L’affare “con i gentiluomini” che costa il posto a De Bustis

Il commissariamento della Banca Popolare di Bari è ormai inevitabile e imminente. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha deciso che non si può salvare l’istituto pugliese senza togliere di mezzo l’amministratore delegato Vincenzo De Bustis. Solo dopo il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt) darà il miliardo di euro di capitale necessario a salvare la banca. La posizione di De Bustis si è fatta più critica dopo che, un mese fa, è stato destinato ad altro incarico Lanfranco Suardo, l’uomo della vigilanza che aveva seguito con apparente benevolenza le evoluzioni di De Bustis. E dopo le novità nell’inchiesta della procura di Bari sulla banca. Viene proprio da Bankitalia la segnalazione che ha fatto aprire un nuovo filone d’indagine sul tentativo (fallito) di De Bustis di acquisire nuovo capitale da una sconosciuta società maltese. Vigilanza e magistratura vogliono vederci più chiaro dopo aver letto il verbale del cda del 2 gennaio 2019, quando De Bustis spiegò ai consiglieri la brillante soluzione trovata per evitare il commissariamento o, peggio, la risoluzione, volgarmente nota come bail in.

Per magnificare la propria abilità, De Bustis arringa i consiglieri: “Delle banche non si fida più nessuno e quindi c’è bisogno di fare ricorso alle migliori capacità relazionali. Capacità relazionali significa investire in conoscenze, coltivarle, sedersi al tavolo e discutere, perché sia ben chiaro che in una operazione commerciale o finanziaria nessuno ti usa una cortesia senza pretendere in contropartita una pari opportunità”. Per cui, spiega dando l’operazione per fatta, “ho dovuto chiedere a degli investitori personalmente conosciuti la disponibilità a sottoscrivere questo strumento ibrido di patrimonializzazione”. De Bustis è amministratore delegato dal 12 dicembre 2018, e ha dunque cucinato l’operazione in un paio di settimane, Natale compreso, ma probabilmente si era portato avanti con il lavoro: una settimana prima della nomina si era fatto pagare una consulenza da 127 mila euro.

A usare a De Bustis la cortesia di mollargli 30 milioni al volo e sull’unghia sarebbe stata, se ci fosse riuscita, la società maltese Muse Ventures Ltd, facente capo a Gianluigi Torzi, intraprendente finanziere italiano residente a Londra. Muse Ventures era stata costituita un anno prima con un capitale non precisamente debordante: 1.200 (milleduecento) euro. Come ha ricostruito il 19 luglio scorso sul Fatto Gianni Barbacetto, “l’istituto di credito coinvolto nell’emissione dei titoli, Bnp Paribas, rileva problemi di compliance, cioè di trasparenza e rispetto delle regole” e blocca l’operazione. Diventa evidente, anche dentro la banca, “la sproporzione tra i mezzi propri del sottoscrittore” (la Muse) e il valore dell’operazione. Non solo. Siccome De Bustis propone anche di investire 51 milioni nel fondo lussemburghese Naxos Sif Capital Plus, nasce il sospetto (respinto seccamente dalla stessa Naxos) che si tratti di un’operazione circolare, cioè che i soldi siano sempre gli stessi che escono dalla banca e ci rientrano da Malta.

Ma la sensazione di un collegamento tra le due operazioni nasce in alcuni consiglieri della banca proprio per la presentazione che ne ha fatto De Bustis. Quando il presidente Marco Jacobini gli chiede informazioni “sulla qualità degli investitori”, l’ad sfodera il tono della televendita: “Si tratta di galantuomini, gente per bene (…), hanno chiesto semplicemente di non dare molto risalto pubblicitario all’operazione, perché le condizioni della stessa sono palesemente favorevoli per la banca”. Il consigliere Francesco Venturelli chiede quale sia allora l’utilità economica per l’investitore. Mister Banca 121 ripete: “Le intese sono state sviluppate e definite sulla base di modalità relazionali, le stesse che hanno consentito di ottenere un saggio di interesse del 13 per cento (alla faccia della cortesia, ndr) quando operazioni di questo tipo, normalmente, scontano tassi attorno al 19-20 per cento. Inoltre – prosegue il verbale – considerato che la banca dispone di un’ampia base di liquidità, si è condiviso con il management di realizzare un inverstimento di 50 milioni in un fondo lussemburghese per aumentare la redditività della banca”.

