Bindi e Carrozza contro l’uomo di Pd e Renzi

Da una parte si parla già di “rottura nei fatti”. Dall’altra un esponente di peso del Pd toscano prova a minimizzare: “Solo un piccolo intoppo di percorso, il dialogo va avanti”.

Fatto sta che a sei mesi dalle elezioni regionali, con la Lega di Matteo Salvini che incombe, il centrosinistra in Toscana è sempre più vicino alla spaccatura. Giovedì sera, dopo un mese di riunioni sul programma, le 18 sigle del centrosinistra (tra cui la new entry Toscana in Azione di Carlo Calenda) avrebbero dovuto mettere la parola fine sul candidato unitario in grado di difendere l’(ex) regione più rossa d’Italia dall’avanzata leghista e invece la decisione è stata rinviata di una settimana. Da tempo infatti è in corso una guerra intestina tutta al centrosinistra per il candidato: il Pd e Italia Viva hanno già lanciato il renzianissimo Eugenio Giani, mentre le forze più a sinistra della coalizione vedono male il presidente del consiglio regionale perché troppo compromesso con il passato.

Per questo, al tavolo delle trattative con i dem guidati dalla segretaria regionale Simona Bonafè, hanno lanciato un aut aut: “No a Giani o corriamo da soli”. Verdi e “2020 a Sinistra” che riunisce Sinistra Italiana e Mdp, propongono primarie di coalizione per far scegliere agli elettori il miglior candidato da contrapporre al centrodestra leghista e per questo giovedì sera hanno lanciato due nomi pesanti: per i Verdi l’ex ministro della Sanità e parlamentare del Pd Rosy Bindi (nata a Sinalunga, in provincia di Siena) mentre “2020 a Sinistra” ha proposto l’ex ministro dell’Istruzione del governo Letta, Maria Chiara Carrozza, nata a Pisa. Sono loro le due anti-Giani lanciate dagli alleati di centrosinistra per le primarie che si potrebbero tenere il 12 o il 19 gennaio. Uno dei presenti alla riunione racconta che i toni sono stati “veramente accesi” e che in molti, soprattutto tra i renziani, siano rimasti a bocca aperta quando gli alleati hanno messo sul tavolo i nomi delle due donne, entrambe molto conosciute in Toscana.

Eppure, sia + Europa di Federico Eligi sia le renziane Stefania Saccardi e Titti Meucci hanno subito risposto picche: “Per noi c’è solo Giani”. Il Pd, per l’ennesima volta, prova a mediare anche se Simona Bonafè e il suo vice Valerio Fabiani vorrebbero evitare ad ogni costo le primarie di coalizione che rischiano di portare a effetti indesiderati (la vittoria di una tra Bindi e Carrozza) e di spaccare il popolo del centrosinistra.

Non solo: i dem sono terrorizzati da un sondaggio commissionato due settimane fa dal Pd nazionale secondo cui in Toscana il centrosinistra vincerebbe solo alleandosi con il M5S (che non esclude un voto disgiunto a favore del candidato di centrosinistra) o con gli alleati che valgono circa il 6/7%, mentre soccomberebbe in caso di coalizione “stretta” solo con Italia Viva. “La spaccatura è più vicina di quanto raccontino i giornali e i dem” riferisce al Fatto uno dei negoziatori. Tra una settimana la decisione finale.

Chi tra Giani, Bindi e Carrozza?

Letta sr. “padrino” di Mara: arrivano gli “stabilizzatori”

Ma Paolo Romani a nome di chi parla? Perché il suo rinnovato protagonismo di queste ultime ore, dopo l’aiutino governativo sul Mes al Senato ha creato malumore tra quanti stanno cercando di uscire dalle sabbie mobili di Forza Italia. Ma che navigano a vista e per questo immaginano una exit strategy per tappe. Piccoli e inesorabili passi, senza strappi clamorosi o fughe in avanti: il percorso di salvezza, la traversata nel deserto è infatti tutta in salita e i compagni di strada difficili da convincere. Per questo Romani, che con la creatura dell’ex Cavaliere usa la clava un giorno sì e l’altro pure, ieri era sulla bocca di tutti gli azzurri che sono in movimento. E che pensano già all’inizio della prossima settimana di mettere in piedi un’associazione di moderati che probabilmente si candida ad essere il nucleo fondativo di qualcos’altro, in prospettiva gruppi parlamentari autonomi da Forza Italia.

Per questo le interviste di Romani, mirate da ultimo a smentire la creazione di un gruppo di responsabili pronti a fare da stabilizzatori del sistema nel caso in cui tra i 5 Stelle dovessero a breve esserci altri addii, sono considerate intempestive, per usare un eufemismo. “Peggio di un elefante in una cristalleria” dice chi ricorda la decisione di pochi mesi fa dell’ex berlusconiano di ferro, di dare vita al partito “Cambiamo!” insieme al governatore ligure Giovanni Toti. Senza poi nemmeno riuscire a mettere insieme un gruppo parlamentare a Palazzo Madama. Dove i numeri per la maggioranza sono più ballerini: il voto sulla risoluzione sul Mes ha creato allarme. E si teme che ai tre senatori pentastellati che hanno deciso di fare le valige verso la Lega, entro la prima decade di gennaio se ne aggiungano degli altri.

