La manovra monocamerale con la marchetta molto liberista

La manovra, arrivata un mese e mezzo fa, ieri è finalmente sbarcata nell’aula del Senato: sarà approvata col voto di fiducia lunedì 16 dicembre. Un ritardo imbarazzante, che ha come conseguenza quella di blindare il testo nel passaggio alla Camera: in sostanza, i deputati non potranno fare modifiche visto che il 1° gennaio scatterebbero l’esercizio provvisorio e, con esso, gli aumenti dell’Iva. Una situazione che non ha sostanzialmente precedenti, se non tre e sempre in presenza di una crisi politica: Berlusconi nel 2010 (la scissione di Fini) e nel 2011 (quando fu sostituito con Monti) e poi Renzi nel 2016 quando perse il referendum e si dimise. Come si vede, casi non proprio benauguranti per l’esecutivo. Va riconosciuto però che lo stress, la fretta e la tensione non hanno impedito ai senatori – in una lunghissima seduta notturna in commissione – di rispettare almeno una vera e propria tradizione della nostra democrazia parlamentare: la micro-marchetta (in teoria vietata per legge nel ddl Bilancio, ma vabbè). E così Barletta avrà 5 milioni per il porto, 1,5 andranno invece alle “campagne di sensibilizzazione sugli animali di affezione”, 1,3 milioni a una Badia vicino Vallo della Lucania, qualche spicciolo a una Onlus qui, altri a una Onlus là, una dozzina di milioni alle scuole private, eccetera. La nostra marchetta preferita, però, sono i 250mila euro l’anno assegnati alla Fondazione Luigi Einaudi, che potrà così curare il suo prezioso archivio sul pensiero liberale, grazie al quale i cittadini sapranno quant’è brutta la spesa pubblica.

Per la Consulta ora il Colle pensi alla Carlassare

Non era mai accaduto, era decisamente ora che accadesse. La professoressa Marta Cartabia, nominata giudice costituzionale dal Presidente Napolitano nel 2011, è stata eletta all’unanimità Presidente della Consulta, una delle più alte e prestigiose istituzioni della Repubblica. Nel discorso d’insediamento ha detto di non poter pronunciare le parole della premier finlandese Sanna Marin, a proposito del fatto che in quel Paese età e sesso non contano più: “In Italia ancora un po’ contano. Spero presto di poter dire che non contano più”. La professoressa ha ragione, anzi tremendamente ragione, se pensiamo che ancora oggi la prima presidente della Camera, Nilde Iotti – partigiana e costituente, membro della Commissione dei 75 – viene ricordata come “grande in cucina e grande a letto” (Libero). La nomina di Cartabia è stata giustamente salutata come una importante conquista. Solo nel 1965 le prime donne sono diventate magistrati: cinque anni prima fu un’ allieva di Costantino Mortati, Rosanna Oliva, a far cambiare le cose, chiedendo proprio a Mortati di presentare ricorso alla Corte contro una vecchia legge che impediva alle donne di ricoprire incarichi apicali nella pubblica amministrazione.

