Droits de l’Homme (Piazzale dei Diritti dell’Uomo): alla fine del Trocadéro, davanti alla Torre Eiffel, sono arrivati in 300, non solo ragazzi italiani ma anche amici e parenti francesi che hanno solidarizzato con la causa delle sardine portando cartoncini e striscioni colorati (“Nagez avec nous”, nuota con noi): “Alla manifestazione è venuto anche un ragazzo sudanese che ha tradotto ‘Bella Ciao’ nella sua lingua per ispirare la rivoluzione nel suo Paese – racconta al Fatto Quotidiano l’organizzatrice Marina Oracolo, di ritorno dal flash mob – i valori sono gli stessi: il rispetto dei diritti umani, libertà, uguaglianza, solidarietà e l’antifascismo. Quello che dice la nostra Costituzione, insomma”.

La piazza parigina era piena nonostante lo sciopero dei mezzi per la riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron: “Molte persone si sono dovute fare chilometri a piedi per raggiungere il luogo di ritrovo ed è per questo che siamo così contenti della partecipazione” racconta l’altro organizzatore Michele Coni, 42 anni che di mestiere fa l’archivista all’École des hautes études en sciences sociales.

Durante il flash mob di fronte alla Torre Eiffel sono stati letti passi della Costituzione interrotti da cori e discorsi dei partecipanti, molti dei quali contro il “populismo di Matteo Salvini”: “Abbiamo deciso di unirci alle sardine italiane perché molti di noi sono stati obbligati ad emigrare qui perché in Italia non trovavano lavoro – conclude Michele – e per questo chiediamo una svolta ai nostri politici”.

Dello stesso tenore le piazze di Westminster a Londra, Berlino (davanti alla porta di Brandeburgo), dell’Opera di Vienna e di place du l’Albertine a Bruxelles. Nella capitale belga, cuore delle istituzioni europee, sono scese in piazza circa 250 persone al grido di “Bella Ciao” e “Com’è profondo il mare” di Lucio Dalla: “Siamo qui per combattere la deriva populista della politica italiana e il diffondersi delle idee sovraniste e razziste in tutta Europa” hanno detto gli organizzatori.

In Belgio le sardine erano già scese in piazza a inizio dicembre ad Anversa quando era arrivato Matteo Salvini per l’incontro delle destre europee organizzato dal gruppo sovranista “Identità e democrazia” (Id).

A Vienna le sardine, circa 200, hanno intonato cori, letto poesie e passi della Costituzione: “C’era gente di tutte le età – racconta la portavoce del movimento austriaco Elena Floriani, che lavora per una ong che difende i diritti delle donne – abbiamo cantato, letto poesie e passi della Costituzione. Siamo scesi in piazza perché anche noi italiani all’estero votiamo e vogliamo che la nostra politica sia migliore di questa”. Un messaggio diretto verso l’Italia.

La piazza senza testa che spaventa pure i vip

La piazza di San Giovanni che s’è stretta con le Sardine c’era già, soltanto non sapeva dove e come andare e, soprattutto, perché. La piazza di San Giovanni ha una consonanza spirituale con la sinistra e di certo non con la destra, però non è di sinistra e non è neanche dei giovani con accento emiliano che diramano scalette con una durata prevista e massima, prima che il sole d’inverno tramonti, di 92 minuti esatti, una partita di calcio con un po’ di recupero. La piazza di San Giovanni è una piazza con un corpo ben definito e una testa in fase di definizione, popolata di gente che chiede di riformare il decreto sicurezza dell’ex ministro Matteo Salvini, che ascolta in silenzio, che intona Bella Ciao, che applaude Nibran che fa il verso a Giorgia Meloni, “sono una donna, sono musulmana, sono palestinese”, poche bandiere, parecchi cartelli, vessilli rudimentali. Allora in piazza gli eletti della politica e della mondanità ci entrano con prudenza o si limitano a sfiorare il luogo sacro di San Giovanni, di comizi, concerti e funerali.

