Sean Penn torna alla regia e si dà a truffe e rapine

Riccardo Milani dirige Pierfrancesco Favino e Miriam Leone in Corro da te, un’insolita commedia sentimentale da lui sceneggiata con Furio Andreotti e Giulia Calenda e interpretata tra gli altri da Vanessa Scalera e Pietro Sermonti: la lavorazione è iniziata a Roma da qualche giorno in attesa di ulteriori scene a Torino. Dopo il grande successo di Come un gatto in tangenziale, il regista romano tornerà a riunire ancora una volta sua moglie Paola Cortellesi e Antonio Albanese in un nuovo film brillante che sarà realizzato da Wildside l’estate prossima.

È in fase di post-produzione Flag day, il settimo film da regista di Sean Penn, che ne è anche l’interprete principale con i figli Dylan e Hopper e con altre star come Josh Brolin e il giovane Miles Teller. Tratto dal libro autobiografico di Jennifer Vogel, Flim-Flam Man: The True Story of My Father’s Counterfeit Life, e sceneggiato da Tony Jez Butterwort, il film è incentrato sulla vera storia di un truffatore-rapinatore e di sua figlia, che deve affrontare il trauma della scoperta del lato oscuro di un genitore amorevole.

Renato Carpentieri, Sara Serraiocco e Alessio Lapice (Il primo re) hanno concluso a fine novembre le riprese di Io sto bene, l’opera prima del regista lussemburghese 53enne Donato Rotunno, ambientata tra il suo Paese, il Belgio e il Salento e realizzata da Vivo Film con altri partner europei. In scena le vicende di un anziano vedovo che dopo la morte della moglie è ossessionato dalle immagini della sua terra natale, l’Italia, e di una giovane donna fuori dal suo Paese che incrocia la sua strada. Un gioco di specchi tra l’uomo e la ragazza permetterà di viaggiare nel tempo e immaginare un futuro più sereno per entrambi.

Si fa presto a dire musulmano negli Usa: conosci “Ramy” e ridi di ogni dubbio

Se avete adorato Atlanta, se non vi siete persi una puntata di Master of None, allora dovete guardare Ramy. La ricetta è simile: prendi una sottocultura americana e la racconti in prima persona (tutte e tre le serie sono molto autobiografiche). In Atlanta sono i rapper neri, Master of None racconta il mondo di un newyorkese di origini indiane mentre al centro di Ramy c’è la comunità musulmana di Jersey City.

Ramy ha fra i 20 e i 30 anni ed è nato negli Stati Uniti da una coppia immigrata dall’Egitto. Come molti coetanei, non sa cosa fare della sua vita ed è alla continua ricerca di risposte. Le cerca nel lavoro, ma la sua startup fallisce e si ritrova a fare il galoppino per lo zio; le cerca nelle ragazze, ma tutte finiscono per deluderlo; le cerca, alla fine, nella religione, ma il suo progetto di affrontare seriamente il Ramadan naufraga quando si ritrova nel letto di una donna sposata. I genitori di Ramy e i suoi amici gli offrono certezze che si scontrano con la realtà. Un giorno pensa di essere troppo musulmano, il successivo troppo poco. E quando decide di farsi combinare un appuntamento con una brava ragazza della sua comunità scopre che si tratta di una specie di ninfomane. Il suo viaggio spirituale termina al Cairo, dove Ramy vorrebbe visitare le moschee mentre il cugino Shadi lo trascina a feste a base di alcool e droga.

La serie ruota attorno a una domanda: cosa significa essere un ragazzo musulmano nell’America di oggi? Si parte da lontano, dall’11 settembre del 2001, per raccontare l’impatto che l’attentato ebbe sulla comunità. E si arriva all’oggi, alla confusione di Ramy, alla frustrazione della sorella Dena che vorrebbe essere trattata come lui, alla solitudine della madre Maysa che si sente limitata dal ruolo di moglie e madre. Scritta e interpretata da Ramy Youssef, che ha ricevuto anche una nomination ai Golden Globe, Ramy è una serie a tratti surreale ma sempre credibile. E molto divertente. È già stata rinnovata per la seconda stagione (dove farà una comparsata il premio Oscar Mahershala Ali). Da ieri è disponibile anche in Italia su Starzplay, un canale di Apple Tv.