Tra coloro che hanno accolto con più esultanza la nomina di Marta Cartabia, e non solo perché prima donna, c’è l’ex giudice costituzionale Sabino Cassese (e noi quando lui giubila siamo sempre un po’ preoccupati). Ieri ha scritto sul Corriere: “E’ una buona notizia perché alla Presidenza della Corte costituzionale arriva una persona in grado, per i suoi studi e le sue esperienze, di comprendere per quali nuove strade si sta incamminando il mondo. Questo è importante anche per intendere e contenere le posizioni regressive dei neonazionalisti che vorrebbero nuovamente rinchiudersi nei confini nazionali, ergendo barriere e muri”. Un antidoto ai sovranismi, insomma. Non è oggi il giorno giusto per occuparsi del fatto che la Costituzione autorizza limitazioni di sovranità “con l’obiettivo della pace e della giustizia tra le Nazioni, non per mettersi al servizio della finanza internazionali”, come ha ricordato spesso il professor Gustavo Zagrebelsky, che della Consulta è presidente emerito. C’è poi quel famoso articolo che dice che la sovranità appartiene al popolo (curioso, a pensarci, che due termini centrali del primo articolo della Carta, popolo e sovranità, che sono anche due elementi costitutivi dello Stato, siano diventati una degenerazione dispregiativa nella loro forma più comune, populismo e sovranismo). Ed è qui che abbiamo avuto un’illuminazione, ricordando le parole di un’altra, autorevolissima, costituzionalista: “Il verbo ‘appartiene’ è stato scelto in contrapposizione a ‘emana’ che può assumere ben diversa valenza: dire che la sovranità emana dal popolo può anche implicare che essa parta dal popolo (che ne è all’origine) e se ne allontani per trasferirsi agli eletti”. Lo ha scritto Lorenza Carlassare, una delle più importanti voci del nostro costituzionalismo, e in subordine prima donna a ricoprire una cattedra di Diritto costituzionale in Italia, con dieci anni di ritardo rispetto a quanto avrebbe dovuto. Giuseppe Ferrari, che fu anche giudice costituzionale, le disse: “È la rottura di una barriera, lei capisce che è una cosa gravissima. Si renda conto che è molto difficile”. Poi non è mai diventata giudice costituzionale, perché giudicata “troppo indipendente”, un paradosso e insieme un complimento alla libertà di una grande giurista che del potere non ha mai avuto soggezione. Tra nove mesi il Presidente Mattarella dovrà nominare un altro giudice costituzionale: sarebbe giusto e onorevole che quel nome fosse quello di Lorenza Carlassare.

La nuova guerra si fa col “diritto” dei più forti

Negli Stati Uniti lo chiamano lawfare, (adattamento di warfare) termine che significa “guerra di aggressione a mezzo del diritto”. La pongono in essere i forti contro i deboli: la Monsanto contro i contadini che si scambiano le sementi, iniziando un’azione legale spietata per la proprietà intellettuale. Sono le vittime a essere colpite dai carnefici per essersi ribellate: gli attivisti che agiscono in giudizio contro gli abusi di multinazionali petrolifere, accusati di diffamazione o di lite temeraria, come nel caso dello sversamento pertrolifero nell’Amazonia equadoregna. Colpirne uno per educarne cento.

In Italia i casi più celebri sono posti in essere dallo Stato che “prende partito” nei confronti del dissenso e del conflitto sociale. Da anni il cosiddetto “partito Sì Tav” annovera pezzi della procura della Repubblica di Torino fra i suoi principali organi politici e il lawfare è pratica costante in Valsusa. Il lawfare dà i suoi migliori frutti se coltivato al buio. Meglio evitare l’opinione pubblica perché la minaccia arrivi forte e chiara. La condanna ingiusta di esponenti del movimento entra in una cacofonia spettacolare con cui si costruisce il nemico e si dimentica presto chi è costretto ingiustamente a pagare, in denaro o libertà personale, la propria convinzione politica.

Due episodi recenti sono riusciti a emergere illuminando per qualche giorno l’ignobile pratica di colpire col lawfare il movimento No Tav. Pierpaolo Pittavino, un tecnico dell’Università di Torino, apprezzato nel suo dipartimento da chiunque lo avesse conosciuto, viene licenziato dall’Università perché No Tav. Il diritto viene piegato dai vertici dell’Ateneo, invocando prima una aberrante interpretazione della Legge Severino (quella contro i corrotti nella Pubblica amministrazione!) e poi, sommersi dal ridicolo, invocando una generica incompatibilità fra certe azioni di protesta e il lavoro in università! La Corte continua a rinviare la decisione sulla reintegrazione imponendo ogni tipo di ostacolo formale alla causa. Intanto Pierpaolo è senza lavoro.

Nelle stesse aule, il caso di Eddi, Jacopo e Pachino, rientrati in Italia dopo essere andati volontari in Siria ad aiutare le milizie curde dell Ypg a sconfiggere l’Isis. La nobile attività è stata premiata dalla procura torinese (più in generale dal partito Sì Tav) richiedendo al tribunale l’applicazione di misure di sorveglianza di polizia, fondate sulla pura presunta pericolosità sociale di questi compagni. Combattendo contro lo Stato islamico essi avrebbero imparato tecniche militari potenzialmente applicabili in Italia per cause sovversive! Si invoca l’applicazione del peggiore diritto penale del sospetto: triste reliquia del periodo fascista (e infatti essi rischiano esilio e confino!), riesumata purtroppo nel 2011; per la continua devozione alla repressione preventiva siamo già stati condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Anche qui si fa passare il tempo, si chiudono le finestre aperte per far luce su una vicenda clamorosa e si ipotizza di poter colpire senza che nessuno se ne accorga, magari approfittando della distrazione natalizia. Il 16 dicembre ci sarà l’ultima udienza e poi la decisione.

