“Santa” lei e tutti coloro che devono sopravvivere

Quando Santa rideva era difficile trattenersi senza farsi trasportare dalla sua voglia di vita. Quel sorriso era un tratto distintivo, un sorriso spento troppo precocemente ma ancora capace di contagiare chiunque, tra amici e parenti, sia oggi stimolato a ricordare quegli anni felici in cui il futuro era percepito come orizzonte di opportunità. Siamo in Puglia alla fine degli anni ’80. La vicenda di Santa Scorese, giovane attivista cattolica perseguitata per tre anni da un molestatore, che l’ha infine accoltellata a morte nel 1991, mi è stata raccontata per la prima volta dalla sorella, Rosa Maria. Del suo resoconto mi avevano colpito le riflessioni conclusive: Santa, la cui scomparsa tanto dolore ha provocato nella famiglia e tra gli amici, per certi versi non è stata l’unica vittima di quella tragedia. In un’ammirevole presa d’atto, Rosa Maria notava come il persecutore di sua sorella poteva essere messo per tempo in condizione di non nuocere agli altri e a se stesso, avendo mostrato tutta l’evidenza della sua condizione di disagio mentale.

Colpito dalla profondità di questa riflessione cominciava per me la lavorazione del documentario, per il quale ho coinvolto tante persone – parenti, amici, conoscenti – che a vario titolo avevano condiviso porzioni di vita con Santa. La facoltà da scegliere, la vocazione spirituale, l’attaccamento alla famiglia, i mille dubbi esistenziali di una ragazza poco più che adolescente: la vita di Santa – cristallizzata nelle pagine del suo diario segreto e nell’album fotografico di famiglia – attraverso i racconti di chi l’ha conosciuta mi si è presentata in tutta la sua forza dirompente, come qualcosa di ancora vivido e pulsante. E a questa voglia di vivere fa da contraltare il punto di non ritorno, segnato dall’incontro casuale con colui che diventerà prima il suo persecutore e poi il suo assassino. Una storia che va ad assumere quasi i tratti di un noir raccontato a più voci, intrecciate tra loro per ricomporre la “scena del crimine”.

È solo a quel punto della ricostruzione che ho avvertito nei miei interlocutori il senso di un dolore rinnovato, il disagio di una cicatrice che si fa fatica a mostrare. Non a caso ho voluto dedicare questo film “a chi deve sopravvivere”: poiché la sopravvivenza è un continuo e logorante dolore che a volte assume i tratti di un irrazionale senso di colpa, con il quale si è costretti a convivere, forse un giorno a fare pace.

Ecco, nel nostro caso credo che i parenti e gli amici di Santa abbiano in qualche modo metabolizzato nel modo giusto la sua perdita e abbiano trovato, se pur con fatica, il giusto equilibrio tra il desiderio di tenere vivo il ricordo della loro cara e quel dolore che irrimediabilmente si rinnova al solo pronunciarne il nome ad alta voce, ma senza indugi nel pietismo e con un profondo senso di dignità. Ciò detto, questa storia ha un ulteriore risvolto: gli attori principali sono accomunati da un’intensa fede cristiana, vissuta con trasporto e convinzione. Santa desiderava infatti intraprendere un percorso come suora missionaria e anche il suo carnefice aveva provato a entrare in seminario. Dunque la devozione è il filo rosso che lega questi due destini. Ma, se per Santa la fede si traduceva in un sincero e profondo afflato d’amore verso il prossimo, nel suo persecutore essa aveva purtroppo assunto i tratti dell’ossessione e del fanatismo, sintomi di una malattia mentale che – si scoprirà poi – era stata diagnosticata ma non propriamente gestita. Mi sono dunque trovato a rilevare, tra le tante chiavi di lettura della vicenda, quella del martirio: la vita e la morte di Santa – nel cui nome alcuni avrebbero già visto una predestinazione – viene anche letta, da chi crede, come “capolavoro divino”.

Dal mio punto di vista questa storia ci racconta invece di una società civile che, nonostante le varie denunce, si è fatta trovare impreparata ad affrontare quest’ulteriore declinazione della violenza di genere, lasciando spazio a un finale già scritto.

Quello stesso finale al quale ancora oggi troppe donne vanno incontro, nonostante il reato di stalking sia stato finalmente normato. È d’altronde evidente che dai videogiochi ai social, passando per serial fiction e talk show, la società contemporanea si nutre quotidianamente di violenza – psicologica, verbale, fisica. E vittime e carnefici finiscono spesso nel frullatore del giornalismo televisivo, in particolare quando questo si confonde con l’intrattenimento. Il cinema documentario, che nel raccontare il reale trascura lo share e pone al centro l’autore e l’onestà intellettuale del suo punto di vista, può fare la differenza. Dato incoraggiante, in questi ultimi anni il pubblico mostra di tener conto di tutto ciò.

Santa Subito si concentra dunque sulla vittima e non indugia sul ritratto del persecutore. Racconta la storia di un destino annunciato, paradigma di troppe altre storie dallo stesso finale: il mio piccolo, personale appello affinché le donne siano lasciate meno sole, quando si ritrovano in balia di una psicosi travestita da amore.

Erdogan, il poker nel Mediterraneo

Che la struttura geopolitica del Mediterraneo fosse fragile è sempre stato evidente a partire dall’attribuzione romana di Mare Nostrum intesa come lago interno ad un impero centralizzato.

