Quando Santa rideva era difficile trattenersi senza farsi trasportare dalla sua voglia di vita. Quel sorriso era un tratto distintivo, un sorriso spento troppo precocemente ma ancora capace di contagiare chiunque, tra amici e parenti, sia oggi stimolato a ricordare quegli anni felici in cui il futuro era percepito come orizzonte di opportunità. Siamo in Puglia alla fine degli anni ’80. La vicenda di Santa Scorese, giovane attivista cattolica perseguitata per tre anni da un molestatore, che l’ha infine accoltellata a morte nel 1991, mi è stata raccontata per la prima volta dalla sorella, Rosa Maria. Del suo resoconto mi avevano colpito le riflessioni conclusive: Santa, la cui scomparsa tanto dolore ha provocato nella famiglia e tra gli amici, per certi versi non è stata l’unica vittima di quella tragedia. In un’ammirevole presa d’atto, Rosa Maria notava come il persecutore di sua sorella poteva essere messo per tempo in condizione di non nuocere agli altri e a se stesso, avendo mostrato tutta l’evidenza della sua condizione di disagio mentale.
Colpito dalla profondità di questa riflessione cominciava per me la lavorazione del documentario, per il quale ho coinvolto tante persone – parenti, amici, conoscenti – che a vario titolo avevano condiviso porzioni di vita con Santa. La facoltà da scegliere, la vocazione spirituale, l’attaccamento alla famiglia, i mille dubbi esistenziali di una ragazza poco più che adolescente: la vita di Santa – cristallizzata nelle pagine del suo diario segreto e nell’album fotografico di famiglia – attraverso i racconti di chi l’ha conosciuta mi si è presentata in tutta la sua forza dirompente, come qualcosa di ancora vivido e pulsante. E a questa voglia di vivere fa da contraltare il punto di non ritorno, segnato dall’incontro casuale con colui che diventerà prima il suo persecutore e poi il suo assassino. Una storia che va ad assumere quasi i tratti di un noir raccontato a più voci, intrecciate tra loro per ricomporre la “scena del crimine”.
È solo a quel punto della ricostruzione che ho avvertito nei miei interlocutori il senso di un dolore rinnovato, il disagio di una cicatrice che si fa fatica a mostrare. Non a caso ho voluto dedicare questo film “a chi deve sopravvivere”: poiché la sopravvivenza è un continuo e logorante dolore che a volte assume i tratti di un irrazionale senso di colpa, con il quale si è costretti a convivere, forse un giorno a fare pace.
Ecco, nel nostro caso credo che i parenti e gli amici di Santa abbiano in qualche modo metabolizzato nel modo giusto la sua perdita e abbiano trovato, se pur con fatica, il giusto equilibrio tra il desiderio di tenere vivo il ricordo della loro cara e quel dolore che irrimediabilmente si rinnova al solo pronunciarne il nome ad alta voce, ma senza indugi nel pietismo e con un profondo senso di dignità. Ciò detto, questa storia ha un ulteriore risvolto: gli attori principali sono accomunati da un’intensa fede cristiana, vissuta con trasporto e convinzione. Santa desiderava infatti intraprendere un percorso come suora missionaria e anche il suo carnefice aveva provato a entrare in seminario. Dunque la devozione è il filo rosso che lega questi due destini. Ma, se per Santa la fede si traduceva in un sincero e profondo afflato d’amore verso il prossimo, nel suo persecutore essa aveva purtroppo assunto i tratti dell’ossessione e del fanatismo, sintomi di una malattia mentale che – si scoprirà poi – era stata diagnosticata ma non propriamente gestita. Mi sono dunque trovato a rilevare, tra le tante chiavi di lettura della vicenda, quella del martirio: la vita e la morte di Santa – nel cui nome alcuni avrebbero già visto una predestinazione – viene anche letta, da chi crede, come “capolavoro divino”.
Dal mio punto di vista questa storia ci racconta invece di una società civile che, nonostante le varie denunce, si è fatta trovare impreparata ad affrontare quest’ulteriore declinazione della violenza di genere, lasciando spazio a un finale già scritto.
Quello stesso finale al quale ancora oggi troppe donne vanno incontro, nonostante il reato di stalking sia stato finalmente normato. È d’altronde evidente che dai videogiochi ai social, passando per serial fiction e talk show, la società contemporanea si nutre quotidianamente di violenza – psicologica, verbale, fisica. E vittime e carnefici finiscono spesso nel frullatore del giornalismo televisivo, in particolare quando questo si confonde con l’intrattenimento. Il cinema documentario, che nel raccontare il reale trascura lo share e pone al centro l’autore e l’onestà intellettuale del suo punto di vista, può fare la differenza. Dato incoraggiante, in questi ultimi anni il pubblico mostra di tener conto di tutto ciò.
Santa Subito si concentra dunque sulla vittima e non indugia sul ritratto del persecutore. Racconta la storia di un destino annunciato, paradigma di troppe altre storie dallo stesso finale: il mio piccolo, personale appello affinché le donne siano lasciate meno sole, quando si ritrovano in balia di una psicosi travestita da amore.