Proprio di una nuova emorragia tra i 5 Stelle si è parlato insistentemente ieri mattina tra un capannello e l’altro a Palazzo Madama. Dove per questo le mosse dei singoli senatori, anche un sopracciglio inarcato, vengono guardate con estrema attenzione. Figurarsi quando fanno la spola con la Camera dove da mesi c’è una war room, complice il fatto che negli uffici di Mara Carfagna si registra un viavai ininterrotto. E allora che ci faceva l’azzurro Massimo Mallegni, fedelissimo della presidente della Camera l’altro giorno alla buvette di Montecitorio? E di che parlava fitto fitto con l’altro azzurro Marcello Fiori, un tempo uomo macchina a Palazzo Chigi, regnante Gianni Letta? E il Gran Visir berlusconiano, che della Carfagna è il padrino politico, che ruolo sta giocando per stabilizzare il governo di Conte?

Tra chi in FI cerca una terza via tra l’arrendersi al declino berlusconiano e il rischio di morire leghisti, si cammina con passo felpato. Anche perché in controluce, in questo gruppo refrattario alla definizione di responsabili, ma che è disponibile al dialogo, si intravvedono spinte diverse: quelle di quanti hanno come stella polare il centrodestra e al massimo potrebbe accomodarsi in un gruppo cuscinetto tra Forza Italia e Italia Viva, convinti che questo non irriterà Matteo Salvini. Poi ci sono quelli che, sempre nello stesso gruppo, potrebbero trovare motivazioni opposte perché propensi a spingersi a fare un passo in più in area governativa. E poi ci sono gli anarchici, quelli che rispondono solo di se stessi e stanno alla finestra in attesa che il quadro si chiarisca.

Forza Italia, per quanto fiaccata dalla crisi di consensi, non se ne sta completamente con le mani in mano. E prova a trattenere quanti più parlamentari possibile: quando i totiani sono andati dal notaio per certificare la nascita di “Cambiamo!”, non sono stati espulsi dal gruppo azzurro pur nella consapevolezza che il divorzio è ormai nei fatti. Nelle ultime ore, poi, il partito azzurro ha fatto inserire il simbolo dell’Udc nella denominazione del gruppo parlamentare. Cosa che garantirà la presenza dello Scudocrociato alle Regionali senza l’incomodo per i centristi di Cesa di dover fronteggiare lo scoglio di una raccolta firme difficile. È una mossa che però serve a convincere definitivamente i parlamentari azzurri eletti in Parlamento in quota Udc a rimanere in Forza Italia che resta il secondo gruppo più numeroso al Senato .

Mes: altro che “tradimento”, l’Italia rinvia tutto

Doveva essere il vertice europeo del “tradimento” da parte di Giuseppe Conte. Firmando il trattato di riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, il premier si sarebbe reso, secondo Lega e Fratelli d’Italia, complice di un grave danno al nostro paese.

Non si è verificato invece nessun tradimento e a conclusione del Consiglio europeo Conte può vantare una dichiarazione finale in cui i 27 paesi si impegnano a incoraggiare “l’Eurogruppo a proseguire il lavoro sul pacchetto di riforme del Mes, in attesa della procedure nazionali, e di continuare a lavorare su tutti gli elementi di un ulteriore rafforzamento dell’Unione bancaria, su base consensuale”.

L’Italia ha ottenuto che la parola “proseguire” fosse messa al posto di “finire”. Non solo, quando il presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno ha detto di sperare ancora in una firma del Mes a inizio anno, Conte è stato netto: “Rispetto le aspettative di Centeno ma poi a condividere e sottoscrivere i risultati è ciascuno Stato. Aspettiamo a dare una data”.

Oltre al rinvio si è poi rafforzata la cosiddetta logica di pacchetto, la riforma del Mes insieme a Unione bancaria e a bilancio comune: “Incoraggiamo che sia portato avanti il lavoro su tutti questi temi – continua il documento finale – su cui torneremo al più tardi entro giugno 2020”. Sul bilancio europeo, inoltre, il Bicc) si afferma che “per poterlo finalizzare nel contesto del bilancio Ue invitiamo l’Eurogruppo a fornire rapidamente il suo contributo sulle soluzioni appropriate per il finanziamento” e in ogni caso il Bicc sarà “incluso nelle consultazioni del Presidente del Consiglio Ue con gli Stati membri, nel contesto del bilancio pluriennale”.

Ritocchi formali al testo conclusivo, dice Fratelli d’Italia con Carlo Fidanza, ma è di questo che vivono i vertici europei. E le virgole, le limature, gli aggettivi e i verbi giusti esprimono posizioni e rapporti di forza in una trattativa diplomatica che è, di per sè, continua.

