Il capo dei Federali aveva un debole per i soldi del Chapo

C’è un fiume che scorre tra il Messico e gli Stati Uniti, un fiume di droga, alimentato da una cascata di soldi. Milioni e milioni di dollari con cui i cartelli del narcotraffico hanno oliato per anni le polverose strade al confine tanto odiato dal presidente Donald Trump. Sembra la trama di una nuova serie tv sui cartelli messicani. È la realtà. Illuminata dai fari delle pattuglie della polizia del Texas che il 15 novembre 2015 fermano un’auto che non ha rispettato lo stop. “Favorisca la patente”, deve aver chiesto l’agente; “lei non sa chi sono io”, deve aver risposto l’altro, agente anche lui, capo, per l’esattezza, della polizia messicana, all’anagrafe: Genaro García Luna, assurto a quel tempo da quasi dieci anni a Segretario della sicurezza pubblica dell’amministrazione del presidente Felipe Calderón e ancora in carica con il successore Enrique Peña Nieto. Vale a dire, l’architetto della lotta al narcotraffico messicano messa in piedi dal primo e sostenuta dal secondo capo di Stato per 12 lunghi anni.

Da lunedì sera, l’alto funzionario García Luna è di nuovo in compagnia della polizia di Dallas, in Texas, accusato dalla Corte di New York – la stessa che ha appena comminato l’ergastolo al più grande narcotrafficante della storia, “El Chapo” Guzman – di aver collaborato con il cartello di Sinaloa proprio negli anni della guerra al traffico di polvere bianca tra Messico e Stati Uniti. Sulla testa del massimo esponente della guerra alla droga – costata 100 morti al giorno per 12 anni, 20 mila desaparecidos per un totale di 1,8 miliardi di pesos pubblici – pendono ora tre capi d’accusa tra cui quello di aver sostenuto il crimine organizzato; per la giustizia statunitense Luna è stato il braccio del governo che permise al cartello più forte del mondo, in cambio di tangenti milionarie, di agire in totale impunità in Messico. A denunciare il “commissario” García è stato uno dei fratelli Zambada, detto “El Mayo”, uno dei due soci di “El Chapo”: ha confessato che dal 2005 pagava il Segretario per la sicurezza per avere protezione per sé e per suo fratello. Nello specifico si parla di due versamenti che il cartello criminale avrebbe effettuato sul conto di García fino al 2007, per un totale di circa 8 milioni di dollari. Una quantità di denaro che spiegherebbe anche la sontuosa residenza che quella famosa sera di novembre del 2015 la polizia del Texas registra come abitazione del conducente fermato per non aver rispettato il codice stradale, residente a Golden Beach, in una villa con piscina per un valore di 3,3 milioni di dollari. In quel momento, García Luna aveva già lasciato il proprio posto nel governo messicano e viveva con sua moglie tra la villa e l’attico di lusso di Aventura, in Florida, valutato 2,3 milioni di dollari. Ma quel fermo è solo un escamotage, un tentativo di mettere alle strette l’ex capo della guerra al narcotraffico sul quale già da anni circolavano voci di corruzione e sulla cui condotta, in Messico, c’erano già forti dubbi. Nel 2005, infatti, era stata la volta dello scandalo diplomatico tra Messico e Francia, seguito all’arresto di Florence Cassez, la cittadina francese il cui fermo per l’accusa di sequestro venne trasmesso in tv. Peccato si trattasse di un’accusa montata ad arte proprio dalla polizia di García Luna a favore di telecamere. Ma non fu questa l’unica strategia mediatica del Segretario per la sicurezza, che in questo ruolo, qualche anno dopo, nel 2011, pagò Televisa perché realizzasse una serie che esaltasse il lavoro della Polizia federale, in quel momento in cattiva luce a causa delle maniere eccessivamente forti utilizzate nella famosa guerra contro i narcos. La segreteria di García mise a disposizione di Televisa per l’occasione anche personale specializzato, pattuglie, elicotteri e armamenti di ogni genere. Il programma – andato in onda nell’ora di punta – fu causa di molte polemiche perché, tra le altre cose, metteva in scena una realtà ben distinta da quella che il paese viveva realmente, oltre a costare tantissimo.