Un impero che tuttavia si reggeva sulle differenze e imponeva, con le armi, una cultura aperta alle altre. Un sistema che garantiva le autonomie locali e impediva che queste degenerassero in rischio per l’impero con la forza delle legioni ma anche il contributo degli alleati e dei “clienti”. Oggi il Mediterraneo non è più interno a niente. L’Europa lo snobba; ha il suo cuore a nord, il pensiero a est e i padroni ad ovest. A sud ci sono solo problemi. L’Africa lo teme; è il mare della Morte dove migliaia di vite si consumano nel sogno di superarlo per una vita migliore. L’Asia ne vuole le bellezze, la storia e le risorse. Quella lontana, la Cina, ne vorrebbe fare un paradiso di vacanze e opportunità commerciali a basso costo. Quella vicina ne vuole lo sfacelo per meglio godere delle spoglie. E chi ci sta dentro, immerso in questo mare, preferisce assecondare tutti piuttosto che assumere le proprie responsabilità. Il presidente turco Erdogan interpreta magnificamente le mire e gli interessi dell’Asia Vicina, si è reso conto che nel Mediterraneo può fare ciò che vuole. Durante le avventure irachene, siriane e curde si è barcamenato tra l’appoggio ai ribelli siriani e ai terroristi dell’Isis, il flirt con i persiani, la prostituzione con i russi e gli schiaffi agli americani. Gli è andata sempre bene grazie ad un’America narcotizzata da un presidente senza scrupoli e grazie ad una Nato ottusa che ha fatto seccare ogni radice europea per favorire la potenza della quercia americana. Ora Erdogan ha aperto la partita africana approfittando della crisi, ormai permanente, della Libia. E lo fa con la tipica furbizia levantina che in un parco di buoni a nulla è già molto. Gli vengono attribuiti piani diabolici. In realtà, da levantino, sa come districarsi fra le difficoltà e sfruttare le debolezze altrui. Non esiste una grande strategia turca. Deve navigare a vista creando e sfruttando le crisi, giorno per giorno. I suoi ministri devono prospettargli le opportunità, i suoi consiglieri devono individuare i metodi “legali” o pseudo-legali per coglierle e lui riesce a sfruttarle in termini di vantaggi politici ed economici personali immediati e nel breve termine. Il lungo termine e i guai più grandi che le azioni giornaliere e le furbate estemporanee possono provocare non lo turbano: saranno problemi per gli altri e anche questo è un vantaggio in più.

L’accordo con la Libia per la definizione dei confini marittimi è strettamente connesso alla situazione creata in Siria. L’opportunità è stata prospettata da qualcuno che conosce bene la parte militare, il caos libico, la Nato, i paesi mediterranei, gli Stati Uniti e la Russia. Il metodo è stato trovato dai tecnici degli accordi e convenzioni internazionali. In particolare da quelli esperti di Diritto marittimo che da anni stanno cercando di battere la Grecia nella contesa per la sovranità sull’Egeo. L’accordo siglato tra Erdogan e Al Serraj non è illegale, come hanno sommessamente osservato i nostri politici: è inopportuno, pericoloso, destabilizzante e azzardato ma non illegale. Può essere impugnato e discusso in sede internazionale e alla fine anche invalidato proprio in relazione ai rischi, ma fintanto che si discute le parti contraenti possono tranquillamente esercitare le prerogative del “fatto compiuto”. Possono passare decenni e secoli. Libia e Turchia si sono legalmente accordate su una linea di confine della piattaforma continentale (il sottosuolo marino) che le unisce.

Guarda caso il tratto di costa libica che è servita per la definizione del confine con la prospiciente costa turca è la Cirenaica sulla quale rivendica la sovranità il generale Haftar. L’accordo è quindi impugnabile e invalidabile se non è approvato dal parlamento libico che però è controllato dal regime di Bengasi. Erdogan perciò ha dovuto schierarsi con Al Serraj che è a capo di uno pseudo governo voluto dalle Nazioni Unite e che formalmente sarebbe l’unico legittimo. La linea di demarcazione non è un’invenzione turca: è un criterio stabilito dal diritto internazionale e in questo caso consente alla Turchia e alla Libia di costituire quelle Zone Economiche Esclusive (ZEE) che danno la facoltà di esercitare il diritto di sovranità “ai fini dell’esplorazione, dello sfruttamento, della conservazione e della gestione delle risorse naturali (vive o non vive), del letto, del sottosuolo del mare e delle acque sovrastanti. La sua larghezza (massima) è pari a 200 miglia dalla linea di base retta a partire dalla quale viene misurata la larghezza del mare territoriale”. Il Mediterraneo si è distinto per non aver avuto fino a tutto il secolo scorso nessuna ZEE. Infatti in nessun punto del Mediterraneo le coste distano 400 o più miglia dalle coste opposte di un altro Stato. Inoltre occorreva evitare di alterare lo status quo creato dalla guerra fredda e soprattutto evitare le dispute tra Grecia e Turchia entrambe parti della Nato. Il Mediterraneo era perciò costituito da ampie aree di acque internazionali. Si erano comunque create delle piccole zone riservate alla pesca e alla protezione ecologica con accordi bilaterali, come la piccola ZEE maltese di 25 miglia, e le zone riservate a Spagna, Algeria, Francia, Croazia, Libia e Italia. Paradossalmente, è stata proprio l’Unione Europea che ha insistito con i paesi membri per la creazione di ZEE per contrastare la pesca di paesi asiatici.

Lo strumento usato da Erdogan è perciò legale almeno in teoria. Il problema, che però dovrà essere discusso e lo sarà per qualche secolo, è, oltre a quello dell’avallo parlamentare, che i confini tracciati dall’accordo, almeno stando ai documenti oggi disponibili, intersecano un’area su cui reclamano la sovranità la Grecia (Creta) e Cipro. L’accordo mette perciò in pericolo lo sfruttamento delle risorse minerarie sottomarine e la realizzazione dei gasdotti mediterranei che Cipro (la cui parte greca è parte dell’Unione europea) e la Grecia stessa hanno già intrapreso autorizzando compagnie straniere alle trivellazioni. In particolare, Grecia, Egitto, Israele e Cipro hanno firmato accordi per formare le rispettive ZEE e avviato le prospezioni nel Mediterraneo orientale senza consultare la Turchia. Con l’accordo libico Erdogan si è tolto un sassolino e dichiara che “da ora in poi altri attori internazionali non potranno sfruttare o realizzare gasdotti senza il consenso di Ankara”.