Pochi giorni dopo si è scoperto che Torzi, pur galantuomo e persona per bene, figura insieme al padre Enrico Torzi “nelle liste mondiali di bad press (WorldCheck) per diverse indagini a suo carico avviate dalle Procure di Roma e Larino per reati di falsa fatturazione e truffa”. Inoltre è salito recentemente agli onori delle cronache per la partecipazione, insieme al finanziere Raffaele Mincione, alla “vicenda opaca” (parola del segretario di Stato Pietro Parolin) del palazzo londinese di Sloane Avenue su cui il Vaticano ha perso un bel po’ di soldi e su cui la magistratura di Oltretevere ha aperto un’inchiesta per corruzione, peculato e truffa”. Collegato a Mincione è anche Giulio Gallazzi, l’uomo a cui De Bustis da mesi sta cercando di cedere la Cassa di risparmio di Orvieto, piccola controllata della Bpb.

E a proposito di “modalità relazionali”, ha destato la curiosità degli ispettori il contratto di consulenza per la cessione dei crediti deteriorati e per il necessario aumento di capitale stipulato da De Bustis l’8 aprile 2019 non con una primaria banca internazionale ma con la Tundafin di Valerio Veltroni, fratello del più noto scrittore e regista Walter. Lo stesso 8 aprile la Tundafin si è fatta liquidare 10 mila euro come anticipo per le spese.

 

Insulto sessista alla Raggi: Feltri a giudizio

“È un primo importante risultato, non tanto per me, ma per tutte le donne e gli uomini che non si rassegnano a un clima maschilista, a una retorica fatta di insulti o di squallida ironia”. Esulta, la sindaca di Roma Virginia Raggi, annunciando sui social che il gup di Catania Luca Lorenzetti ha rinviato a giudizio il direttore di Libero Vittorio Feltri (e il condirettore Pietro Senaldi) per il famoso titolo “Patata bollente” del 10 febbraio 2017. Un poco elegante doppio senso che giocava sulle difficoltà politiche della Raggi, allora indagata (poi archiviata) per abuso d’ufficio in relazione alla nomina di Salvatore Romeo a capo della propria segreteria politica.

Diffamazione aggravata dal mezzo della stampa è invece l’accusa con cui il pm Agata Santonocito ha ottenuto il rinvio a giudizio di Feltri e Senaldi, rispettivamente in quanto autore dell’articolo e direttore responsabile del giornale.

Oltre al titolo, oggetto del processo saranno il catenaccio di prima pagina (“La sindaca di Roma nell’occhio del ciclone per le sue vicende comunali e personali. La sua storia ricorda l’epopea di Berlusconi con le Olgettine, che finì malissimo”) e quello interno (“La Raggi ha mostrato un debole per un dipendente comunale e gli ha dato l’aumento: meglio il Cav, che pagava di tasca propria”) nonché l’ulteriore appellativo di “tubero incandescente” riservato alla Raggi. “Nessun diritto di cronaca nè di critica esercitato, semplicemente parole vomitevoli”, scrive la sindaca, rivolgendo un “pensiero a tutti coloro, donne e uomini, che hanno subito violenze favorite proprio da quel clima” maschilista esemplificato dal titolo di Libero.

“Come prima cosa devo dire alla signora Raggi che non la ho in antipatia, anzi mi sta simpatica”, è il commento di Vittorio Feltri.

“Sul merito posso solo dire che io sono direttore editoriale e non ho alcuna responsabilità sui titoli, al massimo li propongo. Non capisco quale sia l’imputazione. Ricordo che l’espressione ‘patata bollente’ fu usata da Libero anche nei confronti di Ruby Rubacuori, ma in quel caso, essendo lei marocchina, evidentemente non interessava a nessuno. Anche questo fa un po’ ridere…”

Perché Casapound ha vinto: “Facebook non è cosa privata”

È una decisione dall’impatto dirompente, per il suo contenuto e le sue conseguenze; perché mostra l’altra faccia del monopolio, quando si diventa troppo presenti per poter essere considerati una terra privata con leggi proprie, anche se online. Ieri, il Tribunale di Roma ha emesso una ordinanza cautelare che prevede la riattivazione della pagina Facebook del partito di estrema destra Casapound (e quella del suo amministratore Davide Di Stefano), sospesa a settembre perché secondo il social network violava le regole della piattaforma. Ha pure condannato il social a pagare 800 euro per ogni giorno di sospensione e 15mila di spese legali. La pagina era stata chiusa perché, secondo Facebook, Casapound istiga all’odio e alla discriminazione razziale, non solo online, e quindi non risponde agli standard di Facebook. “A casa mia, regole mie”, è in sintesi il messaggio di Menlo Park. peccato che facebook assomigli più ad una pubblica piazza.

