Voli di Stato di Salvini: nuovi atti al tribunale dei ministri

“Tutti i miei voli di Stato erano per motivi di Stato, da ministro dell’Interno, per inaugurare caserme. Mai fatto voli di Stato per andare in vacanza, quello lo fanno altri”. Matteo Salvini commenta così la notizia, rivelata ieri dal Fatto e dal Corriere, dell’inchiesta a suo carico per alcune trasferte, risalenti a quando era ministro, a bordo di elicotteri di Polizia e Vigili del fuoco. Il fascicolo sull’ex vicepremier, indagato per abuso d’ufficio, è stato mandato al Tribunale dei ministri.

ieri Salvini ribadendo la correttezza del proprio operato, non ha risparmiato una battuta che sembra riferita a Matteo Renzi: anche l’ex premier finì nel mirino della Corte dei conti dopo un esposto che riguardava un volo di Stato preso nel 2015 per andare a Courmayer. Da Palazzo Chigi si ribadì che era stato solo applicato il protollo di sicurezza, poi l’inchiesta della Corte dei Conti è stata archiviata.

Ora la grana dei voli di Stato tocca a Salvini. “Erano usati in giorni in cui c’erano eventi e presenze per motivi istituzionali”, ha ribadito il leader della Lega. La vicenda riguarda quindi le trasferte dell’ex ministro a bordo di velivoli di Polizia e Vigili del fuoco. Alcuni voli sono avvenuti su un Piaggio P-180, un bimotore noto come “la Ferrari dei cieli” per i suoi arredi di lusso. I primi a indagare sono stati i pm contabili che hanno aperto un fascicolo dopo un’inchiesta di Repubblica, in cui si spiegava che agli impegni istituzionali l’ex ministero agganciava quelli di partito. Come avvenuto, secondo il quotidiano, il 4 gennaio 2019, quando volò da Milano a Pescara abbinando un vertice sulla sicurezza all’apertura della campagna elettorale abruzzese.

La Corte dei conti ha analizzato 35 voli di Stato e ha archiviato non ravvisando un danno erariale. Tuttavia, scrivono i pm contabili , è “ritenuta illegittima la scelta di consentire l’uso dei menzionati velivoli per la finalità di trasporto aereo del ministro e del personale al seguito”. La Corte dei conti ha inviato gli atti alla Procura che come atto “dovuto” ha iscritto Salvini e poi ha mandato il fascicolo al Tribunale dei ministri. “Non vedo l’ora di andare nei tribunali – ha detto l’ex ministro – ho già la querela di Carola Rakete, di Saviano, della sorella di Cucchi. (…) Se mi chiamano, vado con il sorriso”.

Formigli & C., nuovi insulti dei renziani

Insulti, linciaggio con tanto di nomi e facce dei giornalisti sgraditi fino a consigli non richiesti ai finanzieri che dovrebbero andare vedere “come può un giornalista comprarsi una casa da almeno 2,5 milioni di euro”, riferimento diretto all’abitazione di Corrado Formigli nel quartiere Prati.

In questi giorni – dopo l’inchiesta sulla fondazione Open, la villa dei Renzi sulle colline fiorentine e l’intervista all’ex premier a Piazza Pulita – la costellazione dei gruppi social di Italia Viva ribolle di rabbia e livore nei confronti di cronisti e magistrati.

Uno di questi è il gruppo “ITALIA VIVA” (sì, tutto maiuscolo) dove è stato pubblicato il primo post con i dettagli sull’abitazione romana di Formigli. Qui, il bersaglio preferito dei sostenitori renziani sono proprio i cronisti: ieri è stato pubblicato un post con le facce dei “giornalisti” (Biagi, Montanelli, Bocca, Mentana) e “altri” tra cui il direttore del Fatto Marco Travaglio, Andrea Scanzi, Lilli Gruber, Lucia Annunziata, lo stesso Formigli, Giovanni Floris e Bianca Berlinguer.

E giù insulti: “giornalai”, “pennivendoli mercenari”, “venduti”, “leccaculi” solo per citare i più leggeri. Eppure, di fronte a tutta questa bile, c’è qualche elettore renziano che non ci sta e prova a dissentire: “Post di pessimo gusto non va bene per niente, se non vi piacciono le domande che fanno non è un motivo per fare certi post” commenta Emanuele che, di fronte a chi gli dà del leghista, risponde proprio di essere “Pro Renzi e Italia Viva”. “Io penso che tutti i simpatizzanti ed iscritti ad Italia Viva, dovrebbero assumere, sempre un atteggiamento educato e rispettoso” scrive un altro sostenitore renziano tentando di dissentire.

Siamo arrivati alle liste di proscrizione, io saluto il gruppo” commenta Maurizio. E giù offese. Tra i post più commentati ce n’è anche uno che invita i finanzieri a fare un controllo proprio sui giornalisti scomodi: “Scandagliamo parenti e amicizie per vedere se qualcuno che lo ha aiutato ha qualche scheletro nell’armadio – si legge – una tassa non pagata, una colf in nero, una multa tolta dal vigile urbano? Vuoi che qualcosa, pescando a strascico, non si trova (il congiuntivo è un optional, ndr)?”. Commenti: “Vergogna”, “bravoo” e via così.

La fonte più citata è Il Riformista di Piero Sansonetti (“Leggete lui” scrive Paolina) ma anche il sito di Italia Viva che rilancia continuamente i post e i video dell’ex premier.

