“Mettiamo i leader spalle al muro”: ora Greta scuote Torino

“Il 2020 sarà l’anno dell’azione. Dovremo far mettere al bando i combustibili fossili. Se rimaniamo uniti insieme possiamo farcela”. È questo l’appello che Greta Thunberg lancia dal palco di piazza Castello di Torino alle migliaia di giovani e non che sono giunti da tutto il Nord Italia per ascoltarla. L’attivista svedese è arrivata sotto la Mole a bordo di una Tesla elettrica dopo il vertice sul clima di Madrid, la Cop 25, dove ha visto “i leader del mondo scappare dalle proprie responsabilità”.

Una visita inaspettata comunicata solamente mercoledì al movimento torinese. Ma in meno di quarantotto ore la rete è riuscita a mettere a punto la macchina organizzativa. C’è chi ha messo a disposizione un gazebo, chi ha predisposto il servizio d’ordine e chi ha messo a disposizione il palco come il Comune di Bussoleno. Ed è proprio durante il montaggio della pedana, in tarda mattinata, che Greta fa capolino per la prima volta in piazza accompagnata dal padre. Un saluto veloce tra l’emozione degli attivisti che da cinquanta settimane scendono in piazza per lo sciopero climatico.

“Adesso è tutto vero”, commenta una studentessa mentre piange per l’emozione. Scortata dagli attivisti, Greta incontra la sindaca di Torino Chiara Appendino nel foyer del teatro Regio. “Mi ha trasmesso una determinazione ancora più forte nel portare avanti le politiche per l’ambiente che abbiamo avviato nella nostra città”, racconta la prima cittadina che ha fatto appendere al balcone del Comune uno striscione per accoglierla. Ma le politiche messe in atto dalle istituzioni non sono ritenute sufficienti dalla rete torinese di Fridays For Future: “Benvenuta Greta in una delle città più inquinate d’Europa – attacca dal palco uno degli studenti del movimento – ogni anno nella nostra città 900 persone muoiono a causa dell’inquinamento”.

È proprio a loro che i ragazzi e le ragazze dedicano un minuto di silenzio: “Quello stesso silenzio nel quale i tumori causati dall’inquinamento uccidono le persone e le acque invadono le città”. Situazioni che secondo gli attivisti non vengono raccontate in modo adeguato dalla stampa: “Vogliamo la crisi climatica in prima pagina e la vogliamo adesso”.

Tra le migliaia di persone presenti in piazza ci sono anche alcuni rappresentanti della Regione Piemonte. Due mesi fa la maggioranza di centrodestra non aveva votato la dichiarazione di “emergenza climatica”. Una scelta fortemente criticata degli attivisti che puntano il dito anche sull’atteggiamento del governo Conte 2: “Ci avevano promesso il taglio del 10% ai sussidi statali per l’industria del fossile nella manovra – racconta una studentessa dal palco – non hanno mantenuto l’impegno rimuovendolo dalla legge di bilancio 2020. Il governo ha fatto una triste retromarcia”.

Dopo gli interventi dei ragazzi è arrivato il momento di Greta che sale sul palco con il suo impermeabile giallo e il cartello Skolstrejk för klimatet”(“Sciopero scolastico per il clima”). Saluta la piazza con un “Ciao Torino” guadagnandosi subito un’ovazione. “Non è giusto che le vecchie generazioni scarichino le responsabilità della crisi sulle nuove generazioni. Non abbiamo causato noi la crisi climatica. Dobbiamo mettere i leader spalle al muro”. Applaudono tutti anche i Parents for future, ovvero i genitori che hanno scelto di organizzarsi per scioperare insieme ai propri figli. “I prossimi dieci anni saranno decisivi per il nostro futuro”, avverte Greta e quando chiede ai ragazzi se sono con lei la piazza risponde in coro “Yes” prima di intonare l’inno del movimento: “Bella Ciao” in versione Fridays for Future dove si chiede “un futuro migliore, adesso”.

Inps: la “fretta” di Tridico irrita i giallorosa

Quando si prende una decisione di peso, si sa, si scontenta sempre qualcuno. Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico però, che mercoledì ha dato il via all’ennesima riorganizzazione dell’ente previdenziale con ennesimo relativo giro di 42 poltrone apicali, ha scontentato quasi tutti, a partire dalla maggioranza, ivi compreso il capo politico del Movimento che lo ha nominato all’alto incarico, Luigi Di Maio.