L’ordinanza, infatti, sostiene che in questo caso Facebook non può essere considerato un privato con regole proprie perché contrasterebbe con il diritto costituzionale al pluralismo tutelato dall’articolo 49 della Costituzione: qualunque partito o associazione, se riconosciuto e legittimato dalla legge e dall’ordinamento italiano, deve trovarvi spazio. “È evidente – si legge nell’ordinanza – il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici, al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee”. Il rapporto tra il social e l’utente, insomma “non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati” perché Facebook ricopre una “speciale posizione” che implica che “nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente”. Insomma, se l’Associazione esiste ed è legale e finché non sia comprovata l’illegalità della sua condotta o della sua esistenza, ha il diritto a stare su Facebook. Tanto più se è una “associazione che opera legittimamente nel panorama politico italiano dal 2009”. E infatti, fuor di social, alcuni esponenti del Pd, ieri, hanno invocato lo scioglimento delle “formazioni neofasciste in Italia”.

Il monopolista Facebook, dunque, in virtù della sua estensione non può fare come vuole. Così, seppure nella sua memoria per motivare la sua scelta riporta episodi e atteggiamenti di odio contro le minoranze o violenza da parte di membri di Casapound “i contenuti – rileva la giudice – non hanno trovato ingresso nella pagina Facebook” e quindi “non è possibile sostenere che la responsabilità (sotto il profilo civilistico) di eventi e di comportamenti (anche) penalmente illeciti da parte di aderenti all’associazione possa ricadere in modo automatico sull’Associazione stessa”.

E ancora: “Non sono pertinenti i richiami alla giurisprudenza straniera effettuati da Facebook” perché dimostrerebbero la promozione di “un partito che perseguiva scopi contrari alla Costituzione, valutazione di merito che è senz’altro preclusa all’odierna resistente e che esula altresì dalla cognizione cautelare della presente fase”. Insomma, se Casapound&Co. siano fascisti o violino il dettato costituzionale non può deciderlo Zuckerberg. Deve farlo la legge e poi, dopo, Facebook può adeguarsi.

Intanto ieri il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, ha cantato vittoria per il futuro (sono chiuse anche le loro pagine): “Questa decisione comporterà la stessa cosa per Forza Nuova” ha detto. L’udienza è prevista per il 14 gennaio.

Il sigillo Mattarella: “Lo Stato colpevole su piazza Fontana”

Un ineccepibile Giuseppe Sala è riuscito a spezzare, quest’anno, i rituali di routine degli anniversari di piazza Fontana. Cinquant’anni dopo, ha piantato una quercia rossa in un parco di San Siro, in ricordo della diciottesima vittima della strage, il ferroviere Giuseppe Pinelli, morto cadendo da una finestra della questura di Milano tre giorni dopo la strage, mentre era detenuto illegalmente e accusato ingiustamente per la strage. Sala ha chiesto “scusa e perdono a Pinelli, a nome della città, per quello che è stato”.

Poi ieri, nella seduta straordinaria del consiglio comunale convocata in occasione del 12 dicembre, il sindaco ha ripetuto e raddoppiato: “Dobbiamo scusarci, per la persecuzione subita, con Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli”, anarchici ingiustamente accusati della bomba nera scoppiata in piazza Fontana.

Accanto al sindaco di Milano, c’era il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha voluto partecipare alla seduta straordinaria del consiglio comunale milanese. “Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia”, ha detto Mattarella. “L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana, a vent’anni dall’entrata in vigore della sua Costituzione. L’identità della Repubblica è segnata dai morti e dai feriti della Banca nazionale dell’agricoltura. Un attacco forsennato contro la nostra convivenza civile prima ancora che contro l’ordinamento stesso della Repubblica”.

La verità cercata per cinque decenni – e rimasta incompleta sul piano giudiziario – è ora scritta nella formella che il Comune ha voluto porre in piazza Fontana, insieme ad altre 17 che ricordano i nomi delle vittime della strage. Sulla prima formella è scritto: “12 dicembre 1969. Ordigno collocato dal gruppo terroristico di estrema destra Ordine nuovo”. Quel che ancora manca è stato aggiunto da una signora in un foglio scritto a mano con il pennarello e appoggiato accanto alla formella: “…e dallo Stato (Ufficio affari riservati)”.

È toccato poi al presidente della associazione delle vittime della strage, Carlo Arnoldi, ricordare che qualcosa aveva cominciato a muoversi lo scorso anno, quando il presidente della Camera Roberto Fico aveva per quattro volte chiesto scusa a nome dello Stato ai famigliari delle vittime. “Oggi lo Stato è più vicino? Sì”, ha risposto Arnoldi, “con la più alta carica dello Stato che per la prima volta dopo cinquant’anni viene a Milano, ci incontra privatamente, ci invoglia ad andare avanti, e dice che effettivamente in quegli anni qualcuno dello Stato voleva portare a deviazione i processi per non arrivare alla verità”.

