Tra la scatola e il mare aperto

Le sardine non sono contro l’establishment, né italiano né tantomeno europeo. Sono gentili, non urlano, e riempiono le piazze con quella che esse stesse chiamano “energia pura”. Ingenerano un entusiasmo generale e trasversale perché secondo alcuni potrebbero scompigliare le ambizioni della Lega di Salvini nelle prossime elezioni regionali e soprattutto in Emilia Romagna dove il nuovo movimento è nato. Pur essendo gentili hanno un avversario – i populisti – cui si rivolgono nel loro Manifesto del 21 novembre con sorda durezza.

Fingono di ignorare che tutto l’establishment, in Italia e anche ai vertici dell’Unione europea, ha scelto come avversari i populisti, non importa se di destra o sinistra (negli anni ’60 e ‘70 si chiamavano “opposti estremismi”). Se un partito anti-sistema o anche molto critico del sistema vince alle elezioni è subito definito populista e scomunicato.

I maggiori applausi alle sardine, finora, vengono da un establishment centrista che sempre meno sa e vuole gestire la natura aleatoria del suffragio universale. Che dall’inizio della crisi nel 2007-2008 usa l’accusa di populismo per non mettere in questione le politiche che lo hanno scatenato.

Le sardine non conoscono le bassezze della disperazione, della rivolta contro disuguaglianze sociali e povertà. Si sentono di sinistra perché si preoccupano del clima, ma i precursori in questo campo sono Grillo e 5Stelle. Di sé dicono, con un linguaggio che ricorda quello degli scout: “Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”. Dunque non conoscono difficoltà nella vita.

Nelle crisi dell’ultimo decennio si ritagliano una loro zona di conforto. Non hanno niente di particolare da dire sulle questioni che oggi contano: le miserie del lavoro precario o del non lavoro; il disastro dell’Ilva o di Alitalia; la manomissione del territorio attraverso grandi opere inutili che tolgono risorse alla sua manutenzione; le politiche di austerità che l’Unione Europea continua a difendere a denti stretti, nonostante il prezzo pagato da ceti medi e classi popolari (la questione del Fondo salva Stati non è tecnica ma concreta e politica: nella prossima crisi finanziaria si ripeterà l’umiliante catastrofe greca?).

Non criticano neanche il rinnovo dell’accordo con Tripoli, che dai tempi di Gentiloni e Minniti rispedisce nei Lager libici i migranti in fuga. Questo non vuol dire che le sinistre radicali dispongano di ricette migliori: la capacità di mobilitazione di queste ultime è poca cosa rispetto a quella delle sardine. Ma non vuol dire nemmeno che il movimento appena nato, così come viene presentato non da tutti ma da molti suoi esponenti, abbia in mano una ricetta veramente comprensibile.

Nel raccontare se stesse le sardine mescolano condizioni umane e concetti banali, trasformandoli non si sa perché in virtù superiori (la normalità, la famiglia, lo sport, il divertente, il bello, etc. Manca solo l’Anima). Meno banale è il rifiuto della violenza e tutt’altro che banale l’appello all’ascolto. Su quest’ultimo c’è tuttavia da dubitare: pochi paragrafi dopo, nel Manifesto, proclamano che il diritto all’ascolto spetta a tutti ma non ai populisti di Salvini (circa il 30 per cento degli italiani): “Grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare”. Non ho mai sentito un antifascista (immagino che l’allusione a padri e nonni si riferisca all’antifascismo) dire che esistono categorie di avversari o perfino nemici politici privati di tale diritto.

Proclami simili sono non solo insensati ma forse anche nefasti. Lo vedremo alle prossime scadenze elettorali, locali o nazionali che siano. Può darsi che il movimento segnali il salutare risveglio di chi si è allontanato dalla politica e riscopre l’importanza del voto. Può darsi che riempia un vuoto creatosi a sinistra, anche se non è chiaro con cosa verrà riempito. Ma può anche darsi che il loro Manifesto esasperi la rabbia, la frustrazione, l’umiliazione di chi si è rifugiato nella Lega pur di essere per una volta ascoltato. Una buona parte dei voti per il Brexit nel 2016, o per Trump, o per il partito di Kaczynski in Polonia, ha origine in questa rabbia dei non più ascoltati, dei cancellati.

La malattia dell’Italia non è oggi Salvini, come ha scritto giustamente su questo giornale Tomaso Montanari. Salvini e la sua fraseologia xenofoba sono i sintomi di un male che si chiama ingiustizia sociale, disuguaglianza, furore dei declassati: il leader della Lega cavalca questi mali offrendo gli immigrati come capri espiatori e finte battaglie contro il Meccanismo europeo di stabilità, contestato solo dopo che la Lega, per mesi imbambolata e disattenta, è uscita dal governo.