Qual è il punto? La fretta, per così dire. Il cosiddetto “interpello” che annunciava il valzer delle poltrone è del 21 novembre, la decisione finale arriva dopo neanche tre settimane, gli interessati dovranno presentarsi nei nuovi posti lunedì (parecchi, peraltro, dovendo cambiare città). E qui si torna alla fretta. La “determina” che dà il via al valzer è firmata “Organo munito dei poteri del consiglio d’amministrazione”, che poi sarebbe il presidente Tridico, ultimo erede dei poteri monocratici risalenti all’era di Antonio Mastrapasqua. Il problema è che il benedetto Cda è già in via di nomina: Palazzo Chigi aspetta solo il parere delle Camere per varare il Dpcm.

Ad esempio, la vicepresidente sarà Luisa Gnecchi, ex deputata Pd esperta di previdenza: sul suo nome il ministro dei Rapporti col Parlamento (il 5 Stelle D’Incà) ha sollecitato le commissioni a esprimersi giusto martedì, un giorno prima del giro di valzer di Tridico. Gli altri consiglieri saranno: Roberto Lancellotti, ex McKinsey, in quota Renzi; la giuslavorista Patrizia Tullini, vicina alla ministra grillina Nunzia Catalfo; il presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro, Rosario De Luca, originariamente proposto dalla Lega. Tradotto: il prossimo Cda doveva essere coinvolto in un assetto dell’ente destinato a durare anni. La fretta è parsa sospetta.

Oltre alle questioni di metodo, però, ci sono quelle di merito: le nomine del presidente, oltre ai dirigenti “danneggiati” (ora partiranno i ricorsi), hanno irritato pure i sindacati. Qualche esempio: “Autoreferenziale” (Cgil), “Un clima di restaurazione” (Usb), “Una rotazione selvaggia, ma le competenze?” (Cida).

Nella sostanza Tridico – che può comunque incolpare della “rotazione selvaggia” una regola stabilita dal suo predecessore Tito Boeri -s’è appoggiato ai dirigenti che ritiene più fedeli, a partire dalla dg Gabriella Di Michele, peraltro di recente tornata agli onori delle cronache per l’imbarazzante vicenda – raccontata anche dal Fatto – dei lavori di ristrutturazione della sua casa romana realizzati da una ditta che lavorava anche con Inps Lazio ai tempi in cui lei era direttore dell’ente in Regione (lavori, peraltro, pagati con un mutuo Inps che si era auto-concessa).

Di Michele ha accontentato il presidente e se stessa lavorando in generale lungo questo asse: promuovere i dirigenti dei cosiddetti “enti disciolti” (Inpdap e Enpals) spedendo lontano da Roma quelli cresciuti in Inps. Già che c’era, s’è concessa pure un paio di “vendette”: il potente Vincenzo Damato, che avrebbe tentato di ostacolarla, è stato spedito dalla Direzione Informatica al Coordinamento cittadino di Napoli (che, per quanto assurdo, è una direzione generale); dal Lazio è stato poi mandato nelle Marche Fabio Vitale, che Di Michele ritiene responsabile dell’uscita sui giornali delle sue disinvolte abitudini immobiliari (Vitale è sfortunato: finì nei guai anche per aver portato alla luce un conflitto di interessi dell’ex dg Cioffi, che poi fu costretto a dimettersi).

Il presidente monocratico era interessato in particolare a due poltrone, entrambe finite a dirigenti ex Indap: l’Informatica (per Vincenzo Caridi), che dovrà collaborare col nuovo “innovation manager”, una figura esterna di prossima nomina che è una vera fissazione di Tridico insieme alla creazione di una scuola di formazione Inps intitolata all’economista Federico Caffè (alla Formazione è arrivato il fedelissimo Giuseppe Conte). Peccato per la fretta.

Benetton, segnale al governo. Sospesi i soldi a Castellucci

Atlantia prova a scaricare Giovanni Castellucci e lanciare così un messaggio al governo. Stop al pagamento della seconda rata (di quattro previste) della principesca buonuscita da 13 milioni. Lo ha deliberato il cda della società (di cui la famiglia Benetton detiene il 30%) che controlla Autostrade: “Il Consiglio – si legge in una nota – ha ritenuto prudenzialmente di sospendere il pagamento in relazione agli elementi sopravvenuti emersi dalle indagini in corso e indipendentemente dalla rilevanza penale degli stessi”. Ovviamente la decisione non è stata accolta bene da Castellucci. Fonti vicine all’ex numero di Atlantia hanno commentato: “È un’azione strumentale, immotivata e contraria agli accordi”.

L’allontanamento di Castellucci (indagato a Genova) dopo la tragedia del ponte Morandi era stato molto soft: lasciata Aspi pochi mesi dopo il disastro, era rimasto alla guida di Atlantia. Ma a settembre, con la pubblicazione dei primi atti dell’inchiesta che puntavano il dito sui top manager e le scelte della concessionaria, gli azionisti hanno cominciato a pensare che la slavina rischiava di travolgere tutto. Non solo una questione giudiziaria; in ballo ci sono la concessione autostradale e un’opinione pubblica sempre più ostile. Così erano arrivate le dimissioni di Castellucci anche da Atlantia. Già allora, leggendo il comunicato aziendale, si ritrovava una clausola non solo di stile: “Atlantia si riserva il diritto di non procedere, in tutto o in parte, al pagamento delle rate non corrisposte, nonché il diritto di richiedere la restituzione delle rate corrisposte, qualora dovessero emergere condotte dolose comprovate e accertate poste in essere a danno della società o del gruppo”.