 

Quant’è profondo “L’abisso” di Enia

Colpevolmente ci affacciamo all’Abisso solo ora, dopo un anno di tournée quasi conclusa al Teatro India di Roma, lì dove tutto ebbe inizio a fine 2018: uno spettacolo imperdibile.

Tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017), L’abisso è scritto, diretto e interpretato dal palermitano Davide Enia, sul palco con Giulio Barocchieri, che firma e suona dal vivo le musiche. Già Premio Mondello nel 2018 per il libro, l’autore corre ora per gli Ubu 2019 (nella categoria “Nuovo testo italiano”), che saranno assegnati lunedì sera al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano.

Di che parla è presto, e banalmente, detto: dell’“odissea degli sbarchi” dei migranti e della relativa tragedia degli annegamenti nel Mediterraneo. Il racconto è in prima persona, e molto personale, pur filtrato dalle testimonianze della Guardia costiera: “Continuavo a tornare a Lampedusa – spiega Enia – costruendo così un dialogo con i testimoni diretti, i residenti e i soccorritori, i medici e i volontari. Parlavamo quasi sempre in dialetto. In più, ero in grado di comprendere i silenzi”. L’abisso è innanzitutto quello tra le parole e il trauma, indicibile, insondabile perché “in mare la morte ci accompagna”: non come un vizio assurdo, ma come un lacerto di carne portato a fondo dalle correnti, sbranato dai pesci, inghiottito dai flutti. Qui vige una sola legge: salvare la vita. Punto. La matematica fa il resto: tre vite valgono più di due; perciò vanno soccorse per prime.

Accompagnano il narratore-testimone in questa collettiva via crucis diversi personaggi: i rescue swimmer, il padre “muto”, i pescatori che si fanno il segno della croce ogni volta che tirano su le reti, gli amici lampedusani, l’anatomopatologa… La partitura è musicale, ispirata al cunto palermitano e contaminata dai canti della gente di mare, dalle preghiere per i morti, dalle azioni di soccorso, cruente e febbrili come incursioni militari. L’allestimento è sobrio, abissalmente lontano dalla pelosa retorica e dal teatro didattico di facile consenso: è chiaro che in platea sono tutti ligi alla legge del mare. Il “Mediterraneo-camposanto” è il contesto, giammai il pretesto, per affabulare una storia universale, umanissima e mitica insieme, da quell’Europa prima profuga al poeta palombaro Enia, che si è immerso in se stesso perché anche lì c’è un naufragio, anche lì c’è un abisso di indicibile profondità. Ecco allora il rovello dello scrittore che non trova le parole; il dolore del figlio per la “siberia sentimentale” col padre; la malattia che prelude alla morte; la tortura e la sepoltura; la naturale reazione di “chiudersi in casa” di fronte al diverso che sta arrivando, se non annegando; l’istinto di sopravvivenza; l’amore innato per la guerra.

È una guerra, in mare, o dentro se stessi. Eppure arriverà un pianto a pulire le parole, a renderle chiare, lisce e di nuovo servibili, pronunciabili, condivisibili: le parole buone per sopravvivere su una terra sferzata dai venti e dalle onde, una landa desolata del cuore, che, alla fine, come uno scoglio, resiste a tutto.

Roma, Teatro India, fino a domenica; Rubiera (Re), Teatro Herberia, 3 febbraio; Mirano (Ve), Teatro di Mirano, 6 febbraio. L’abisso Da “Appunti per un naufragio” Di e con Davide Enia

Occhio a Pinocchio. Garrone incanta e punta all’Oscar

Ma non l’avevamo già visto? Sì, ma non così. Questo Pinocchio deve tanto a Collodi quanto a Ovidio: sono le metamorfosi la chiave postico-stilistica dell’adattamento di Matteo Garrone, che mette la macchina da presa ad altezza burattino e inquadra come farebbe quel perverso polimorfo che è il bambino.