Il palco mobile, simbolo di manifestazioni studentesche di un tempo che fu, accoglie il medico che accolse i migranti a Lampedusa, il parlamentare europeo Pietro Bartolo, l’unico onorevole. Nel ventre di una piazza che s’interroga sul numero di partecipanti che sarà vidimato dai telegiornali s’affacciano l’intellettuale Paolo Flores d’Arcais, il giornalista Michele Santoro, lo scrittore Erri De Luca, il dem Massimiliano Smeriglio, gli ex compagni di partito Nicola Fratoianni e Nichi Vendola. E appena l’ultima canzone è ballata, le agenzie di stampa battono i complimenti del sindaco Virginia Raggi, del segretario dem Nicola Zingaretti, del governatore toscano Enrico Rossi, dell’attore Alessandro Gassman, dei renziani di Italia Viva.

Raggi rilancia il motto “Roma non si Lega” che in Emilia-Romagna è il deterrente alla conquista salviniana con Lucia Borgonzoni. Zingaretti è l’eletto della politica che si spinge più avanti e tenta di blandire e arruolare la piazza di San Giovanni: “Insieme cambiamo l’Italia”. Enrico Letta è più cauto: “Li sostengo con forza, ma è meglio – ha spiegato nell’intervista a Maria Latella su Sky – lasciare lo spazio ai giovani”. I giovani e i meno giovani che, per l’appunto, sono l’emblema di una piazza San Giovanni che non combatte la politica e non vuole castigare la casta, e dunque è un’evoluzione delle ultime piazze più o meno spontanee, ma supplica e pretende più politica. E per una volta parte dalla forma – “la violenza verbale sia equiparata alla violenza fisica”, dice il capo Mattia Santori – e non dalla sostanza che spesso diventa promessa e illusioni, espedienti di cui i partiti si nutrono finché non si strozzano. Con scaltrezza le sardine lesinano i contenuti e veicolano sentimenti, che può sembrare retorica a buon mercato – e un po’ lo è – ma che è il collante di piazza San Giovanni, di gente che cercava un posto in cui riunirsi e una ragione per farlo e non abbocca alle moine degli eletti della politica che sono in ritardo, in irrimediabile ritardo.

La piazza di San Giovanni è un’occasione ghiotta e viene incensata a ritmo sempre più frenetico: la sindacalista Annamaria Furlan (Cisl), i dem Paolo Gentilonio, Maurizio Martina e Laura Boldrini, il pentastellato Carlo Sibilia, persino Fausto Bertinotti. Chi la strattona di là, chi la strattona di qua, chi alza il ditino – come Sibilia – e si dichiara in paziente attesa di “proposte”. E invece è il contrario. La piazza di San Giovanni non ha intenzione di sottoporre “proposte” agli eletti della politica, di mediare, di trattare: è una domanda di un certo tipo di politica e la politica, se n’è capace, deve rispondere. Il guaio è che piazza San Giovanni spaventa i politici perché temono di non riuscire a rispondere. In epoca di consensi fragili, le sardine possono determinare vittorie e sconfitte, non perché siano eroi di chissà quali imprese, ma perché hanno chiamato a raccolta una piazza che c’era già e non sapeva dove e come andare.

Tanti dem e 5S delusi: “Torniamo a sinistra”

Una “rivoluzione gentile” che “difenda la Costituzione” e diradi il “clima d’odio della nostra politica”, affermando l’esistenza di “un altro popolo” fatto di persone “non razziste e non fasciste, ma che lottano per la democrazia”. Mentre dagli altoparlanti posizionati in piazza San Giovanni risuonano Bella Ciao e l’Inno di Mameli, il pensiero eterogeneo delle sardine romane si affastella sui taccuini dei cronisti. Pur provenendo da realtà diverse, hanno le idee molto chiare i 50mila che ieri pomeriggio hanno manifestato nella Capitale.