A ottobre erano emerse novità dal processo di Avellino per la strage di Acqualonga che il 28 luglio 2013 aveva provocato 40 morti. Secondo il procuratore della città irpina Rosario Cantelmo, Castellucci, nonostante le dimissioni da Aspi e dalla controllante Atlantia, “manterrebbe ancora una posizione di supremazia all’interno della concessionaria tanto da prendere decisioni societarie cui dovrebbe essere del tutto estraneo”. Castellucci in primo grado è stato assolto, ma dall’inchiesta sul Morandi sono emersi elementi nuovi che i pm genovesi hanno inviato ai colleghi di Avellino. Una telefonata intercettata tra Paolo Berti, all’epoca direttore centrale operativo di Autostrade, e Michele Donferri, già dirigente della manutenzione. Berti, scrivono i pm, “manifesta disappunto per essere stato condannato nel processo di Avellino, lamentandosi che avrebbe potuto dire la verità e mettere nei guai altre persone”. Donferri risponde: “Aspettali al varco, pensa solo a stringere un accordo col capo”. Così, alla fine, era arrivata la lettera surreale di Luciano Benetton ai giornali. Una presa di distanza dai vertici passati, ma anche dalla stessa Atlantia: “Ci sentiamo feriti come cittadini, imprenditori e azionisti. Come famiglia ci riteniamo parte lesa. Di sicuro ci assumiamo la responsabilità di avere contribuito ad avallare la definizione di un management che si è dimostrato non idoneo, che ha avuto pieni poteri e la totale fiducia degli azionisti… Non cerco giustificazioni… chi ha sbagliato deve pagare, ma è inaccettabile la campagna scatenata contro la nostra famiglia”.

Nemmeno questo, però, rischiava di bastare. Per recuperare la fiducia di un’opinione pubblica esasperata, ma anche per giocarsi la partita delle concessioni che potrebbe concludersi entro Natale: “C’è una procedura di caducazione in atto”, ha detto pochi giorni fa Giuseppe Conte, perché Aspi sarebbe “in oggettivo inadempimento dovuto al crollo del Morandi… E adesso possiamo anticipare che siamo in dirittura di arrivo”.

Il boss: “Abbiamo cenato col sindaco”

Non c’era solo una possibile compravendita di voti per far eleggere Nilo Arcudi e Alessandra Vezzosi al consiglio comunale di Perugia. Secondo i pm di Catanzaro che hanno coordinato Borderland, l’inchiesta che ieri ha portato a 27 arresti e un sequestro da 10 milioni di euro, la ‘ndrangheta aveva una strategia elettorale in vista delle comunali del 2014 in cui prevalse il centrodestra dell’attuale sindaco Andrea Romizi. Scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare: “Antonio Ribecco (appartenente alla cosca dei Trapasso di San Leonardo di Cutro, ndr) e il sodalizio di riferimento sono in grado di influenzare la politica locale”. Se necessario comprando voti. E nelle pieghe delle 1.232 pagine di ordinanza cautelare c’è un pranzo al quale avrebbe partecipato anche il sindaco Romizi che mercoledì sera, quando sono usciti i nomi dei politici che sarebbero stati favoriti dai boss, ha ringraziato le forze dell’ordine per aver “stroncato un sistema criminale che voleva fare business sulla pelle dei perugini”.

Di lui però parlano, riuniti a tavola, gli arrestati Antonio Commisso, Antonio Rodà, Antonio Ribecco e il fratello Natale il cui figlio aveva deciso di candidarsi con Casa Pound alle elezioni comunali. Alcuni però mostrano perplessità: “Io devo dire la verità, Casa Pound non è facile, ha preso il partito sbagliato”. Ma dalla conversazione degli intercettati sembra che la strategia iniziale non fosse quella. “I presenti – scrivono i magistrati – parlano della scelta politica del figlio di Natale Ribecco. Si ascolta un audio in cui Antonio Ribecco (omonimo dello zio, ndr) fa propaganda politica e presenta la lista dove lui è candidato a sindaco”.