Eppure nessuno di questi due scandali, né le successive 20 indagini interne aperte dalla polizia a carico di García Luna sono mai arrivate a concretizzarsi e, alla fine, l’unico risultato è stato che una volta lasciato il suo posto, il segretario fu costretto ad abbandonare anche il paese, essendo ormai la sua immagine del tutto compromessa. Prima di lui, solo due mesi fa, un altro alto funzionario di Calderon è stato accusato di corruzione: niente di meno che il ministro della Corte Suprema, Eduardo Medina Mora. Questo a dimostrazione che le accuse rivolte ai due presidenti messicani, che della guerra al narcotraffico hanno fatto tema di propaganda politica, nonché ragione unica del proprio mandato, non sono state affatto campate in aria. In particolare quelle che tracciavano una linea diretta che dal denaro pubblico impiegato per combattere il crimine organizzato, portava ai funzionari che dovevano fare in modo che quest’ultimo venisse sconfitto.

Com’è triste Parigi con la pensione a 64 anni

Il governo sperava che l’annuncio avrebbe calmato la protesta, e invece il discorso del premier Edouard Philippe che in dettaglio ha elencato ieri le misure della futura riforma delle pensioni, ha avuto l’effetto contrario: i sindacati tornano a manifestare nelle strade oggi e una nuova data di mobilitazione è stata fissata per martedì prossimo.

È già una settimana che la Francia è paralizzata e la situazione non sembra destinata a migliorare: “Il governo ci ha preso in giro”, ha commentato Philippe Martinez, segretario del sindacato CGT. La battaglia dunque continua. Per il primo ministro si tratta di instaurare un nuovo “patto generazionale”. Il nuovo sistema sarà universale e a punti: i 42 regimi “speciali”, alcuni dei quali più vantaggiosi, come quelli dei ferrovieri, saranno dunque soppressi. Qualche concessione è stata fatta. Il governo ha accettato di far slittare l’inizio della riforma ai nati nel 1975 (e non più nel 1963, come ipotizzato in un primo tempo). Ha anche assicurato una “fase di transizione” per i lavoratori che dovranno rinunciare ai vantaggi legati al loro regime particolare. Per gli insegnanti, i più penalizzati dalla riforma, sono stati promessi aumenti di stipendio per colmare il danno. Il governo ha anche tentato di rassicurare sulla questione delicata del valore del punto pensione: una “regola d’oro” sarà scritta nel testo, cioè che il valore del punto non potrà mai essere abbassato e che sarà indicizzato, non sull’inflazione, ma sugli stipendi, “che crescono più dell’inflazione in Francia”, ha precisato Philippe. La riforma fa un passo verso gli artigiani e gli agricoltori che, dati i piccoli redditi e contributi versati, oggi percepiscono pensioni molto basse: sarà introdotta la pensione minima di mille euro per chi ha lavorato tutta la vita al minimo salariale. Si annunciano aiuti per le donne, portate spesso a sospendere la carriera per occuparsi dei figli: avranno dei punti supplementari, pari al 5% a partire dal primo figlio, più un ulteriore 2% oltre il terzo figlio. Sul piano sociale, è previsto un apporto maggiore per i più ricchi, che sui redditi oltre i 120 mila euro dovranno pagare dei contributi “di solidarietà”.

Il dato più critico però riguarda l’età pensionabile. Se questa resterà a 62 anni, è prevista però l’introduzione (slittata al 2027) di una fascia a 64 anni o più: chi andrà in pensione riceverà un “bonus” non previsto per la prima fascia. Si vuole incitare insomma i francesi a lavorare più a lungo: “Cosa che si fa già in altri paesi europei”, ha precisato Philippe. Questo dato dei 64 anni che in Francia hanno definito “l’età d’equilibrio” però non va giù a nessuno. I sindacati più compatti di prima sono pronti a inasprire lo sciopero. “Ci vogliono obbligare a lavorare di più. Inaccettabile”, ha detto Martinez della CGT. Anche per Laurent Berger, segretario del sindacato riformista CFDT, favorevole al principio della pensione a punti, “la linea rossa è stata sorpassata”. A sinistra, commenti amari: “Macron ha appena instaurato la pensione a 64 anni”, ha osservato Jean-Luc Mélenchon di La France Insoumise. A destra si critica il governo che “naviga nella nebbia”. Per Marine Le Pen ci sono solo “perdenti”: “Mai governo ha usato parole così fantasiose per mascherare una riforma così orrenda”, ha detto la leader dell’ultradestra.

Londra, ultimi sondaggi: rischio Parlamento appeso

Seggi aperti dalle 7 alle 22 per il voto “più importante di questa generazione”. Posta altissima, altissima l’incertezza. Il sondaggio più completo e recente, quello di Yougov, prevedeva martedì sera una confortevole vittoria dei conservatori. I Tories avrebbero 339 deputati, più 22 rispetto alle Politiche 2017, con il Labour a 231, sotto di 31. I Lib-Dem otterrebbero 15 parlamentari (+3), gli indipendentisti scozzesi 41 (+6 e a spese del Labour), i nazionalisti gallesi 4, i Verdi 1.