Dito puntato contro la Lega, soprattutto, ma anche contro le attuali forze di governo, M5s e Pd, che a giudizio di molti dei manifestanti hanno perso di vista alcuni dei loro valori portanti. “Io posso definirmi un’elettrice del M5S delusa – afferma Giulia, 30 anni – perché nell’ultimo anno e mezzo si sono fatte scelte che hanno tradito gran parte dei presupposti su cui nasceva il movimento. L’alleanza con la Lega è stata poi la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Il suo compagno Fabio, “elettore di centrosinistra” è più risoluto: “L’esperienza del M5 ci ha insegnato che i movimenti devono restare tali – dice – Adesso sento la necessità di poter dire qualcosa, perché ho visto che ci sono delle persone che la pensano come me. Ma se le sardine diventassero un partito politico allora non esprimerei più la mia solidarietà”.

Sono concetti che ritornano: sostenitori pentastellati e di sinistra delusi (o semplicemente critici) e il desiderio che questo movimento resti in piazza. “Io sono orgogliosamente grillino – racconta Mauro, 39 anni – e devo ammettere che questi ragazzi stanno portando avanti qualcosa di importante, che la politica deve ascoltare. Se è una protesta, è un bel modo di farlo. L’alleanza con la Lega ci ha rovinati”. Accanto a lui ci sono Chiara e Miriam, 31 e 33 anni, che invece dicono di posizionarsi “a sinistra del Pd”: “Condividiamo i valori di questa piazza – affermano – riportiamo un po’ di pacatezza in politica, parliamo in maniera civile. Oggi siamo qui per dire che ci siamo anche noi, che il popolo, in quanto tale, non è solo quello che sostiene la destra”.

Cesare, 63 anni, è ancora più arrabbiato, sia con il Pd sia con i 5 Stelle: “Gran parte dei temi del 5 Stelle erano propri della sinistra – dice, accorato, agli amici, pressoché coetanei – e ora il Pd si arrabbia. Perché mettersi contro la prescrizione, quando fino a pochi anni fa ci facevano manifestare contro le porcate di Berlusconi? Perché anche i loro amici sono coinvolti, questa è la verità. Il discorso di Renzi in Senato è stato vergognoso. È colpa loro se esiste Salvini”.

Nessuna fra le persone interpellate desidera la creazione di un nuovo soggetto politico. La richiesta, piuttosto, è a chi c’è già di “raccogliere il segnale e trasformarlo in proposta”. Come afferma Marco, 49 anni: “Serve partecipazione – dice – questa è l’occasione di manifestare alcuni valori fondamentali che sono quelli della Costituzione. È un segnale che la politica deve essere in grado di raccogliere e trasformare in proposta. È inutile chiedere alle sardine di diventare partito, non è questo il significato”. C’è però chi vede un futuro in Parlamento per Mattia Santori: “Non credo ci sia niente di male – dice Roberto, 28 anni – in fondo è un ragazzo sveglio, preparato, che parla bene e ha belle idee. Diverso è immagine un ‘partito delle sardine’ o giù di lì”.

Le parole più utilizzate, però, restano “fascismo” e “razzismo”. “In una formula ancora più subdola”, sostengono Elisa e Loreta, 26 anni a testa: “Sembra di tornare al Ventennio. Una volta ci si vergognava di essere razzisti o fascisti, oggi per molti diventa un vanto”. E ancora: “Il razzismo va di moda – spiegano le ragazze – mentre il fascismo è nascosto, ma i concetti sono quelli”. In chiusura di manifestazione arriva Elisa, 33 anni: “Mi dispiace essere arrivata tardi, ho dovuto lavorare ma volevo esserci, anche solo per 10 minuti. Volevo dire che ci sono anch’io e che, come queste persone, non rappresento il clima d’odio che alcune forze politiche stanno portando nella nostra società. Si torni a parlare di temi veri, basta con il populismo becero”.