Il sassolino che lui si è tolto è piombato come un macigno su tutti: con questo trucco “legale” la Turchia ha affermato la propria sovranità su acque e territori contesi da decenni, ha riaperto le questioni irrisolte di Cipro e delle isole greche contestate, ha di nuovo messo in crisi la Nato, ha sfidato l’Ue che comprende Cipro e Grecia, ha dovuto dichiarare il suo appoggio politico e militare ad Al Serraj col quale ha stretto l’accordo e sperare che il suo governo duri quel tanto che gli consenta di considerarlo legale; si è posta apertamente contro il generale Haftar che però è sostenuto dalla Russia, dall’Egitto, dalla Francia e dagli emirati Arabi; ha sfidato gli Stati Uniti. Sono sfide che qualunque statista assennato eviterebbe volentieri, ma Erdogan spera di riuscire a gestire i nodi uno ad uno con i mezzi che conosce meglio: la furbizia, l’ambiguità e l’arroganza. Per lui è un gioco. Per noi tutti nel Mediterraneo ed oltre è un nuovo incubo aggravato dalla superficialità e dall’incompetenza dei governanti a tutti i livelli (Onu, Ue, Nato, Usa, Russia e singole nazioni) che stanno a guardare aspettando che qualcun altro “faccia qualcosa”. Ma forse in questo caso l’incompetenza e l’inazione possono essere sagge anche se politicamente riprovevoli: chiunque si offra di togliere le castagne dal fuoco sa di finire sicuramente bruciato. Erdogan conta anche su questo.

Fra Serraj e Haftar l’Europa cerca il “terzo uomo”

Una settimana dopo l’arrivo in Libia dei cecchini e mercenari russi a sostegno del maresciallo Khalifa Haftar, il rais armato della Cirenaica, e il giorno dopo l’annuncio da parte di quest’ultimo della “sopraggiunta ora zero per l’avvio dell’offensiva decisiva su Tripoli”, i principali attori dell’Unione Europea sembrano aver capito l’urgenza di trovare una decisione comune sulle sorti del paese in guerra di fronte alle nostre coste meridionali. L’incontro di ieri tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron a Bruxelles è stato realizzato proprio con questa aspirazione e con l’intento di trovare una terza figura che possa sostituire sia il premier Serraj, sostenuto nel corso del tempo sempre più debolmente dall’Europa e dalle Nazioni Unite, sia il signore della guerra Haftar. Un terzo uomo in grado di unire il paese e portarlo fuori dal caos in cui versa dalla caduta di Gheddafi nel 2011.

Nonostante la difficoltà nel far emergere una personalità di questo calibro, secondo Conte l’incontro “è stato proficuo. Abbiamo condiviso le valutazioni e anche la necessità che l’Europa si faccia sentire”. Nel colloquio a tre, avvenuto in un hotel, si è parlato anche della minaccia – o promessa – arrivata dalla Turchia di intervenire sul campo di battaglia come risposta all’accelerazione dei combattimenti nella Tripoli assediata dallo scorso aprile dall’esercito di Haftar e ora anche dai russi. Subito dopo la dichiarazione del maresciallo libico circa l’assalto finale alla Capitale libica, il presidente turco Erdogan – tra i principali alleati di alSerraj – per la comune appartenenza alla Fratellanza Musulmana – si è detto “pronto a inviare i nostri soldati, se il premier libico Fayez al-Serraj ce lo chiede”. Se ciò avvenisse, la Turchia entrerebbe completamente in Libia e diventerebbe con la Russia di Putin, sul versante opposto, una sorta di “arbitro” in uno dei paesi maggiori produttori di gas e petrolio, in barba agli interessi italiani (leggasi Eni) e francesi (Total).

Proprio il protagonismo avido e cinico della Francia non solo per quanto riguarda la caduta di Gheddafi, ma per lo sdoganamento e il successivo appoggio dato da Parigi ad Haftar, ha prodotto la crepa con il resto dell’Europa e l’Onu, dentro cui si sono infilate prontamente Mosca ed Ankara. Uno schema inaugurato in Siria con collaudo nel Rojava curdo. Macron pertanto sarebbe intenzionato a tornare “europeista” e ad abbandonare Haftar per un altro cavallo . Ne è ben conscio il nostro premier che al termine dell’incontro ha detto alla stampa: “Ci sono attori anche stranieri che, essendo scesi sul terreno con appoggio militare molto chiaro, in termini di equipaggiamento, di soldati e di risorse finanziarie, in questo momento hanno un ruolo. Dobbiamo confrontarci con loro”. Conte ha tenuto a sottolineare che “rimane la piena condivisione del fatto che bisogna indirizzare subito questo conflitto verso una soluzione politica. E lo faremo con voce unitaria”. Non la pensano così i russi e i turchi, e nemmeno l’Egitto e gli Emirati Arabi che sostengono Haftar. Ma se l’Europa riuscisse davvero a parlare con una sola voce acquisirebbe un peso specifico ben diverso, al netto della uscita dall’Unione della Gran Bretagna che sembra intenzionata su questo tema a rimanere in partita dalla parte della comunità internazionale .

La posizione ambigua e disinteressata di Washington conferirebbe ancora più peso alla Ue in attesa della conferenza di gennaio a Berlino. Angela Merkel rimane la figura politica più autorevole anche in questo ambito e sarà lei a gestire la parte finale della questione libica, non senza la complicità dell’Italia, dati i rapporti turbolenti tra la cancelliera e il presidente francese Macron.