A questo proposito ieri è stata la giornata del discorso in Senato di Renzi contro i magistrati sul modello di Bettino Craxi nel 1993: “Oggi, Renzi in aula, non ha fatto un discorso da Senatore, ma da vero Statista, spiegando semplicemente la divisione dei ‘poteri’ in una democrazia” posta Fabio Ferrantino. “Io lo farei ascoltare a scuola” gli va dietro Bianca.

Poi c’è chi va oltre: “Ho ascoltato Renzi in Senato mi sono emozionata al punto, non mi vergogno, di piangere”.

Da Raggio a Sama, i re delle mazzette pretendono l’oblio

Se non fosse stato condannato pochi mesi fa per la sparizione dei gioielli della sua amante dell’epoca, la contessa Francesca Vacca Augusta, da tempo si sarebbero perse le tracce di Maurizio Raggio, uno degli uomini di fiducia di Bettino Craxi. Che ora vive tra l’Italia e l’America dove si è reinventato imprenditore nel settore biomedicale, ma che vuole cancellare ogni riferimento che dai tempi di Tangentopoli vede associato il suo nome a quell’antico legame.

E così l’ex bon vivant di Portofino ha scritto tramite i suoi avvocati all’amministrazione di Montecitorio affinché venisse eliminata o in subordine deindicizzata, un’interrogazione parlamentare risalente addirittura al 1997. In cui si menziona Raggio e il suo ruolo “nello svuotamento dei conti svizzeri gestiti da Giorgio Tradati” in cui erano finiti anche quelli versati dalla All Iberian, la società estera della Fininvest di Silvio Berlusconi. Una storia da far dimenticare.

Come quella che evidentemente ancora imbarazza Carlo Sama, l’uomo che rivelò la madre di tutte le mazzette: la maxi tangente Enimont. Pure lui si è rifatto una vita. Ma nemmeno ora che è diventato il re della soia in Paraguay, il suo passato smette di inseguirlo. E forse per questo ha chiesto a Montecitorio che il suo nome venga coperto da omissis o sia deindicizzato un’interrogazione che pare disturbarlo parecchio, nonostante si passato un quarto di secolo.

L’interrogazione in questione fa riferimento al processo Enimont, al crack dell’Istituto finanziario milanese (Ifm) e al “Progetto famiglie”. Ideato da Sama quando era amministratore delegato della Ferruzzi Finanziaria che aveva “stanziato un miliardo di lire per prezzolare i giornalisti”: una pioggia di denaro che doveva servire a rilanciare l’immagine del gruppo ravennate dopo il divorzio con Raul Gardini.

Il nome di Rodolfo Salsiccia invece non ricorda granché ai più. Ma anche lui c’entra con l’inchiesta di Milano che la politica vuole a tutti i costi rimuovere dalla memoria collettiva. Chi è costui? Un imprenditore del settore ferroviario che nel 1993 confermò ai magistrati che i partiti pretendevano soldi con la pala per gli appalti: dal 2 al 4 per cento dell’ammontare dei lavori delle Ferrovie Nord a cui era interessato. Stecche a molti zeri che imbarazzano certo, ma che si preferirebbe nascondere sotto il tappeto dell’oblio. Per questo Salsiccia ha chiesto che dagli archivi sparisca il suo nome data “la non attualità dei fatti oggetto dell’atto” che ricorda di una tangente che sarebbe stata portata da un intermediario a Piazza del Gesù e consegnata direttamente nelle mani dell’allora tesoriere della Dc Severino Citaristi.

Vecchie storie, certo. Ma anche protagonisti e comprimari di vicende più recenti che hanno a che fare con giri vorticosi di denaro vorrebbero la tutela dell’oblio.

Come Maurizio Filotto, un ex carabiniere con buonissime entrature tra i politici di Cl e di Forza Italia che dopo essere stato anche consigliere per la sicurezza del presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni, era stato scelto dall’ad di Poste Massimo Sarmi per guidare la divisione Tutela: nel 2004 era stato arrestato mentre secondo gli inquirenti stava per ricevere una tangente di 600 mila euro che gli era stata promessa dall’Ivri, allora gigante della vigilanza privata. Giulio Gargano invece è stato assessore della giunta laziale presieduta da Francesco Storace. Ed era finito in carcere nel 2006 per un’inchiesta sulla corruzione nella sanità, quella che aveva per protagonista Lady Asl romana, al secolo Anna Iannuzzi. Oggi Gargano è uomo di fiducia del patron della Lazio Claudio Lotito che lo ha scelto come direttore generale della sua holding. E ha scritto pure lui alla Camera per vedersi riconosciuto il diritto all’oblio. Gradirebbe gli omissis anche il conte Enrico Maria Pasquini, accusato di essere il dominus di un gruppo che acquisiva denaro da facoltosi clienti, per poi farlo transitare tra conti di società situate in paesi off-shore e San Marino.

L’oblio: ultima frontiera per i protagonisti di Tangentopoli

Pd, addio questione morale: c’è la carica dei 219 inquisiti

Corruzione, peculato, turbativa d’asta, associazione a delinquere, favori alla mafia. Ci sono profili penali di ogni tipo fra le storie dei 219 inquisiti appartenenti (o appartenuti) al Partito democratico che Fq Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola domani, ha raccolto facendo le pulci ai guai giudiziari degli eredi (lontani) della “questione morale” di Enrico Berlinguer. Le vicende più note, e più recenti, sono quelle dell’ex tesoriere Francesco Bonifazi e dell’ex ministro Luca Lotti: il primo rinviato a giudizio per il presunto finanziamento illecito effettuato dal costruttore Luca Parnasi alla fondazione Eyu; il secondo a processo per favoreggiamento nell’ambito dell’inchiesta Consip. Ma è solo la punta dell’iceberg.