Un oceano di Sardine: “Niente partito, solo gruppo di pressione”

Esistere significa scegliere. E i pesci che sono l’ultima moda una cosa l’hanno scelta: di non distruggere e di nuotare verso il mare aperto, in fretta. Nel sabato in cui riempiono la vasca delle vasche, quella piazza San Giovanni che è stata luogo totemico della sinistra prima e teatro del boom a 5Stelle poi, le sardine provano a darsi una carta d’identità con l’idea evidente di giocare al gioco degli adulti, la politica, quella vera, quella dei numeri. Però non c’è ansia di catarsi o roghi purificatori nelle decine di migliaia di persone che cantano Bella Ciao e l’inno di Mameli: 35mila secondo la Questura, mentre l’organizzazione giura 100mila, l’obiettivo dichiarato alla vigilia, e di certo esagera (ad occhio saranno state tra le 40 e le 50mila). Certo, nelle parole e nei cartelli questi pesci di varia borghesia – coppie con i capelli grigi, studenti ma pure diverse famiglie con carrozzine – rivendicano di essere la barriera contro la Lega e Matteo Salvini, “contro questo populismo”: ma basta così. Perché le sardine non vogliono uccidere padri e nonni che evidentemente vengono da lì, da sinistra. Non vogliono abbattere partiti e non hanno urgenza “di aprire i Palazzi come scatolette di tonno”, come prometteva Beppe Grillo nel 2013 che pare già il Mesozoico.

Piuttosto hanno sete di politica. Vogliono dare impulso e magari una mano da fuori, nel nome dei diritti civili, dei porti che vanno sempre aperti, dell’antifascismo: cioè dire e fare quello che il Pd, le sinistre e perché no, i 5Stelle delle origini, non vogliono e non riescono più a dire. E vogliono spostare voti, per fermare le destre: in Emilia-Romagna, poi nel resto d’Italia. “Non intendiamo sostituire nessun movimento dal basso e non vogliamo essere un partito, saremo un gruppo di pressione per la buona politica” sillaba e magari un po’ mente Mattia Santori, 32enne di Bologna che del movimento leader è e leader si sente.

È sufficiente ascoltare il “Roooma” con cui esordisce sul palco, la battuta che esce un po’ forzata (“nonostante tutti i soldi che ci ha dato Prodi la gente è qui di tasca sua”), spiarne le movenze. È lui, il volto di un magma che ancora non ha corpo, fatto di volontari che a un centimetro da un palco discutono senza litigare, avvolti da un caos calmo, con l’amplificazione spesso troppo bassa e la gente che si lamenta: “Non si sente”. Oggi si rivedranno i pesci, sempre a Roma, per una riunione dei referenti nazionali. “Da domenica capiremo chi siamo, ci incontreremo e ci daremo delle linee guida” sostiene Santori. Un ragazzo che rimpiange il passato: “Non vedo l’ora che tornino certi politici di una volta”. Che loda Giuseppe Conte come “uomo delle istituzioni” e non rifiuta l’incontro offertogli dal premier, piuttosto prende tempo: “È presto, ora lavoriamo ancora sulle piazze, chiuso il capitolo regionali saremo pronti per sederci al tavolo”. Perché ha voglia di trattenersi, Sartori. “L’Emilia-Romagna sarà un laboratorio” conferma, e non nega che le sardine della sua regione ci pensino, a una lista.

Sotto il palco Stephen Ogongo, motore organizzativo a Roma: “Non so cosa diventeremo, domani (oggi, ndr) ci conosceremo, non ci siamo mai visti”. Niente partito? “Non so, prima dobbiamo far salire ancora l’onda”. E questa piazza? “La stiamo purificando dei tanti messaggi sbagliati detti qui in passato…” sorride. Mentre dal microfono una ragazza assicura: “La società civile si è riappropriata di questo luogo”.