Dalla fotografia di Nicolaj Bruel al montaggio di Marco Spoletini, dalle scenografie di Dimitri Capuani ai costumi di Massimo Cantini Parrini, ritroveremo tutti nei David e nei Nastri che verranno, ma altri comparti potrebbero addirittura ambire a riconoscimenti Oltreoceano: il lavoro di Mark Coullier, Prosthetic Make-up designer, e Pietro Scola Di Mambro, Concept Artist e Character designer, nonché gli effetti visivi di One of Us e Chromatica e la supervisione VFX di Massimo Cipollina, elevano a potenza immaginifica la trasposizione, lavorando proprio sull’ibridazione bambino-burattino e umano-animale con risultati stupefacenti e, consentiteci, eidetici. Davvero queste forme sono idee, sono un altro mondo possibile di concepire gli effetti visivi, un modo europeo, artigianale e umanista insieme, in cui Garrone dopo Tale of Tales continua a mischiare realismo e fantasy facendo del primo un accadimento straordinario e del secondo un’evenienza quotidiana, ovvero lavorando contro i luoghi comuni con la sinestesia del genio. Ne viene un lessico familiare, giacché Pinocchio lo conosciamo già seppur non bene, e però sorprendente: come vedremo il Corvo, la Civetta, il Grillo e Il Giudice? E la Lumaca? E il Tonno? Con quale umanità, con quale animalità?

È un Pinocchio animalier, in cui una storia nota apre all’ignoto del racconto, e quindi a un Roberto Benigni che dopo essersi tenuto Pinocchio per sé da cinquantenne nel 2002 qui paga la pena del contrappasso e si ritrova invecchiato e spelacchiato, macilento e sofferto, e quindi a un’età adulta, del Mangiafuoco Gigi Proietti, del Gatto (Rocco Papaleo) e della Volpe (Massimo Ceccherini, co-sceneggiatore con Garrone), del direttore del circo (Massimiliano Gallo) e dell’Omino di burro (Nino Scardina), in cui la mostruosità non è tanto apparenza fisica quanto sostanza morale, in cui la minaccia per il burattino/bambino (Federico Ielapi, bravo) è costante e multiforme, in cui la morte – per impiccagione, per annegamento – del piccolo per mano del grande è contemplata e tentata. Dirà Pinocchio a Gatto e Volpe, “non ci casco più, mascherine”, e in questo disvelamento c’è però anche il suo contrario: la rivendicazione dell’innocenza, che non è ubbidienza, remissività e buona condotta, ma scelta, sbaglio e consapevolezza.

Quando nel 1994 Francesco Nuti fece OcchioPinocchio era in vetta, nel 2002 Benigni era reduce dagli Oscar de La vita è bella, al contrario, a Garrone è bastato il piccolo successo di Dogman per imbarcarsi nell’avventura più tosta, se non maledetta, del cinema italiano e non solo: Pinocchio lo ritrova autore, ma lo scopre per famiglie.

Gli uccelli del paradiso: all’asta volano i milioni

Il libro più costoso del mondo si presenterà sul palcoscenico della Sotheby’s di New York il 18 dicembre per una lap dance che farà impazzire i bibliofili, poi però non si concederà a un collezionista colto, devoto e studioso, ma probabilmente a un petroliere texano che ha una riserva finanziaria di molti milioni di dollari.

Si intitola The Birds of America ed è stato pubblicato in quattro volumi a Londra tra il 1827 e il 1838. Il prezzo di partenza è fissato a 6-8 milioni di dollari, precedentemente aveva realizzato più di 10 milioni. Il record venne superato nel 2013 da un modesto libro noto come The Bay Book of Psalms, volume austero e tipograficamente punitivo come i Padri Pellegrini che lo pubblicarono nel 1640 in Massachusset, ha il solo pregio di essere il primo libro stampato in America, per questo raggiunse i 13 milioni di dollari. Si vedrà in questa asta di dicembre se Audubon con le sue 435 spettacolari tavole in-folio di uccelli, incise e colorate a mano, riconquisterà il meritato primo posto.