Sono rare e poco udibili le sardine che parlano delle radici dei mali italiani, che si interrogano sulle città già passate a destra in Emilia Romagna. Chi soffre questi mali, fidandosi di Salvini senza ancora vederne l’impostura, non ha comunque diritto all’ascolto. Come riconquistare la loro fiducia, se neanche li ascolti. Questo significa che l’impostura può continuare.

Dicono: “Benvenuti in mare aperto”. Speriamo che sarà aperto sul serio. Che dal vuoto di programmi, idee, parole nascano gli anticorpi che tanti invocano. Fino a ora, il nuovo movimento dà il benvenuto, ma non ancora in mare aperto. Cosa vede nei fondali marini, oltre il disegno ittico della propria pura energia? In genere, le sardine stanno amichevolmente strette quando sono inscatolate. Per il momento è la scatola che li protegge più che le profondità del mare.

Stavolta siamo la maggioranza di noi stessi

Il banco di pesce azzurro affiora in superficie quando sotto c’è il tonno. A massa compatta confonde il predatore e lo denuncia al pescatore.

Dalla barca a motore scrutavo il mare per scorgere il punto dove il mare friggeva di scintille vive.

Ho avuto questo in mente quando ho sentito che un invito a riempire piazze italiane dava a se stesso il nome di sardine. Dalla televisione ho raccolto informazioni per me non sufficienti. Televisione è alla lettera visione da lontano, e io posso averla solo da vicino, sul posto.

Perciò sabato 14 dicembre, domani per me e oggi per chi legge, starò nella piazza da loro convocata.

Dei giovani finora si sapeva che socializzano tra loro a distanza e attraverso gli schermetti illuminati.

La novità è che hanno deciso d’incontrarsi fisicamente negli spazi aperti per una condivisione urgente. È il solo modo con cui una generazione si presenta a se stessa e si riconosce.

Lo so dalla mia gioventù politica che s’incontrò in lungo e in largo negli anni scalmanati dei cortei e delle piazze piene.

Fare corpo, massa coerente e tesa: è la rivelazione di guardarsi in faccia e scoprirsi forza collettiva. Si allarga il respiro, si aprono di più le orbite degli occhi.

La nuova gioventù delle sardine decide di contarsi e di contare.

È mossa dal sentimento di legittima difesa contro la propaganda che offre illecita licenza al razzismo e al fascismo. Sono voci bandite dal patto civile che ha nome di Costituzione.

È patto che va ribadito nella società, confermato nelle piazze, nelle scuole, nei posti di lavoro, sui mezzi di trasporto.

Questo movimento rinnova la difesa della Costituzione. Bella la coincidenza che per la prima volta sia stata eletta una donna alla presidenza della Corte Costituzionale.

La sola appartenenza a una nuova sinistra fraintende e va stretta a questo movimento, la cui prima parola è: inclusione, già da sola capace di tenere testa alle voci che incitano a esclusioni e contrapposizioni. È pratica già realizzata in silenzio dalla grande attività del volontariato in Italia.

A differenza di altri movimenti di spontanea convocazione in piazza, stavolta le sardine sono contemporanee di miriadi di altra gioventù che si agita con determinazione su scala di mondo. Fare parte di una nuova, enorme cittadinanza generale aumenta il peso specifico di ognuno.

È previsto bel tempo sulla piazza di Roma, notizia buona ma non necessaria. Questo movimento si è riunito fitto anche sotto la pioggia in piazza. È impermeabile al meteo e alle influenze esterne.

Si sente rivolgere spesso la domanda: e dopo? La novità è che il loro dopo è ora, che il dopo coincide con il presente e da esso dipende.

A Roma in piazza San Giovanni in Laterano si riuniscono gli Stati Generali di una nuova gioventù politica.

A differenza di quelli così nominati dalla Storia, non è assemblea di delegati ma di tutti i convocati, rappresentanti di se stessi e di chi non potrà esserci. Non vanno contati in piazza solo i presenti, ma pure l’ombra solidale degli assenti giustificati. Ognuno si loro ha smesso di essere e di sentirsi isolato.

È minoranza? Rispondo con la frase di uno scrittore: “Noi non siamo la minoranza di nessuno. Noi siamo la maggioranza di noi stessi”.