Per quel che riguarda la situazione sul campo di battaglia: le forze di Tripoli hanno rivendicato la distruzione di “quattro blindati emiratini” a disposizione delle forze del generale Haftar, con l’uccisione di un numero imprecisato di occupanti. A loro volta i soldati di Haftar hanno detto di aver abbattuto un drone turco. Su Tripoli aleggia “l’ora zero” dell’ultimo assalto delle forze di Tobruk, che nel governo di Serraj vedono l’appoggio alle milizie islamiste, dunque un pericolo terrorismo.

Francia, sotto l’albero di Natale scioperi a raffica

Dopo dieci giorni di sciopero contro la riforma delle pensioni, i parigini bloccati nel traffico, senza treni né metrò e i pochi bus saturi, sono esasperati. Il 66% dei macchinisti continua a essere in sciopero. Il movimento rischia anche di inasprirsi: un nuovo corteo è previsto martedì prossimo. Col Natale che si avvicina il governo cerca compromessi settore per settore e vuole fare presto. Il primo è stato trovato con i poliziotti.

Nei giorni scorsi gli agenti, che non possono fare sciopero, hanno simbolicamente chiuso i commissariati o preso in massa un giorno di malattia. Ieri dal ministro dell’Interno, Christophe Castaner, hanno ottenuto garanzie: conserveranno il regime “speciale” che garantisce loro la pensione a 52 anni o a 57 a tasso pieno. Hanno sospeso la protesta. La soppressione dei regimi più vantaggiosi prevista dalla nuova riforma, che si vuole “universale”, uguale per tutti, è uno dei punti più critici. È il motivo che sta portando nelle strade anche gli insegnanti, che temono di percepire una pensione al ribasso.

Una bozza di accordo è stata trovata ieri: Jean-Michel Blanquer, ministro dell’Educazione, ha garantito ai sindacati che nella legge sarà scritto nero su bianco che la loro pensione “non verrà abbassata” grazie a una “valorizzazione progressiva” degli stipendi a partire dal 2021. Gli insegnanti però restano mobilitati. Ieri da Bruxelles Emmanuel Macron ha difeso la sua “riforma storica, di rifondazione e non di bilancio”, lasciando il timone dei lavori al suo premier, Edouard Philippe. I francesi che avevano appoggiato la protesta ai suoi inizi, ora sono divisi: il 50% continua a approvarla, l’altro 50% ormai è contrario, secondo uno studio Elabe. I disagi nei trasporti incidono sul morale dei francesi che si preparano a vivere il Natale nel caos. La Sncf, la società delle ferrovie, ha annunciato che pubblicherà online la lista dei treni confermati fino al 22 dicembre. Non ci sarà “tregua natalizia”, hanno confermato i sindacati più radicali, Cgt e Sud, se il governo non ritira il progetto. Insieme, Cgt e Sud, possono paralizzare il paese. Il sindacato riformista Cfdt è favorevole a uno stop per Natale, ma si unisce allo sciopero di martedì: disapprova l’introduzione di un’età “d’equilibrio” a 64 anni che, con un sistema di bonus/malus, spingerà i francesi a lavorare oltre l’età pensionabile di 62 anni. È il secondo dicembre movimentato di seguito per i francesi. L’anno scorso, un attentato jihadista aveva colpito il mercato di Natale di Strasburgo l’11 dicembre, cinque persone erano morte. Ieri un uomo armato di coltello, forse uno squilibrato e non un terrorista, si è scagliato contro tre poliziotti nel quartiere della Défense. Questa volta non ci sono stati morti, se non l’assalitore. L’anno scorso si sparavano lacrimogeni sugli Champs Elysées illuminati a festa. Con i cortei dei Gilet gialli infiltrati dai black bloc e interi quartieri transennati, ci avevano rimesso soprattutto i negozianti, che anche quest’anno, ma per gli scioperi che impediscono alle persone di andare a fare i regali, temono un magro Natale. Nel 1995, dopo tre settimane e mezzo di sciopero contro il progetto di riforma del servizio pubblico, che avevano paralizzato il paese, prima del car-pooling e della bici a noleggio, l’allora presidente Jacques Chirac aveva ceduto proprio all’arrivo del Natale. Il suo premier Alain Juppé aveva ritirato il testo il 15 dicembre. Cosa farà Macron?

Impeachment, ora Trump punta sul Senato amico

La Commissione Giustizia della Camera ha ieri approvato i capi d’accusa per cui chiedere l’impeachment del presidente Donald Trump: abuso di potere e ostruzione della giustizia. I democratici della Commissione hanno votato a favore, i repubblicani contro; entrambi i partiti hanno osservato rigide linee partitiche. La prossima settimana, la Camera in seduta plenaria dovrà avallare la decisione della Commissione, rinviando il presidente di fronte al Tribunale del Senato. Dove il processo si celebrerà a gennaio: quasi certa, allo stato degli atti, l’assoluzione di Trump, perché lì i repubblicani sono maggioranza e perché ci vogliono i due terzi dei suffragi per formulare una condanna.

Tutto potrebbe concludersi prima dell’inizio della stagione delle primarie, con i caucuses nello Iowa lunedì 3 febbraio. Se il presidente ne uscirà assolto, l’operazione impeachment potrebbe tramutarsi in un boomerang per i democratici che l’hanno promossa e sostenuta, dando l’impressione di volere rovesciare Trump per via giudiziaria non credendo di riuscire a farlo con il voto il 3 novembre. Trump si avvia dunque a diventare il terzo presidente giudicato per impeachmnent nella storia dell’Unione, dopo Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998: entrambi ne uscirono assolti. Invece, Richard Nixon, che sarebbe stato sicuramente condannato dopo il Watergate, non affrontò mai l’impeachment, dimettendosi prima. La reazione di Trump e della Casa Bianca è stata particolarmente virulenta: “I democratici sono il partito delle menzogne e dell’inganno”, aveva twittato di buon mattino il presidente, aggiungendo: “Il partito repubblicano è invece più unito ora di quanto non lo sia mai stato nella sua storia e l’approvazione nei miei confronti al suo interno è al 95%, un record!”.