Però la corrente le riporta lì, le sardine, verso sinistra. E non può dissumularlo il Santori che dal microfono prova la semi-citazione di Antonio Gramsci: “Le sardine non esistono, esistono solo delle persone che non restano indifferenti”. Quindi legge un documento – “che abbiamo scritto” – dove ricorda che la grande piazza di Bologna, l’inizio di tutto, è di appena un mese fa. Scherza sui giornalisti che invocano programmi e proposte. Però sa di dover dare carne fresca, ai cronisti come alla platea. Così comincia con le parole d’ordine: “Costituzione, antifascimo, creatività, la gratuità dell’arte”. Poi le tira fuori, le proposte: sei, in pratica un galateo per i politici troppo scostumati. E si va “dagli eletti che devono fare politica e non una campagna elettorale permanente” all’obbligo per i ministri di “comunicare solo attraverso i siti istituzionali”. Non vogliono “violenza fisica e verbale nella politica”, le Sardine, e chiedono all’informazione di essere aderente ai fatti. Poi, al sesto punto, la sostanza: “Va ripensato il decreto sicurezza”. Dalla platea subito correggono: “Non ripensare, abrogare”. E Santori si adegua: “Sì, abrogare”. Ed è già lo stridere tra linea ufficiale, con quel “ripensare” più moderato, e quella da sotto il palco. Può significare già qualcosa, o forse no. “Siamo i partigiani del 2020” declama comunque lui, perché sull’antifascismo non può sbagliare. Poi scende a lottare con il nugolo di telecamere e taccuini. E lo fa volentieri. “Candidarmi? Mai dire mai” chiosa. Per l’appunto.

A Salvini chi ci pensa?

Siccome la politica è anche e soprattutto comunicazione, l’unica buona notizia dell’ultimo paio di mesi sono le piazze piene di sardine. Che saranno pure debolucce sui contenuti, ma una cosa chiara e semplice la dicono: no alla Lega di Salvini. Grazie a loro, il Cazzaro Verde non si atteggia più a padrone delle piazze e del popolo, perché l’altro popolo e le altre piazze si vedono ogni giorno a occhio nudo, anzi a perdita d’occhio. E ha dovuto rinfoderare anche l’altro suo mantra, quello dell’invasione dei migranti fatti venire appositamente dalla “sinistra”, perchè la ministra Lamorgese sta facendo in silenzio molto meglio di lui (del resto, ci voleva poco). Senza migranti, popolo e piazze, Salvini è un sacco vuoto. Infatti scende nei sondaggi e non è più affatto certo di conquistare l’Emilia Romagna, mentre a destra cresce la Meloni, che diversamente da lui lavora molto, studia il giusto e ha molti più argomenti di “narrazione”. Gli resta un solo ritornello: elezioni subito, ma a furia di ripeterlo ha già rotto i maroni, tant’è che ieri se n’è uscito con una scombiccherata proposta di inciucione: un non meglio precisato “comitato di salvezza nazionale da LeU a Forza Italia” che “in un mese” dovrebbe risolvere con fantomatiche “nuove regole” tutti i problemi che la classe politica (Lega in primis) ha creato o aggravato o non risolto negli ultimi 20 anni per votare subito dopo.

Un modo come un altro per tentare di rimettere lo zampino nell’area di governo, dopo la demenziale auto-crisi di agosto. Ma anche un sintomo di disperazione dinanzi alla prospettiva terrificante (per lui) che il governo Conte duri tre anni e lo costringa a 36 mesi di urla e strepiti fino a perdere il fiato e ad arrivare spompato alle elezioni del 2023. Intanto le inchieste che lo terrorizzano, dalle mazzette russe ai voli di Stato, dai 49 milioni scomparsi alla nuova Tangentopoli lombarda, saranno giunte in porto. Tutto questo Salvini l’ha capito benissimo e cerca di modulare le sue mosse di conseguenza. Per sua fortuna e nostra sfortuna, chi continua a non capirlo sono quelli che dovrebbero approfittarne: 5Stelle e centrosinistra, troppo impegnati a farsi la guerra ogni santo giorno per ricordarsi dell’unico vero avversario. E dire che le occasioni per inchiodarlo mediaticamente alla sua nullità con una “contronarrazione” convincente non mancano. La legge di Bilancio-miracolo che neutralizza l’aumento dell’Iva, riduce le tasse sui lavoratori e vara finalmente le manette agli evasori. Lo sconcio dei 35 voli di Stato usati per fare comizi a spese degli italiani con la scusa di improbabili impegni istituzionali.