Ad ascoltare le parole di Mattarella c’era anche Licia Rognini, vedova di Pinelli, con le figlie Claudia e Silvia. Poco distante, Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi che aveva fermato Pinelli, con il figlio Mario. “Ho deciso partecipare anch’io, oggi”, ha spiegato Licia Pinelli a Radio Popolare. “Quello di quest’anno è un passaggio importante, è una svolta. Ogni parola del presidente della Repubblica sarà un incentivo ad andare avanti per la democrazia. Parlare di mio marito Pino in un certo modo è anche un tassello per la democrazia. Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. È stato un bel gesto, che ci restituisce qualcosa. Io non mi aspetto niente da nessuno, quello che arriva arriva, come è avvenuto in questi cinquant’anni. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà”.

Mattarella, nella sala gialla di Palazzo Marino, ha incontrato e salutato Licia Pinelli e Gemma Calabresi. Poi un corteo, con i gonfaloni di Milano e di altre città e gli striscioni dei famigliari delle vittime, si è mosso da piazza della Scala per raggiungere piazza Fontana, dove sono stati ricordati i morti, alle 16.37, l’ora dell’esplosione, con un minuto di silenzio e la deposizione delle corone di fiori. Nel tardo pomeriggio c’è stato il corteo degli anarchici e dei gruppi antifascisti, da piazza Cavour fino a piazza Fontana, slogan centrale: “La strage è di Stato”. In serata, un concerto dedicato alle vittime della strage e, al circolo Arci Bellezza, l’incontro-concerto “I pesci ci osservano”. Il 15 dicembre ci sarà la catena umana musicale in ricordo di Pinelli dalla questura di Milano a piazza Fontana.

“Niente aiuti a Conte, ma su singoli temi…”

“Macché Responsabili! Noi vogliamo essere la nuova Forza Italia, saldamente nel centrodestra, all’opposizione del governo Conte”. Paolo Romani, ex dirigente d’azienda, è un berlusconiano della primissima ora. In Parlamento ininterrottamente dal 1994, è stato ministro dello Sviluppo. Oggi è senatore forzista, anche se in agosto ha aderito al movimento Cambiamo! di Giovanni Toti.

Romani, si dice che lei a Palazzo Madama stia lavorando per mettere in piedi un gruppo di Responsabili che faccia da stampella al governo in caso di necessità.

Quanto piace a voi giornalisti questa cosa dei Responsabili, da Razzi e Scilipoti in poi ne cercate in continuazione. Ma non è così. Io sto lavorando per costruire un gruppo di ex forzisti che non vogliono più stare in un partito che ha deciso di rinunciare a rinnovarsi e si sta consegnando mani e piedi alla Lega di Salvini. In Senato siamo in 5, altri ne arriveranno: faremo un gruppo con più di 10 senatori.

Il progetto è ambizioso.

Vogliamo ripartire dal 19 giugno, quando Berlusconi diede mandato a Toti e Carfagna di rinnovare il partito. Poi sappiamo com’è finita. Ma se Fi non è rinnovabile da dentro, lo faremo da fuori, dando una casa a tutti i delusi. A partire da Carfagna, che da tempo dà segni di malcontento.

Lega e Fdi si stanno mangiando tutto. C’è spazio politico per una nuova Fi?

Sì, il centrodestra non è tutto destrorso e sovranista, ci sono tanti che voterebbero ancora un partito liberale di massa, che sappia però ritrovare una linea precisa e un’identità.

Molti forzisti delusi e in cerca di nuovi approdi guardano a Matteo Renzi…

E noi diciamo loro: non guardate da quella parte, venite da noi, costruiamo insieme qualcosa di nuovo e di grande.

Berlusconi si è consegnato a Salvini?

Come ha ammesso in un paio di uffici di presidenza, il suo piano è confluire nella Lega. Ma sarà un’annessione.

Salvini e Meloni dovranno fare i conti con voi?

Esatto, ma questo dipenderà da quanto riusciremo a essere forti e attrattivi per gli elettori di centrodestra.

Ma se qualcosa nella maggioranza dovesse andare storto e i vostri voti, in Senato, diventassero decisivi?

Lo ripeto: non faremo da stampella a questo governo né ad altri di centrosinistra. Poi, se ci saranno provvedimenti che condividiamo, voteremmo a favore come ha sempre fatto anche Fi.