Speciale Sardine – Le storie

La maggior parte non ha ancora compiuto trent’anni. C’è chi non ne ha nemmeno venti. Ma accanto a loro si trova anche qualche capello bianco, di chi ormai va per i sessanta. Hanno per lo più nomi italiani, italianissimi: ma poi spuntano Stephen, Samar, Jamal e Joy. Tanti vengono dall’associazionismo di sinistra, dal volontariato cattolico, dal “precariato intellettuale”. Fanno politica a scuola o all’università. A guardar bene, dai loro profili social, si scorge qui un avvocato, là un business analyst, lì ancora un funzionario di banca.

Fare un identikit dei volontari che in un mese hanno dato vita a 74 piazze di Sardine è impresa impossibile. In alcune città i gruppi di Sardine sono tre o quattro, ognuno con centinaia di iscritti. Non è richiesto nessun curriculum, basta prendere l’iniziativa: si crea un gruppo su Facebook, si individua la piazza e si contattano i fondatori di Bologna, tra cui l’ormai noto 32enne Mattia Santori.

È andando a spulciare sul web i profili degli amministratori delle piazze delle sardine che viene fuori l’affresco più sorprendente: un caleidoscopio di storie e generazioni distanti ma unite nella resistenza all’odio come linguaggio politico. I famosi “corpi reali, cervelli pensanti, anime accoglienti”, di cui parla su Facebook il gruppo “6000 sardine”. A Parma, per esempio, a chiamare i cittadini in piazza è stata Joy Olayanju, 18 anni. È di origini nigeriane e studia al liceo scientifico. Insieme ai suoi amici Martino e Francesco, 17enni, hanno fondato il gruppo e organizzato una colletta tra parenti e amici per comprare il cartone con cui fare le sardine. “Ho messo pure 50 euro che ho guadagnato dai miei lavoretti estivi”, ha detto in risposta a chi accusava il movimento di essere manovrato dalla politica. A Milano, invece, c’è Fabio Cavallo. Lui di anni ne ha 57 ed è il fondatore della Rete antifascista italiana, una community online di sinistra: nel giugno scorso ha lanciato su Facebook una raccolta fondi per pagare le spese legali a Carola Rackete, che ha definito “un modello” (ha raccolto 430mila euro). A Cagliari, invece, l’animatore del mare di pesci si chiama Francesco Piseddu, 23 anni, studente di medicina. È volontario della Lila, per la lotta all’Aids, attivista Lgbt e gestisce una pagina Facebook dal nome Cagliari pulita, in cui organizza i Clean-up days, appuntamenti per tenere pulite spiagge e fiumi. In Umbria, dietro il flash-mob di Perugia c’erano Michael Crisantemi, 28 anni, avvocato di Terni, e Luca Montali, 27, chef di San Gemini. Entrambi hanno alle spalle una lunga esperienza nell’attivismo Lgbt.

Chi invece si discosta un po’ dal profilo classico dell’attivista è Vitantonio Santoro, 31 anni, animatore della piazza di Salerno: business analyst in una società di consulenza marketing, bocconiano, emigrato a Milano da anni. Ma questo non gli ha impedito di spendersi a organizzare la Sardinata nella propria città natale, e di sfoggiare in cima al suo account Facebook un motto eloquente: “Chiamateci pisciaiuoli (pescivendoli, ndr) ma mai leghisti”.

A Torino, dietro i 40mila di piazza Castello, c’è Paolo Ranzani, 53 anni, fotografo. A Genova l’educatore Roberto Revelli, 55 anni. A Verona Jacopo Buffolo, anni 24, studia storia e fa il volontario del servizio civile. In Calabria Jasmine Cristallo, uno dei volti più noti: storica militante di sinistra, è stata l’animatrice della rivolta dei “balconi” calabri contro Salvini, nella scorsa primavera. A Trento c’è Lorenzo Lanfranco, 19 anni, studente e musicista; a Modena Samar Zaoui e Jamal Hussein, entrambi 21enni, studenti di ingegneria e italiani di seconda generazione. E poi l’ormai famoso Stephen Ogongo, a capo dello staff di piazza San Giovanni: nonostante l’inciampo su Casapound, il giornalista keniota, 44 anni, si è speso anima e corpo per riempire “la piazza che ci spetta”.