La sequela delle recriminazioni, da parte di Trump e della Casa Bianca, è stata serrata: l’impeachment è “una farsa”, “una vergogna” e, ovviamente “una caccia alle streghe”; e il processo in Senato, dove i repubblicani sono maggioranza, sarà “equo”. La tesi è che tutto l’Ukrainagate sia “una montatura dei democratici”, così come il Russiagate sarebbe stato “una cospirazione” dell’intelligence in combutta con i democratici: una tesi appena smentita dall’inchiesta voluta dall’Amministrazione repubblicana. Le accuse si riferiscono alle pressioni che il presidente esercitò per convincere l’allora neo-eletto presidente ucraino Volodymyr Zelensky ad avviare indagini sulle attività del figlio di Joe Biden, Hunter, in affari con una società ucraina, tenendo bloccati aiuti militari per 391 milioni di dollari degli Usa a Kiev già stanziati dal Congresso.

Scena madre della vicenda sarebbe stata una telefonata tra Trump e Zelensky, il 25 luglio, che ha innescato il rapporto di una talpa, un agente della Cia, e l’avvio dell’inchiesta. Il presidente punta sull’impatto dell’accordo con la Cina, che allontana la ‘guerra dei dazi’, e anche sul riverbero della vittoria di Johnson, per attenuare l’eco delle accuse nell’opinione pubblica, che appare poco scossa dalla vicenda. I suoi sodali lo confortano: per il leader dei senatori repubblicani, Mitch McConnell, “Tutti sappiamo come andrà a finire. Non c’è alcuna chance che il Trump venga rimosso dal suo incarico”.

La compattezza, almeno finora, del fronte repubblicano era emersa anche giovedì, durante un’interminabile maratona di 15 ore in Commissione Giustizia: i repubblicani facevano sistematicamente ostruzionismo, cercando di votare a notte fonda, senza impatto televisivo; invece, i democratici, all’ultimo momento, hanno aggiornato la seduta e indetto il voto per ieri, alle 10 del mattino, un buon orario per la Fox e la Cnn. Il voto in plenaria potrebbe avvenire mercoledì 18: per il rinvio a giudizio, basterà la maggioranza semplice.

“Era meglio Tony Blair”: Renzi (e il Pd) alla larga dai socialisti del Labour

Il leader che perde si ritira. E questo è quello che farà Jeremy Corbyn dopo la sconfitta di ieri. Ma la sostituzione della sua leadership sembra non bastare ai tanti nemici del Labour, Corbyn deve essere esecrato e umiliato in modo che la sua ombra non si ripresenti più. Perché in questa storia della Brexit c’è il nodo dell’identità della sinistra in un’Europa che troppo frettolosamente aveva archiviato la minaccia nazionalista. E per la sinistra il problema è doppio perché, contrariamente a tutti i detrattori di Corbyn, il problema per il Labour non è stato quello di essere poco chiaro sul Remain nella Ue: la sinistra è sfidata da un nazionalismo rancoroso che erode tradizionali insediamenti sociali ed elettorali.

Il nodo, ovviamente, è sciolto con l’accetta dall’italiano più blairiano di tutti, Matteo Renzi: “Hanno massacrato Tony Blair – osserva – e si sono accorti solo adesso che Corbyn era un disastro. Non si vince radicalizzando a sinistra. E per aiutare la working class non servono libretti rossi e socialismo, ma riforme e crescita. Io credo che nei prossimi anni sarà possibile finalmente riabilitare ciò che ha fatto il New Labour negli anni di Tony Blair. Perché Blair era un leader, Corbyn no”.

Ma non c’è solo Renzi su questa linea. Anche Paolo Gentiloni, che da commissario europeo non dimentica la sua origine di leader politico, nota che “perde l’illusione di una sinistra nostalgica”. E Nicola Zingaretti, segretario del Pd, in una dichiarazione molto parca, spiega che la vittoria dei Conservatori “è stata resa possibile anche dalla fragilità della proposta messa in campo dalla sinistra”.

Che il Labour abbia fatto errori e sbagliato qualcosa è indubbio. Il Guardian rileva cinque errori fondamentali (vedi articolo sopra) in cui l’argomentazione più rilevante è forse quella sullo sgretolamento del “red wall” cioè i bastioni operai dell’Inghilterra del nord che hanno preferito la Brexit.

Dall’altro lato, con meno forza mediatica ma con diversi argomenti, viene avanzata la spiegazione della tiepida adesione di Corbyn alla Brexit. Stefano Fassina, che propende per una sinistra “sovranista”, sostiene che spiegare la sconfitta del Labour con l’allontanamento dal blairismo è patetico” e pensa che uno schieramento più netto per la Brexit avrebbe giovato al Labour.

C’è chi dice che il Labour avrebbe dovuto essere maggiormente pro-Europa, ma la leader del partito più europeista di tutti, il Liberaldemocratico, non è nemmeno stata eletta. Sarebbe dovuto essere più pro-Brexit: ma avrebbe avallato il gioco di Boris Johnson.

Corbyn ha cercato di uscire dalla morsa puntando su un programma generale a base di nazionalizzazioni e working class. Ma non ci è riuscito ed è difficile sostenere che un’altra linea avrebbe pagato.

Quello che è certo, e riguarda tutta la sinistra, è invece la perdita degli storici insediamenti. In fondo il “red wall” assomiglia alle “regioni rosse” dove il Pd non parla più ai suoi da diverso tempo. Classi sociali e istanze abbandonate per decenni oggi si rivolgono convintamente alla sirena del nazionalismo o del sovranismo. E in Gran Bretagna lo stesso establishment ha dimostrato di temere meno la Brexit che il programma “socialista” di Corbyn.