Le balle sul Mes, discutibile finché si vuole, ma inaugurato nel 2011 dal terzo governo B. con dentro la Lega, poi modificato sotto il Conte1 tra gli applausi della Lega che non capiva, o non studiava, o dormiva. Gli scandali, i malgoverni e le incapacità in quasi tutte le regioni appena conquistate dalla Lega (dal miliardo e rotti di buco della giunta siciliana di Musumeci certificato dalla Corte dei conti per il 2019, ai disastri in Trentino Alto Adige, Sardegna, Basilicata e Molise, per non parlare delle sconcezze forzaleghiste nella roccaforte lombarda). Di questo dovrebbero parlare ogni giorno i leader dei 5Stelle e del centrosinistra nei talk, nei tg, sulle agenzie e sui social. Immaginate se, anzichè Salvini, ci fosse Di Maio sotto inchiesta per abuso d’ufficio per quei 35 voli di Stato: il Cazzaro parlerebbe solo di quello, la Meloni e quel che resta di B. pure, e tutti i media dietro. Così com’è avvenuto per il Mes, di cui gli italiani sanno poco o nulla, eppure da un mese non si parla d’altro perchè Salvini – che in un Paese informato se ne terrebbe a debita distanza – ha deciso così. Pensate che accadrebbe se negli ultimi tre mesi i rimpatri fossero aumentati e le distribuzioni in altri paesi Ue si fossero rallentate con crisi internazionali come quelle di un anno fa: il Cazzaro parlerebbe solo di quello, tutti gli risponderebbero e gl’italiani penserebbero solo a quel tema. Invece, sotto il Conte2, il trend s’è invertito rispetto alla presunta età dell’oro salviniana. E, comprensibilmente, Salvini diserta l’argomento. Ciò che è incomprensibile è che lo disertino i suoi presunti avversari, anziché bombardare i media di dati (che fra l’altro, diversamente da quelli spacciati dalla Lega, hanno il pregio di essere veri).
I 5Stelle sono troppi intenti a guardarsi l’ombelico e il Pd a farfugliare scemenze sullo Ius culturae e l’abolizione dei decreti Sicurezza. Idem per la legge di Bilancio: quando si cominciò a discuterne, Salvini e i suoi trombettieri annunciarono che era “tutta tasse”; e Di Maio e Renzi facevano a gara a dar loro ragione, spacciando le multe ai commercianti senza Pos e le sacrosante microtasse di scopo sulle bevande gassate, i cibi pieni di zuccheri e la plastica per una stangata insopportabile per i cittadini. Idem Repubblica, che titolava “Plastica, quella tassa no” a pagina 1 e nelle altre inneggiava a Greta. Ora che, purtroppo, quei balzellini utili e impercettibili per le nostre tasche sono quasi scomparsi, Conte si ritrova solo a difendere una manovra che di nuove tasse non ne ha più neppure l’ombra. E di cui tutta la maggioranza dovrebbe vantarsi, non vergognarsi: se l’avesse fatta Salvini, si sarebbe già eretto un monumento equestre da solo. Invece i nostri eroi sono troppo occupati a litigare sul salvataggio della Popolare di Bari, senza neppure aver capito che stavolta non salverà i banchieri-bancarottieri, ma i risparmiatori fregati. Ecco perchè Salvini sembra vincere anche quando perde e i giallo-rosa sembrano perdere anche quando vincono: l’uno riuscirebbe a vendere il ghiaccio pure agli eschimesi, gli altri sono gli eschimesi.

Diritto di sangue, meno male che è arrivato il progresso

Ho terminato in questi giorni un libro che mi ha ridotto per la fatica a un straccio bagnato. Una delle materie che ho dovuto studiare è la storia di Francia dal Medio Evo all’inizio del Novecento. Mi sono trovato di fronte a un argomento non nuovo, anzi conosciutissimo, sul quale ho riflettuto per la prima volta. E non tocca la Francia, ma tutti i paesi europei, né si termina con il Novecento ma, in forme più o meno mascherate, è vigente in tutto il mondo. Si maschera meglio, si pratica senza scrupoli religiosi e sociali. Per me, è una conquista di civiltà.