Il salto delle Sardine

Sarà una festa, oggi.
Sarà un segnale.
Sarà Piazza San Giovanni.
Perché sei scesa in piazza? Perché ho trovato finalmente delle persone come me. Corpi reali, cervelli pensanti, anime accoglienti.
A contarle quasi non ci riesci per quante sono. Ma CONTARE è anche il loro desiderio: contare nella collettività, nella fiducia l’una sull’altra. Vogliamo darci da fare anche in un altro modo, dare voce e sostegno ai tanti progetti sociali che da tempo nuotano nella nostra stessa direzione. Ce ne occuperemo con cura, partendo da ora con questo primo progetto. La ricetta è sempre la stessa: crea la tua sardina e scendi in piazza per difendere i valori di democrazia e uguaglianza!
Unisciti a banco!
Unisciti alla più grande rivoluzione ittica d’Italia!
C’è chi critica le sardine per la loro mancanza di “contenuti”. Le sardine ascoltano sorprese. Ricordano piazze vuote. Ora le vedono piene. Piene di persone in carne e ossa.
Sono stati giorni bellissimi. Mai avremmo pensato di scatenare questa ondata di follia creativa, di ricevere 50 foto di sardine al giorno, di essere intervistati da tutti i giornali. (…) Vorremmo che fosse chiaro che non l’abbiamo fatto per noi, ma per tutti, e soprattutto per quella parte di Paese che ogni giorno oltre a lavorare presta il proprio tempo all’associazionismo, al volontariato e alla cura del territorio.
Ogni giorno i vostri spunti ci sono stati d’aiuto per aggiungere dei pezzetti a quello che succederà. Sarà un evento di tutti, creato da una comunità che si è appena conosciuta, ma che potrà fare grandi cose insieme.
Ecco i 10 comandamenti delle 6 mila sardine, la “Mappa dei valori”:
1. I numeri valgono più della propaganda e delle fake news.
2. È possibile cambiare l’inerzia di una retorica populista, utilizzando arte, bellezza, non violenza, creatività e ascolto.

3. La testa viene prima della pancia, o meglio, le emozioni vanno allineate al pensiero critico.
4. Le persone vengono prima degli account social. Perché? Perché sappiamo di essere persone reali, con facoltà di pensiero e azione. La piazza è parte del mondo reale ed è lì che vogliamo tornare.
5. Protagonista è la piazza, non gli organizzatori. Crediamo nella partecipazione.
6. Nessuna bandiera, nessun insulto, nessuna violenza. Siamo inclusivi.
7. Non siamo soli, ma parte di relazioni umane.
8. Siamo vulnerabili e accettiamo la commozione nello spettro delle emozioni possibili, nonché necessarie. Siamo empatici.
9. Le azioni mosse da interessi sono rispettabili, quelle fondate su gratuità e generosità degne di ammirazione. Riconoscere negli occhi degli altri, in una piazza, i propri valori, è un fatto intimo ma rivoluzionario.
10. Se cambio io, non per questo cambia il mondo, ma qualcosa comincia a cambiare. Occorrono speranza e coraggio.
Non è più il tempo di stare a guardare. Di lamentarsi e di criticare. Non è più il tempo di dividersi. Oggi possiamo iniziare a scrivere una nuova storia. Oggi il nostro compito è incrinare poco a poco una triste epoca populista durata troppo a lungo. Serviranno gli anziani, gli insegnanti, i liceali. Le famiglie e i lavoratori. Gli educatori, il mondo del volontariato, chi fa politica. Gli studenti fuori sede e chi vive in provincia.
Nella nostra regione abbiamo fatto miracoli. Facciamone un altro.
A un mese dalla piazza di Bologna, le sardine di tutt’Italia si incontrano a Roma.
La piazza ci aspetta.
E ci spetta!

(Fonte: pagina Facebook “6000 sardine”)

Manette & marchette

Ieri i giornali erano troppo impegnati a magnificare il ridicolo discorso di Renzi in Senato per accorgersi della notizia di Salvini indagato per uso privato di 35 voli di Stato in poco più di un anno. Notizia che, non riguardando Di Maio o un suo cugino, né la Raggi o una sua prozia, non merita titoli in prima pagina. Il meglio lo danno La Stampa, che dedica all’ex vicepremier inquisito per abuso d’ufficio ben 8 righe a pagina 9; e il Messaggero, con un trafiletto invisibile a pagina 11 dal titolo in codice criptato: “Verifiche su 35 voli ‘blu’. Salvini: non era vacanza”. Quando non c’è di mezzo un 5Stelle, per Caltanews le inchieste giudiziarie si chiamano “verifiche” e la notizia è il parere di Salvini su un’indagine ignota ai lettori. Per trovare il titolo sulla prima di Repubblica, ci vuole il microscopio elettronico, ed è strano perché proprio da uno scoop di quel giornale nacque l’indagine. Fortuna che ci sono i giornali di destra, che sparano la notizia in prima pagina, ovviamente per strillare al complotto. Il Riformatorio, innocentista a prescindere anche sul mostro di Milwaukee, dice di averlo detto in anticipo “che i pm erano pronti a sferrare l’attacco finale nei confronti della Lega e del suo leader”. Il Giornale tiene fede alla tradizione: “Voli di Stato, indagano solo Salvini” (seguono i nomi di altri ministri del centrosinistra che Sallusti gradirebbe indagati). Ma nulla può di fronte alla grandezza di Libero: “Indagano Salvini perché lavora troppo”. Quando si attiva la premiata ditta Feltri&Senaldi, non ce n’è per nessuno.