Accanto a loro trovano posto storie come quella di Enrico Fabozzi, l’ex consigliere regionale della Campania condannato in primo grado a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica, o di Ernesto Palermo, ex consigliere comunale di Lecco, condannato a 10 anni di carcere per associazione di stampo mafioso, corruzione e turbativa d’asta nell’ambito dell’inchiesta “Metastasi”. Rapporti con i clan, mazzette ma anche tanti abusi. Storie di “ordinaria” illegalità, a volte quasi grottesche. La deputata dem Paola Bragantini, ad esempio, è indagata per aver abusato del proprio ruolo per evitare lo sgombero della casa dei genitori, mentre l’ex senatrice Lucrezia Ricchiuti, si è presa una condanna per lavori non regolari dentro casa. Tina Nuti, ex assessora a Pistoia, è stata rinviata a giudizio per vari reati fra cui, quello più strano, è aver utilizzato conigli vivi durante una manifestazione pubblica.

“I partiti non fanno più politica. Sono soprattutto macchine di potere e clientela”, dichiarava Berlinguer a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981, aprendo, di fatto, il grande dibattito sulla “questione morale”. Chissà cosa avrebbe detto lo storico segretario del Pci, nel vedere la carriera fatta da alcuni dei consiglieri laziali rinviati a giudizio per i rimborsi ottenuti fra il 2010 e il 2012: da Bruno Astorre, divenuto segretario Pd Lazio, a Claudio Mancini, che siede alla Camera dei Deputati poco distante dalla collega Micaela Campana, rinviata a giudizio per falsa testimonianza in virtù dei suoi 39 “non ricordo” durante il processo sul “Mondo di mezzo” (ex mafia capitale). Per molti di loro a breve potrebbe scattare la prescrizione.

Fra deputati, senatori e amministratori regionali, in realtà a farla da padroni sono sindaci ed ex sindaci. I nomi più importanti sono quelli di Giuseppe Sala e Piero Fassino, uno condannato per l’Expo di Milano, l’altro rischia il processo per il Salone del Libro di Torino. Ma anche in provincia non mancano casi limite. In Sardegna c’è un piccolo comune chiamato Domusnovas dove l’ex sindaco dem si è preso una condanna a 18 mesi per abuso d’ufficio e un’altra a 2 anni e 18 mesi per violenza sessuale e tentata concussione ai danni di una dipendente delle pulizie; nelle Marche, invece, il sindaco e vicesindaco di Montegallo sono finiti nei guai per aver sistemato i terremotati in un camping gestito dalla moglie del secondo.

“In galera con gli operai ci siamo stati noi”, rivendicava fiero Berlinguer nella sua intervista a Repubblica. Ecco perché è stato lasciato fuori dall’elenco chi si è “guadagnato” lo status di indagato per motivi politici, come i parlamentari Matteo Orfini e Maurizio Martina che nel gennaio 2019 salirono bordo della Sea Watch, bloccata al largo della Sicilia.

Matteo: “Colpito per via giudiziaria” Bettino: “La giustizia è a orologeria”

 

Matteo Renzi

1 La magistratura decide cosa è partito e cosa non lo è e manda circa 300 finanzieri la mattina, all’alba, a casa di cittadini non indagati, la cui fedina penale è intonsa, con strumenti tipici più di una retata che non di una richiesta. Per sapere infatti se il bonifico è stato fatto o meno c’è un meccanismo molto più semplice della perquisizione mattutina alle sei e mezzo di fronte ai figli sconvolti: c’è l’ordine di esibizione. Mi volete raccontare che questo tipo di intervento è fatto a tutela degli indagati? No.

2 Trecento finanzieri vanno nelle case di persone che hanno finanziato la politica (…) prendono dei telefonini, alcuni dei quali ancora non sono stati restituiti, prendono dei dati e vanno a strascico, come si dice per quelle indagini nelle quali si parte da un reato cosiddetto presupposto, per poi andare a verificare se c’è dell’altro.

3 In questa vicenda c’è un reato di cui nessuno vuole occuparsi: è il reato ex articolo 326 del codice penale, la violazione sistematica del segreto d’ufficio (…) Nelle stesse ore della perquisizione, del tutto casualmente, la violazione del segreto d’ufficio porta a pubblicare – non con un giornalismo di inchiesta, ma con un giornalismo a richiesta – dati sensibili che soltanto Banca d’Italia o la procura o la Guardia di Finanza hanno: c’è un corto circuito tra gli strumenti della comunicazione e gli strumenti della battaglia giuridica.

4 Siamo consapevoli che la violazione del segreto d’ufficio non può essere derubricata a reato minore? Si perquisiscono quelli non indagati e non si perquisisce il potenziale autore del reato, perché si dà per scontato, come ha detto qualcuno, che la privacy per un politico non esista.

5 Lo Stato etico diventa etilico quando si dice che i figli del politico non possono avere diritto alla privacy, per cui si fanno le foto dentro le case, dentro le camerette e si sta tutti zitti per mediocrità, paura e pavidità. Non è Stato di diritto questo. Chi dice poi che la privacy vale soltanto per qualcuno e non per altri, abbia il coraggio di dire che siamo alla barbarie.

6 Deve però essere chiaro che se al pm affidiamo non già la titolarità dell’azione penale, ma la titolarità dell’azione politica, decidendo cosa è partito e cosa non lo è, quest’Aula, insieme alla Camera e alla politica, fanno un passo indietro per pavidità, per paura, per mediocrità. Onorevoli colleghi, è di questo che stiamo discutendo.