John James Audubon, nato nel 1785 a Les Cayes, oggi Haiti, era figlio del proprietario di una piantagione di canna da zucchero e della sua domestica. All’età di cinque anni il padre lo spedì in Francia dalla moglie, che aspettava il marito e invece si vide recapitare un figlio prodotto oltre oceano a sua insaputa. Ma John James venne accolto bene ed ebbe modo di studiare con il grande pittore Jacques-Louis David. A diciotto anni, per sfuggire alle coscrizioni che lo avrebbero obbligato a seguire le follie militari di Napoleone, il giovane Audubon si imbarcò per l’America. Le sue passioni per l’ornitologia e per la pittura lo portarono a vagabondare per le foreste americane, Mississippi, Alabama, Florida, Ohio, Kentucky, Pennsylvania.

“Ma gli uccelli erano uccelli allora come adesso, e i miei pensieri erano sempre e ancora rivolti verso di loro come gli oggetti della mia più grande gioia. Ho sparato, disegnato, ho guardato solo alla natura; i miei giorni erano felici oltre il concepimento umano, e oltre a ciò non mi importava davvero”, scrisse in una sua autobiografia. Audubon gli amati uccelli li abbatteva, li imbalsamava e li disegnava. In qualche caso li mangiava, si suppone con la devozione eucaristica di un cristiano che mangia il corpo di Cristo, san Giovanni Crisostomo docet.

Così nacque un’opera entrata nella leggenda editoriale. Per sostenerla Audubon si appoggiava alle sottoscrizioni. Le grandi imprese editoriali usavano spesso questa forma di finanziamento. Anche per le piccole imprese del libro si ricorreva alle sottoscrizioni, è nota una lettera di Gadda sull’argomento: “È finalmente uscito il mio secondo libro: Il Castello di Udine (…) Se tu puoi e vuoi, prenota una copia (£ 12) e fanne prenotare qualcuna a qualche mecenate (ti ho mandato le relative cartoline cent 5), a qualche vecchia signora cieca di 99 anni, promettendole che, se prenoterà il mio libro, salverà l’anima. Esso infatti reca indulgenza plenaria a chi lo prenota e mena buono in modo straordinario. Il destino sarà generoso con chi è generoso col Gaddus: (£ 12)”.

Le vendite per Audubon andarono bene ma soprattutto vanno bene ora, con le cifre che i suoi libri raggiungono. Per la verità Birds of America viene definito il libro più caro del mondo ma il vero top sarebbe la Bibbia di Gutenberg. Sul mercato non compare quasi mai, e lo Stato italiano non ne ha una copia mentre Bill Gates sì, le multinazionali sono più potenti delle nazioni, si sa.

Per rimanere nel mondo degli ornitologi, recentemente sono state proposte per 380.000 dollari alla Sotheby’s di Londra 160 lettere della corrispondenza tra Ian Fleming e la moglie Ann Charteris. Fleming deve molto agli ornitologi. Quando iniziò a scrivere Casino Royale, aveva in un primo tempo battezzato il suo protagonista James Secretan. Giustamente non era soddisfatto, e siccome lo scrittore era appassionato di birdwatching, aveva in casa una copia di Field Guide of Birds of the West Indies, e così si innamorò del nome dell’autore: James Bond. Da oscuro ornitologo il vero Bond si trovò sbalzato in testa ai nomi più citati del mondo. Dopo il successo del primo libro, Fleming in una lettera alla moglie dell’ornitologo scriveva: “Mi ha colpito questo nome breve, poco romantico, anglosassone, comunque mascolino, era proprio quello di cui avevo bisogno e quindi è nato un secondo James Bond. In cambio posso solo offrire a te o a James Bond il diritto illimitato di usare il nome Ian Fleming per qualsiasi scopo vogliate. Forse un giorno tuo marito scoprirà una particolare e orribile specie di uccello che vorrà battezzare in modo offensivo con il nome di Ian Fleming.”

Oggi una prima edizione di Casino Royale, Jonathan Cape 1953, viene offerta da Peter Harrington di Londra per 61.000 Euro. Ma anche il vero James Bond, con il suo Birds of West Indies, Macmillan, New York 1947, sul mercato dell’antiquariato realizza la dignitosa cifra di 1.000 euro. In parte lo deve a Fleming.