La malapianta del lawfare cresce al buio e insieme al dissenso soffoca la democrazia. È nostro dovere impedire che le tapparelle si richiudano. Il 16 dicembre è indetta una manifestazione davanti al tribunale di Torino. Chi vuole condannare il sacrificio, la solidarietà e l’impegno se ne assuma la responsabilità e non nasconda al buio il tradimento dello Stato di diritto. Eddi, Jacopo e Pachino per sete di giustizia in Siria hanno affrontato il warfare. In Italia incontreranno il lawfare?

Due Matteo, una sola Bestia

Ora che i media mainstream hanno scoperto che anche Matteo Renzi possiede una sua Bestia social, una squadra di geni della comunicazione investiti del compito di corroborare il culto della personalità del capo con una quota di forza lavoro intellettuale (non si sa se e quanto retribuita), ci sentiamo autorizzati a confrontare le strategie linguistiche di Renzi e dell’altro primigenio possessore di Bestia, Matteo Salvini (che a sua volta l’ha copiata da Trump), per scoprirvi non pochi punti di contatto.

Entrambi hanno stili linguistici che contrastano con i pattern della dirigenza e dell’elettorato classico della loro parte politica. Bossi veicolava ai suoi elettori l’idea politica della secessione con il lessico popolare e spesso sboccato del trivio; ma Salvini ha fatto del linguaggio triviale un argomento politico, di più: ha abbassato il politico al livello del bar.

Renzi ha rottamato, più che una classe politica obsoleta, il linguaggio dei suoi predecessori e (quindi) di un elettorato storico che in esso e nel suo giornale (infatti chiuso) si riconosceva. Quando ha lasciato il Pd ha fatto due affermazioni solo apparentemente contraddittorie: “Mi facevano sentire un intruso e un alieno” e “Noi siamo un’altra cosa dal Pd”.

Entrambi nativi televisivi, sia Renzi che Salvini hanno un atteggiamento vittimistico nei confronti della stampa, indicata come strumento di un potere impaludato e vetusto. Entrambi fanno uso di espressioni come: “Noi, ignorati da tutti i media tradizionali”. Così due politici che hanno occupato per anni la televisione pubblica con persone fidate e dispongono di una quota di stampa amica e di un apparato social da vertigine lamentano una copertura mediatica penalizzante.

Entrambi hanno tradotto una manifestazione espressiva umana di simpatia e contentezza, il sorriso, in una specie di firma-sberleffo contundente e aggressiva. “Ci riconoscerete dal sorriso”, ha detto Renzi al lancio del suo partito personale; “rispondiamo col sorriso”, reagiva al lancio di uova dei contestatori; “aspetto con un sorriso la fine delle indagini, i processi, le sentenze, gli appelli”, ha scritto su Facebook in merito ai finanziamenti a Open e all’arresto dei suoi genitori.

Salvini ne ha fatto un logo: “A odio e disprezzo rispondiamo col sorriso e col perdono!”, e bacioni e sorrisi scaglia come dardi contro chiunque ne contesti lo stile da angiporto. I due hanno reso pubblico un nuovo sorriso, non amichevole né beffardo: il sorriso-ghigno del potente (o dell’ex potente, nel caso di Renzi) che dispone di strumenti di vendetta tali da dipingergli in volto lo sfregio lunatico dell’euforia. Visto tragicamente (non come lo vedono gli adepti), lungi dall’essere l’espressione imperturbabile e serena del Buddha, è il sorriso del Joker, un misto di trucco e ferita.