7 A chi volesse contestarci o, peggio ancora, eliminarci per via giudiziaria, sappia che dalla nostra parte abbiamo il coraggio e la voglia di dire che il diritto e la giustizia sono cosa diversa dal peloso giustizialismo e dalla connessione con certi strumenti di comunicazione e di stampa.

8 Onorevoli colleghi, per distruggere la reputazione di un uomo, di un esponente delle istituzioni, può bastare una copertina di qualche settimanale (che poi, i tempi cambiano ma i settimanali rimangono!); quello che serve per ricostruire quella reputazione sono anni e anni.

9 Non del finanziamento illecito semplicemente, stiamo discutendo della debolezza della politica davanti a una oggettiva necessità: quella di porre il sistema in condizioni di essere un sistema efficace.

 

Bettino Craxi

1 Un’inchiesta giudiziaria è tanto più forte, accettata, rispettata, quanto più forte, rigoroso, lineare è il rispetto della legge ch’essa si impone, senza prevaricazioni, arbitri, forzature ed eccessi di sorta. Si è verificato purtroppo, e in più casi e ripetutamente tutto il contrario. Non c’è fine che possa giustificare il ricorso a mezzi illegali, a violazioni sistematiche, clamorose e persino esaltate della legge, dei diritti dei cittadini, dei diritti umani.

2 Contro il principio generale ed indiscusso, secondo cui la magistratura può indagare su di un cittadino solo in presenza di una notizia di reato che essa apprende direttamente ovvero attraverso denuncia, querela o informativa di polizia giudiziaria, con riferimento alla vicenda che mi riguarda, i pm milanesi hanno pervicacemente fatto ricerca di una pretesa notizia di reato sulla quale poter costruire il teorema già prescelto.

3 Sono all’ordine del giorno le sistematiche violazioni del segreto istruttorio, ormai praticamente vanificato e inesistente o esistente solo in ragione di criteri discriminatori o criteri arbitrari dettati da interessi ed opportunità di varia natura ivi comprese quelle politiche. C’è forse qualcuno che non ha visto la esemplare tempistica politica di determinate operazioni? Quando la giustizia funziona ad orologeria politica essa contiene già in se qualcosa di aberrante.

4 Il fumus persecutionis ritorna ancora ben visibile quando l’indagine viene sistematicamente sottratta alla riservatezza ed al segreto istruttorio e consegnata, attività per attività, e sempre con grande e singolarissima tempestività e con dovizia di particolari e di indiscrezioni di varia natura, alla stampa.

5 Non c’è consenso popolare, sostegno politico, campagna di stampa che possa giustificare un qualsiasi distacco dai principi garantiti dalla Costituzione. Non la giustifica neppure l’assenza, l’insensibilità o il ritardo degli organi di controllo, la debolezza o il disorientamento delle difese, la barriera del pregiudizio negativo. Non lo ha visto e non lo vede, del resto, solo chi non lo vuole e preferisce, per opportunità, per superficialità o per calcolo, voltare la testa dall’altra parte.

6 Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quante reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato e utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica.

7 Davvero siamo stati protagonisti, testimoni o complici di un dominio criminale? (…) Questa è una lettura falsa, rovesciata, mistificata della realtà e della storia. Chi ha condotto per anni un’opposizione democratica ha da far valere in ben altro modo le sue ragioni.

8 In quale Paese civile del mondo si sono celebrati in piazza tanti processi sommari, si è assistito a tanti pubblici linciaggi e si sono consacrate tante sentenze di condanna ancor prima che sia stato pronunciato un rinvio a giudizio? Questo non può non far riflettere.

9 Ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale (…) Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale.

Renzi strilla, ma non spiega come ha speso i contributi

Ci sono Luciano Nobili e Raffaella Paita, Marco Di Maio e Davide Faraone, con l’immancabile Francesco Bonifazi: la piccola folla che circonda Matteo Renzi alla fine dell’intervento in Senato, con una rappresentanza di deputati che fanno da claque, per quei paradossi della realtà illumina la solitudine di un leader, la sua quasi irrilevanza. Un manipolo di fedelissimi, impegnati più in una passerella di rappresentanza, che in una battaglia di principio per la vita della democrazia, contro la “barbarie”, come la vorrebbe il senatore di Scandicci. Non si respira pathos e neanche adrenalina. “A chi volesse eliminarci per via giudiziaria” diciamo che “il diritto e la giustizia sono cosa diversa dal peloso giustizialismo e dalla connessione con certi strumenti di comunicazione e di stampa”, scandisce Renzi, concludendo il suo intervento in Senato, all’interno di un dibattito sul finanziamento alla politica, da lui voluto, a partire dalla vicenda giudiziaria della sua fondazione, Open.

L’Aula è semivuota, manca l’amico-nemico Matteo Salvini, ogni tanto applaudono un po’ tutti (senza esagerare) tranne M5s. Un Pd che più che intervenire vorrebbe sparire, lascia a Luigi Zanda l’onere di difendere il finanziamento pubblico dei partiti (che non c’è più). Il 5 Stelle Primo Di Nicola torna a chiedere una commissione d’inchiesta sul tema. Per Renzi, una prova di esistenza in vita, senza una strategia precisa, se non la ricerca di uno spazio politico, che guarda a una Forza Italia in via di dissoluzione, a un centro non ben identificato. Si dipinge come vittima della violazione del segreto d’ufficio (il prestito per l’acquisto della sua villa raccontato dall’Espresso ) e perseguitato per le sue opinioni politiche, stigmatizza la presunta volontà dei magistrati di decidere cos’è un partito.