Muro di Trump: Il Pentagono apre indagine su un appalto

L’ispettore generale del Pentagono ha annunciato di aver aperto un’indagine sull’assegnazione di un contratto da 400 milioni di dollari, per costruire 50 chilometri di muro al confine col Messico, alla società North Dakota construction, gestita da un donatore dei repubblicani che Donald Trump aveva ripetutamente invitato ad ingaggiare. L’indagine sull’appalto, attribuito dal Genio militare era stata sollecitata dal deputato democratico Bennie Thompson.

Trump in passato aveva invece sollecitato il Genio militare affinché scegliesse la società diretta da Tommy Fisher per la costruzione di una sezione del muro. Il chief executive dell’azienda del Nord Dakota è un finanziatore dei repubblicani, del senatore repubblicano del suo Stato Kevin Cramer, al quale diede anche un finanziamento di 10 mila dollari e venne per questo invitato a partecipare al discorso sullo stato dell’Unione di Trump l’anno scorso.

La società di Fisher non aveva finora mai ottenuto alcun appalto per costruzioni federali ma il presidente premette sui militari affinché superassero i dubbi sugli standard garantiti dall’azienda.

Mercoledì un giudice federale in Texas aveva impedito all’amministrazione Trump di utilizzare 3,6 miliardi di dollari in fondi del Pentagono per la costruzione del muro di confine. David Briones, della Corte distrettuale occidentale del Texas, aveva dichiarato che l’amministrazione non può usare fondi militari per costruire ulteriori barriere al confine meridionale. L’Amministrazione Trump sta avendo sempre maggiori difficoltà nella raccolta fondi per mantenere la promessa di Trump in campagna elettorale sulla costruzione del muro al confine con il Messico, e segna anche l’ennesimo colpo che i tribunali stanno dando a Trump su questioni chiave, tra cui le sue politiche sull’immigrazione e il suo rifiuto di consegnare le sue dichiarazioni fiscali al Congresso.

Israele, terzo voto in 3 anni. Senza Bibi

La Knesset, il Parlamento israeliano, ha votato l’altra notte per il suo scioglimento anticipato. L’ultimo atto prima di nuove elezioni, le terze in meno di un anno, che si terranno il 2 marzo. La data è stata anticipata di una settimana per evitare che il giorno del voto si scontrasse con le festività ebraica di Purim. I due leader di maggioranza relativa – Benjamin Netanyahu e Benny Gantz – non sono stati in grado di raggiungere un accordo per l’unico governo possibile visti i risultati del voto di settembre, un esecutivo di “unità nazionale”. Saltata – per Gantz viste le richieste di Netanyahu, premierato a rotazione, immunità – l’impossibile intesa adesso i due promettono di sconfiggersi a vicenda al prossimo voto. Ma prima di affrontare la sfida delle urne Netanyahu deve convincere il suo partito agli Stati generali del 26 dicembre che ancora lui è l’uomo del destino che porterà il Likud alla vittoria (dopo due sconfitte consecutive). Il suo controllo dei delegati non appare ferreo come prima, avanzano diversi sfidanti. Gideon Sa’ar – ex ministro di Bibi, molto quotato e stimato – scenderà in campo per la leadership del partito.

Sa’ar sta spiegando a giornali e tv israeliani che Netanyahu – anche se vincesse le primarie – non sarebbe poi in grado di formare una maggioranza per il governo. Possibile anche un’altra candidatura di calibro con il presidente della Knesset Yuli Edelstein. Pesano sul capo del premier uscente i 3 processi che si avvieranno per i noti casi di frode, corruzione e abuso di potere. Il Procuratore generale Avichai Maldelblit ha precisato che la legge gli consente di candidarsi fino alla sentenza. Ma in molti anche nel Likud si chiedono che lavoro può svolgere un premier che deve andare in tribunale a difendersi 2 volte a settimana. La fronda interna c’è ed è ben più forte che visibile. Il leader del partito Yisrael Beitenu, Avigdor Liberman, ex alleato e ora sfidante di Netanyahu ha lanciato ieri sera la sua “bomba”. Una nuova proposta, un accordo in cui al premier uscente “sarà garantita l’immunità in cambio di un accordo per ritirarsi dalla politica”. “C’è un senso di stanchezza con Netanyahu nella Knesset”, ha detto l’ex sodale di Bibi, “e la sensazione che sia diventato un peso”. Poi ha aggiunto: “Ogni calciatore, anche il migliore, deve sapere quando appendere le scarpe”.