Per il resto, paginate e umidi commenti sull’altro Matteo, che in Senato getta il cuore oltre l’ostacolo e sfida “il populismo giudiziario” (Carlo Nordio, pm fortunatamente in pensione, sul Messaggero). “Ha l’indiscutibile merito di aver messi sul tavolo con precisione quasi chirurgica (sic, ndr) la questione su cui si gioca da quasi mezzo secolo l’onore della politica… Difficile dargli torto quando avverte i senatori che ‘se viene criminalizzato il finanziamento privato, nessuno finanzierà più la politica’” (Sebastiano Messina, Repubblica). Scaglia un sacrosanto “vaffa alla teocrazia giudiziaria” con un “j’accuse da applausi” (rag. Cerasa, il Foglio). “Rivendica la separazione dei poteri, architrave della civiltà giuridica e politica delle democrazie liberali… addita violazioni o forzature di legge della magistratura su cui si tace sempre, anche noi dei giornali, talvolta correi, spesso volenterosi carnefici per eroismo a buon mercato… un discorso come non se ne sentivano da un po’”, cioè dai bei tempi del pregiudicato latitante, “e su queste basi di civiltà si sta con Renzi” (Mattia Feltri, La Stampa).

Ci regala “la tardiva riabilitazione di una politica demonizzata” (Marcello Sorgi, La Stampa). Seguono sapide interviste ai figli d’arte dello spirito guida, Bobo e Stefania Craxi, che dispensano giudizi morali dall’alto di cotante cattedre. E alla Bonino che, avendo patrocinato con Pannella una dozzina di referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti (ma non a Radio Radicale), viene a raccontarci che “la buona politica costa”. Su Twitter, è tutto un leccalecca di penne in visibilio. Francesco Cundari: “Renzi ha completamente ragione”. Christian Rocca: “Il gran discorso di Renzi in difesa della politica”. È un grande ex presidente, un apostolo, un santo! Interessante la tesi di Gaia Tortora: “Togliete Renzi e ascoltate il suo discorso. Assolutamente condivisibile. Ma dirlo o ammetterlo in questo Paese è un problema. Solo che il problema riguarda tutti. Anche quelli che non si chiamano Renzi”. E di Giancarlo Loquenzi: “Vale la pena ascoltarlo, potete pensarne quello che volete, ma ci riguarda tutti”. In effetti, piacerebbe a tutti noi fare una fondazione e incassare 6-7milioni in quattro anni. E ancor di più nominare a Cassa Depositi e Prestiti un amico imprenditore e poi compararci una villa grazie alla su’ mamma che ci presta 700 mila euro sull’unghia. Un affarone. Che però, per quanti sforzi facciamo, stentiamo a comprendere che diavolo c’entri con la “politica”, la “privacy”, la “democrazia liberale” e la “civiltà giuridica”.

Se questi trombettieri leggessero i giornali (almeno i loro), scoprirebbero le e-mail che il presidente di Open, Alberto Bianchi, inviava al premier Renzi e al suo staff legislativo per raccomandare leggine ed emendamenti in favore di imprenditori che, guardacaso, ingaggiavano Bianchi e/o finanziavano la fondazione renziana. Naturalmente è possibile che i pm di Firenze e la Guardia di Finanza, nell’ambito del noto complotto ordito per impedire a Italia Viva di passare dal 3 al 4%, abbiano fabbricato a tavolino quelle e-mail. Ma, nella remota eventualità che queste fossero autentiche, dimostrerebbero un fatto piuttosto pesantuccio: i renziani si vendevano leggi al migliore offerente, à la carte, violando non solo svariati articoli del Codice penale, ma anche la Costituzione, che impone assoluta “imparzialità” ai legislatori e a tutti i pubblici amministratori, nonchè “disciplina e onore” a chiunque rivesta pubbliche funzioni. La migliore risposta alla domanda che Renzi e i suoi discepoli ripetono a reti, edicole e Camere unificate: perché i pm di Firenze indagano su Open e perquisiscono finanziati e finanziatori? Le leggi sono “provvedimenti generali e astratti” nell’interesse di tutti i cittadini, non di questo o quel privato che mette mano al portafogli. Altrimenti i contributi, iscritti a bilancio od occulti, si chiamano tangenti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di Renzi, che nel 2012 twittava “Io sono per abolizione finanziamento pubblico a partito e giornali e per mostrare conti correnti e proprietà dei politici” e nel 2013 accusava il governo Letta di “fare marchette e mance”. Ma forse era solo geloso e non vedeva l’ora di farle lui.