Entrambi quarantenni dalla cultura Wikipedica, parlano Basic italian, una neo-lingua di base che mischia slogan intramuscolari (“Prima gli italiani”, “Viva l’Italia viva”), gergo dei social (“Amici”, “Matteorisponde”), spigolature di vita personale preferite ad argomentazioni di carattere politico. È una lingua standard che può essere compresa e parlata da un adolescente, dalla sintassi elementare di un migliaio di vocaboli (l’ideale sarebbero 850, come prescriveva negli anni ’30 il linguista Charles Kay Ogden, inventore del Basic English), che per sua natura costringe alla ripetizione. “Risorse boldriniane”, “Zingaraccia”, “Più ci attaccano, più andiamo avanti col sorriso”, “Vergogna!”, “Ora basta”, “Sciacquatevi la bocca quando parlate di noi”, “Cialtroni!”, “Fatti vedere da uno bravo”, “Colpo su colpo”: vi sfidiamo a indovinare a chi dei due appartengano.

Il fatto che questa lingua sia maneggiata dai potenti ne fa un dispositivo pedagogico: l’intento è di creare una comunità di sodali autorizzati con ogni mezzo alla lotta contro un mondo ostile, capzioso, una giungla dove i denti servono per dilaniare il leader (lo fanno i magistrati, i giornali, l’Europa) e non per sorridere al popolo.

Sia Salvini che Renzi hanno costruito un idioletto bellico fatto proprio dai seguaci, che – come vuole la legge della servitù volontaria – lo riversano sugli interlocutori caricandolo di sfumature più o meno violente. Renzi ha rivendicato apertamente come strumento di lotta politica l’azione quotidiana di troll (disturbatori, odiatori) su Twitter. E nel discorso di ieri al Senato ha ibridato popolari tormentoni berlusconiani, “il giustizialismo peloso” e “l’eliminazione per via giudiziaria”, col sarcasmo da tweetstar, così “lo stato etico” che mina alla sua privacy diventa “stato etilico”.

Chissà che Verdini, più che a un accordo elettorale, non indirizzi i due Matteo verso una joint venture di apparati digitali e linguistici: un giovanotto di levatura corrente è un giovanotto di levatura corrente; ma due di loro con una Bestia dietro sono una forza storica.

Mail Box

 

Fare il proprio dovere in Italia è da estremisti

Caro direttore, quando parlo di lei con gli amici di destra, mi dicono che è un estremista di sinistra. Al contrario, quando parlo di lei con gli amici di sinistra, mi dicono che è un estremista di destra.

Concludo che in Italia chi fa il proprio dovere è un estremista. Con stima,

Adelchi De Paolis

 

Caro Adelchi, grazie di cuore: il suo è il più bel complimento.

M.Trav.

 

Chi pontifica sulla giustizia tiri fuori una soluzione

Gentile direttore, sono stanco di giornali, avvocati, politici e magistrati che sull’inefficienza del sistema giudiziario italiano predicano bene e razzolano male. Si potrebbe almeno ottenere che ognuna delle parti in causa (Ordini degli avvocati, Associazione nazionale magistrati, partiti e giornali) dica con chiarezza e sinteticamente quali sono le sue proposte per rendere più veloci i processi, garantendo, nel contempo, la giusta punizione di chi commette reati?

Domenico Forziati

 

Una piccola poesia dedicata a Greta

Hai capito,

hai gridato,

hai sfidato,

hai unito,

hai attraversato.

Eppure

sei piccola così.

Roberto Calò

 

Scandalosa è la Meloni a indignarsi per “Bella ciao”

Caro direttore, Michele Serra ha scritto che il fatto che Giorgia Meloni trovi scandaloso che un gruppo di commissari europei, di orientamento socialista e democratico, cantino Bella Ciao è del tutto comprensibile, perché la destra italiana non è mai stata antifascista e il partito della Meloni è diretta emanazione del neofascismo. Io aggiungerei, però, che ciò che ha detto la Meloni è comprensibile ma non giustificabile. Secondo la Treccani uno scandalo è un “turbamento della coscienza e della serenità altrui, provocato da azione, contegno, fatto o parola che offra esempio di colpa, di male o di malizia”.

Dove sta la colpa, il male o la malizia dei commissari europei? Nell’aver cantato una canzone che è ormai diventata simbolo universale della lotta al fascismo e che canta di invasori e partigiani? Secondo me è molto più scandalosa la reazione della Meloni del fatto che alcuni commissari europei abbiano cantato Bella Ciao.