Anche i risultati elettorali andrebbero letti con più onestà: dopo l’exploit del 2017, in cui il tratto pro-Brexit di Corbyn fu più marcato, e dove il Labour superò i 12 milioni di voti, i 10,2 milioni ottenuti ieri andrebbero confrontati con i 9,5 del 2005, gli 8,6 del 2010 o i 9,6 del 2015. Corbyn ha perso e quindi si farà da parte, ma il Labour è ancora là, la sinistra più forte d’Europa e sarà l’unica forza politica a contrastare Johnson. Chi lo attacca spudoratamente non può dire altrettanto.

Jeremy il rosso al capolinea. Ora la scelta su una donna

“Quando perdi troppe battaglie alla fine hai perso la guerra”. Il dirigente laburista si tiene la testa fra le mani. Non sa dire da cosa ripartire. Non sa ancora indicare responsabilità. Perché la batosta è durissima, il peggior risultato elettorale della storia del Labour. L’era di Jeremy Corbyn è finita, lui si dimetterà e il nuovo Labour sarà guidato, forse, da una donna. Diversi i nomi: Angela Rayner, Rebecca Long-Bailey, Lisa Nandy o Emily Thornberry. Per ora però, nulla di certo. Dentro e fuori il partito si cercano ancora le ragioni di una sconfitta, che fa evaporare l’intero progetto corbynista, riapre guerre intestine e inaugura una stagione di riflessione chissà quanto lunga. Se è tutto da rifare, cosa è andato storto? Ecco alcuni motivi. Brexit: “Quando facevamo campagna porta a porta era difficile spiegare la nostra strategia su Brexit” spiegano molti attivisti. Colpa di Corbyn, della sua storia di euroscettico, la strategia da sfinge prima del referendum e poi, troppo a lungo, l’ambiguità ostaggio di un partito diviso fra Leave e Remain. Il risultato: sulla questione più importante della storia britannica recente, per molto tempo nessuna posizione netta. La proposta finale, andare al governo, rinegoziare un trattato con l’Ue e sottoporlo ad un secondo referendum, non ha tenuto contro della saturazione degli elettori, che ormai, dopo tre anni e mezzo, volevano solo uscire dal guado. Jeremy Corbyn: i fedelissimi hanno subito serrato i ranghi attorno al leader, che per ora rimanda le inevitabili dimissioni. Eppure è impossibile continuare a ignorare l’elefante nella cristalleria. Dopo la fase iniziale di ‘corbynmania’, il segretario laburista è precipitato negli indici di popolarità. in tanti hanno votato anche contro di lui.

Il Programma: troppo lungo, dettagliato e radicale. Con il suo piano di nazionalizzazioni e tassazione ai ceti alti ha spaventato le classi medie senza convincere i lavoratori. Difficile da spiegare, troppo vasto, e troppo ambizioso per essere credibile.

La caduta del Red Wall: qui gente che ha votato laburista tutta la vita ha, per la prima volta, scelto i Conservatori. Perché il Labour, con la sua ambiguità prolungata su Brexit, è parso ignorare la rivendicazione dei Leavers, o per avversione verso Corbyn. Se il leader del partito dei lavoratori ignora i lavoratori tanto vale votare chi, dall’altra parte dello steccato politico, promette di portarli fuori dall’Unione Europea. La strategia elettorale: Corbyn è andato in campagna elettorale evitando la patata bollente Brexit e puntando sulla necessità di riforme politiche e sociali. Johnson ha fatto il contrario: uno slogan chiaro, Get Brexit Done, e sul resto una provvidenziale vaghezza. Si è visto cosa ha funzionato. La successione? Troppo presto. I possibili candidati sono molti prima di avviare il processo di selezione bisognerà capire la direzione. Sempre ostinata o ritorno al centro, per conquistare i moderati?

Il voto per l’addio già prima di Natale. I “Ventisette” si preparano al distacco

Questa è la volta buona: se ne andranno di sicuro; e in fretta, massimo 8 settimane, pare il preavviso d’un maggiordomo. Gli alibi per il “tiramolla” sono finiti, il sogno che i Remain usciti sconfitti 40 mesi or sono fossero divenuti maggioranza nel Paese reale è svanito.

Fra le ipotesi da esplorare, c’è quella di una “Singapore sul Tamigi”: è una delle visioni della “Londra post Brexit” rilanciata dal risultato del voto di giovedì in Gran Bretagna. Non è la più probabile, ma se ne parla. A Boris Johnson ed alla City piacerebbe: Londra avrebbe i vantaggi del mercato unico, senza subirne i vincoli. Bruxelles, Parigi e Francoforte storcono il naso.

La Brexit sarà cosa fatta entro il 31 gennaio, come da promesse di Johnson, che può ora richiamarsi “alla decisione inconfutabile” del popolo britannico: i Comuni possano già votarla prima di Natale, i Lord tra Natale e Capodanno. I leader dei 27, riuniti a Bruxelles, prendono atto e cercano d’attenuare il contraccolpo, che sarà comunque meno forte per noi che per i britannici. La reazione dei mercati al risultato smonta l’immagine di una City ostile alla Brexit e spaventata: borsa e sterlina vanno su. Evidentemente la stabilità è un valore più apprezzato che lo stare nell’Ue o l’andarsene. A chi fa affari, importa sapere che cosa succede per potersi regolare di conseguenza.