Detective moribondi, cumuli di escrementi e mutilati stuprati: è Stoccolma nel 1793

Il giallo scandinavo adesso si fa storico, grazie a uno scrittore dal nome altisonante: Niklas Natt Och Dag, presentato come “il discendente della più antica famiglia aristocratica svedese da tempo decaduta”. E la Stoccolma di fine Settecento è lo specchio continentale della divisione tra nobili ricchi e poveri affamati, miccia della rivoluzione francese. Infatti, il titolo di questo crime avvincente e ben costruito è 1793, che è anche l’anno in cui vengono mozzate le teste coronate di Parigi. Anche in Svezia c’è il re (e c’è ancora). Nel 1793 Re Gustavo III però è morto da poco, dopo aver provocato la bancarotta del suo Paese con un’esosa guerra alla Russia.

In attesa che cresca il principe ragazzino, il Paese è governato da un nobile reggente avido e corrotto, la cui ossessione sono le maldicenze sul suo conto. Per il barone Reuterholm i procuratori del regno di Svezia dovrebbero indagare solo su queste voci. Ma il giudice Norlin cerca di sottrarsi a questa direttiva e incarica il “collega” Cecil Winge, che sta andando incontro alla morte per tubercolosi, di scoprire il colpevole di un orripilante omicidio: un uomo mutilato degli arti e gettato in un lago usato come latrina dai residenti. Ad aiutare Winge, è la guardia civica che ha scoperto il cadavere, Mickel Cardell, che ha perso il braccio sinistro in guerra. I due si muovono in una Stoccolma assediata dagli escrementi e dove le differenze di classe sono quelle dell’Ancien Régime. Si scoprirà che il mutilato, privo anche di occhi e denti, veniva “usato” come giocattolo erotico in una casa di tolleranza: “Si divertivano a strizzargli il naso con le dita mentre gli facevano succhiare i loro membri turgidi, costringendolo a ingoiare il seme”.

 

1793 – Niklas Natt Och Dag Pagine: 487, Prezzo: 20, Editore: Einaudi

“Il riccio nella nebbia” non si perde: trova se stesso

Ognuno di noi esercita quotidianamente micro rituali per accendere una lucciola di sicurezza nel caos della vita. Per il riccio protagonista de Il riccio nella nebbia (trasposizione su carta del capolavoro d’animazione datato 1975 del russo Jurij Norštejn, con le magnifiche illustrazioni della moglie) il rituale è l’incontro serale con orso, con cui condivide gesti semplici ma sentiti: mangiare marmellata e sorseggiare tè in compagnia delle stelle. Ci sono però imprevisti che possono spezzare la consuetudine, imponendo di affrontare la paura di ciò che non conosciamo, in primis noi stessi. Così quando Riccio, sulla via verso Orso, si perde in una nebbia fittissima che cela e disorienta (il velo di Maya da squarciare), non si abbatte. Pronto a guardarsi dentro (emblematico il suo affacciarsi sul bordo di un pozzo di cui non vede il fondo) riemergerà dalla bruma arricchito e più consapevole, anche grazie a una serie di incontri: il gufo narcisista, il mansueto cavallo di cui si preoccupa perché teme possa “annegare nella nebbia” (ecco la cura verso il prossimo), quel Qualcuno, indefinito, che lo salva traghettandolo fuori dal fiume senza chiedergli nulla in cambio, perché c’è una certa magia nel praticare l’altruismo. Una favola poetica, semplice nel linguaggio ma illuminante nella sostanza, destinata ai bimbi ma preziosa per tutti.