Sul Mes probabilmente l’Italia non otterrà molto di più se non la complicata sistemazione delle molto tecniche Clasuole di azione collettiva (Cacs), ma quello che a questo punto è più interessante – ovviamente nel quadro delle regole attuali della Ue, non certo nella loro modifica – è imbullonare tutte e tre le riforme e in particolare l’Unione bancaria.

La conferma parziale di questa possibilità è data dalle parole finali del presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel alla sua prima prova. Non solo ha sottolineato che sul Mes occorre “continuare a lavorare a livello di ministri”, ma i progressi servono anche sull’Unione bancaria e il bilancio dell’Eurozona.

A quanto si apprende dai partecipanti al vertice se l’Italia è riuscita a ottenere non solo il risultato suddetto, che rispetta pienamente il mandato del Parlamento, è anche perché la situazione interna al Consiglio non è di grande pacificazione e altri Paesi hanno consentito al rinvio. Del resto è stato un vertice che ha avallato la strategia “green” di Ursula Von Der Leyen, ma non senza frizioni con la Polonia; ha dovuto registrare un sostanziale fallimento della discussione sul Budget pluriennale – come vengono assegnati i fondi della Ue – che è stata rinviata ancora. Ed è stata poi lanciata la Conferenza sul futuro dell’Europa i cui contorni ancora non sono chiari. E su tutto il ciclone Brexit che ha occupato la giornata di ieri, la vera botta sui destini dell’Europa.

La minaccia nazionalista, dopo il risultato inglese, è tornata a soffiare forte su Bruxelles, ma anche su Berlino, Parigi e altre capitali. Non sembra tempo di slanci in avanti.

Conte teme la fuga da M5S: “Niente gruppi in mio nome”

Le turbolenze sopra il cielo di Ciampino, quelle che lo hanno costretto a ritardare l’atterraggio al rientro dal Consiglio europeo di Bruxelles, non le ha sentite. Dormiva, il premier Giuseppe Conte, piuttosto provato dalla trattativa sul fondo Salva Stati, finita con il rinvio che l’Italia voleva. Ma le altre di turbolenze, quelle che assillano la maggioranza di governo, le sente eccome. E non nasconde che la fuoriuscita di tre senatori, l’altro ieri, sia un elemento di preoccupazione collettiva. Sa, Conte, che “le fibrillazioni interne” ai partiti che lo sostengono rischiano di rompere il fragile equilibrio di cui si è fatto garante a palazzo Chigi. E sa pure che, oggi, il guaio più grosso siede a casa del movimento che al governo lo ha portato, quello guidato di Luigi Di Maio. Così, ospite di Accordi e Disaccordi sul Nove, si premura di mandare due messaggi piuttosto chiari.

Il primo è rivolto allo stesso Luigi Di Maio: “Nel M5S c’è una situazione complessa”, in cui si stanno “manifestando sofferenze”. Così, aggiunge il premier, “ho suggerito a Di Maio di dare segnali di rinnovamento”, passando da “una riorganizzazione, da una ristrutturazione”. Un consiglio, evidentemente non richiesto, che arriva nel giorno in cui i Cinque Stelle completeranno la scelta dell’annunciato “team del futuro”. E che, anche se Conte non lo dice, deve sembrare insufficiente a superare la crisi che ha colpito Di Maio e i suoi. Soprattutto se, e questo Conte lo dichiara alle telecamere, dall’altra parte il Pd “mostra maggiore compattezza e unitarietà”. Dalle parti del ministro degli Esteri non gradiscono affatto: “Non si rende conto che così soffia sul fuoco?”, è la reazione degli uomini vicini a Di Maio.

Eppure a palazzo Chigi sono convinti di aver detto un’ovvietà: perché è naturale che un partito che ha da poco subito una scissione – il Pd fresco di addio dei renziani – sia più “compatto” del Movimento, che invece è in fase di riorganizzazione e porta in pancia malumori e risentimenti, che spesso arrivano anche direttamente alle orecchie del presidente del Consiglio e che gli fanno dedurre che per Di Maio non sia il momento di usare “il pugno duro”.

Per questo Conte, di messaggio, ne lancia anche un altro. E stavolta è indirizzato a quel “partito dei contiani” che da qualche mese scalda i motori in Parlamento. Deputati e senatori convinti che non avranno possibilità di rielezione con i Cinque Stelle e che spingono per formare un gruppo esterno al Movimento: “Se ci sono alcuni parlamentari che pensano a un partito di Conte – chiarisce il premier – dico di non pensare a prospettive del genere, dobbiamo lavorare all’oggi, lavoriamo qui, lavoriamo alle riforme. Dobbiamo stabilizzare e non destabilizzare”.