A quel punto prende la parola il padre, Natale Ribecco, che annuncia la “candidatura ufficiale” prevista per l’indomani. Altri dubbi su Casa Pound arrivano da Cosimo Commisso, anche lui arrestato ieri: “Purtroppo la destra – dice agli altri commensali – non è un movimento politico che può avere grande speranza, perché lui è di estrema destra”. Ma a quel punto Natale Ribecco spiega che la strategia iniziale era un’altra, ossia una grande coalizione di centrodestra a sostegno di Romizi che inglobasse anche Casa Pound: “I patti – racconta Natale Ribecco – erano così fino ad un mese fa, il sindaco di Perugia è di destra, centrodestra, Romizi, noi abbiamo mangiato insieme col sindaco, i patti era che si candidava con Salvini e si collegava con loro che sono di destra. Che ha fatto il sindaco? Si è collegato con il socialista, Nilo Arcudi. I patti erano con Salvini, con la Lega, il sindaco con la Lega e tutta la destra, adesso si è messo coi comunisti”. Per questo la ‘ndrangheta decide di far confluire i voti su Arcudi, oggi presidente del consiglio comunale di Perugia candidato alle elezioni regionali con una lista civica in sostegno a Donatella Tesei.

Millanterie o un accordo che poi è fallito con Romizi che ha lanciato la sua lista “Perugia Civica”? Il sindaco di Perugia al Fatto Quotidiano nega che ci sia stato “qualsiasi pranzo con questi personaggi che io nemmeno conosco” ma poi ammette: “Ho avuto solo incontro con il candidato di Casa Pound, Antonio Ribecco, in quanto rappresentante di quel soggetto politico ma mi dissi indisponibile a qualunque alleanza con loro. Ma di pranzi non ce ne sono stati”.

“Il pm Luberto asservito all’ex deputato Pd Aiello”

Il procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto “asserviva stabilmente la sua funzione al deputato del Pd Ferdinando Aiello in cambio di promesse di denaro, beni e utilità”. È l’accusa mossa dai pm di Salerno nei confronti del magistrato calabrese, perquisito nei giorni scorsi perché indagato di corruzione e per rifiuto d’atti d’ufficio. Il tutto aggravato dal metodo mafioso, come ieri ha anticipato Il Fatto. Prima come sostituto della Dda e poi come procuratore aggiunto, Luberto avrebbe favorito “l’Aiello allo scopo di avvantaggiare lo stesso e il sodalizio di ’ndrangheta con il quale era in contatto consentendogli di eludere le indagini dell’autorità giudiziaria”.

Per i magistrati di Salerno, tra Luberto e l’ex parlamentare c’era un vero “patto corruttivo”. Le indagini hanno consentito di accertare che l’ex deputato del Pd ha “pagato” dei soggiorni alberghieri dei quali ha fruito il Luberto e i suoi familiari: dalla struttura Capofaro Locanda & Malvasia nell’isola di Salina, all’hotel Gardena di Castel Rotto passando per l’hotel Adler di Ortisei.

I regali erano ricambiati con la copertura di cui Aiello godeva all’interno della Procura di Catanzaro dove Luberto dava direttive ai carabinieri affinché negli atti di un’indagine “non venissero riportati elementi indiziari” nei suoi confronti. Stando all’inchiesta, il procuratore aggiunto aveva pure omesso di iscrivere Aiello nel registro degli indagati nonostante i carabinieri in un’informativa avessero rilevato un “ipotesi di scambio elettorale-politico-affaristico e corruzione”. L’ex parlamentare, infatti, “aveva contatti diretti con un soggetto che operava per conto di due persone ritenute appartenenti ad una storica ’ndrina della sibaritide” interessata ad “acquisire appalti pubblici”. Le intercettazioni lo dimostravano ma Luberto ordinò ai carabinieri che “non venissero trascritte le telefonate che riguardavano l’Aiello”.

‘Ndrangheta, indagato governatore Valle d’Aosta

La notizia era nell’ aria da giovedì mattina al Palazzo di giustizia di Torino alla prima udienza del processo alla ’ndrangheta stanziata ad Aosta e dintorni, quello nato dall’operazione “Geenna” del 23 gennaio scorso. La Regione Valle d’Aosta si stava costituendo parte civile contro l’ex consigliere dell’Union Valdotaine Marco Sorbara, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa, quando il suo difensore Raffaele Della Valle ha sottolineato come nei nuovi atti d’indagine emergesse il sostegno di alcuni presunti ’ndranghetisti all’attuale presidente regionale Antonio Fosson. Ieri pomeriggio la conferma: l’ex senatore vicino a Comunione e liberazione, eletto nel 2018 con la lista “Stella alpina”, è indagato per voto di scambio politico-mafioso nell’ambito di una nuova inchiesta ( “Egomnia”) della Dda di Torino e dei carabinieri di Aosta. “Non mi risulta che a mio padre sia stato notificato un avviso di garanzia”. Così all’Agi l’avvocato Jacques Fosson, figlio del presidente.