Inizia subito dopo le 10, Renzi. Vestito scuro nuovo, camicia bianca. Ha dei fogli davanti a sè, ma ad ogni passaggio significativo guarda lo smartphone. Accanto a lui, Bonifazi e Teresa Bellanova, che lascia i banchi del governo. “Questo dibattito affronta la separazione dei poteri tra il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario”, definisce la cornice. Poi, si paragona ad Aldo Moro e a Bettino Craxi. “Nel 1977, il presidente Aldo Moro alla Camera dei Deputati disse ‘Non ci lasceremo processare nelle piazze’”. Il riferimento è allo scandalo Lockheed che portò alle dimissioni del presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Vent’anni dopo venne verificata l’insussistenza delle accuse ai danni dell’ex inquilino del Quirinale. Affronta un tabù il fu Rottamatore quando dice che Bettino Craxi, il 3 luglio del 1992, pronunciò un discorso” in cui “chiamò in causa tutto l’arco costituzionale e disse che larga parte del finanziamento ai partiti era illecito o irregolare”.

Il tentativo di elevarsi a personaggi peraltro diversissimi nella percezione comune (Moro, un tragico eroe della democrazia, che poco dopo quel discorso venne rapito dalle Brigate Rosse e Craxi, l’emblema della corruzione della politica, che ne portò le stigmate fino alla morte ad Hammamet) nelle parole di Renzi è evidente. Nonostante la negazione che afferma: “Tra me e loro c’è una differenza profonda di levatura”. Con un triplo salto mortale, prova a ricordare quegli eventi in difesa di Open. “Nello scandalo Lockheed si parlava di una tangente, vera o presunta, milionaria; nel 1992 si poneva in discussione il finanziamento di tutto il sistema dei partiti”. Invece, qui “si parla di contributi regolarmente registrati, bonificati e tracciabili”. Ancora, per paradosso, Renzi evoca un’età grandiosa della politica che non c’è più, di fronte a una vicenda comunque marginale, di (presunta) inopportunità politica, nella quale di grandioso c’è ben poco.

Passaggi rivelatori: Renzi evoca i telefonini sequestrati dai finanzieri. Cosa troveranno? La domanda aleggia. Niente sull’uso dei finanziamenti per Open. Fuori dall’Aula, Renzi annuncia il passaggio di Davide Bendinelli da Forza Italia a Italia Viva. Abbozza scenari politici. Tempi troppo confusi, pure per definire una traiettoria.

Aldo Renxi

Si pensava che il Premio Pinocchio della settimana fosse una questione tra Salvini (per le sue balle sul Mes) e i cosiddetti “dissidenti” 5Stelle passati o in procinto di passare alla Lega (i Solgenitsin de noantri parlano di “coerenza” sul Mes e poi si consegnano al partito che li ha traditi ogni giorno per un anno e mezzo su Reddito, Tav, trivelle, inceneritori, Autostrade, blocca-prescrizione e acqua pubblica). Poi ha parlato Renzi, arringando i pochi senatori presenti nel tentativo di somigliare a Moro e a Craxi arrampicandosi sulle loro tombe per tramutarsi da nano in gigante. Purtroppo la statura è rimasta la stessa. Dopo aver ripetuto, da quando partì l’inchiesta Open, che non ce l’ha coi pm, ha elogiato quelli morti e calunniato quelli vivi. Dopo avere sprizzato bile e rabbia da ogni orifizio, s’è vantato dei suoi “sorrisi”, esibendo una via di mezzo fra un ghigno e una paresi. Così tutti hanno capito che l’indagine lo terrorizza: solo un soggetto in preda al panico riuscirebbe a stracciare il record mondiale di balle al secondo, peraltro già suo. In 20 minuti di delirio ne abbiamo contate 30. Per motivi di spazio ci limitiamo alle migliori 10.

1. “La magistratura fa un’invasione di campo: pretende di decidere cosa è un partito e cosa no”. Ma la Procura di Firenze non pretende di decidere niente: indaga su alcune notizie di reato. Quando Renzi era premier e segretario del Pd, i suoi dirottavano i fondi privati dal partito alla fondazione Open, garantendo ai donatori l’anonimato e talvolta favorendoli con provvedimenti ad hoc. Purtroppo, per essere leciti, i finanziamenti devono essere non solo dichiarati, ma anche disinteressati. Se c’è uno scambio di favori, sono tangenti.

2.“Stiamo discutendo della separazione dei poteri”. Sì, ma a calpestarla è proprio l’ex premier che attacca i pm impegnati in un’indagine doverosa su possibili finanziamenti illeciti.

3. “Nel ’77, alla Camera, Moro usò parole notevoli con chi voleva processare la Dc nelle piazze. Impariamo dalla storia”. Se avesse imparato almeno da Wikipedia, saprebbe che Aldo Moro non polemizzava con i pm del caso Lockeed, ma con Pannella che accusava il presidente Leone e con il demoproletario Pinto che chiedeva “processi non in aula ma nelle piazze” alla Dc (per Gui) e al Psdi (per Tanassi), visto che in aula imperava l’immunità-impunità. Gui fu poi assolto e Tanassi condannato: le tangenti Lockeed esistevano eccome.

4.“Il caso Lockheed ha segnato le dimissioni di Leone non perchè coinvolto, ma per uno scandalo montato ad arte da media e politici. Per distruggere la reputazione di un uomo basta la copertina di un settimanale. I tempi cambiano, ma il settimanale rimane”.

Ce l’ha, ingrato, con l’Espresso, dopo tutto quel che ha fatto per lui. Ma anche qui è male informato: Leone fuggì anzitempo dal Colle perchè l’Espresso aveva dimostrato che spendeva più di quanto dichiarava al fisco.