La questione è tutta qui: a palazzo Chigi sono consapevoli del fatto che la scialuppa dei forzisti manderebbe fuori dai gangheri Matteo Renzi e quella dei contiani farebbe implodere Di Maio. Tradotto, per Conte è meglio che rimanga tutto com’è. Anche perché, i problemi arriveranno comunque da fuori: il voto in Emilia-Romagna è ormai dietro l’angolo. Nessuna foto di Narni stavolta, che l’accordo non si è trovato, i Cinque Stelle vanno da soli, e poi non porta neanche così bene. Ma a palazzo Chigi sono convinti che la forza di Stefano Bonaccini, il governatore ricandidato dal Pd, stia proprio nella capacità amministrativa che ha dimostrato in questi anni. Non ha bisogno di endorsement, insomma. È solo per questo che Conte non glielo dà.

Zinga e Italia Viva: ora si litiga sullo “spagnolo”

Aveva convocato una direzione del Pd con un unico vero obiettivo, Nicola Zingaretti, per ieri mattina: incassare il mandato del partito per lavorare a un sistema elettorale sul modello spagnolo. Avrebbe preso così i due più classici piccioni con una fava: marginalizzare del tutto Matteo Renzi e creare le condizioni per andare al voto.

Ma ancora una volta il fu Rottamatore è riuscito nell’azione di disturbo. Giovedì sera c’è stato un vertice di maggioranza sulla legge elettorale (una proposta deve essere pronta entro il 31 dicembre). Sul tavolo, c’è un proporzionale con due possibilità di applicazione: uno “classico” con soglia di sbarramento nazionale del 5% oppure delle soglie circoscrizionali con collegi piccoli e liste corte (un modello molto simile a quello spagnolo). Sulla prima ipotesi convergono Pd, Iv, M5S e Autonomie, contraria Leu. Mentre sulla seconda sarebbero favorevoli Pd, M5s, Leu e Autonomie, ma non Iv.

Il punto è che nelle riunioni che si erano svolte sul tema fino a questo momento, i renziani non avevano detto niente contro il modello simil-spagnolo. Va bene a Zingaretti, alla Lega e pure a M5S e garantisce un diritto di “tribuna” ai piccolissimi, ma marginalizza Renzi, perché in realtà è un “maggioritario” mascherato. Ma quando Maria Elena Boschi ha manifestato la disponibilità di Iv ad accettare la soglia del 5% (per quanto su base nazionale), sono rimasti tutti piuttosto spiazzati. Nei sondaggi Iv al 5% non ci arriva.

E allora? I sospetti si incrociano. Se da una parte Giancarlo Giorgetti conduce le trattative con i vertici del Pd per chiudere sullo spagnolo, Renzi porta avanti il suo dialogo parallelo con Salvini. La promessa: “Se facciamo il proporzionale con soglia di sbarramento nazionale non al 5%, ma al 4%, a gennaio faccio cadere il governo”. Tutto da verificare, ma nel Pd sono convinti che – comunque – Renzi sarebbe pronto ad appoggiare il proporzionale con soglia al 5%, per poi approfittare dei voti segreti per farla abbassare al 3 o al 4% in Parlamento. E prendersi il ruolo di quarto polo. Tra le variabili, non va sottovalutata la maggiore: in genere, fatta una legge elettorale, le elezioni si avvicinano.

Comunque, ieri, con il voto all’unanimità sulla relazione di Zingaretti, il Pd ha accettato di accantonare il maggioritario, anche per togliere dal tavolo il Rosatellum. Molti gli interventi a favore. Anche se c’è chi – come Anna Ascani – invita a non abbassare troppo la soglia. Nella relazione, poi, Zingaretti ha invita a proseguire l’azione di governo, ma partendo da alcuni punti fermi. È l’elaborazione di Goffredo Bettini, che ha chiesto una verifica a gennaio.

Il Pd: “Priorità d’indagine decise coi politici locali”

Il Pd ci riprova a far passare, da forza di governo, norme che nulla hanno a che vedere con le garanzie per avere processi dai tempi ragionevoli, principio sacrosanto ma usato strumentalmente da chi non vuole il blocco della prescrizione dopo il primo grado. Ora i Dem vorrebbero norme per stabilire quali debbano essere le priorità delle procure e progettano pagelle per i pm, che sarebbero così sotto scacco. Politici e colletti bianchi sotto inchiesta ringraziano.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, con un post su Facebook ostenta ottimismo sull’approvazione della riforma del processo penale, ma in realtà il Pd è furioso per la sua quarta proroga della riforma intercettazioni di Andrea Orlando e prova ad uscire dall’angolo in cui è finito per il mantra quotidiano di Bonafede sull’entrata in vigore della nuova prescrizione: ci sarà il primo gennaio, ripete in Parlamento, via social e in tv. Tiene il punto anche se i suoi colleghi avvocati protestano in piazza e alcuni consigli dell’ordine hanno chiesto le sue dimissioni .