Resta comunque la seconda indagine nel giro di un anno che fa luce sui rapporti illeciti tra politica e mafia sulle Alpi: a gennaio “Geenna” aveva rivelato gli aiuti dei presunti ’ndranghetisti alle elezioni amministrative di Aosta e di Saint Pierre nel 2015 col coinvolgimento di ben tre politici. D’altronde nella Vallée molti residenti sono di origine calabrese e costituiscono un bacino di voti importantissimo a cui i candidati attingono con l’aiuto dei boss. Questa nuova inchiesta riguarda invece Fosson e non solo lui.

Insieme all’attuale presidente sono indagati per lo stesso reato anche l’assessore regionale Laurent Viérin, in passato governatore ex della Regione, il collega di giunta Stefano Borrello e il consigliere regionale Luca Bianchi. Tuttavia la posizione di Fosson è quella istituzionalmente più “imbarazzante”. Siccome la Valle d’Aosta è una regione autonoma a statuto speciale, le regole sono diverse da quelle di altre regioni e qui il presidente è anche il prefetto. In questa veste a novembre ha inviato al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese le due relazioni del lavoro svolto dalle commissioni di accesso sugli atti dei comuni di Aosta e Saint-Pierre per verificare l’eventuale infiltrazione o il condizionamento mafioso. Dal Viminale, poi, la palla passerà al presidente della Repubblica che dovrà decidere (su proposta del ministero) se sciogliere le due amministrazioni comunali. Leggendo le relazioni Fosson avrebbe potuto ricordarsi che, come molti politici arrestati a gennaio, anche lui aveva avuto incontri con il presunto boss Antonio Raso nella sua pizzeria, “La Rotonda”, nei periodi prima delle elezioni. Ad esempio, il 3 marzo 2018, in vista del voto alle politiche, come documentato dai carabinieri con appostamenti e intercettazioni, ma anche per le regionali del maggio successivo. Fosson ha poi rapporti anche con un secondo uomo vicino agli ambienti mafiosi, un pensionato calabrese che lui chiama “capo”.

Nello stesso anno a intrattenere queste relazioni pericolose c’era anche l’allora presidente della Regione Valle d’Aosta, Laurent Viérin, che nonostante la veste di prefetto “ha incontrato uno degli esponenti di vertice del ‘locale’ di Aosta”, inteso come nucleo territoriale della ’ndrangheta. Da una telefonata tra un imputato di associazione mafiosa e una candidata, inoltre, “si ha il riscontro dell’avvenuto accordo tra Laurent Viérin e il locale, cioè la richiesta del politico di voti, per lui e i candidati della sua lista, e la seguente approvazione del sodalizio criminale che ha concordato e approvato i candidati da supportare, stabilendo anche i voti da attribuire”. “Il sostegno della ‘locale’ – aggiungono i carabinieri – non è stato a titolo gratuito”, ma era “finalizzato ad ottenere posti di lavoro e agevolazioni in pratiche amministrative sia per gli affiliati che per i soggetti vicini al sodalizio”.

Peugeot-Fca, tutto pronto. Ma c’è l’incognita dell’Italia

L’America è sistemata”, potrebbe dire John Elkann: che non vede l’ora, spiegano, di ratificare la fusione con Peugeot. Nei giorni scorsi, infatti, Fca Usa ha concluso l’accordo col sindacato dei metalmeccanici Uaw (lo stesso che un esposto di General Motors accusa di essersi fatto corrompere, ai tempi di Sergio Marchionne) per il nuovo contratto di lavoro: 9 miliardi di dollari per investimenti nei prossimi 4 anni e quasi 8 mila posti in più.

Nel panorama internazionale del futuro colosso dell’auto, Peugeot-Fca, le cose vanno bene anche in Germania, dove la casa francese Psa, al momento dell’acquisto di Opel da GM (2017), aveva offerto precise rassicurazioni alla cancelliera Merkel e ai Lander sul mantenimento degli impianti produttivi: un impegno poi sempre rispettato. Scenario altrettanto favorevole per le future “nozze” è, infine, quello francese: dove, ancora una volta, il governo transalpino (che partecipa con una presenza non secondaria al capitale di Psa) ha preteso garanzie prima di dare il proprio benestare all’avvio del percorso per un’intesa con il gruppo di Elkann, sia pure di fronte a un già evidente sbilanciamento a favore di Parigi negli organi di controllo della nuova realtà. Vento in poppa, dunque, in vista dell’annuncio (promesso entro Natale) del primo atto formale propedeutico al closing finale, subordinato al via libera delle autorità dell’antitrust degli Stati interessati?