Il cammino della Brexit è rimasto in stallo durante la campagna elettorale: non si parlava d’altro, ma le bocce erano ferme. Effetti e costi dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea non saranno, però, misurabili prima della fine del periodo di transizione, cioè non prima della fine del 2020, sempre che nel frattempo si trovi una soluzione definitiva alla questione irlandese – altrimenti ulteriori slittamenti non sono esclusi –. Questo periodo deve consentire alle due parti di stabilire una nuova relazione in termini di commercio e sicurezza. Il Regno Unito potrebbe anche voler prorogare questo periodo di uno o due anni, ma deve informare l’Ue entro il 1° luglio. Nessuno vuole reintrodurre una barriera fisica tra l’Eire e l’Ulster, ora che da vent’anni quel confine è pacificato – avvisaglie di un ritorno al clima sanguinoso dell’ultimo quarto del XX Secolo ci sono già state –; ma se la Gran Bretagna non vuole più fare parte del mercato interno unico europeo, bisognerà pure collocare una frontiera da qualche parte.

Per le persone, invece, qualche scomodità è ipotizzabile in tempi relativamente brevi, soprattutto se Johnson vorrà dare la percezione che qualcosa è cambiato: comincerà, forse, con il rendere meno fluidi gli ingressi, più che con il rendere la vita difficile a chi è già residente. In ogni caso, gli interlocutori britannici avranno a che fare coi volti nuovi della legislatura europea, il presidente del Consiglio Charles Michel e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, ma anche con l’inamovibile capo negoziatore europeo Michel Barnier, elemento di continuità e garanzia di competenza, l’uomo che è riuscito a non scalfire mai durante la trattativa l’unità dei 27 e che proprio ieri ha visto rinnovato il suo mandato. A Bruxelles, dove ieri s’è concluso il Vertice europeo, si tende a stemperare le tensioni, tenendo però la guardia alta. David Sassoli per il Parlamento europeo chiede che i Comuni ratifichino subito l’accordo già fatto; Michel è pronto “a una nuova fase”; e la von der Leyen parla di “nuovo inizio”. Meno inclini alla banalità diplomatica, Emmanuel Macron e Angela Merkel ammoniscono Johnson a non diventare “concorrente sleale”. I negoziati sul regime definitivo tra Unione europea e Gran Bretagna potranno concludersi solo quando saranno stati raggiunti “risultati equilibrati”, avverte Michel. Le conclusioni del Vertice sulla Brexit ribadiscono l’impegno dei 27 “ad un ritiro ordinato sulla base dell’Accordo di recesso”: il Consiglio europeo “riconferma il desiderio di stabilire una relazione futura la più stretta possibile con il Regno Unito, basata su un equilibrio di diritti e doveri, e di assicurare un terreno di gioco equo”. Che se ne vadano, se vogliono andarsene; ma non a spese nostre o alle nostre spalle.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, profondo conoscitore dell’Ue e dei suoi meccanismi, non mostra allarme: “Ci occuperemo poco del negoziato, perché è nelle mani di Barnier che ci sa fare e perché i 27 hanno problemi più seri e più impellenti a cui pensare. Londra ha invece di fronte problemi profondi di cui la Brexit è stata solo il detonatore”.

“Sinistra, che disastro: troppo ambigua sul divorzio dall’Ue”

Laura Parker è la coordinatrice nazionale di Momentum, il movimento politico nato per sostenere la candidatura di Jeremy Corbyn a segretario del Labour nel 2015. Oggi è la costola di sinistra del partito, capace di mobilitare giovani e attivisti come nessun altro nel panorama politico britannico. Non è bastato.

Il bilancio?

È un disastro.

Le ragioni?

Non siamo stati capaci di convincere la gente che avevamo una posizione chiara su Brexit, non dico pro o contro, ma chiara. Però ci siamo arrivati in ritardo. Certo, nessuno era convinto della posizione di neutralità di Jeremy… E invece i Tories hanno puntato su questo slogan facile, Get Brexit Done, semplicistico, che infatti non risolverà nulla. Dopo tanti anni di lavaggio del cervello sulle colpe dell’Unione Europea molti hanno finito per crederci. E poi c’è la stanchezza, i tanti che non vogliono più pensare e parlare di Brexit.

E i vostri errori?

Abbiamo sbagliato a comunicare i nostri messaggi. Programma troppo ampio, difficile da spiegare.

Negli anni Settanta i programmi elettorali si dibattevano, oggi si va di pancia.

Infatti, si va di pancia, e noi abbiamo sbagliato a indicare le priorità. Io avrei affrontato il tema Brexit, avrei parlato della proposta di rinegoziare e andare a un secondo referendum. Non è stato fatto per paura di perdere i voti dei laburisti leavers, e li abbiamo persi ugualmente. E poi la verità è che abbiamo avuto i media contro per tre anni, perché l’85% della stampa è di destra…

Ma è evidente che c’è un’avversione diffusa per Corbyn, che nel porta a porta non si poteva nominare.

È ovvio che c’è un problema di immagine. Di sostanza io direi di no: se uno guarda alle posizioni che lui ha preso in Parlamento negli ultimi 30 anni mi pare non abbia sbagliato niente, a partire dal suo ‘no’ alla guerra in Iraq. Poi c’è stata l’opposizione interna al partito nei primi anni che non ci ha aiutato. E infine sì, è ovvio che si fanno errori, perché abbiamo ereditato 40 anni di neoliberalismo inaugurati dalla Tatcher ma che Blair non ha corretto.

Da cosa si riparte?

Dal movimento che abbiamo creato, dal fatto che siamo stati capaci di entusiasmare i giovani con una campagna creativa, partecipatissima, che ci ha portato in tutto il paese e a cui guardano da tutto il mondo, compresa l’Italia.

Va bene, ma perché Boris, assolutamente un prodotto dell’élite, sfonda fra gli elettori della working class e Corbyn no?

Penso ci siano due ragioni. La prima è la deferenza di classe, un meccanismo feudale in cui il popolo omaggia il signorotto. E poi la sua strategia di comunicazione che ricorda Trump e anche Berlusconi: normalizza la spregiudicatezza. La stampa rilancia per giorni e parliamo di tutto tranne che di politica. È un comportamento geniale, che lo deresponsabilizza per tutto, perfino per la sospensione illegale del parlamento.