Le proposte del Pd non sono certo all’insegna della mediazione tenendo conto delle opinioni del padre della “Spazzacorrotti” e del M5S. Cominciamo dai “famigerati” pm, come li ha chiamati Silvio Berlusconi. Il Pd vorrebbe farli lavorare sempre con una spada di Damocle sulla testa e la voglia di occuparsi solo di reati bagatellari. Pensa a una valutazione di professionalità che passi principalmente da un parametro “costituito dal dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie”. Tradotto: pm buono o cattivo in base a quanti processi vince.

Nella mailing list dei magistrati, un pm del Nord commenta: “È una proposta in sé risibile, manifestazione per un verso di sfiducia populista verso la magistratura e per altro verso di mancanza di consapevolezza della complessità del processo”.

In realtà, questa idea delle pagelle è una sorta di repetita iuvant con tanto di focus sui pm, particolarmente invisi a Matteo Renzi, che è certo il capo di Italia Viva, ma continua a pesare dentro al Pd. Già la riforma Mastella (governo di centrosinistra) ha introdotto oltre un decennio fa un criterio simile in merito ai parametri di valutazione di professionalità a cui ogni magistrato è sottoposto ogni quattro anni da parte del Csm. Riguarda, però, sia pm che giudici e, di fatto, è un parametro – al netto di dati abnormi – quasi ignorato dal Consiglio. C’è poi un’altra idea del Pd che somiglia alle proposte del fu Caimano: quella che la politica debba mettere lo zampino sui reati prioritari da perseguire. In Italia esiste l’obbligatorietà dell’azione penale ma – per le centinaia di migliaia di procedimenti che invadono le procure – di fatto i capi degli uffici giudiziari indicano le priorità. Bonafede vorrebbe ufficializzare questa prassi. Invece, il Pd vuole che la corsia preferenziale dei reati da perseguire sia stabilita dai procuratori, sentite le “istitituzioni del territorio”. Non solo forze di polizia e prefetti, ma anche sindaci e consigli dell’ordine degli avvocati.

Non c’è da stupirsi: sono del Pd 11 parlamentari su 42 che fanno parte del “comitato intergruppo” sostenitore del disegno di legge sulla separazione delle carriere di iniziativa degli avvocati penalisti e fermo, per ora, in commissione Affari Costituzionali. Un ddl che – oltre a separare le carriere di pm e giudici (secondo i magistrati l’anticamera dell’asservimento del pm all’esecutivo) – assegna una nuova prerogativa al potere legislativo: la maggioranza parlamentare di turno potrebbe indicare le priorità di indagine. Facile previsione: nella lista corruzione, evasione, riciclaggio sarebbero spesso agli ultimi posti. Come se non bastasse, ci sarebbero due Csm sotto il controllo politico, perchè il Parlamento eleggerebbe la metà dei consiglieri di ciascuno di essi e potrebbe pure nominare, come giudici ordinari, avvocati e docenti senza concorso.

La separazione delle carriere era presente anche nei programmi di Maurizio Martina e di Roberto Giachetti durante la corsa alla segreteria Dem vinta da Nicola Zingaretti.

Finanziatori convinti e benefattori (quasi) per caso

C’è chi aveva le idee chiare sul perché finanziare la fondazione Open. C’è chi invece ha versato cifre sostanziose senza porsi troppi interrogativi.

Per il primo caso, leggere il verbale di Vincenzo Onorato. L’armatore del gruppo Moby, che ha girato ad Open 300.000 euro con quattro distinti bonifici tra il 27 novembre 2015 e il 19 luglio 2016, governo Renzi saldamente in sella, mentre è in corso una battaglia politica su un tema caro a Onorato, l’imposizione di marittimi solo italiani sulle navi italiane, collega la Fondazione al Pd senza che glielo chiedano: “Devo premettere che ero iscritto al Pd da tempo. Ho stracciato la tessera con il ritiro della legge-emendamento Cociancich da parte dell’allora ministro dei Trasporti Delrio. Era finalizzata al recupero dell’occupazione dei marittimi”. Ed aggiunge: “Conoscevo Matteo Renzi, ho partecipato più volte alla manifestazione politica organizzata dal predetto, in una come relatore. Decisi autonomamente di voler concretamente sostenerne la riuscita”. Con chi ne parlò? “Non ricordo se con Renzi oppure dal suo entourage mi venne chiesto di contattare Alberto Bianchi”. Poi precisa: “È verosimile che un primo colloquio per la Leopolda lo ebbi con Renzi”.

Il produttore cinematografico Alessandro Di Paolo, dell’associazione Azimut, ha erogato ad Open 75.000 euro su input, dice, “di un amico avvocato di Firenze, Luca Cassani”. Ma l’avvocato gli spiegò cosa era Open e a cosa sarebbe servito il finanziamento? “No”. Ed accettò senza fare domande? “Sì”. Sulla fiducia. Antonio Scaramuzzino, consulente di Azimut e di altre associazioni gravitanti sul mondo del cinema, dice invece: “Di Open me ne parlò Di Paolo e poiché vidi dal loro sito che trattava anche temi vicini alla produzione cinematografica, ho ritenuto di sottoporre all’amministratore di Golden Production un contributo di 100.000 euro”. Compiuto nel 2016. La trasparenza non fu massima. “Da Open non mi fu mai richiesto il consenso per la pubblicazione sul loro sito dell’azienda che aveva effettuato il contributo”. Ma questi sono solo alcuni dei finanziatori di Open. L’elenco dei benefattori dell’allora cassaforte del renzismo occupa otto pagine. Tra le cifre più rilevanti: la British American Tobacco elargisce 150.000 euro in più parti. Fingen Spa, del settore creditizio, contribuisce con 100.000 euro.