Franco Pelella

 

Hegel, lo strano illuminista che superò l’Illuminismo

Gentile direttore, Massimo Fini e Angelo Cannatà danno interpretazioni opposte alla filosofia di Hegel: il primo sostiene che Hegel sia illuminista, il secondo lo nega. Entrambi hanno ragione e torto allo stesso tempo. Infatti, Hegel riconosce all’illuminismo il merito di aver dato importanza alle operazioni logiche dell’intelletto, volte a individuare i concetti opposti, i quali tuttavia resterebbero isolati e astratti senza l’intervento della ragione dialettica, che saprà unificarli nella sintesi.

In ciò sta il limite dell’intelletto e quindi dell’Illuminismo, che si avvale di operazioni statiche e astratte circoscritte al finito, quindi non in grado di cogliere la complessità del reale. Da qui nasce l’accusa di intellettualismo rivolta all’Illuminismo. Dunque Hegel è illuminista, perché utilizza gli strumenti concettuali elaborati da tale filosofia, ma nello stesso tempo non lo è, perché supera l’Illuminismo introducendo un nuovo concetto di ragione: la ragione dialettica, che opera la sintesi dopo che l’intelletto, tramite le sue analisi, ha individuato i concetti opposti.

Maurizio Burattini

 

Sgarbi si occupi delle sue querele e non offenda Conte

Caro Marco, durante la trasmissione televisiva Dritto e Rovescio, dove padroneggia il secondo, Vittorio Sgarbi ha denigrato il presidente del Consiglio definendolo “cripto-checca”. Forse una persona con 670 querele sulle spalle dovrebbe dedicare più tempo alla riflessione che non alla parola, ma non credo che le richieste di risarcimento danni siano un valido deterrente, perché il pensiero di pagare non lo ha mai sfiorato. Se si guardasse allo specchio vedrebbe una crosta, mentre Giuseppe Conte è l’opera d’arte che lui non diventerà mai.

Cordialmente,

Giuseppe Ostellari

I NOSTRI ERRORI

Ieri, in due distinte interviste – a pagina 8 e a pagina 9 – abbiamo scritto per errore che il governo Renzi nominò l’imprenditore Maestrelli nel cda di Cassa depositi e prestiti dopo che Renzi ricevette da lui un prestito personale e finanziamenti alla fondazione Open. In realtà la nomina risale al 2015, mentre il prestito e i finanziamenti si collocano tra il 2017 e il 2018. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

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Ieri nel titolo a pagina 22, a corredo del pezzo di Anna Maria Pasetti, abbiamo scritto per errore che I due Papi è una serie tv, quando invece è un film. Ce ne scusiamo con gli interessati e i lettori.

Fq

Quel bonus adesso rischia di aiutare solo le multinazionali

Ho letto che nella prossima manovra è stato inserito un bonus che potrà arrivare fino a 400 euro per l’acquisto di latte artificiale. Certamente si tratta di un sostegno economico condivisibile, che può aiutare le famiglie in tempi di crisi, ma mi viene un dubbio: visto che si sente parlare dappertutto dell’importanza dell’allattamento al seno, questo bonus non rischia di diventare un disincentivo per le madri che vogliono allattare?

Annarita Magistri

 

Gentile Annarita, temo che il suo dubbio sia fondato. Cosa c’entra un bonus per l’acquisto di latte artificiale con le linee guida dell’Oms e dell’Istituto Superiore di Sanità che raccomandano di allattare al seno almeno fino ai sei mesi di vita? Il promotore dell’iniziativa – il senatore 5 Stelle Raffaele Mautone, pediatra – sostiene che il bonus servirà ad aiutare “le mamme che sono affette da condizioni patologiche che impediscono di allattare”. Ma una legge che fornisca gratuitamente sostituti del latte materno alle madri che non possono allattare (per esempio quelle positive all’Hiv) esiste già. E quello che manca nel nostro Paese è esattamente il contrario: un aiuto per le madri che allattare lo vogliono eccome. Ricorda l’avvocata Claudia Polito, presidente italiana dell’International Baby Food Action Network, che ha appena scritto una lettera al governo per dire “no al bonus latte artificiale”: “Se in questi anni si sono fatti passi in avanti per la promozione e il sostegno all’allattamento, quella che è mancata è la protezione: da un lato i corsi pre-parto insegnano quanto sia importante allattare, dall’altra subito dopo il parto ci si ritrova sole a dover affrontare un percorso faticoso, spesso impossibile da conciliare con un lavoro precario o autonomo”.