Secondo un sondaggio della rete tv Channel 13 se si votasse oggi Kahol Lavan – il partito di Gantz – otterrebbe 37 seggi su 120, mentre Likud ne raggiungerebbe 33, probabilmente permettendo a Gantz di formare una stretta coalizione con altri partiti di centrosinistra e Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman.

L’incapacità di Netanyahu di formare coalizioni dopo le elezioni di aprile e settembre è stata in gran parte attribuita a Liberman (e ai suoi 9 decisivi seggi alla Knesset), quando dopo il voto in primavera ha rifiutato di entrare nel governo in disaccordo con i partiti ultraortodossi sul progetto di legge per l’esenzione militare degli studenti religiosi. Da allora ha rafforzato la sua posizione laica e invoca un governo di unità “secolarista”. Dice che acconsentirà a sedersi nel governo con i religiosi solo se accetteranno riforme sul matrimonio civile e l’apertura di negozi e ristoranti, il funzionamento dei trasporti pubblici anche durante lo shabbat. Una provocazione, mai nessun rappresentate ortodosso accetterà “una diabolica eresia”.

Orbán mette il bavaglio anche ai parlamentari

Da domani sarà impossibile sfidare il suo potere. A Budapest una nuova legge prevede multe, sospensioni, allontanamenti dagli incarichi per quei politici che non si allineano alla logica governativa del primo ministro Viktor Orban o che non concordano con le scelte del partito di maggioranza Fidesz. Se decideranno di non tacere da soli, i parlamentari magiari adesso verranno silenziati per regolamento.

Per colpa di un cartello bianco e di due scritte nere. “Stop propaganda, stop corruzione” era una delle due frasi che Akos Hadhazy ha sollevato su due manifesti durante una seduta parlamentare il 25 ottobre scorso, mentre Orban enumerava gli “errori della Commissione europea” in materia di politica economica. Tra gli scranni, finché ha potuto prima di essere allontanato, Hadhazy con una mano si reggeva il fianco, con l’altra teneva in alto la sua verità: “Mente perché ha rubato troppo”, maldestro quanto coraggioso tentativo, durato pochi minuti, di porre una didascalia reale alla messa in scena in corso del premier.

Hadhazy, che faceva parte della stessa squadra di Orban, da sei anni è un martire dell’anticorruzione ungherese con i baffetti neri e i capelli corvini. Veterinario, presidente fino a un anno fa del partito Lehet mas a Politika, (la politica può essere diversa), è uomo bandiera d’opposizione, a volte armato di megafono, a volte di manifesti, a volte solo della sua faccia bersaglio.

È stato pestato un anno fa nella sede della tv di Stato Mtva, quando tentò di leggere alle telecamere la petizione contro la “legge schiavitù”, la riforma del lavoro approvata dal governo. Corruzione: il primo caso da lui denunciato riguardava una compagnia di tabacco che aveva ottenuto concessioni agevolate dagli uomini di Fidezs, l’ultimo un politico recentemente arrestato per tangenti ricevute per la distribuzione di aiuti europei.

Una museruola ai politici, un’altra agli artisti. Il gelo di Bucarest è diventato neve colorata e rumorosa sugli ombrelli dei ragazzi scesi per strada due giorni fa insieme ad attori e registi indipendenti, uniti nella protesta contro la nuova legge sui fondi statali per la cultura, destinati solo ad artisti vicini o inseriti nel sistema Orban. Una mano per nascondere il volto: è stato il gesto simbolo degli esponenti della scena intellettuale ungherese che hanno alzato la voce nella città del sindaco verde, l’oppositore Gergely Karacsony. La legge sul controllo governativo nella sfera culturale, votata tra i volti macabri di un’opposizione che, in lutto per la democrazia, si è presentata in aula con maschere nere, è stata ammorbidita ma lo sgambetto legislativo tra gli scranni è andato a segno sull’emendamento contro gli oppositori politici.