Però: il vantaggio Tory si sarebbe dimezzato rispetto al risultato del 27 novembre, e il Labour starebbe ancora recuperando. E il margine di errore è tra i 367 e i 311 conservatori eletti. 367 significa Get Brexit done, cioè riuscire ad approvare al più presto l’accordo di Boris con Bruxelles e uscire dall’Ue entro il 31 gennaio. 311 equivale a hung Parliament, Parlamento appeso e ritorno allo stallo degli ultimi anni, da cui si sta tentando di uscire proprio con il voto di oggi. È un sondaggio affidabile? Sì e no. Sì, perché il campione è alto, oltre 100 mila intervistati, 150 per ogni collegio elettorale, e infatti nel 2017 era stato l’unico a prevedere l’esito. No, perché ci sono almeno quattro incognite che potrebbero fare la differenza in un sistema, lo ricordiamo, in cui non vince chi prende più voti a livello nazionale, ma chi porta a casa più collegi elettorali. Il primo è il voto giovanile sempre molto difficile da tracciare. Negli ultimi mesi c’è stata una corsa della fascia 18-24 a registrarsi. In media solo il 18% vota conservatore. Insomma, se i giovani votano in massa, come non fecero per il referendum sulla Brexit, dovrebbe guadagnarci il Labour. La seconda incognita è il voto delle minoranze. Stesso discorso valido per i giovani: sono comunità relativamente emarginate, che sentono il Labour più vicino alle proprie istanze. Altro fattore imprevedibile è l’impatto del voto utile, con molti elettori che, pur di fermare la Brexit, potrebbero decidere all’ultimo di cambiare affiliazione. Infine, i laburisti leavers, concentrati in nord est, Midllands, Galles. Il Red Wall, il muro rosso dove il Labour prima non si metteva in discussione. Qui di sicuro si sta verificando un cambiamento significativo, perché Corbyn è detestato malgrado abbia i sindacati dalla sua parte. Ci si aspetta che Boris sfondi, e sarebbe, per i rossi, una sconfitta devastante anche sul piano simbolico. Ma davvero la working class tradirà il partito dei lavoratori? Insomma, fino all’ultimo si può fare la differenza, perché in molti collegi lo scarto rischia di essere di una manciata di voti. I due leader principali, Corbyn e Johnson, non hanno quindi smesso un attimo di trottare, a favor di telecamere. Corbyn ieri è partito da Glasgow, dove il Labour rischia una bastonata, ed è poi proseguito verso sud, toccando tre seggi in bilico e concludendo la campagna con un evento a East London.

Boris ha continuato la sua campagna berlusconiana: negli ultimi giorni ha posato da facchino, operaio, muratore, perfino lattaio, consegnando bottiglie a domicilio, con l’aria di chi non è mai incappato in un lavoro manuale in vita sua e si sta divertendo un mondo, purché il grande sforzo di farsi uomo del popolo finisca oggi. Ore al cardiopalma anche per certi veterani: il falco brexiter Dominic Raab, ministro degli Esteri, ha un vantaggio di soli 2 punti sullo sfidante Lib-Dem: 2 punti separano il decano conservatore Iain Duncan Smith dall’avversario laburista. A Uxbridge e South Ruislip solo 9 punti fra il primo ministro e il giovane Ali Milani, di cui il Fatto ha scritto sabato scorso. Nove punti sono esattamente quelli che andrebbero a Lib-Dem e Verdi: ieri si rincorrevano gli appelli al voto utile per il Labour. La vittoria di Milani butterebbe Johnson fuori dal Parlamento, mettendo in discussione il suo ruolo da primo ministro.

Vota l’Algeria dei Viceré. Bouteflika non c’è più, il cambiamento neanche

L’opposizione boicotta le elezioni presidenziali che si tengono oggi in Algeria. La votazione, decisa dai vertici militari, non è assolutamente condivisa da chi dal 22 febbraio scorso, ogni venerdì, organizza e partecipa alle proteste di massa, che hanno costretto il presidente Abdelaziz Bouteflika a dimettersi ad aprile dopo i suoi quasi 20 anni di governo.

Dal 2001 in Algeria le dimostrazioni erano illegali. I democratici, che vogliono un cambiamento radicale dell’organizzazione politica del Paese, ritengono che si debba aspettare ancora prima di tenere elezioni libere e democratiche: avevano chiesto più tempo per sbarazzarsi di tutti i vecchi arnesi e delle norme autoritarie del regime. Venerdì scorso ha segnato la 42esima settimana consecutiva. I manifestanti del movimento conosciuto come “Hirak” sono scesi in piazza in gran numero, non solo in Algeria, ma in diverse città del mondo.