L’ultima missione di Letta: salvare il governo giallorosa

Scrivere di Gianni Letta vuol dire scrivere di quello che sta per accadere. Per un lungo tempo fu così. Adesso Gianni Letta, che sta per compiere ottantacinque anni e rimane fedele al suo loquace ermetismo, parla molto senza esporsi mai, lavora a sorreggere, in caso di tempesta, il governo di Giuseppe Conte con una scialuppa di senatori di Forza Italia che operi il salvataggio, o meglio lavora a scongiurare il ritorno con maggiori poteri, i pieni poteri, di Matteo Salvini e dei barbari leghisti che hanno ingurgitato il centrodestra a cui s’è ispirato Gianni Letta.

Ogni giorno Gianni Letta riceve negli uffici romani di Mediaset, la segreteria gli consegna lo scartafaccio con le udienze private da fissare e le telefonate pervenute, al solito richiama col numero oscurato e si scusa per il ritardo. Ogni giorno Gianni Letta, col cognome mai scisso dal nome, appare e scompare ovunque nei ritrovi più o meno mondani di Roma, a volte con pretese culturali, salotti, circoli, seminari, convegni, esibizioni. Ogni giorno Gianni Letta fa la manutenzione al sistema di relazioni che per un quarto di secolo ha consentito all’imprenditore brianzolo Silvio Berlusconi – stravagante e strabordante, una nemesi – di governare a Roma in terra ostile con al fianco Gianni Letta.

Per oltre due ore, prima di assegnare il premio Laurentum a Piero Angela in veste di presidente dei giurati, martedì Gianni Letta s’è seduto al tavolo degli oratori all’università Luiss per presentare Il metodo Machiavelli, il libro di Antonio Funiciello, già capo dello staff del premier Paolo Gentiloni. Un confronto fra consiglieri di principi.

Gianni Letta ha raccontato il 1994 del Cavaliere: “Io non volevo lasciare l’azienda, Mediaset. Ho accettato di seguire il governo da sottosegretario a una condizione: non fare politica. Io vengo a Chigi, dissi, in termini rigorosamente istituzionali. E Berlusconi ha rispettato quel patto. Non mi sono iscritto mai a un partito e non sono mai entrato in una sede di un partito né a una manifestazione di piazza né a un comizio elettorale. Io volevo essere un consigliere che avesse la libertà di dire sempre la propria verità, ma di essere leale al capo. E anch’io ho potuto mandare al diavolo Berlusconi”.

Il segreto di Gianni Letta o degli emuli di Gianni Letta sta nel comandare la macchina dei governi che i politici s’illudono di comandare: “Io mi sono sempre posto alla testa di quella classe burocratica che garantisce alla politica la capacità di governare. Nella mia esperienza di governo non ho perso mai la riunione che si fa prima del Consiglio dei ministri, il martedì mattina in sala Verde con i capi dei ministeri. Questo mi ha dato forza perché assieme a loro – magistrati contabili, avvocati e consiglieri di Stato – abbiamo fatto nascere i provvedimenti che poi andavano in Cdm e io li illustravo ai ministri perché avevo contribuito a crearli. Quella è stata un’esperienza che molti hanno rimpianto, perché ha saldato la politica con la burocrazia, nel senso più alto, l’amministrazione. Questo si è perso. Poi sono arrivati quelli che sanno tutto, quelli con la scienza infusa, che possono rinunciare ai consiglieri, ai magistrati, ai tecnici e i risultati si vedono”. Compreso il lieve scherno al salvinismo e ai suoi parenti, il riferimento di Gianni Letta è al Conte 1 o al Conte 2? “Ora le competenze sono tornate”, precisa Gianni Letta.

In quel che resta di Forza Italia e fra quel che resta di Berlusconi in politica, ormai da un paio di anni, Gianni Letta si muove in direzione contraria ai vari Licia Ronzulli e Niccolò Ghedini, convinto che il centrodestra sia imploso e che Salvini abbia fagocitato Forza Italia. Dunque, perché accapigliarsi per le spoglie? Gianni Letta vanta contatti diretti e frequenti con i vertici del Partito democratico, con il Quirinale di Sergio Mattarella, con Palazzo Chigi di Conte 2. E poi il premier s’è circondato di consiglieri tecnici e non politici. A Gianni Letta non piacciono le cose che cambiano, meglio se si ripetono. Infatti il governo del cambiamento era l’altro.