In sostanza, l’allattamento rischia di diventare un lusso riservato a chi se lo può permettere: non è un caso che le statistiche rilevino che sono le donne di fascia medio-alta quelle che allattano di più. Non solo perchè hanno più garanzie lavorative e maggiori capacità economiche per conciliare gli impegni della maternità. Ma anche perché, in un momento ad altissima fragilità emotiva, hanno strumenti culturali più solidi per respingere le sirene del mercato, visto che appena ti nasce un figlio, spesso già l’ospedale ti omaggia del kit-biberon della multinazionale di turno, anche se sarebbe vietato dalla legge. A pensar male, questo bonus, sarà un pensiero assai gradito, soprattutto per i colossi del latte in polvere.

Paola Zanca

Infiltrazioni mafiose, sciolto il comune di Mezzojuso

Gli ispettori hanno rilevato “accertati condizionamenti da parte delle organizzazioni criminali” e il governo ha sciolto per 18 mesi il comune di Mezzojuso (Palermo) noto al pubblico televisivo per la vicenda delle sorelle Napoli che hanno denunciato intimidazioni della mafia dei pascoli lamentando la mancata solidarietà dei cittadini. Adesso l’amministrazione del comune sarà affidata ad una commissione di gestione straordinaria. E se le sorelle Napoli si dicono “soddisfatte della decisione del Consiglio dei ministri che costituisce un ulteriore riscontro su quanto noi abbiamo già denunciato e subito e che continuiamo ancora a subire” ed il loro legale Giorgio Bisagna auspica “che a questo punto vengano adottare misure incisive per la protezione delle mie clienti’’, nel commentare il provvedimento il sindaco Salvatore Giardina sceglie un profilo istituzionale: “Se avessi avuto un qualsiasi motivo per ritenere di non aver svolto il mio compito in maniera assolutamente rispettosa delle leggi e delle istituzioni, non avrei esitato un attimo a dimettermi. È doveroso, in questo momento, avere il dovuto riguardo e rispetto della deliberazione assunta dal Governo”.

Era stato lo stesso Giardina a nominare un anno fa il generale dei carabinieri in pensione Nicolò Gebbia assessore alla Cultura poche settimane dopo che l’ufficiale aveva depos to in un processo a Roma sos tenendo che “il capomafia di Mezzojuso, Napoli, siccome aveva solo tre figlie femmine ed era anziano, faceva in modo che Provenzano fosse ospitato nel territorio di sua competenza perché si appoggiava all’autorità del boss visto che la sua veniva erosa dall’età anagrafica e dal fatto di non avere figli maschi”. Gebbia si è poi dimesso sei mesi dopo in conseguenza di una polemica con il prefe tto di Palermo dopo che il ministro dell’In terno Matteo Salvini aveva proposto l’accesso agli atti del comune.

Calabria, un pianeta chiamato “restanza”

“I calabresi vogliono essere parlati”, diceva Corrado Alvaro. E noi con i calabresi abbiamo parlato. E da loro ci siamo fatti raccontare una realtà che è il concentrato di tante cose. Bellezza che sa essere commovente, e brutture inenarrabili. Ospitalità e affabilità delle donne e degli uomini che vivono tra la Sila e lo Stretto, e la violenza di altri uomini che si chiamano don e bruciano santini nei loro bunker. Il coraggio di chi lotta per restare e la disperazione dei tanti (troppi) che vanno via. La forza di volontà di chi fa impresa e crea, e la rassegnazione di chi si adegua. Questo abbiamo fatto nel documentario sulla Calabria, il quinto della serie “Italia doc”, realizzata dai giornalisti de Il Fatto Quotidiano con Loft Produzioni, il ramo di produzione televisiva della Società Editoriale Il Fatto. Il documentario sarà disponibile in esclusiva su www.illoft.it a partire da oggi.