L’Autorità Indipendente di Monitoraggio Elettorale dell’Algeria (Niema) in novembre ha ammesso alla competizione solo 5 candidati sui 22 che avevano chiesto di correre. Tutti e cinque hanno partecipato al governo del dittatore o l’hanno sostenuto. Un voto controverso, quindi, i cui protagonisti saranno i candidati da un lato e la piazza dall’altro.

Tra i cinque sfidanti Abdelmadjid Tebboune e Ali Benflis sono entrambi ex primi ministri. Il primo ha ricoperto quel ruolo nel 2017 per poco meno di tre mesi: licenziato in tronco il presidente Bouteflika che l’ha sostituito con Ahmed Ouyahia. Ali Benflis è stato il primo ministro per tre anni, dal 2000 al 2003. Al termine del mandato è stato scelto come segretario generale del Fronte di Liberazione Nazionale, il partito al potere. Un paio di volte si è candidato, senza successo, contro il dittatore per sostituirlo alla presidenza.

Abdelaziz Belaid, è il terzo candidato. Ha fondato il Fronte di El-Moustakbal (Futuro), di cui è il leader. Come Benflis, è anche lui un ex membro del Fln. Ha corso alle elezioni del 2014 e ha ricevuto meno del 4 per cento dei voti, piazzandosi al terzo posto. Azzedine Mihoubi, invece, è un ex giornalista e scrittore che ora serve come ministro della Cultura. Era anche il direttore generale della stazione radio di proprietà statale che recitava le glorie del regime. Infine a correre c’è anche il capo del partito islamista El-Binaa, Abdelkader Bengrina. Anche lui ha ricoperto un ruolo importante: dal 1997 al 1998 è stato ministro del Turismo. La scorsa settimana tutti i candidati hanno partecipato a un dibattito televisivo, il primo nel suo genere nella storia algerina, ma ai manifestanti è sembrato più uno show per far credere che finalmente il Paese è entrato nell’era della democrazia. “Cambiare tutto per non cambiare nulla – ha sentenziato al telefono un dimostrante algerino che parla perfettamente italiano ma avendo paura di ritorsioni vuol restare anonimo –. Voi in Italia conoscete bene questo motto del romanzo Il Gattopardo. Ebbene qui vogliono applicarlo alla lettera”.

I manifestanti antigovernativi vedono i cinque candidati come un prolungamento del regime di Bouteflika: “Come si può pensare che le elezioni possono essere libere e giuste? – si domanda retoricamente il nostro interlocutore –. Se il vecchio dittatore non fosse stato costretto a dimettersi quei cinque sarebbero ancora alla sua corte spolpando questo Paese. Il cancro dell’Algeria è la corruzione dilagante. Questa gente ha vissuto sguazzando nella corruzione, ne ha ricavato ingenti profitti. Impensabile che voglia costruire una diga per combatterla”.

Secondo il governo le elezioni di oggi sono l’unico modo per porre fine alla contrapposizione con l’opposizione in piazza. Ma intanto, per non perdere il vecchio vizio di sbattere in galera gli oppositori, il 10 dicembre tre ex leader politici sono stati condannati a lunghe pene detentive. Le accuse sempre le stesse: corruzione, riciclaggio di denaro, appropriazione indebita di denaro pubblico e abuso d’ufficio.

L’ex primo ministro Ahmed Ouyahia ha ricevuto una condanna a 15 anni di prigione e il suo predecessore Abdelmalek Sellal una pena leggermente più breve di 12 anni. È stato emesso un mandato di arresto internazionale per l’ex ministro dell’Industria Abdesslam Bouchouareb, all’estero. È stato condannato in contumacia a 20 anni. In carcere il giorno prima è finito il responsabile della campagna elettorale di Ali Benflis: spionaggio con un Paese straniero.

I manifestanti non credono che questi siano passi verso un’organizzazione più libera e più giusta. Temono invece che si tratti di semplice fumo negli occhi volto a mantenere al potere ufficiali e generali. Gli accusati sono stati processati da un tribunale militare e così le sentenze vengono interpretate come un regolamento di conti all’interno della nomenclatura dell’esercito. L’obiettivo non sembra essere una democratizzazione del sistema, ma piuttosto un semplice cambio di persone. Insomma, le redini del potere restano nelle mani dell’apparato militare.