Nella squadra di Di Maio entra Casaleggio

Tanto Casaleggio, qualche big da tenere a bada, nessuna traccia di sodali di Roberto Fico. E niente grillini favorevoli al Pd. Eccoli, i sei facilitatori “delle aree organizzative” scelti direttamente dal capo politico Luigi Di Maio, e che entro domani dovranno essere ratificati assieme agli altri 12 referenti tematici dagli iscritti sulla piattaforma web Rousseau. Tutti e 18 andranno a formare il team del futuro, una sottospecie di segreteria per il Di Maio che una vera segreteria politica, con tutti i big, la respinge come il peccato.

Meglio questi nomi, e specialmente i sei referenti organizzativi, da votare come un listino bloccato. Un elenco in cui i più noti sono Paola Taverna, destinata all’Attivismo locale, e l’ex ministro Danilo Toninelli, che dovrà gestire le campagne elettorali. Ma la delega più pesante è quella al Coordinamento e agli affari interni, affidata a Enrica Sabatini, socia e motore operativo dell’associazione Rousseau, quella di Davide Casaleggio. Ergo Di Maio conferma l’asse con l’altro vertice del Movimento, l’erede di Gianroberto, colui che gestisce la piattaforma web a cui ogni mese i parlamentari devono (o dovrebbero) versare 300 euro mensili. Ed è una nomina in parte nella stessa ottica quella della senatrice Barbara Floridia alla Formazione e al personale, visto che proprio sulla piattaforma Rousseau la parlamentare siciliana si occupa dei corsi di formazione, centrali per Casaleggio. Invece sa di risarcimento la delega alla Comunicazione per Emilio Carelli, giornalista eletto nell’uninominale a cui avevano promesso posti di governo. Mentre l’europarlamentare siciliano Ignazio Corrao è stato indicato per il Supporto agli enti locali amministrati dal Movimento: altro ruolo rilevante, a un eletto che era stato spesso durissimo verso il capo.

Un avversario troppo scomodo per Di Maio, che un paio di settimane fa a Bruxelles ha siglato la tregua con Corrao. E poi ha spinto perché trovasse posto nel team. Tutti i facilitatori, va ricordato, dovevano candidarsi.

Ma ai sei (e ad altri) lo ha chiesto Di Maio. Così ecco la rosa che ieri ha suscitato malumori tra i parlamentari. Innanzitutto per il ruolo di Sabatini, “perché così comanda Casaleggio” come sibilano in Parlamento. Poi ci sono le assenze. Quella di Roberta Lombardi. E quella di Alessandro Di Battista, che però “ha altri progetti”. Mancano anche i fichiani anche se il presidente della Camera, raccontano, è preoccupato per altro, ossia per come andranno le Regionali in Emilia Romagna. E c’è chi protesta. “C’è un problema di metodo, non è corretto proporre un listino bloccato – lamenta l’eurodeputato Fabio Massimo Castaldo – è una scelta profondamente incoerente visto che volevamo le preferenze nella legge elettorale”.

Ma la sua collega Isabella Adinolfi è ancora più radicale: “Non credo in questa nuova organizzazione, le buone idee non vanno calate dall’alto. Qualche anno fa non avremmo mai immaginato un M5S fatto di capi, capetti e orticelli: stiamo perdendo la rotta”. Fuori, c’è la rabbia dell’ex ministra Trenta, esclusa dalle candidature: “Sono vittima di una trama di poteri forti, ma non intendo mollare la presa, a breve darò una conferenza stampa”.

 

Sigarette, chiamate e cene. Così la Lega “prende” M5S

I complimenti per la “competenza”, oppure qualche battuta, per preparare il terreno. Occhiate e mezze frasi, seminate tra il fumo e i vapori delle sigarette. Poi quella domanda, scandita con il sorriso di chi finge di scherzare, e invece proprio no: “Ma tu passeresti con noi della Lega?”. Diversi senatori dei Cinque Stelle li hanno avvicinati così, nella sala fumatori di Palazzo Madama. Teatro di molte prove di campagna acquisti del Carroccio, che dopo la nascita del governo giallorosso è (ri)partita a pieno regime. Con i capigruppo leghisti primi ambasciatori con i colleghi grillini di commissione. Perché è più facile, corteggiare senatori con cui si lavora. Poi a forzare con gli indecisi provvedono i big. Con telefonate e qualche cena.

Strategia che mercoledì ha dato i suoi primi frutti, con tre senatori grillini che hanno detto no alla risoluzione di maggioranza sul Mes, rumoroso preludio al trasloco alla Lega. Puntualmente avvenuto ieri, con Ugo Grassi, docente napoletano di Diritto civile, che apre la fila con sentita lettera: “I vertici del Movimento decidono tutto in solitudine, ma oggi, forte di una reciproca stima costruita nei mesi appena trascorsi, la Lega mi offre una seconda opportunità per raggiungere i miei obiettivi”. E Matteo Salvini spalanca le braccia: “Benvenuto a Grassi, porte aperte per chi non è succube del Pd”.