Abbiamo parlato di “restanza”, la voglia di non fuggire e di lottare contro un nemico infido: l’abbandono. Quella lenta emorragia che sta distruggendo i paesi dell’interno della Calabria. È il piccolo, grande miracolo di Badolato, paese della Jonica catanzarese, diviso tra il Borgo e la Marina. Guerino ci ha raccontato lo sforzo di imprenditori, artisti, vecchi e giovani del paese per costruire la rinascita. “Noi questo abbiamo – è lo slogan – il mare limpido, la bellezza della montagna e il senso di ospitalità della nostra gente”.

E allora Badolato d’estate diventa il buen retiro di artisti provenienti da mezzo mondo, amanti della pace, innamorati dei luoghi. Ma c’è anche chi ha scelto di vivere qui per sempre. Come Caterina, americana, cittadina di Badolato da dodici anni. Andrea ed Elisa, lei veneziana doc, lui calabrese, due giovani laureati, stanno costruendo la loro vita in campagna, producendo olio ed altri prodotti biologici. Poco più giù Riace. Il suo “modello” di solidarietà e accoglienza non sono riusciti a distruggerlo. Ce lo racconta Mimmo Lucano, reduce da viaggi negli Usa e in Germania, dove lo invitano per raccontare la sua esperienza e il suo modello di “utopia della normalità”. Nino De Masi, imprenditore più volte minacciato dalla ’ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, non vuole passare come “la vittima”. Perché è un imprenditore che, al pari dei suoi blasonati colleghi del Nord, sperimenta nuovi prodotti, cerca mercati inesplorati, crea posti di lavoro in un deserto occupazionale. Reggio ce la racconta Katia Colica, scrittrice e animatrice culturale della città in riva allo Stretto.

Ci parla del bene e del male, della devastazione urbanistica e dei tentativi di ricostruzione di una immagine della città. Celeste Logiacco è una donna che è a capo della Cgil nella Piana di Gioia Tauro. Si divide tra i problemi del Porto, eterna speranza di lavoro e sviluppo, e il dramma del caporalato che sfrutta i raccoglitori di clementine. Giacomo Panizza, prete ed ex operaio del Nord, da anni vive il Vangelo a Lamezia Terme con le persone svantaggiate. Ha passato anni protetto da una scorta perché minacciato di morte dalla ‘ndrangheta. Ha un sorriso che infonde fiducia e speranza, voglia di restare e di lottare. Cose che i boss e i loro protettori politici odiano. I calabresi, soprattutto i migliori, vogliono essere “parlati”. Noi gli abbiamo offerto di raccontarsi.

Indagini sul pm Luberto per corruzione e mafia

Il procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto è indagato per corruzione aggravata dal metodo mafioso. L’accusa formulata dalla Procura di Salerno è contenuta in un decreto di perquisizione eseguito nei giorni scorsi da agenti di polizia giudiziaria provenienti dal capoluogo di provincia campano. Gli inquirenti erano alla ricerca di tracce e riscontri relativi al capo di imputazione riportato sul decreto di perquisizione secondo cui il procuratore avrebbe ricevuto in dono dei viaggi da un ex parlamentare del Partito democratico, Ferdinando Aiello, con il quale è in rapporti di amicizia. Anche Aiello è stato perquisito. L’aggravante mafiosa sarebbe scattata perché, dagli elementi in mano ai pm, sarebbero emersi contatti del politico cosentino con ambienti legati alla criminalità organizzata.

L’inchiesta è partita dopo che nell’ambito di un’altra indagine condotta dalla Dda di Catanzaro è emerso il nome di Luberto. Dunque, come impone l’articolo 11 del codice di procedura penale, il procuratore Nicola Gratteri ha stralciato gli atti riguardanti il suo procuratore aggiunto per trasmetterli per competenza ai colleghi di Salerno.

Dopo i primi accertamenti, per riscontrare gli elementi contro Luberto, il procuratore reggente Luca Masini ha ritenuto necessario perquisire sia l’abitazione del magistrato a Cosenza sia il suo ufficio che si affaccia su via Falcone e Borsellino a Catanzaro. Gli investigatori avrebbero controllato pure il cellulare di servizio, nel tentativo di dimostrare i rapporti con l’ex parlamentare del Partito democratico.