La molla massima, il valore massimo, sono stati sempre per l’essere umano la res, ossia la proprietà (quella che in Sicilia chiamano la “robba”) e la sua trasfusione simbolica in moneta. Alcune civiltà, in specie quella della Repubblica Romana, bilanciavano tale valore col rispetto religioso per la res publica e il senso – autentico – dell’onore. Quanti fra i massimi condottieri repubblicani sono morti poveri!

Questo è solo il punto di partenza. Voglio arrivare all’istituzione del testamento condizionato. Basta sfogliare un libro di storia per rinvenire un tema ricorrente, l’estinzione delle più grandi famiglie nobiliari e, a seguito di ciò, l’alienazione di patrimonî anche immensi alla Chiesa. Il caso è semplice. Un ricco, ricchissimo esponente della più alta nobiltà aveva un patrimonio da devolvere in eredità. Credo avesse potestà insindacabile anche sui figli legittimi; ma posso sbagliare.

Il testamento, come dico, era condizionato; e la condizione risolutiva era che l’erede a sua volta proseguisse la stirpe, ossia fosse sposato e padre. Uno dei casi più clamorosi è quello del ricchissimo Ducato di Ferrara. Formalmente era feudo della Chiesa. Alla morte di Alfonso II d’Este, nel 1597, privo di figli legittimi, Papa Clemente VIII, con artifizî canonistici proprî della genialità truffaldina della Curia entrò in possesso del Ducato, che dal 1598 divenne parte dello Stato della Chiesa.

Or mi domando. Ci doveva essere una commissione nefasta tra la paura dell’Inferno (incredibile, ma c’era: c’è ancora…) e un enfatico, gonfiato, concetto dell’onore (ben altra cosa da quello romano) che a volta s’identificava col concetto della “robba”, a volte vi confliggeva. In un’epoca nella quale per un’inezia si straziava atrocemente uno sventurato, nella quale si bruciavano sul rogo gli “eretici”, e l’eresia era considerata peccato più grave dello stesso omicidio (salvo da San Giovanni Crisostomo, per il quale il più nefando peccato era la sodomia): in epoche siffatte ci voleva tanto, in caso di marito impotente o moglie sterile, a far possedere la sposa da un robusto stalliere (che poi sarebbe stato decapitato), ovvero con una balia di fiducia fingere la gravidanza della Duchessa, della Baronessa, etc. Il fatto poteva pur trapelare: molto difficilmente fino a giungere al livello del giure.

Ma è possibile che per la combinazione del terrore dell’inferno (i teologi medioevali erano quasi tutti effettualmente atei) e di questa chimera chiamata onore si estinguesse la metà delle casate europee?

Voglio credere che in una parte dei casi intelligenti mariti (ne tratta il Decamerone) trovassero la giusta soluzione. Ma che cos’è questa superstizione del diritto di sangue? Della purezza del sangue? In senso genetico, si è visto che cosa ha prodotto. Guardatevi il ritratto dell’ultimo Asburgo spagnuolo, Carlo II.

Generalmente non credo al progresso: ma in certi casi solo un coglionazzo può negarlo.

“Puttane” sì, “Merda” no: tutti i titoli censurati dagli editori

Si doveva intitolare I cazzi di Isernia al British Museum un saggio dedicato ai culti priapici nel Molise. Qualcuno, dopo avere visto la prova di copertina, ha informato l’ignaro autore, Giancarlo Carabelli, docente all’università di Ferrara. Carabelli non ci ha dormito la notte: la mattina dopo ha mandato un fax di protesta all’editore, Luca Formenton del Saggiatore. Risposta altrettanto seccata, risoluzione del contratto e pubblicazione nel ‘96 con un titolo più sobrio, Veneri e priapi, presso Argo, piccolo editore barese.