Una procedura è in atto al Consiglio europeo per le violazioni dello stato di diritto nel Paese ma sotto il sorriso sardonico dei magiari al potere. Durante l’audizione a Bruxelles il portavoce di Fidezs Zoltan Kovacs ha chiamato “orchestra di Soros” i ministri dell’Unione riuniti per valutare il ricorso all’articolo 7 del trattato di Lisbona al fine di privare Budapest del diritto di voto in sede europea.

Con una legge dopo l’altra Orban tiene stretta in pugno la nazione. Prima i confini della patria “bianca e cristiana” di cui si è proclamato difensore, poi ogni strada del Paese, che ha tappezzato con le facce deformi dei nemici: il finanziere ebreo, i migranti, Bruxelles e chiunque non concordasse con le sue decisioni. Prima le toghe, poi i giornalisti. Prima le aule della giustizia magiara, poi le scrivanie di ogni media indipendente di Budapest. Infine direttori dei teatri, con i loro palchi e copioni. E da ieri tutti i suoi avversari politici.

La regina “sopravvissuta” a 15 premier

La Regina e la politica. In 67 anni di regno Elisabetta II, sovrana di Regno Unito e Commonwealth, ne ha viste di tutti i colori: dalla cruda realtà post-bellica di un paese vincitore, ma in cui il razionamento è andato avanti fino al 1954, alla crisi di Suez, passando per la perdita dell’Impero, le tensioni economiche e sociali dell’era Thatcher, il conflitto in Irlanda del Nord, i fasti del Nuovo Labour. È sopravvissuta ad un paio di attentati, 15 primi ministri, un referendum indipendentista in Scozia. E si è sempre tenuta rigorosamente al di sopra dall’interferire nelle scelte della politica.

Unica eccezione: dopo la crisi di Suez nel 1956 e le dimissioni del primo ministro in carica Anthony Eden fu costretta dalla mancanza di candidati a indicare lei il successore Harold McMillan. Scelta necessaria ma ampiamente criticata all’epoca. Da allora, Elisabetta si è attenuta al ruolo previsto da leggi e consuetudini: come capo dello Stato, è cruciale che resti neutrale. Di conseguenza non esercita il suo diritto di voto e si limita ad portare a termine una serie di funzioni ampiamente formali o cerimoniali: aprire l’anno parlamentare, nominare formalmente il primo ministro o accettarne le dimissioni, dissolvere e convocare il parlamento, dare il suo consenso alle leggi approvate a Westminster. Non solo una sua interferenza in politica non è prevista, ma sarebbe enormemente controproducente per il paese e la monarchia, che è e deve restare garanzia di stabilità, immobile e sicura, mentre tutto attorno i partiti se le suonano. È questa la principale, ineludibile ragione per cui i Reali, tutti, non si sbilanciano mai in giudizi anche vagamente di parte. Brexit però ha fatto saltare molti equilibri e precipitato il regno in una crisi costituzionale senza precedenti che ha toccato da vicino anche la Regina. Il punto di maggiore tensione è stato a fine agosto scorso, quando Elisabetta ha dato l’assenso reale alla sospensione del parlamento per 5 settimane su richiesta del premier Boris Johnson. Elisabetta si è trovata di fonte a un bivio delicato: la sospensione era molto più lunga del consueto, la situazione politica infuocata con Boris chiaramente intenzionato a mettere a tacere i parlamentari perché non interferissero sulla sua tabella di marcia per realizzare la Brexit. Ma opporsi alla richiesta avrebbe creato una frattura ancora maggiore: significava mettere pubblicamente in dubbio l’onestà del primo ministro. Ha scelto la via della consuetudine. Ne è uscita come una anziana raggirata dall’opportunismo del suo primo ministro quando la Corte Suprema, all’unanimità, ha giudicato quella sospensione illegittima e strumentale.

Da Buckingham Palace nessun commento ufficiale, ma è stata fatta trapelare profonda irritazione: nel codice delle felpate comunicazioni di corte equivale ad una rabbia furibonda.

Ma è chiaro che Brexit preoccupa Elisabetta, perché può portare alla dissoluzione del Regno alla cui stabilità ha dedicato tutta la sua vita: in Irlanda del Nord e Scozia crescono le spinte indipendentiste, e il Galles segue. Da grande Impero a Regno Unito per finire Little Britain?