Un’informativa collega i 50.000 erogati da Paolo Basilico, attraverso due fiduciarie, al gruppo Kairos del private banking, “di cui parrebbe essere il cofondatore”. Proprio British Tobacco, Kairos e Fingen sono società che oltre finanziare la fondazione, in passato hanno affidato consulenze a Bianchi che della Open è stato presidente. Proprio come avvenuto con il gruppo Toto. Per fare un esempio l’avvocato riceve consulenze per 83.000 euro dalla sola British, e poi agli atti c’è una fattura mandata alla Fingen per poco più di 50 mila euro per una “consulenza legale svolta nel 2018 in relazione agli accordi bancari per trattativa di rifinanziamento”.

Ma l’elenco dei donatori (tutti con finanziamenti registrati tanto che nessuno è indagato a Firenze) è lungo. Molti sono stati perquisiti e la finanza ha bussato anche alle porte di Luigi Maranzana, presidente di Intesa San Paolo Vita. Risulta aver partecipato all’aumento di capitale della Wadi sca, società lussemburghese in cui Carrai ha avuto un ruolo: Wadi per Carrai “non c’entra niente con Renzi”.

L’avvocato scriveva: “Dateci 500mila euro e cambiamo il Paese”

Ci sono tracce degli avvenimenti politici degli ultimi anni nei documenti dell’inchiesta dei magistrati di Firenze. Oltre il valore giudiziario, c’è un intrinseco valore storico. Il 23 ottobre 2013 l’avvocato Alberto Bianchi, che da lì a poco sarà presidente della fondazione Open, scrive ai principali sostenitori del sindaco Matteo Renzi, che non s’arrende nonostante la sconfitta già patita da Pier Luigi Bersani nel duello interno al Pd per guidare il centrosinistra alle elezioni (a cui segue la non-vittoria di Bersani). Il toscano con radici pistoiesi e non fiorentine Bianchi, che in calce abbraccia i destinatari con Marco, si presume Carrai, cerca di pianificare il contributo economico degli imprenditori per il sostentamento di Open, il nome viene rivelato per l’occasione: al momento della missiva si chiamava Big Bang.

Bianchi segue uno schema, fa riferimento a due “presupposti” e alcuni “impegni” reciproci, parole evidenziate in grassetto che giustificano la richiesta di 100.000 euro annui per cinque anni, da recapitare con bonifici trimestrali di 25.000 euro e che permettono di incontrare Renzi tre volte all’anno, con una particolare predilezione per il fine settimana, non si conteggiano i contatti diretti. Bianchi coinvolge il finanziere Serra, poi Gavio, Pertosa, Scordamaglia. Un gruppo ristretto che il giorno prima ha partecipato a una cena a Firenze.

L’ottobre del 2013 è un mese che introduce a una svolta per il giovane sindaco di Firenze. A sette giorni dall’evento alla stazione Leopolda, a un mese e mezzo dalle primarie per il Nazareno, un plebiscito contro gli sfidanti Gianni Cuperlo e Pippo Civati, un 67,5 per cento dei votanti che gli consegna la segreteria del Pd e fa perdere la serenità a Enrico Letta. Il premier si regge con i voti di Angelino Alfano e colleghi ministri, dopo il ritiro delle truppe di Berlusconi per la decadenza da senatore. Letta è sempre esposto, fragile, ai venti della politica e dall’autunno cominciano a soffiare forti dal Pd, ormai conquistato da Renzi. E dunque Bianchi illustra uno scenario più ampio, non lo cita, ma Palazzo Chigi non è più un miraggio: “Presupposti. Il primo è un impegno non esclusivamente per la campagna di segretario Pd 2013, ma più lungo e più ampio, ispirato (a) dalla certezza che Matteo è l’unico che ha la convinzione radicale di cambiare verso a questo Paese (che è ciò di cui il Paese ha bisogno) e una voglia all’altezza di quella convinzione, (b) dalla consapevolezza che ha bisogno di gente motivata e perbene e di avere occasioni di scambiare idee, pensieri, suggerimenti con amici che ci credono e che vogliono fare qualcosa per il loro Paese, e non perché hanno da chiedergli qualcosa in cambio di quanto sono disposte a dargli. Il secondo è che l’impegno di Matteo e della fondazione costa, che abbiamo bisogno di risorse, che non vogliamo finanziamenti pubblici, che vogliamo fare le cose con trasparenza”.