Il riccio nella nebbia – J. Norštejn, S. Kozlov, F. Yarbusovapp, Pagine: 48, Prezzo: 19, Editore: Adelphi

Impegno e speranza nonostante le bombe: nostalgia per l’Italia degli anni Sessanta

In questi anni sono usciti vari graphic novel pensati per introdurre nuove generazioni di lettori alla storia degli anni di piombo e delle stragi di Stato. Spesso si tratta di volumi o troppo impressionistici o troppo didascalici. Ma Gianfranco Manfredi, un tempo cantautore e da anni colonna del fumetto italiano, non è un autore qualsiasi. Con una recente serie di volumi Bonelli intitolata Cani Sciolti si è assunto il compito di ricostruire a fumetti la memoria collettiva della sua generazione, soprattutto ora che inizia a farsi rarefatta per il passare del tempo. Il suo volume Milano 12 Dicembre, disegnato con tratto potente da Roberto Rinaldi, è all’altezza delle aspettative: non è una piccola enciclopedia su Piazza Fontana, ma un esercizio di memoria collettiva. Manfredi ha chiesto ai suoi amici milanesi dov’erano e cosa facevano nei giorni della strage del 1969 e come la bomba ha cambiato quelle loro giornate di manifestazioni, studio e tensione verso un futuro che pareva cupo ed esaltante al tempo stesso. Poi ha condensato quei racconti nelle biografie di alcuni ragazzi – il figlio del vigile fascista, l’intellettuale, l’aspirante musicista gay, la borghese radicale – che, per quanto un po’ stereotipati, raccontano una città e un Paese sospeso tra possibili destini molto diversi tra loro. Forse perché allora Manfredi era giovane come i suo personaggi, ne esce il ritratto di un’Italia più seria e consapevole, meno rassegnata all’irrilevanza, con una storia collettiva che avvolgeva quelle individuali (anche se in un flash forward nel 2000 Manfredi dimostra di essere ben consapevole che non tutti vivevano quegli anni con la stessa partecipazione). Non viene nostalgia per le bombe, ovviamente, ma per la reazione che un pezzo d’Italia ebbe a quella violenza e a quei progetti golpisti un po’ sì.

Milano 12 dicembre – Gianfranco Manfredi e Roberto Rinaldi, Pagine: 144, Prezzo:22, Editore: Sergio Bonelli Editore

Oppi tra donne sole, magiche e lussuriose

Donne eleganti nella notte milanese; contadine col fazzoletto, mogli di pescatori, ragazze nei boschi del Cadore; donne nude su tappeti tigrati, Amazzoni, Diane, figlie di Jefte.Ritratto di donna, a cura di Stefania Portinari, è una di quelle mostre che svelano un mondo: redimendo finalmente la Basilica Palladiana di Vicenza dalle mostre blockbusterdi Goldin, illeggiadrisce uno degli spazi civici più venerandi d’Italia con opere potenti e delicate, scovate in mille collezioni private, inanellate in un allestimento discreto e luminoso.

Al centro, Ubaldo Oppi (1889-1942), un pittore oggi quasi dimenticato ma ben noto negli anni 20: formatosi nella Vienna di Klimt, passò anni decisivi nella Parigi di Braque, Utrillo e Modigliani, dove lo introdusse Gino Severini e dove seppe sfilare a Picasso l’amata Fernande Olivier: Femmina rossa, del 1912, contrasta splendidamente con i ritratti di Fernande eseguiti dallo stesso Picasso e da Kees van Dongen. Oppi però raggiunse la maturità a Milano dopo il ’21, quando, lasciato alle spalle il decorativismo, si legò a Ugo Ojetti, a Margherita Sarfatti e al gruppo “Novecento”, virando verso il primitivismo e rimeditando la lezione del Rinascimento: di qui, negli sguardi e nelle cosce delle sue protagoniste, nelle atmosfere inquiete e rarefatte, nelle luci sospese, gli echi di Pontormo, Bronzino, Signorelli, Piero.

Celebrato con una sala tutta sua alla Biennale del ’24, già l’anno prima Oppi osa quadri con cinque donne nude nel bosco (Conca fiorita, ritirato dalle vetrine di Milano per oltraggio al pudore), e più tardi nudi espliciti e poetici comeSera romagnolao Amazzoni, accusati di ricalcare foto di album francesi a luci rosse (lo difendono, rivendicando la liceità dell’ispirazione, grossi nomi come Lionello Venturi, Soffici, Wildt). Più erotico, meno apodittico e monolitico di Sironi, viene emarginato dal regime, e dal ’35 si ritira nella sua Vicenza: nel ’38 perde anche il concorso per gli affreschi dell’Università di Padova, eseguiti poi da Massimo Campigli.