“Permessi ai boss, necessaria una nuova legge”

La sentenza della Corte costituzionale ha indicato dei paletti precisi affinché anche un detenuto per mafia (e per altri reati ostativi ai benefici) possa avere un permesso premio pur senza aver collaborato con la giustizia, ma c’è un problema politico: la tendenza, di nuovo, a voler superare la legislazione antimafia e l’uso interno che possono farne Cosa Nostra e le altre mafie. È la prima analisi emersa davanti alla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra, che ha deciso una serie di audizioni per capire quali iniziative legislative intraprendere dopo la sentenza.

Il primo a essere stato sentito è stato Sebastiano Ardita, presidente della Commissione Sorveglianza del Csm, pm antimafia, ex capo dell’ufficio detenuti del Dap. In merito alla pronuncia della Consulta, ha detto che ha utilizzato criteri “abbastanza rigorosi” e che “sembra limitare molto i casi in cui, pur senza collaborare, si possa ottenere un permesso. Dunque, allo stato non vi sarebbe alcun allarme”. Il riferimento è alla necessità di una prova che il detenuto per mafia non abbia collegamenti attuali con l’associazione di appartenenza o che anche durante il permesso premio non possa riallacciarli. Ma per Ardita, anche se la Corte è stata severa, c’è di che preoccuparsi: “Vi è il rischio che la generale tendenza a superare le rigidità della legislazione antimafia venga intesa come un cedimento o una vittoria della mafia, con riflessi sulle dinamiche interne dell’organizzazione che sono in continua evoluzione. Presto arriveranno altre pronunce su questi temi e dovremo essere preparati”. Il consigliere Csm evoca la Trattativa: “Le istituzioni politiche troppo spesso hanno preferito la strategia del contenimento, che si è spinta fino alla trattativa tra Stato e mafia, rinunciando all’annientamento del fenomeno mafioso, tanto auspicabile quanto distante dall’essere adottato”. E ancora: “Cosa Nostra ha un governo. Interpreta ogni evento favorevole come una debolezza dello Stato. La sua storia passa anche da uno dei protagonisti di queste vicende, che si presenta ai suoi giudici come un non appartenente (alla mafia, ndr) perché ha ottenuto lo scioglimento del cumulo (delle pene, ndr)”. Il riferimento è al catanese Sebastiano Cannizzaro, del clan Santapaola. È per la sua richiesta di permesso premio che la Cassazione si è rivolta alla Consulta. A questo proposito Ardita davanti all’Antimafia dice: “Occorre dare un segnale forte e chiaro rispetto alla logica pericolosa ed inquinante di Cosa Nostra catanese, che sembra voler gestire questi eventi come segnali di stabilità e di forza, e come i risultati della strategia dell’infiltrazione e dell’inabissamento”. Ricorda che negli anni 90 “nella ricostruzione dei collaboratori, Cannizzaro ha impedito che Cosa Nostra catanese passasse in mano a Santo Mazzei e ai Corleonesi, favorendo così un nuovo equilibrio mafioso retto dall’alleanza Provenzano-Aglieri-Santapaola-Madonia”.

Ora Cannizzaro “con un’intervista sembra volere affermare la vittoria di quella linea, sommersa e ammiccante verso lo Stato”. Il boss detenuto, all’indomani della sentenza aveva dichiarato: “Capisco che l’opinione pubblica non sarà mai dalla nostra parte. Ma per noi ciò che vale è la legge. E la Consulta ha detto che anche noi abbiamo dei diritti da difendere”.

E ora cosa fare? “Una nuova norma-conclude Ardita- con i criteri stringenti della Corte, vertente solo sul permesso premio” e valutazione dell’ipotesi “di concentrare la competenza per impedire parcellizzazioni di giudizio”. Non lasciare, cioè, la decisione a singoli giudici di Sorveglianza dei vari distretti giudiziari.

Il pm Saieva: “Su Scarantino avevamo dubbi già nel ’94”

Già nel settembre del 1994, tre mesi dopo il falso pentimento di Vincenzo Scarantino, nella Procura di Caltanissetta il rischio di costruire una pista “di sabbia” su via D’Amelio era chiarissimo, al punto che su questo tema l’ufficio si spaccò tra chi voleva “arrivare a un punto di verità processuale” e chi “a tutti i costi salvare Scarantino”.

È l’inedito contesto ricostruito dal Pg di Catania Roberto Saieva, lunedì scorso, nel processo nisseno ai poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati del depistaggio sulla strage Borsellino. E la deposizione di Saieva, ai tempi pm a Caltanissetta, proietta una luce nuova su quello che il presidente della Commissione Antimafia siciliana Claudio Fava definì il “labilissimo confine tra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità” nel depistaggio di via D’Amelio. Anche a livello giudiziario.