Ma Corbyn ora si deve dimettere?

Si dimetterà di sicuro, anche perché è la sua seconda sconfitta, ma non so dire quando.

E chi andrà al suo posto?

A questo ora non rispondo, dobbiamo avere il tempo di pensare. Io vorrei qualcuno che sostenga la politica economica di John McDonnell, qualcuno con esperienza capace di unire il partito senza abbandonarne l’agenda radicale.

Nessuno spostamento al centro?

Spero proprio di no. I nostri iscritti sono di sinistra e non possiamo tornare indietro. Dobbiamo continuare a coltivare la politica. Io non penso di aver torto perché ho perso le elezioni. Sono solo più incazzata oggi di ieri.

Johnson il giullare diventa re: “Europa, ora lasciaci in pace”

Il Principe si è fatto Re, a furor di popolo, e inaugura una nuova era. È mattino presto “questo glorioso momento prima di colazione, prima che sorga il sole su una nuova giornata e un nuovo governo” quando Boris Johnson, forte di una vittoria schiacciante sul Labour, 365 a 203, celebra il trionfo fuori Downing Street. A la Boris. “Con questo mandato e questa maggioranza saremo finalmente in grado di realizzare Brexit, perché questa elezione significa che ora Brexit è irrefutabile, irresistibile, incontestabile”.

E poi la stoccata: “E con rispetto dico al nostro stentoreo amico con il cappello blu con le dodici stelle (la bandiera europea, ndr): Basta così, è il momento di mettere un calzino nel tuo megafono e lasciarci tutti in pace”.

Fa un discorso equanime, da Conservatore One-Nation, niente più bava alla bocca ma un programma di governo per tutti gli elettori, conservatori e laburisti, con la priorità di riportare al centro dell’azione di governo proprio l’Nhs, il servizio sanitario nazionale che in campagna elettorale era stato il cavallo di battaglia del Labour.

La guerra della Brexit finisce così, stravinta da Boris per doti personali, esasperazione degli elettori e inadeguatezza dell’avversario Jeremy Corbyn. Che si è detto “molto triste del risultato”, ha promesso che si dimetterà ai primi del 2020, quando la guerra fratricida in ciò che resta del Labour avrà, si spera, prodotto un successore, ma ha perseverato nel difendere il programma elettorale.

Archiviato l’avversario, Boris in mattinata va a Buckingham Palace, dove incontra la Regina Elisabetta e da lei riceve formalmente l’incarico di Primo Ministro. Ha una maggioranza sufficientemente ampia, 80 seggi, non solo per portar a casa la Brexit il 31 gennaio, come da promessa elettorale, ma anche per governare tranquillo per cinque anni se non di più, prima che il Labour risorga dalle sue ceneri. Si registrano anche altri due record: quello del parlamento più multietnico di sempre, con diverse new entry a seguire le orme della Patel e di chi come lei e altri prima (la veterana laburista Diane Abbott, il conservatore Sajid Javid) hanno fatto da apripista. E quello della presenza di donne: sono 221, a fronte delle 208 della scorsa legislatura. E il boom è proprio dei conservatori, tra le cui fila si contano 86 elette. Il voto ha eliminato anche l’ostruzionismo del Dup, gli unionisti nord-irlandesi che avevano boicottato l’accordo negoziato da Johnson con Bruxelles a metà ottobre perché crea un confine fra Belfast e Londra. Hanno portato a casa 8 seggi, ma perso il cagnaccio Nigel Dodds, il vice segretario sconfitto a North Belfast dallo sfidante del Sinn Fein. La loro influenza sul governo è tramontata, e non potranno tenere in ostaggio Boris come hanno fatto con Theresa May.

Il fronte Remain non lo preoccupa più: il Labour è allo sbando, i LIb-Dem che sul Remain avevano puntato tutto hanno avuto un risultato deludente, solo 11 seggi, e la loro leader Jo Swinson è stata addirittura sconfitta nel suo collegio elettorale, in quella Scozia dove hanno trionfato gli indipendentisti di Nicola Sturgeon. Che con i loro 48 parlamentari, 13 in più che nel 2017, possono essere una spina nel fianco: forti del successo elettorale torneranno alla carica per ottenere un secondo referendum per l’indipendenza scozzese dopo quello fallito nel 2014, e faranno di tutto per boicottare il governo, deciso a non mettere a rischio l’integrità territoriale del paese.

Bye bye British friends, è la reazione di Bruxelles, con il neo presidente del Consiglio Ue Charles Michel che ha dichiarato: “Mi congratulo con Boris Johnson e mi aspetto che il Parlamento britannico ratifichi il prima possibile l’accordo” di ottobre. Il capo negoziatore Michel Barnier ha commentato: “Per un anno abbiamo aspettato che il Regno Unito ci dicesse cosa vuole. Ora abbiamo chiarezza”,

Anche i mercati apprezzano la fine dell’incertezza, la sterlina vola. C’è ancora da negoziare tutto il trattato commerciale con Bruxelles in meno di un anno, impresa che gli esperti di commercio internazionale considerano impossibile. Ma questa è un’altra battaglia, intanto c’è da celebrare i risultati. Come ha fatto subito il presidente Usa Donald Trump con un tweet: “Congratulazioni a Boris Johnson per la sua grande vittoria! Ora la Gran Bretagna egli Stati Uniti saranno liberi di concludere un grande accordo commerciale, che ha il potenziale di essere molto più vasto e redditizio di qualsiasi accordo con l’Unione Europea”.

Anche qui, gli esperti raccomandano cautela: le trattative con gli Usa saranno tutt’altro che semplici. Fuori dall’Ue, dopo tutto, il Regno Unito è un pesce piccolo.