Il testo si può interpretare liberamente, ma la funzione politica, che coincide con la carriera di Renzi, è più che evidente. Bianchi passa agli “impegni” reciproci accennati all’inizio: “Il supporto di ciascuno di voi alla fondazione è configurato in 100 mila euro all’anno per 5 anni”. E aggiunge: “Matteo assicura tre incontri all’anno tra noi e voi”. Perché l’esigenza di somme così ingenti e per un intero lustro? “Dal punto di vista non finanziario, il vostro supporto è di idee, suggerimenti, proposte, osservazioni, per Matteo e per la Fondazione. La quale finora ha vissuto praticamente in campagna elettorale continua, ma chiusa quella per il segretario dovrà fare il suo lavoro culturale: convegni, iniziative, papers”. Rileggiamo: “Campagna elettorale continua”. Per difendere Open, anche giovedì in Senato, Renzi ha ricordato la differenza tra fondazioni e partiti: “Questi contributi regolari sono stati improvvisamente trasformati in contributi irregolari perché si è cambiata la definizione della fondazione: qualcuno ha deciso non era più fondazione ma partito”. Il 23 ottobre 2013, all’alba di tutto, Bianchi ha spiegato cos’era Open. Il 22 febbraio 2014 Matteo Renzi diventa presidente del Consiglio.

L’uomo del prestito per “villa Matteo” e la società con l’ex segretaria di Luca

Riccardo Maestrelli l’imprenditore amico di Matteo Renzi, erede della ricca famiglia fiorentina che ha prestato 700 mila euro nel giugno del 2018 all’ex premier e Agnese Landini alla vigilia dell’acquisto della loro villa di Firenze, è stato perquisito il 20 novembre 2019, su ordine dei pm fiorentini. Non per il prestito (restituito) bensì per i finanziamenti alla Fondazione Open, presieduta in passato da Alberto Bianchi. Maestrelli non è indagato ma le Fiamme Gialle lo hanno disturbato per “ricostruire i rapporti” tra Alberto Bianchi indagato per traffico di influenze e finanziamento illecito e “i finanziatori della Open”.

Nell’informativa della Finanza depositata il 13 novembre, una settimana prima della perquisizione, si legge che il 16 marzo 2017 a Open arrivano 150 mila euro da Egiziano Maestrelli, il patriarca morto il 10 febbraio 2018. Altri 150 mila euro sono arrivati alla Fondazione con tre bonifici il 22 e 23 febbraio 2018, alla vigilia quindi delle ultime elezioni politiche, da: “Tirrenofruit, Fondiaria Mape Srl, Framafruit Spa, società tutte riferibili a Maestrelli Riccardo”, secondo i pm. I rapporti di Maestrelli con Renzi e il “Giglio magico” risalgono ad almeno una dozzina di anni fa.

Nel 2008 Maestrelli organizzò una cena di finanziamento lecito per Renzi, candidato sindaco: mille euro per ogni imprenditore. I finanzieri hanno trovato nelle perquisizioni a Bianchi una piantina dei partecipanti a una cena del 15 gennaio 2016 all’Harry’s Bar, 1.610 euro di conto per una ventina di commensali, compresi i consiglieri della Open Marco Carrai, Alberto Bianchi e Maria Elena Boschi, più Luca Lotti e con loro i ‘contributori’ tra cui appunto il munifico Maestrelli. Nell’informativa le Fiamme Gialle raccontano anche che Maestrelli e Bianchi hanno creato a novembre del 2018 (per avere un’idea del momento storico, nel periodo in cui Renzi ha terminato la restituzione del prestito della casa) anche una società di lobby con persone del ‘Giglio magico’ come Eleonora Chierichetti, 37 anni, già collaboratrice di Matteo Renzi ai tempi in cui era sindaco a Firenze e poi capo della segreteria particolare di Luca Lotti fino al giugno del 2018.

Il 22 novembre del 2018 è stata costituita infatti la “Mediceo SAS di Eleonora Chierichetti”, ora cessata. La ex segretaria di Lotti è socio accomandatario. Gli altri soci accomandanti sono appunto Alberto Bianchi e Riccardo Maestrelli più Alberto Maria Bruni, un avvocato amministrativista tra i più importanti di Firenze che fu scelto nel 2014 dal Comune di Firenze come consulente per la questione dello stadio dei terreni Mercafir.

La società ha un capitale di 2 mila euro e ha sede in via Palestro 3 “presso lo studio legale Alberto Bianchi e Associati”. Fonti vicine a Alberto Bianchi fanno sapere “Mediceo Sas avrebbe dovuto fare attività di consulenza e advocacy ma non ha mai operato ed è stata chiusa”. Nell’oggetto sociale della Mediceo oltre a numerose attività di consulenza, “advocacy” e “servizi” anche “relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi particolari anche dei processi decisionali pubblici”. Lobby, insomma.