Il racconto del Pg di Catania parte dal 6 settembre 1994, quando Scarantino parlò di un summit a Villa Calascibetta, indicando come presenti i boss Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Santo Di Matteo. Ma i tre pentiti negarono la riunione smentendo e ridicolizzando il pentito farlocco “Per me e Boccassini – ha detto Saieva – si poneva un problema palese di attendibilità di Scarantino, mentre il procuratore Gianni Tinebra, l’aggiunto Francesco Paolo Giordano, e il pm Carmelo Petralia suggerivano molta prudenza. A quell’epoca avevano minore rilievo i colleghi Anna Palma e Nino Di Matteo”.

È questo il momento in cui l’indagine taroccata costruita da Arnaldo La Barbera su Scarantino avrebbe potuto trovare un argine nella verifica giudiziaria. Spiega Saieva: “Se un collaboratore ha delle defaillance, si può fare uno sforzo per indurlo a superarle, o si può cercare un punto di verità processuale. Io volevo evitare il rischio di costruire un procedimento sulla sabbia; altri ritenevano invece che si dovesse fare di tutto per salvare il collaboratore”. A quel punto, conclude il Pg di Catania, “apparve necessario a me e alla Boccassini scrivere una nota per fissare le nostre perplessità”.

Non solo. Scrivendo il 12 ottobre quella nota in vista di una riunione della Dda fissata per il giorno successivo, Saieva e Boccassini vollero inviarne una copia anche alla Procura di Palermo, sospettosi che del loro dissenso potesse “non rimanere traccia”. Sospetto più che fondato: Tinebra non protocollò mai la nota e la riunione della Dda del 13 ottobre fu annullata. “Tinebra – dice Saieva – era molto irritato per l’iniziativa. Riteneva che non si dovesse scrivere”.

Che fine fece la nota? “Fu un collaboratore della Boccassini a recapitarla ai colleghi, di recente questo ricordo mi è stato sollecitato in altra sede giudiziaria”.

Saieva si riferisce al suo recente interrogatorio davanti al procuratore di Messina Maurizio De Lucia, titolare dell’indagine sui magistrati Petralia e Palma, accusati di concorso nel depistaggio, e chiamati a deporre, domattina, nel processo a Bo, Mattei e Ricciardi. Né Palma, né Petralia hanno mai descritto quella dialettica interna nei termini di un insanabile dissenso fondato sulle defaillance come ha detto Saieva di Scarantino. Sulla lettera Boccassini-Saieva, Petralia ha minimizzato: “Che si sia discusso di perplessità della Boccassini su Scarantino lo confermo, ma escludo di aver partecipato a una riunione su questo documento”. Palma, addirittura, ha negato tutto: “Questa lettera non l’ho mai vista. Posso giurarlo anche davanti a Dio. E sono molto cattolica”.

 

“Non fu legittima difesa”. Condannato gioielliere

Non è stata legittima difesa, ma duplice e tentato omicidio. La Corte d’Assise di Catania ha condannato a 13 anni il gioielliere Guido Gianni, che il 18 febbraio 2008 a Nicolosi, uccise due rapinatori e ne ferì un terzo. Secondo l’accusa, che aveva chiesto 17 anni, il gioielliere aveva ingaggiato una colluttazione con i banditi, che con una pistola, poi risultata a salve, erano entrati nel suo negozio minacciando di uccidere lui e la moglie. L’uomo ha esploso i colpi mortali dopo che i tre erano fuggiti, colpendoli alle spalle. I giudici hanno disposto un risarcimento per i familiari delle due persone uccise, Davide Laudani e Sebastiano Catania, e il ferito, Fabio Pappalardo.

“L’incubo non è mai finito – ha detto Gianni –. Purtroppo quando un cittadino si trova nei guai per volontà degli altri viene punito perché come ha detto il pm, io da vittima mi sono trasformato in carnefice. Quindi la vittima, che sono, vado a processo”.

La difesa aveva cercato di dimostrare che la reazione dell’uomo era dovuta alle minacce subite e alla preoccupazione che potessero fare del male alla moglie: “La situazione umana a 360 gradi è terribile – commenta il legale Michele Liuzzo –, perché ci dà due morti e la stessa famiglia ‘morta’, con una persona per bene che si ritrova in questa situazione e che alla lettura della sentenza non stava bene, così come la moglie, che subì un aggressione durante la rapina e che adesso si ritrova a vivere accanto al marito un secondo incubo”.