Elezioni, valanga Johnson: tramonta il sogno di Corbyn

BoJo travolge con la sua stazza il mingherlino Corbyn e corre verso una maggioranza che gli permetterà finalmente di concludere l’iter della Brexit il 31 gennaio. Questo almeno dicono gli exit poll realizzati dopo la chiusura delle urne nel Regno Unito. A inaugurare una giornata surreale per il totale silenzio stampa è proprio Boris, che anche ieri ha continuato la sua operazione simpatia andando a votare, nel seggio vicino Downing Street, con il cane Dilyn. Corbyn vota più tardi nel suo feudo di Islington North, zona popolare, accompagnato dalla moglie Laura Alvarez. Una donna vestita da Elmo, uno dei personaggi del Muppet Show, lo contesta rumorosamente. Lui replica: “Possiamo smettere di discutere?”. No, non si può, in questo Regno Unito che tre anni di tensioni e divisioni politiche hanno diviso, reso litigioso, livido, perché Brexit ha diviso famiglie, interrotto amicizie, disseminato odio ed abusi fisici e verbali.

La mattinata passa fra foto di code ai seggi, code mai viste prima. La gente aspetta anche un’ora: questa elezione, già ribattezzata “la più importante di una generazione”, sa di voto per l’anima. Il tema Brexit è preponderante, rende il voto un referendum sull’identità collettiva: filoeuropea o sovranista? Pro o contro immigrazione?

Ed è questo, una partigianeria mai sperimentata prima nella storia recente del paese, a far capire che l’esito del voto non sanerà comunque le ferite né riconcilierà le due tribù di Remainers e Leavers, che continuano a combattersi fino alla fine.

La giornata è fredda ovunque, battuta dalla pioggia. Il buio cade prima delle 16, ma fino a sera inoltrata arrivano appelli ad andare a votare.

Da Vote Conservative: “Amico, il nostro team ai seggi racconta di una forte partecipazione dei laburisti. Hai già votato? Hanno votato i tuoi amici e la tua famiglia? […] Al momento l’unico ostacolo fra Jeremy Corbyn e Downing Street sei tu. Dipende tutto da te, Boris Johnson”.

Da Vote Labour. Titolo: il rischio. “Buon pomeriggio. Ho fatto campagna tutto il giorno e la risposta è stata incredibile. I seggi chiudono alle 22, fra poche ore. L’unica cosa peggiore di altre 5 ore di governo Tory è altri 5 anni di governo Tory. Ora è la nostra occasione per cambiare. Spargi la voce. Jeremy Corbyn”.

Dai quartier generali nessuna indiscrezione, ma tensione palpabile. Fino alle prime ore di stamattina tutti gli scenari sono ancora possibili. Se Boris trionfa e ottiene una ampia maggioranza, può far approvare il suo accordo con Bruxelles entro Natale, realizzare la Brexit entro il 31 gennaio come promesso.

Una maggioranza risicata stravolge tutti i piani: niente approvazione, forse la resa ad un secondo referendum pur di uscire dal nuovo impasse. Nessuna maggioranza? Hung parliament, parlamento appeso, stallo totale. Ma un enorme svantaggio politico per Boris: l’impossibilità di fare alleanze determinati. Si è bruciato i ponti, mentre Corbyn starebbe già lavorando a possibili accordi esterni con gli indipendentisti scozzesi di Nicola Sturgeon, a cui ha promesso un secondo referendum dopo due anni di governo laburista e i Lib-Dem pro Remain. Un matrimonio di convenienza, probabilmente destinato a durare non oltre la primavera, il tempo per negoziare un nuovo accordo con Bruxelles e sottoporlo a referendum popolare con opzione Remain. Infine, possibile solo in caso di una mobilitazione davvero straordinaria nei 50 seggi cruciali in bilico, una netta vittoria Labour, senza bisogno di alleanze. E una nuova pagina, all’insegna di spesa pubblica e riforme economiche e sociali radicali. Non ci crede nessuno, nemmeno fra gli attivisti più entusiasti ieri scoraggiati dall’aria pesante nelle storiche roccaforti laburiste che al referendum del 2016 hanno votato Leave. Quel Red Wall decisivo e pronto a punire un Corbyn su Brexit troppo ambiguo.