Si è spesso usata per Oppi la categoria del “realismo magico”; più di tutto, più ancora delle inevitabili vicinanze con Casorati e Cagnaccio di San Pietro, colpiscono le analogie con i coevi sviluppi della Nuova Oggettività in area tedesca (Schad, Schrimpf, Scharrenberger). Nitida e disossata, pronta a usare il colore come massa e a portare in luce anche le parti in ombra per “dare la forma assoluta”, la pittura di Oppi è presentata a Vicenza assieme al tessuto connettivo locale e nazionale (abiti, gioielli, vetri, stampe). È una pagina della nostra storia: molto classicismo, poca retorica e tanto incanto, come nelle Amiche che nel 1924 si abbracciano lascive all’ombra dell’Amazzone ferita di Fidia.

Ritratto di donna – Vicenza, Basilica Palladiana, fino al 13 aprile 2020

La Bella è una Bestia: la fiaba secondo Carter

Anticonformista, ribelle, refrattaria a ogni cliché, la britannica Angela Carter era forse troppo impegnata a vivere per cercare consensi e arrovellarsi sul perché fosse esclusa dal gotha degli scrittori dell’epoca, relegata, sino alla fine, alla dimensione del bizzarro, fiore esotico incatalogabile.

Morta di cancro nel ’92, a 52 anni, oggi autrice di culto nei corsi universitari di letteratura anglosassone, Carter il segno l’ha poi lasciato e sono proprio i racconti, caleidoscopici arabeschi in cui la realtà come si è soliti intenderla non trova spazio, a rappresentarla di più. Lo dimostrano quelli scritti tra il ’62 e il ’79, contenuti ne Nell’antro dell’alchimista, primo di due volumi edito da Fazi, che di lei ha già pubblicato Figlie sagge e Notti al circo. Amata da scrittori, che erano anche amici, come Margaret Atwood, Ali Smith e Salman Rushdie, che firma un’intima prefazione definendola “di una schiettezza acuminata” e la ricorda a poche settimane dal decesso come una che non molla mai, studiò letteratura medievale, studi che riecheggiano in una scrittura peculiare, imbevuta di realismo magico, a sondare le anse più inquietanti dell’animo umano. Si tratta di racconti, variazioni su temi folkloristici e fiabeschi in cui si mescolano eros e morte, grottesco e gotico e la natura più selvatica è cuore primitivo che mesmerizza, specchio (gli specchi ricorrono) dell’inconscio. Al centro campeggiano soprattutto icone femminili dark, virginali o navigate, che sprizzano erotismo e sete di riscatto dalla fallocrazia da ogni poro. Se i racconti, intrisi di solitudine e col leitmotiv della violazione del corpo, che pescano dai due anni vissuti in Giappone nei ’60, restituiscono un mondo maschilista e prevaricatore (da qui la sua radicalizzazione e lo sposare la causa femminista), nella bella e rappresentativa terza e ultima parte, La camera di sangue e altri racconti, regna la riformulazione di celebri fiabe della tradizione. Barbablù, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, La bella e la bestia. Contrariamente alle versioni originali dove boschi e castelli sono abitati da fanciulle indifese, ingenue, sperdute, imprigionate, in attesa di qualcuno che le salvi, qui le protagoniste emanano il profumo vittorioso di chi si libera (o viene liberata, come in La camera di sangue, da una madre che sfida la morte) dal modello patriarcale per essere ciò che si è e si vuole. Fosse pure incarnare le fantasie sessuali tipiche degli uomini. Ci riescono spesso servendosi della seduzione erotica, arma di vendetta, altro suo topos letterario, come ne Il re degli gnomi dove una singolare Cappuccetto Rosso fornica, godendo, col Re degli Gnomi appunto, salvo poi strangolarlo quando lui vuole farne una sorta di usignolo ingabbiato, o della metamorfosi, come ne La sposa della tigre, in cui una trasgressiva Bella si trasforma in gloriosa tigre non per assecondare la Bestia (tigre pure lui) ma per affermarsi nella sua natura bestiale, pulsionale, amorale (accade anche ne La compagnia dei lupi) senza più mascherarsi da essere umano. Sì, perché le sue donne non cercano la parità dei sessi, la travalicano proprio. Così vicina a Poe, Lovecraft e E.T.A Hoffman, Carter regala un senso di vertigine, straniamento e dipendenza morbosa a cui è impossibile sottrarsi.

Nell’antro dell’alchimista – Angela Carter, Pagine: 376, Prezzo: 17,50, Editore Fazi