Un sentenza che riapre il dibattito in Italia sulla legittima difesa. Il primo a intervenire è stato Matteo Salvini: “Vergogna! La giustizia italiana condanna alla galera il commerciante aggredito, con la moglie minacciata di morte – ha detto Salvini –. Io sto con chi si difende, sempre”.

Dal Veneto arriva la solidarietà al collega siciliano, con le parole del vicentino Roberto Zancan: “Solo chi ha provato quella paura, sa quanto possa sconvolgere la vita, l’entrata di un ladro nel proprio negozio, il pericolo che possano correre in quei frangenti i propri familiari. Cambia il modo di vivere. A nessuno credo piaccia imbracciare un’arma, ma è anche ‘normale’ che ci sia una reazione”.

Il gioielliere di Ponte di Nanto, la sera del 3 febbraio 2015 subì l’assaltato di alcuni rapinatori, che esplosero diversi colpi d’arma da fuoco. Per difenderlo intervenne il benzinaio Graziano Stacchio, che uccise uno dei rapinatori con il suo fucile. In quel caso, il giudice archiviò, su richiesta della Procura, l’accusa per eccesso colposo di legittima difesa contestato a Stacchio, perché i ladri avevano “sparato per uccidere”, e il benzinaio aveva risposto a una minaccia mortale reagendo con un mezzo proporzionato, cercando però di non colpire parti vitali dei rapinatori.

“Perché condannare una persona che ha difeso la propria attività – dice Zancan –, magari dopo anni di sacrifici per tirarla su? I ladri sono morti, amen. Nessuno gli ha detto di compiere quello che poi hanno fatto”, ha detto Zancan che con una provocazione, ha creato anche una collezione di bijoux chiamata “Legittima Difesa”: collane, braccialetti e orecchini che riproducono rivoltelle e proiettili.

“Salvini fa dichiarazioni senza avere gli strumenti e le conoscenze per formulare giudizi minimamente plausibili. Se lasciasse lavorare forze dell’ordine e magistrati, forse le cose e vuole molto meglio”, ha risposto all’Adnkronos Costantino Visconti, professore di diritto penale all’Università di Palermo.

La Consulta è donna. “Abbiamo rotto un vetro di cristallo”

Terza giudice donna della Corte costituzionale dopo Fernanda Contri e Rita Saulle, ma prima giudice donna a diventare presidente. Marta Cartabia ieri è stata eletta al vertice della Consulta all’unanimità, l’unica scheda bianca è la sua. Resterà in carica per soli 9 mesi, quando si concluderà il mandato di 9 anni. Fu nominata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 13 settembre 2011 a soli 47 anni. Dal 2014 era vicepresidente. Docente di Diritto costituzionale a Milano, è stata allieva di un ex presidente della Corte, Valerio Onida.

Tra le tante pronunce della Corte, di cui è stata relatrice, spiccano quella per il diritto al ricongiungimento familiare dei migranti o quella sull’Ilva: dichiarò incostituzionale il decreto del 2015 che consentiva la prosecuzione dell’attività degli stabilimenti, nonostante il sequestro disposto dalla magistratura. O ancora quella sui vaccini, con la quale la Consulta ha stabilito che l’obbligo di farli non è irragionevole, bocciando così il ricorso della Regione Veneto.

Sposata, madre di tre figli, cattolica, ha ricevuto pubblicamente le preghiere del Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Pietro Parolin che ieri, con il ministro della Salute, Roberto Speranza, era al Bambin Gesù: “L’accompagniamo con le nostre preghiere perché in questo esercizio di grande responsabilità abbia anche l’illuminazione del Signore per il bene di questo nostro Paese”.

Il valore di genere per questa nomina lo ha sottolineato la stessa Cartabia: “Si è rotto un vetro di cristallo. Ho l’onore di essere un’apripista, la neopresidente finlandese ha detto che età e sesso non contano più. In Italia ancora un po’ contano. Un Paese in cui calano gli omicidi, ma non i femminicidi, dimostra che ha un problema anzitutto di civiltà. Siamo fieri del cammino fatto, ma è ancora un cammino incompiuto”.