Grassi celebra presentandosi in mensa con la spilletta della Lega. Mentre il Carroccio perfeziona l’entrata nei ranghi anche dell’umbro Lucidi, che nel pomeriggio discute i dettagli con il capogruppo Massimiliano Romeo e Stefano Candiani. E salta il fosso anche Urraro, dopo una telefonata con Roberto Calderoli. Avvocato campano di 46 anni, fa parte con Grassi della giunta delle elezioni che a febbraio aveva salvato Salvini dal processo per il caso della nave Diciotti, come indicato anche dagli iscritti al M5S sulla piattaforma web Rousseau. E comunque ieri il legale di Portici (Napoli) ha dato subito prova della sua vicinanza al centrodestra in commissione Giustizia. Già, perché da relatore del decreto fiscale, Urraro ha provato a inserire nel parere della commissione sul testo il rinvio dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione, prevista a gennaio dalla legge Spazzacorrotti. Racconta la 5Stelle Elvira Evangelista, anche lei in commissione: “Urraro ha sostenuto che andava rinviata al 2022, per contenere la spesa pubblica. Ma questa osservazione, inserita all’ultimo minuto senza alcun preavviso neanche a noi del M5S, non aveva attinenza con il decreto fiscale ed era chiaramente strumentale”. Così la maggioranza, Italia Viva compresa, ha fatto muro, e Urraro ha ritirato la proposta. Poco male per la Lega, che prosegue nell’assedio. E un veterano del M5S conferma: “Anche io sono stato avvicinato, mi hanno fatto i complimenti per la preparazione. Poi hanno lanciato l’amo: ‘Nella Lega troveresti spazio per le tue idee, verresti valorizzato”. L’assalto però è ragionato, sostiene un altro 5Stelle: “Il Carroccio punta soprattutto gli eletti del Sud, dove non ha classe dirigente, o nelle regioni ‘rosse’. Cerca professionisti con la fedina penale pulita”. Ecco perché il pressing su Grassi e Urraro, che in lista starebbero bene. “E poi a Grassi avevano promesso di fare il sottosegretario” ricordano diversi grillini. Ferita che ha inciso, sul suo addio.

Il più doloroso per il M5S, che infatti infierisce. Così Luigi Di Maio morde: “La Lega dica quanto costa al chilo un parlamentare”. E dal Movimento ricordano come il giurista avesse difeso la clausola del regolamento che prevedeva multe per i parlamentari che avessero lasciato il M5S. “Non sarei così sicuro che la clausola possa essere considerata nulla” sosteneva Grassi sul blog delle Stelle nel febbraio 2018. Ma ora, chi potrebbe saltare il fosso? Il pugliese Cataldo Mininno, militare, ha detto ai suoi che potrebbe non votare la manovra. “Ma non andrà mai alla Lega” giurano dai piani alti. Da dove smentiscono anche le voci sulla siciliana Tiziana Drago e sulla pugliese Angela Piarulli. E puntualmente si torna a parlare di un gruppo pro-Giuseppe Conte, con 10-15 fuoriusciti. Mentre Emanuele Dessì stilla amarezza: “Il M5S deve ritrovare i suoi valori, il suo senso. E non può farlo con un leader bollito”. Cioè con Di Maio.

Ex Ilva Taranto oggi via allo spegnimento dell’altoforno 2

L’altoforno 2 dell’ex Ilva di Taranto chiuderà oggi. Lo ha stabilito il giudice Francesco Maccagnano che due giorni dopo la decisione di negare la proroga alla facoltà d’uso chiesta dai commissari, ha ordinato alla custode giudiziaria, Barbara Valenzano, di compiere “ogni più utile modalità di custodia tale da assicurare che a partire dal 14 dicembre l’Altoforno non sia utilizzato”. In un documento di due pagine ha richiesto entro il 17 dicembre di conoscere lo stato in cui si trova l’impianto e le tempistiche “del cronoprogramma di spegnimento” e infine le conseguenze che potrebbe causare. Il giudice ha ribadito in modo definitivo che dal 14 dicembre inquell’impianto non dovrà essere svolta “alcuna attività in contrasto” con la sua ordinanza. Intanto i legali dei commissari sono impegnati a scrivere il ricorso affinché un nuovo tribunale del riesame possa ribaltare la decisione e concedere altri 9 mesi per eseguire l’ultima prescrizione. La discussione dinanzi al nuovo collegio di magistrati, però, dovrebbe svolgersi il 30 dicembre quando le procedure di spegnimento saranno già in fase avanzata: se anche il riesame dovesse dare ragione ai commissari, è probabile ci si ritrovi in un situazione già irreversibile.