Non la pensano tutti così, almeno a Torino, dove si sottolinea come esista un’ultima “piazza” che andrebbe analizzata prima di festeggiare. L’Italia, appunto, che (anche se ormai la sede legale di Fca è in Olanda e quella fiscale è stata trasferita a Londra, sollevando la contestazione, per una presunta evasione fiscale miliardaria, da parte dell’Agenzia delle Entrate) dovrebbe avere una potenzialità produttiva di un milione e 400 mila vetture all’anno in cinque stabilimenti, ma è ferma a 800 mila ed è dominata dal continuo ricorso agli ammortizzatori sociali.

Sotto la Mole, da almeno quattro settimane, sono presenti una trentina di manager e analisti di Psa, con scambi continui tra Parigi e Torino, incontri ufficiali e anche cene riservate in case private. I temi che tengono banco sono soprattutto quelli di diritto commerciale e finanziario, ma una parte dei delegati di Psa sta lavorando anche per capire la situazione italiana di Fca in vista del futuro piano industriale del nuovo gruppo, affidato al prossimo amministratore delegato unico, il franco-portoghese Carlos Tavares, attuale leader dell’azienda francese.

“Le cose, al momento, appaiono molto nette – dice Giorgio Airaudo, da anni esponente e dirigente della Fiom-Cgil del Piemonte – Il successore di Marchionne, Michael Manley, aveva annunciato la progressiva uscita dalla produzione del segmento A: in altre parole, l’esaurimento dei modelli Fiat 500 e Panda. Significa, senza alternative, un brutto segnale per gli stabilimenti di Mirafiori e di Pomigliano”.

Ma è tutto davvero così incerto e negativo? “Credo sia necessario applicare il modello francese e quello tedesco. Lì i governi nazionali si sono mossi e hanno preteso garanzie. Qui che cosa si sta facendo? Corrono voci di comunicazioni tra Elkann e il premier Conte, anche in occasione dell’acquisizione del gruppo editoriale Gedi. Qualcuno ha provato davvero a esercitare una moral suasion prima che tutto sia fatto e il ruolo di Tavares diventi decisivo? Qualcuno si è posto il problema di chiedere se si intende mantenere e sviluppare la produzione automobilistica o se ci si accontenterà invece di destinare buona parte della realtà italiana di Fca a diventare solo un fruitore di cassa integrazione?”.

Per Airaudo i giochi saranno chiari quando Tavares annuncerà se e quali modelli saranno assegnati alla produzione italiana. “Ma l’abbandono del segmento A, se sarà confermato, sembra indicare una sola strada possibile. Un ritorno alla produzione nel settore B, quello un tempo incentrato sulla Punto. Fca aveva detto che ciò non era possibile perché sarebbero serviti almeno un miliardo di euro per realizzare la nuova piattaforma. Ora la piattaforma c’è: è quella di Peugeot per la sua 208. Le potenzialità di una nuova Punto potrebbero raggiungere le 200-300 mila vetture all’anno. Oggi quel segmento è guidato dalla Renault Clio (330 mila vetture) e presidiato dalla Opel Corsa, dalla Peugeot 208 e dalla Nissan Yaris. La sorte di Mirafiori e Pomigliano si gioca qui, con la possibilità di nuovi modelli in quel segmento, mentre la trasformazione a Torino della piattaforma della Mito per la 500 elettrica, per ora, resta una scommessa in divenire”. Altrimenti? “Altrimenti anche le nozze con Psa confermeranno che in Italia, come disse un giorno Marchionne a Detroit, a Fca conviene non licenziare gli operai, ma mantenerli in cassa integrazione….”

Pop Bari appesa alle liti giallorosa

Doveva arrivare ieri sera ma alla fine è saltato all’ultimo minuto il primo decreto salva banca del governo giallorosa: sarebbe stato il secondo del premier Giuseppe Conte (dopo quello di Carige) e il quinto degli ultimi anni. Matteo Renzi ha però deciso di sfruttare l’occasione e intestarsi la battaglia contro “i soldi pubblici alle banche”. L’appuntamento, però, è solo rimandato.

L’esito sembrava scontato fin dal pomeriggio, quando la Banca d’Italia convoca il cda della Popolare di Bari. Gli uomini della vigilanza comunicano ai consiglieri che il governatore Ignazio Visco ha posto l’istituto, il più grande del Sud Italia, in amministrazione straordinaria per “le gravi perdite patrimoniali”. Commissariamento che viene reso pubblico solo in serata, dopo che il governo convoca il Consiglio dei ministri. Decade l’intero Cda, e con lui l’ad Vincenzo De Bustis, ex Banca 121, rientrato a fine 2018 a Bari, dove era stato già direttore generale dal 2011 al 2015, anni in cui si sono poste le basi per la crisi della Popolare con l’acquisto – caldeggiato da Bankitalia – della scassata Tercas. La situazione di De Bustis si era fatta insostenibile: è indagato per una strana operazione, fallita, con cui ha cercato di trovare nuovo capitale attraverso una sconosciuta società maltese. Operazione che aveva magnificato ai consiglieri, secondo i verbali rivelati ieri sul Fatto da Giorgio Meletti. È stata Bankitalia a segnalare alla procura di Bari la vicenda. Via Nazionale affida l’istituto ai commissari Enrico Ajello e Antonio Blandini.