5. “Craxi nel ‘92 chiamò in causa tutti e disse che larga parte del finanziamento ai partiti era illecito o irregolare”. Geniale l’idea di respingere i sospetti di finanziamento illecito citando un campione della materia, fuggito in latitanza da arresti e condanne.

6. “Se si sanziona il privato che offre dei contributi, il cittadino non darà mai più un centesimo. È un ipocrita chi dice che non servono i soldi alla politica, leciti e puliti”. Infatti nessun finanziatore del Pd o di Iv è mai stato sanzionato: qui si indaga su fondazioni che fanno da schermo a partiti per nascondere i donatori e le eventuali contropartite.

7. “Può accadere a ciascuno di voi”. Suvvia, chi di voi non ha una fondazione che incassa 6-7 milioni? Chi non parte a gennaio con 15mila euro sul conto e a dicembre se ne ritrova 800mila? Chi non incontra una vecchina col figlio piazzato a Cdp che gli presta 700mila euro per la villa? Son cose che capitano a tutti.

8. “I pm mandano all’alba i finanzieri da cittadini incensurati e non indagati”. Le perquisizioni si fanno all’alba per trovare la gente in casa. E l’art.352 Cpp prevede le perquisizioni su “persone” (indagate o no) o “luoghi” dove si ritiene “si trovino occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse”. Punto.

9. “Chi dice che la privacy vale sono per qualcuno e non per altri viene meno allo stato di diritto: è barbarie”. Veramente lo diceva il padre della legge sulla privacy, Stefano Rodotà: “Nel Codice deontologico per i giornalisti – che qualsiasi magistrato può applicare trattandosi di norma giuridica vincolante – è scritto che ‘la sfera privata delle persone note, o che esercitano funzioni pubbliche, dev’essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sulla loro vita pubblica’. Tecnicamente si chiama ‘minore aspettativa di privacy’… Il conflitto nasce se una persona nota chiede di tenere riservate notizie che l’opinione pubblica vuole conoscere per controllare chi fa un attività pubblica… Se il giornalista accerta che un signore con un ruolo pubblico incontra un mafioso, per il pm può essere irrilevante, ma per il giornalista, in quanto interlocutore dell’opinione pubblica, è della massima rilevanza”.

10. “Chi si permette di parlare viene censurato dal Csm. Non mi risulta sia stato abrogato l’art.68 della Costituzione: i membri del Parlamento non sono chiamati a rispondere delle posizioni espresse”. Manco la Costituzione conosce: gli eletti sono insindacabili su “opinioni espresse e voti dati nell’esercizio delle funzioni”. Non su calunnie sparate fuori dall’Aula o dalle funzioni. In ogni caso, nessuno l’ha trascinato in tribunale (come fa lui con i giornalisti liberi): il Csm ha solo difeso i pm, che non possono farlo da soli, dai suoi insulti.

Ps. Su un punto Renzi ha ragione: sarebbe ingiusto processare i renziani nelle piazze. Molto meglio i tribunali.

Quel colloquio in giardino tra Papi. La realtà è diventata una serie tv

Un pontefice donna sarebbe fantascienza, un papa moltiplicato per due è la realtà più reale e insieme provocatoria che la Storia occidentale contemporanea abbia potuto concepire. Così accade che ne I due Papi si racchiuda il paradosso: l’apertura a una visione radicalmente nuova di mondo dal punto di vista della più sacra (e immota) delle istituzioni da almeno duemila anni, Celestino V permettendo. Eppure oggi è la normalità: con la consapevolezza che nel sancta sanctorum ecclesiale esistono due pontefici – uno operativo e l’altro emerito – stanno crescendo intere generazioni, e il dato è talmente pop da essersi meritato l’attenzione di Netflix.

Eccoli passeggiare insieme, dunque, papa Ratzinger e papa Francesco, uguali e opposti, vivacemente co-residenti nel nuovo lungometraggio del brasiliano Fernando Meirelles, già in selezionate sale dal 2 dicembre e dal 20 in programmazione sulla piattaforma, fresco di 4 candidature ai Golden Globes, fra cui Best Drama. Ed è una storia, quella di The Two Popes – I due Papi, che col tono leggero del dramedy senile arriva nel profondo di una questione squisitamente politica ed eternamente insolvibile: la sana conciliazione fra riformisti e conservatori. In ballo c’è il concetto stesso di democrazia, cioè un ossimoro nella governance gerarchica e assoluta della Chiesa cattolica.

A superare l’impasse pensa il cinema di finzione, che “immagina” un lungo e privatissimo dialogo fra Benedetto XVI e l’allora arcivescovo Bergoglio fra i giardini di Castel Gandolfo all’indomani della scomparsa di papa Wojtyla. Qui si ipotizza che Ratzinger abbia convocato il porporato argentino per invitarlo a succedergli una volta che si sarà dimesso. Pur conoscendo le posizioni riformiste, al limite del rivoluzionario, del cardinale di Buenos Aires in materia di dottrina, l’anziano pontefice tedesco intravede in lui quel necessario cambiamento necessario di cui è stato incapace. E poco gli importa che Bergoglio stesso voglia dimettersi dal ruolo di cardinalato per evidenti disaccordi con l’ortodossia intrapresa dal successore di Giovanni Paolo II: ciò che Ratzinger vede il lui supera la sua stessa ratio, in altre parole, il meta-paradosso sullo sfondo di una “sfida” fra due “ministri” dimissionari.