La corruzione non sarebbe l’unico reato contestato al giudice Vincenzo Luberto. Ma l’inchiesta non è chiusa e quindi si tratta di accuse provvisorie sulle quali la Procura salernitana sta compiendo doverosi accertamenti anche a garanzia del collega calabrese che ora potrà difendersi e spiegare la sua versione dei fatti nel corso del procedimento penale.

Inoltre, come è prassi in questi casi, i capi di imputazione di Luberto sono stati trasmessi al Procuratore generale della Cassazione e al Csm, competenti per gli eventuali aspetti disciplinari di una vicenda i cui contorni si stanno disegnando poco alla volta.

Secondo le anticipazioni del Fatto Quotidiano risalenti a gennaio scorso, anni fa Luberto era stato già indagato dalla Procura di Salerno con ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio e abuso d’ufficio. L’accusa riguardava notizie su un’operazione di polizia che l’aggiunto avrebbe rivelato all’ex vicepresidente della Calabria ed ex deputato Nicola Adamo (Pd) che si trovava in compagnia di Giuseppe Tursi Prato. Questa vicenda, però, risale al 2007 (quando Luberto era pubblico ministero presso la Procura di Cosenza) ma le accuse, all’epoca mosse nei confronti del magistrato, vennero archiviate dalla Procura di Salerno che oggi si trova a indagare di nuovo sullo stesso collega.

L’indagine per corruzione su Luberto riguarda invece fatti più recenti. La perquisizione eseguita nei giorni scorsi è il secondo provvedimento che i pm di Salerno eseguono in pochi mesi nei confronti di magistrati calabresi.

Prima di Luberto, infatti, è stato chiesto il rinvio a giudizio per il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, indagato anche lui per corruzione e per questo trasferito dal Csm a Potenza a fare il giudice civile.

In attesa dei processi in cui entrambi i magistrati potranno dimostrare la loro innocenza, adesso le due inchieste stanno facendo tremare gli ambienti della “Cosenza bene”, quella che da anni vede attorno allo stesso tavolo magistrati, politici e professionisti. Ma anche personaggi legati alla ’ndrangheta.

Un convitato di pietra che ha sottovalutato il “cambio di guardia” alla Dda di Catanzaro e che, per questo, sta collassando.

Falso in bilancio. I vertici CariAsti rischiano il processo

In città molti ne parlano, i cronisti ne conoscono i dettagli, ma i giornali locali non ne scrivono. La procura di Asti ha chiuso da qualche settimana l’inchiesta sui vertici della banca cittadina, la Cassa di risparmio di Asti. Alla base dell’indagine ci sarebbe un illecito contabile realizzato nell’esercizio 2015 su cui hanno cercato di far luce i militari della Guardia di finanza. Così il sostituto procuratore Gabriele Fiz ha inviato al presidente Aldo Pia e all’amministratore delegato Carlo Demartini un avviso di conclusione delle indagini informandoli di essere indagati di false comunicazioni sociali. Si tratta dell’accusa rivolta a chi “al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto” scrive dati falsi oppure omette informazioni “nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico”. “È un procedimento su cui non posso dire niente adesso”, ha spiegato ieri il loro avvocato, Aldo Mirate, contattato telefonicamente dal Fatto. La difesa, dopo aver avuto la possibilità di leggere gli atti dell’inchiesta, ha ottenuto un periodo di tempo per consegnare alla procura delle memorie difensive.

La notizia dell’indagine per il presunto illecito era emersa nel febbraio 2018 quando i finanzieri fecero visita alla banca per acquisire documenti. La società comunicò via mail ai dipendenti che si trattava di un accertamento come tanti. D’altronde l’inchiesta è molto delicata perché riguarda una banca in cui si incrociano poteri economici, politici e amministrativi. Basti pensare che, ad esempio, l’attuale sindaco astigiano Maurizio Rasero (Fi) è stato vicepresidente della banca dal 2013 fino al settembre 2017 (quindi nel periodo in cui sarebbe avvenuto il presunto illecito contabile) e anche il suo predecessore, Fabrizio Brignolo (all’epoca Pd), è stato consigliere di amministrazione fino al 2 ottobre 2015