Nel pomeriggio il premier, dopo aver tentato di rassicurare, convoca un consiglio dei ministri per approvare il decreto. Il testo era pronto da tempo. In sostanza, prevede una garanzia pubblica per sostenere la liquidità dell’istituto e stanzia 800 milioni per rifinanziare Mediocredito centrale, banca del Tesoro, che la controlla tramite Invitalia, destinata a metterne almeno 500 nella popolare pugliese. Per salvare Pop Bari serve 1 miliardo, di cui oltre 100 milioni arriverebbero dal fondo interbancario.

Nel pomeriggio Conte ottiene anche il via libera di Luigi Di Maio, spaventato dai contraccolpi mediatici di un intervento comunque inevitabile. Ma è Italia Viva a far saltare l’operazione annunciando di disertare il Cdm. Luigi Marattin, vicepresidente dei deputati renziani, arriva quasi a minacciare la crisi: “La convocazione improvvisa , senza alcuna condivisione e dopo aver espressamente escluso ogni forzatura segna un gravissimo punto di rottura”. Iv attacca gli alleati, rei di “voler salvare i banchieri” dopo aver crocifisso Renzi per i disastri bancari. A quel punto anche Di Maio, da Catanzaro, frena (“non dobbiamo fare un decreto per aiutare i banchieri ma per salvare i conti correnti”). Mentre andiamo in stampa il Cdm si riunisce, ma alla fine, pare, solo per fare il punto con il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Il via libera al testo slitta, ma è solo questione di ore. L’alternativa sarebbe il fallimento della popolare. E lunedì riaprono gli sportelli.

Il regalino alla Onlus ospite dei massoni

La manovra di bilancio, si sa, è sempre zeppa di elargizioni a pioggia. In questa, che lunedì arriva in aula in Senato, hanno fatto parecchio scalpore i 400 mila euro per finanziare la celebrazione dei 100 anni dalla nascita del Pci, con partiti e giornali di destra scatenati.

Nelle pieghe della manovra, però, c’è un altro finanziamento degno di nota. Quello strutturale di 250 mila euro l’anno alla Fondazione Luigi Einaudi Onlus, che a Roma ha la sua sede all’interno del Goi, il Grande Oriente d’Italia, la più importante loggia massonica italiana. L’emendamento approvato in commissione porta la firma di tre senatori forzisti: Gilberto Pichetto Fratin, Raffaele Fantetti e Maria Alessandra Gallone. Dice così: “Al fine di favorire la diffusione della cultura storico-scientifica e promuovere la conservazione e valorizzazione del patrimonio bibliografico e archivistico della Fondazione Luigi Einaudi, è riconosciuto un contributo straordinario pari a 250 mila euro annui a partire dal 2020”.

Di fondazioni Luigi Einaudi ce ne sono due. La prima è a Torino, nata nel 1964, fa attività scientifica e conserva l’archivio Einaudi. Per le sue attività percepisce 310 mila euro annui dal Mibact. La fondazione romana, invece, nacque nel 1962 come emanazione del Partito Liberale di Giovanni Malagodi. Per molti anni ne fu presidente Valerio Zanone. Quando morì, nel gennaio 2016, la Fondazione navigava in cattive acque ed era piena di debiti. Silvio Berlusconi voleva rilevarla per farne l’istituto culturale di riferimento del centrodestra, ma la levata di scudi da parte della vecchia guardia custode del pensiero liberale lo fece desistere.

Arrivò allora l’avvocato Giuseppe Benedetto che, con Davide Giacalone e altri, è riuscito a salvarla, facendosi ospitare all’interno della sede del Grande Oriente, la famosa Casa Nathan, alla Balduina, dedicata al massone Alberto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913. “Abbiamo scongiurato che la fondazione chiudesse. Nasce così una sorta di partnership culturale tra le due istituzioni, che insieme hanno realizzato già numerosi eventi, convegni e dibattiti di grande prestigio e altri ne hanno in cantiere”, scrive il Goi sul suo sito il 9 aprile 2018. Collaborazione però negata dalla Fondazione. “Noi siamo solo ospiti in quei locali, per il resto facciamo vita autonoma. Anzi, vorremmo tornare in centro e stiamo cercando un’altra sede. Non che vi sia nulla di male, ma io non sono massone”, dice Benedetto.