La plausibilità di questo testo semi-serio, a tratti socratico, parecchio godibile, nasce dall’immaginazione dello scrittore e sceneggiatore neozelandese Anthony McCarten, ispirato dall’immagine sui big screen vaticani contemporaneamente di papa Francesco benedicente e di Ratzinger che lo osserva dal suo ritiro. Da quel momento il soggetto de I due papi ha preso forma: scritta la sceneggiatura, il film è stato affidato alla sensibilità di Meirelles (di cui ricordiamo il pluripremiato Ciudade de Deus), a scenografie realistiche (le riprese fra Roma e l’Argentina), e soprattutto alle interpretazioni magistrali di due giganti (e mimetici!) come Jonathan Pryce come papa Francesco e Anthony Hopkins come Ratzinger. Certamente siamo lontani dall’opera memorabile, anzi: la volontà ontologica a Netflix di massimizzare il pubblico fra (non) credenti fa peccare in semplificazioni linguistiche (specie per l’uso convenzionale di flashback nel passato “oscuro” di Bergoglio, che è il punto di vista del film), e tuttavia con questi due signori anziani che battibeccano come vecchi amici, l’uno tanguero e l’altro pianista classico, si sta come nel salotto di casa. Al cuore del discorso, in fondo, sono due individui chiamati a guardarsi dentro, a tollerarsi e perdonarsi, per affrontare la delicatezza di una decisione che li espone all’inevitabile fragilità dell’umana sorte.

L’inventrice sexy, Lady Voltaire, Ada Byron: le top della scienza

È passata alla storia per aver girato la prima scena di nudo integrale al cinema (Estasi, 1933), ma il suo contributo all’umanità è stato soprattutto un altro: aver inventato il salto di frequenza sfruttato oggi da Gps e telefonini, wi-fi e Bluethooth. Hedy Lamarr, sex symbol e scienziata, è una delle “top model alternative” raccontate da Piergiorgio Odifreddi ne Il genio delle donne. Breve storia della scienza al femminile, una storia spesso obliata e bistrattata: basti pensare che dal 1901 al 2019 le vincitrici del Nobel sono state 20 contro 594 vincitori.

Abile affabulatore dal gusto aneddotico e luciferino, Odifreddi sbozza 24 ritratti di signora per “un pubblico senza distinzioni di genere. Semmai, con qualche distinzione di cervello”: matematiche, chimiche, fisiche, astronome, astronaute e persino una santa in odor di schizofrenia, Ildegarda di Bingen. La cernita va da Ipazia (IV-V secolo) a Maryam Mirzakhani, la prima donna – e finora l’unica – a vincere nel 2014 una medaglia Fields, entrambe eretiche: la pagana fu ammazzata dagli integralisti cristiani, mentre l’iraniana fuggì nella più liberale America, infischiandosene di ayatollah e hijab.

Nel castello di Cirey trovarono, invece, rifugio il filosofo François-Marie Arouet e la matematica Émilie de Breteuil, meglio noti come Voltaire e la marchesa di Châtelet: il padre l’aveva avviata allo studio delle scienze, tanto da farne “la più colta delle donne, ma la più frivola delle colte”. Fu studiosa di fisica, traduttrice di Newton, appassionata di Cartesio e Leibniz; Voltaire la lasciò per correre dietro a una nipote, salvo poi piangerla da morta: addio a “un grand’uomo con l’unico difetto di essere donna”. Bersagliata per il suo aspetto e temperamento fu anche Emmy Noether, ribattezzata “il padre dell’algebra moderna”; di lei i colleghi serpeggiavano: “È una grande matematica, ma non sappiamo se sia una donna”. Fu Hilbert a volerla in cattedra perché “l’università non è un bagno pubblico, dove le femmine vanno separate dai maschi”. A Gottinga, il tempio dei numeri del 900, ci restò poco, però: dopo il 1933, cacciati gli ebrei, “non ci fu più nessuna matematica”.

“La prima vera matematica”, vissuta tra 700 e 800, fu Sophie Germain, per anni camuffatasi sotto pseudonimi maschili: fu amica di penna di Gauss, sodale di Lagrange e amante (della congettura) di Fermat; a lei sono intestate una equazione e un particolare gruppo di numeri primi, oggi usati nella crittografia. La prima informatica fu, invece, l’unica figlia legittima di Lord Byron, passata alla storia col cognome del marito (d’altronde il padre non si occupò mai di lei): Ada Lovelace, programmatrice ante litteram, elaborò il primo algoritmo per computer della storia. Ada ereditò l’estro scientifico dalla madre, Annabella Milbanke, mentre il padre-poeta a Cambridge “aveva goduto dell’esenzione dagli esami di matematica concessa ai nobili, considerati tonti di default”. Viceversa, la moglie di Einstein Mileva Maric si sentì per tutta la vita solo “l’ostrica di una perla”. Alla faccia di Byron tenere insieme scienza e poesia è possibile: ci pensò, ad esempio, Sonja Kovalevskaja, amica di Dostoevskij e George Eliot, nonché prima donna a ottenere un dottorato in matematica nel 1874 e prima europea a salire in cattedra a Stoccolma nel 1889. La sua passione per i numeri sbocciò nell’infanzia, quando il padre le tappezzò le pareti della cameretta con alcune dispense di analisi.

Tra i nomi più noti c’è la dinastia dei Curie, che conquistò ben sei Nobel in 62 anni: tre i genitori (Pierre e Marie, la pioniera della radioattività), uno la figlia maggiore Irène e due i generi (Frédéric Joliot e Henry Richardson Labouisse, ma per la Pace). Sfilano poi la “Curie tedesca” Lise Meitner; le calcolatrici Henrietta Leavitt e Katherine Johnson; la biologa Barbara McClintock, Nobel per la Medicina nel 1983 come Rita Levi-Montalcini nel 1986.