Viene in mente questo episodio perché Adelphi sta per pubblicare Puttane assassine , uno dei testi più belli di Roberto Bolaño, uscito nel 2004 con Sellerio e dunque scomparso da un pezzo. È una raccolta di racconti in una nuova traduzione, insieme a un’opera inedita, Sepolcri di cowboy. Anche Puttane assassine come titolo non scherza. Lo scrittore cileno aveva la mano leggera nel descrivere situazioni estreme, persino un rapporto orale tra uno stilista e un cadavere, momento culminante di uno straordinario racconto necrofilo della raccolta, Il ritorno. Allo stesso tempo non aveva paura delle parole e lo dimostrano i titoli. Non solo Puttane assassine, anche Tempesta di merda. Jorge Herralde della casa editrice Anagrama lo ha dissuaso ed è diventato Notturno cileno. Sul titolo l’autore propone e l’editore dispone: ha una potere quasi assoluto. Giusto o sbagliato è così. Famoso il caso di Giuseppe Berto che scopre il titolo Il cielo è rosso (anziché La perduta gente) vedendolo in libreria. Leo Longanesi ha deciso per lui.

Un titolo molto discusso è stato Eichmann in Jerusalem. The banality of evil. Giangiacomo Feltrinelli lo inverte per rafforzare il concetto: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. Siamo nel ‘64 e fuori dal terreno dell’oscenità. Nel ‘73 Feltrinelli salta in aria sul traliccio di Segrate. Due anni dopo la sua casa editrice pubblica la prima opera di Bukowski, la raccolta Erections, ejaculations, exhibitions and general tales of ordinary madness diventa semplicemente Storie di ordinaria follia. Due racconti spariscono: Il demonio e L’assassinio di Ramon Velazquez. Il traduttore, Marco Paolini, mi ha raccontato che l’editor Aldo Tagliaferri li considerava troppo forti, mentre lui li caldeggiava. Sul titolo erano invece d’accordo: da cambiare. Bukowski scriveva in un inglese troppo nudo e crudo. Paolini considera la traduzione come abbellimento e viene sostituito. I racconti esclusi verranno inseriti in una raccolta successiva (Compagno di sbronze, 1979). Il successo permette agli editori di liberarsi di certe cautele.

Arbasino sosteneva che le parti più spinte di un libro dovevano essere nascoste all’interno. Per non facilitare i censori. Non gli ha dato certo ascolto Aldo Busi. Sodomie in corpo 11 finisce a processo nel ‘90. Il bellissimo titolo ha contribuito ad attirare l’attenzione dei denunciatori. Andrà oltre con Cazzi e canguri (pochissimi canguri). Siamo nel ’94. L’Italietta bigotta democristiana dei processi agli scrittori è appena caduta sotto i colpi di Tangentopoli. Nel 2006 esce Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo. Sempre nel segno di viaggi e libertinaggi.

Immergendomi nelle vecchie carte processuali dell’archivio di Stato a Roma, ho trovato gli atti relativi a Guida pratica e completa dei postriboli di Biella, con aggiuntovi un elenco di prostitute private, loro indirizzo, pregi particolari e relative tariffe. L’autore si nasconde dietro uno pseudonimo – il professor Ruffi Anocrate – e il pamphlet è pubblicato nel 1890 dalla tipografia Zappa. L’ha scritto lo stesso stampatore. Viene sequestrato e condannato solo per il titolo. Esattamente un secolo dopo, esce in Cecoslovacchia una raccolta di scritti della poetessa underground Jana Cerná. E/o le dà il titolo di uno dei componimenti, In culo oggi no, scartando quello originale: Clarissa e altri testi. È una poesia del ’48! Periodo di purghe staliniane. Ma in Italia nel ’92, anno della pubblicazione. desta scalpore. La critica Grazia Cherchi attacca la casa editrice. Nel ‘93 esce in Francia Baise-moi, di Virginie Despentes, letteralmente Scopami, lasciato nella traduzione italiana del ’99 per Einaudi Stile Libero.

Dopo tutto questo – Busi in primis – non resta più niente da trasgredire. Oggi se uno mette chiavi di ricerca oscene nella categoria libri di Amazon trova paginate di titoli. Cose tipo Se squirti ti sposo di Vera Fontana e Nakaghata Dyokhan. Quest’ultimo autore, nomen omen, ha anche firmato la prima raccolta di ricette per “merdariani”. Una volta gli scrittori si sfogavano con le parodie tra colleghi, come Il giardino dei finti pompini (cit. Arbasino). Anche l’umorismo era d’un altro livello.