Tutto questo mentre a Roma il Governo conferma ai sindacati il proprio piano per salvare l’ex Ilva, valido anche se Mittal dovesse uscire di scena: prevede la presenza diretta dello Stato, forni elettrici e gas da affiancare al carbone per tornare a 8 milioni di tonnellate l’anno di acciaio. I sindacati, però, sono delusi dall’annuncio che verrà usata la Cassa integrazione.

La Perugia dei clan: “Lo abbiamo messo noi il vicesindaco”

“Nilo lo abbiamo messo noi al Comune”. E ancora: “La moglie di Repace… l’abbiamo fatta salire noi… al Comune”. Le conversazioni intercettate dalla Dda di Catanzaro risalgono al 3 e al 5 aprile scorso e a parlare è Antonio Ribecco, appartenente alla cosca di ’ndrangheta riconducibile ai Trapasso di San Leonardo di Cutro, che si vantava di aver condizionato le comunali del 2014 vinte dal centrodestra a Perugia.

Sì perché Nilo è Arcudi, ex vicesindaco nelle giunte di centrosinistra e oggi presidente del consiglio comunale eletto con la lista dell’attuale primo cittadino di centrodestra Andrea Romizi, mentre la moglie di Luigi Repace, calabrese, è Alessandra Vezzosi, eletta consigliera comunale del Pd con 1.170 preferenze. Arcudi a ottobre si è anche candidato alle regionali con l “Umbria civica” in sostegno a Donatella Tesei ma non ha raggiunto il quorum. Né lui ne Vezzosi sono indagati ma di loro parlano alcuni affiliati arrestati ieri all’alba nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Catanzaro e Reggio Calabria secondo cui i tentacoli della criminalità calabrese erano arrivati anche in Umbria “in modo sistematico”, come ha detto ieri il procuratore capo Nicola Gratteri.

Estorsioni, riciclaggio e l’accusa, nei confronti di Ribecco, di aver “organizzato insieme al figlio Natale il traffico di stupefacenti che dalla Calabria venivano immessi in Umbria”. Ma nell’inchiesta “Borderland” emergono rapporti tra mafia e politica umbra. Il gip Paola Ciriaco, nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti scrive che “Ribecco e il sodalizio di riferimento sono in grado di influenzare la politica locale” e in particolare le elezioni del 2014 vinte dal centrodestra dopo vent’anni di governi rossi. Secondo il giudice infatti Ribecco avrebbe “fatto una serrata campagna elettorale” per Arcudi anche “adoperandosi mediante concessione di prestiti di denaro”. Ovvero: comprare i voti, se necessario. Nel 2014 l’ex socialista Arcudi è stato il re delle preferenze nella lista “Perugia Civica” del sindaco Romizi con 1.030 voti (19,36%). Il 5 aprile, Natale Ribecco (padre del candidato di Casapound alle elezioni) e Antonio parlano di questo: il primo ammette di aver “prestato i soldi a una persona per i voti di Nilo Arcudi… gli ho chiesto i voti a tutta la famiglia”. Antonio Ribecco, sentendosi da meno, gli risponde: “ma pure io… io l’ho fatto per così… la moglie di Repace chi la conosceva… ehhh…”. Secondo il giudice però l’impegno non avrebbe avuto una contropartita visto che, eletto, Arcudi si sarebbe dimenticato dei “benefattori” che avevano contribuito a farlo eleggere.

Ieri, in una nota, Arcudi ha replicato: “Come privato cittadino e nei ruoli istituzionali ho sempre combattuto tutte le forme di criminalità, tanto più la ’ndrangheta, che ha impoverito ed annientato la terra dove sono nato. Nel tempo ho ricevuto migliaia di voti ma solo oggi vengo a conoscenza che in una precedete competizione politica avrei ottenuto il voto di un soggetto oggi indagato per mafia. Qualora ne avessi avuto la percezione non avrei mai, mai e poi mai accettato o voluto neanche questo voto. Escludo che qualcuno degli odierni indagati/arrestati abbia ottenuto in tutti questi anni da me un incontro o un appuntamento per chiedere o ottenere qualcosa”.

Il sindaco di Perugia Romizi invece ha detto che “lo Stato ha gli anticorpi necessari per difendere l’Umbria dai tentativi di infiltrazione mafiosa” mentre l’allora candidato sindaco sconfitto del Pd, Francesco Giubilei, parla di “ombre inquietanti”.