Non mancano, infine, le insospettabili scienziate: Margaret Thatcher, allieva della più famosa biochimica Dorothy Hodgkin; Rosalind Franklin, prima “fotografa” del Dna; la fisica cinese Chien-Shiung Wu e la compatriota medico Tu Youyou; l’astronoma Jocelyn Bell; le proto-astronaute Christa McAuliffe e Judith Resnik; la virologa Ilaria Capua, vittima in patria – l’orribile Italia – di una caccia alla streghe infondata e diffamatoria; la scacchista Judit Polgár, che beffò persino Kasparov e Fischer, grandi misogini, piccoli uomini, per cui “le donne non dovrebbero impicciarsi di cose intellettuali: meglio che stiano a casa, a fare le pulizie”. Sennò poi c’è il rischio che vincano a scacchi.

1979, “London Calling”: anno in cui il punk nacque e morì

Quel maledetto sms della sera prima. “Dai Paul, proviamoci!”. Joe Strummer presagiva di non avere troppo tempo davanti, ma non immaginava che il countdown fosse agli sgoccioli. Così cercava di convincere il riottoso bassista, Paul Simonon, per una solenne reunion dei Clash alla cerimonia per l’insediamento nella Rock’n’Roll Hall of Fame. Gli altri, Mick Jones e Topper Headon, erano disponibili. Simonon obiettava che, nello spirito rompicoglioni dei vecchi punk, non avrebbero mai potuto esibirsi, dopo tutti quegli anni, in una situazione dove i biglietti costavano migliaia di dollari, per non dire del ricattuccio degli organizzatori, tipo vi diamo il premio se vi fate vivi. Paul si oppose per l’ennesima volta: il giorno dopo Joe era morto d’improvviso, a 50 anni, stroncato da una patologia cardiaca congenita. Era il 22 dicembre 2002: il mese successivo, a omaggiare i Clash alla Hall of Fame avrebbe provveduto un supergruppo con Springsteen, Costello, Dave Grohl. Suonarono London Calling, ovviamente. Cos’altro, se non l’inno di battaglia di quei bastardi che nel 1979 avevano rivoltato l’idea stessa del nichilismo punk con un doppio formidabile album?

Vi avevano buttato dentro rock e ska, disco e reggae con una disinvoltura tecnica e con una furia ideologica come nessun altro mai, in quegli anni dove la Britannia era tutt’altro che Felix per via del giro di vite thatcheriano, dell’austerity germinata dalla crisi petrolifera, gli scioperi dei minatori e la pentola esplosiva del melting pot nell’ex Impero? In quella generazione di ventenni storditi e incazzosi, quasi tutti si autoannullavano bucandosi con gli aghi e inghirlandandosi la pelle con lame e spillette, sputandosi e spingendosi via con disgusto. I Clash no: dopo due album (il primo ruvido il giusto, il secondo annacquato dalle lusinghe del mercato) decisero di fottere l’autocompiacimento. Basta con l’alibi che chiunque potesse salire su un palco e vomitare grugniti e cacofonie solo perché la parola d’ordine era “ribelliamoci a ogni convenzione e anche ai dinosauri della scena rock”. No, i Clash si rimboccarono le maniche in una sala prove sopra un’officina della periferia della capitale, e ai Wessex Studios confezionarono l’opera della svolta, il maestoso London Calling, che tracciava la mappa dell’inquietudine intellettuale di Joe e degli altri. Il brano chiave prendeva il titolo dalla BBC del tempo bellico, Londra chiama le città lontane, ma ci leggi pure una chiamata alle armi contro “l’era glaciale che sta arrivando“ (il ’79 è l’anno dell’incidente nucleare di Three Mile Island), ci intravedi gli “zombie della morte“, ma anche “la falsa Beatlemania che morde la polvere”. Il mondo oscillava negli occhi di Strummer, tra attualità e storia. In Spanish bombs trovavi il bignamino della guerra civile, Franco e Lorca mixati alle news sulle bombe dei baschi in Andalusia. Poi Rudie can’t fail con i giovani immigrati giamaicani all’ombra di Buckingham Palace, o le Guns of Brixton che scuotevano i sobborghi. Ma anche le cronache private del branco Clash: Mick Jones giura di non essere a pezzi, I’m not down, dopo essere stato lasciato dalla ragazza, Viv delle Slits. E l’elegia funebre per Sid Vicious dentro quel rigo di Hateful, “gli amici che abbiamo perso quest’anno”. Rock, rivoluzione, furore e lacrime. Un capolavoro generato dal rovesciamento del tavolo del punk, dalla presa del Palazzo d’Inverno del neoconformismo pseudo-anarcoide.

Nel giorno del quarantennale, il 14 dicembre, London Calling tornerà in una edizione celebrativa con un corposo libro di aneddoti. La confezione valorizzerà ancor di più la leggendaria foto che Pennie Smith scattò al Palladium di New York il 21 settembre ‘79: c’è Simonon che sfascia il basso sul palco, la grafica omaggia e stravolge le copertine di Elvis, in una vertigine di rimandi. Quel Fender Precision è da tre settimane in mostra al Museum of London insieme ad altri memorabilia dei Clash, come il taccuino su cui Strummer mise a fuoco i brani.

E sempre sabato 14 i tre superstiti della band, finalmente, si riuniranno. Parteciperanno alla festa al British Film Institute dopo la proiezione del documentario Westway to the World, che Don Letts girò nel 2000. Suoneranno? Probabilmente no. A meno che sullo smartphone di Simonon non arrivi un sms di Joe, direttamente dal Purgatorio dei combat rockers.