Un finanziamento così rilevante a un organismo vicino alla massoneria, però, qualche sopracciglio a Palazzo Madama l’ha fatto alzare. Non è che quei soldi finiscono in maniera indiretta al Goi? “È una solenne bischerata. Tutte le nostre risorse provengono dalle elargizioni dei nostri iscritti e non abbiamo mai chiesto soldi a nessuno”, afferma il gran maestro Stefano Bisi. “Siamo contenti di poter aiutare un istituto così importante per la vita culturale del Paese”, aggiunge. Ultimamente, però, la Fondazione sembra più interessata alla politica che alla cultura: adesso, per esempio, raccoglie le firme per il referendum contro il taglio dei parlamentari.

Il “cazzaro” fa “pagliacciate razziste”. E si può scrivere

Al terzo tentativo, riuscito in pieno, viene quasi da pensare che lo faccia apposta. Qualcosa tipo: “Quereliamo Il Fatto, così vediamo cos’altro si può dire su di me senza essere condannati”. Già, perché con irresistibile sagacia tattica Matteo Salvini ha scelto di contestare in Tribunale al nostro giornale tutto ciò di cui si ritiene offeso. Il risultato, già tragicomico per alcune denunce passate, è presto detto: asserire che “Salvini si impegna in una doppia pagliacciata razzista e demagogica” non è diffamatorio. A scriverlo è la Gip di Roma Angela Gerardi, che ha appena depositato le motivazioni con cui ha archiviato il direttore del Fatto Marco Travaglio e il giornalista Michele De Lucia, autore della frase incriminata.

Salvini se l’era presa per un articolo del 2015 che raccontava le sue origini da Comunista padano e da frequentatore dei centri sociali milanesi, tra cui il celebre Leoncavallo, quando ancora difendeva gli occupanti e dispensava elogi ai graffittari (“Vogliamo una città più vivace e colorata”). Nell’articolo il collega riportava poi la suddetta “doppia pagliacciata razzista e demagogica”, ovvero un numero telefonico istituito dalla Lega a cui i milanesi avrebbero potuto segnalare gli episodi di criminalità degli extracomunitari (gli altri delinquano pure in santa pace) e la promessa che la Lega avrebbe avviato “le azioni giudiziarie ritenute opportune per stanare i responsabili”.

Propaganda da sceriffo che, repitita iuvant, può essere ricondotta a una pagliacciata senza incorrere in conseguenze penali: “Il giudizio critico dell’autore – scrive la gip – mira ad evidenziare la finalità dell’iniziativa, di tipo evidentemente propagandistico, in quanto diretta a mantenere o conquistare il consenso dei cittadini su un tema particolarmente sensibile come quello della sicurezza”. Ma il linguaggio è stato forse troppo offensivo? Per niente: “Le modalità espressive risultano funzionali alla comunicazione dell’opinione e alla manifestazione di un dissenso politico e, per quanto colorite, non paiono trasmodare in attacchi alla persona e alla sua sfera morale”. A prevalere, dunque, è il diritto di critica nei confronti di un personaggio di spicco: “Quanto all’interesse pubblico, esso è insito in qualunque opinione relativa all’attività politica di esponenti e, a maggior ragione, di leader politici eletti dal popolo”.

Via libera dalla gip, allora, con Salvini che ancora una volta punta a far condannare Il Fatto ed esce dal Tribunale con una incresciosa biografia non autorizzata da lui, ma vidimata dal giudice. A forza di querele-boomerang, si amplia infatti la rosa di epiteti e commenti riferibili a Salvini a prova di legge. Qualche tempo fa, l’ex ministro riuscì nel difficile autogol di farsi certificare da un giudice il fatto che non abbia mai lavorato in vita sua. Era il gip di Bergamo, che ritenne di non rinviare a giudizio il collega Davide Vecchi per un pezzo sul Fatto in cui si sosteneva che Salvini, ormai impegnatissimo tra comizi e tv, fosse un politico professionista: “Neppure nel suo atto di opposizione alla richiesta di archiviazione – scrisse allora il giudice – Salvini ha potuto dimostrare di aver fatto qualcosa al di fuori della Lega”.

Più recente, ma non meno disastrosa, la querela contro il direttore Marco Travaglio, che in un editoriale lo aveva definito “cazzaro verde” mettendogli in conto più d’una “supercazzola”. Anche in quel caso, tutto ritenuto lecito dal gip di Milano e denuncia rispedita al mittente con perdite, visto che nelle motivazioni dell’archiviazione il giudice aveva ricordato come la corretta definizione di “cazzaro”, non certo lesiva dell’onore, l’avesse data lo stesso Salvini in sede di querela: “Un millantatore di presunte capacità, virtù e successi, di fatto un fanfarone”. Un perfetto autoritratto involontario.