“Appunti di Bianchi a Lotti per l’aiutone al gruppo Toto”

C’è un appunto che secondo gli investigatori dimostra come l’avvocato Alberto Bianchi – ex presidente della fondazione Open – abbia interessato nella trattativa che riguardava la Toto costruzioni “persone di rilievo istituzionale”. Come l’ex ministro Luca Lotti. È un appunto agli atti dell’inchiesta fiorentina in cui Bianchi è indagato per finanziamento illecito e traffico di influenze. Solo per finanziamento illecito è iscritto anche Marco Carrai, imprenditore amico di Matteo Renzi, in passato membro del Cda della Open, proprio come Lotti (non indagato).

Al centro dell’inchiesta c’è una consulenza affidata allo studio legale Bianchi nel 2016 dalla Toto Costruzioni Generali. L’incarico riguardava un accordo transattivo tra la Toto e la società Autostrade. Per gli inquirenti, la consulenza a Bianchi però è solo un modo per nascondere un finanziamento. Infatti sospettano che una parte del denaro sia finito nelle casse della Fondazione Open, che ritengono essere “un’articolazione di partito politico”.

 

Il messaggio di Carrai e l’incontro con l’Ad

Negli atti si parla dell’interessamento di due renziani della prima ora. Uno di questi è Carrai “il quale – è scritto in un’informativa della Finanza – avrebbe avuto contatti diretti con l’amministratore delegato di Aspi (Giovanni Castellucci), avendo con quest’ultimo quantomeno un incontro nel mese di giugno del 2015”. Nei giorni scorsi fonti vicine a Castellucci spiegavano che l’ex ad non ha “mai parlato del contenzioso Autostrade-Toto” con Carrai. Tra gli atti sequestrati c’è un appunto ricevuto da Bianchi il 3 luglio 2015. Per gli investigatori è un messaggio scritto da Carrai: “Lui dice che troppo distante il prezzo. Mi ha detto che tu lo chiami e ci fissi” e poi viene riportato un numero di un’ utenza intestata ad Autostrade.

E poi c’è “l’interessamento” Lotti che è stato membro del cda della Open. Scrive la Finanza: “Si rileva l’interessamento dell’Onorevole, all’epoca Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il quale Bianchi, i primi del mese di gennaio 2016 (presumibilmente il 4 gennaio 2016), avrebbe avuto una riunione e consegnato l’‘appunto Toto 15/7/15’, riferendogli l’esito di una riunione tenutasi il 05 aprile 2016 in merito alle trattative in corso tra Rti e Aspi”.

L’appunto (in foto) non è l’unico finito agli atti dell’inchiesta. Ce n’è un altro con intestazione “Toto/Aspi” in cui tra le altre cose Bianchi annota che “avrebbe dato l’ok sulla bozza (trattasi della bozza dell’atto di citazione, ndr) all’avvocato Cancrini entro venerdì e ne avrebbe parlato con LL”, per gli investigatori Lotti. L’ex ministro no commenta le indagini. Fonti a lui vicine però negano che si sia mai occupato di accordi tra Toto e Autostrade.

Sembra sapere però l’ex ministro della consulenza affidata dal gruppo Toto a Bianchi. Quest’ultimo ne parla in una mail del 12 settembre scorso (“Sulla base dell’accordo con Toto ho avuto 750 k”) in cui fa riferimento anche a versamenti alla Open. “Ho provveduto a versare per intero detta somma in parte (200k) al Comitato nazionale per il Sì, in parte (200.838,00) alla Fondazione Open”.

 

“L’intromissione per modifiche normative”

Nella richiesta di autorizzazione alla perquisizione del 30 ottobre 2019 i pm vanno anche oltre. “È stata rinvenuta – scrivono – documentazione afferente l’intromissione di Bianchi con riguardo a proposte di modifiche normative concernenti il differimento del pagamento dei canoni di concessione autostradale, un contributo di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2021 al 2025 alla società concessionaria Strada dei Parchi (gruppo Toto; art. 16 bis), gli effetti del trasferimento delle funzioni da Anas al Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti sulle situazioni creditorie e debitorie già in capo ad Anas, con particolare riguardo ai corrispettivi derivanti dai rapporti coni concessionari autostradali”.

 

La mail alla Manzione: “Non c’entra nulla”

Così sono scattate le perquisizioni. E tra i documenti sequestrati a Bianchi c’è anche una cartellina intestata “Sblocca Italia, emendam”. Contiene una mail del 25 settembre 2014 inviata dalla segreteria dello studio legale ad Antonella Manzione (estranea alle indagini), nominata nel dipartimento affari legislativi. In allegato vi era la “‘Proposta di emendamento dl sblocca Italia’ e lo schema decreto-legge ‘Misure Urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica…”. Fonti vicine a Bianchi spiegano che questa mail non ha nulla a che vedere con la Open, ma riguarda “un’ipotesi normativa di interesse generale, mandata a una persona con la quale interloquiva”. Bianchi, spiegano “non ha mai seguito l’iter della norma”.