Sulle polemiche – prima che si conoscessero le motivazioni – per la sentenza a favore dei permessi premio ai mafiosi detenuti, ricordate dai giornalisti, dà una risposta al vetriolo: “Sì alle critiche politiche e mediatiche, ma quando si lanciano allarmi del tutto ingiustificati, allora è giusto provare insofferenza, perché in tal modo si veicolano menzogne, anziché aiutare a capire”. Risponde anche sulla legge di Bilancio, sul doveroso dibattito in Parlamento, oggetto già di una pronuncia della Corte: “È una legge chiave dello Stato: è impossibile che una democrazia non presupponga tempi adeguati al Parlamento per il suo esame” e ricorda quanto stabilito dalla Consulta e ignorato dalla politica: “Non ci siamo limitati a scrivere un monito al Parlamento, come talora facciamo, ma chiesto che fossero rispettate le procedure della democrazia rappresentativa, tanto più sul bilancio che è una legge architrave”.

Ma non c’è ingerenza, la Corte è vero che ha aperto al ricorso del singolo parlamentare “con un requisito, però, oggettivo di conflitto, richiedendo uno standard molto alto per rispettare l’autonomia del Parlamento, in modo che la Consulta resti sul limite della soglia, senza entrare dentro le Camere: deve essere manifesto lo svuotamento della funzione parlamentare”, specifica la presidente Cartabia.

Non si sottrae neppure alla questione del peso che può avere – eventualmente – l’essere cattolica nel suo ruolo di giudice: “Tutti noi arriviamo qui con una personale formazione, sia essa cattolica o atea, politicamente di destra o di sinistra. Ciascuno entra in camera di consiglio con tutte le sue posizioni e i suoi desideri, ma soprattutto con la sua professionalità. La neutralità, in un tale consesso con diversi punti di vista, è assolutamente garantita”.

Amante della musica, la si può vedere alla Scala a seguire l’Opera, ma quando corre al mattino, altra sua passione, ascolta rock. Dagli intramontabili Beatles ai “cattivi” Metallica.

Una Sardina sorridente: piazza contro salotto catodico

Come passa il tempo, e com’è profondo il mare. Sembra ieri che Beppe Grillo voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, e ora c’è la ressa per entrare in una scatola di sardine. Piatto ricco mi ci ficco. Si vogliono impiattare tutti, da Potere al Popolo a CasaPound. E tutti vogliono mettere alla prova il portavoce delle Sardine, Mattia Santori. È già stato interrogato dai professori Gruber, Fazio, Bignardi, Floris, Formigli. In pratica ha passato l’esame di maturità, escludendo esplicitamente i talk di Rete4 a causa della loro aggressività, “una retorica orrenda che divide le persone”. Alla dichiarazione di intenti segue la prova dei fatti. Santori è il contrario del lottatore di sumo politico; sorridente, sereno, vestito come un ragazzo essendo un ragazzo, non fa il contemporaneo, lo è. Ma è anche immune alla video spazzatura, pare appena uscito da un collegio gesuitico. Non abbocca alle esche delle vecchie volpi dei talk: Santori è uno che ascolta. Se appena prende la parola per replicare il suo interlocutore gli dà sulla voce, lui tace e sorride. Se Nicola Porro vaticina “ragazzino, a quarant’anni sarai peggio di Renzi”, la solita vecchia storia del così fan tutti, lui lo lascia dire. Le Sardine sono nate come ribellione dell’hic et nunc alla dittatura della manipolazione mediatica. Le piazze sotto casa contro i salotti elettronici. Sembra una lotta impari, ma anche quella di Davide contro Golia la era. E il futuro ha sempre avuto un cuore antico.

Il “Modello Milano”: marketing politico da “Milano da bere”

Una caratteristica del tanto decantato “Modello Milano” è la pillola indorata. Non sapete ancora che cos’è il “Modello Milano”? Siete out, non capite nulla di glam e di brand, siete tagliati fuori dal place to be. Il “Modello Milano” è la più strutturata e fortunata operazione di marketing politico dai tempi della “Milano da bere”. È la narrazione (storytelling) di una città in cui tutto va bene, le buche nelle strade sono una scelta smart di design urbano, i metrò che frenano a caso facendo andare a gambe all’aria i passeggeri sono una performance metropolitana, la filovia che passa con il rosso e, investita da un mezzo della nettezza urbana, si trasforma in una inconsapevole bomba dell’Isis è un teaser di qualche serie tv, i grattacieli costruiti dappertutto nella città italiana con maggior consumo di suolo sono una simpatica bolla immobiliare che finché non scoppia “crea valore”, l’aria più inquinata del Paese è una opportunity da brandizzare e vendere al mondo intero. Le stesse cose, a Roma, sono (giustamente) sciagure. Sotto il nostro cielo padano diventano ricchezze e idee geniali, come lo zafferano un tempo usato per colorare il vetro che, caduto per sbaglio nella pentola, è diventato il magico risotto alla milanese.

Ebbene, in questo meraviglioso “Modello Milano”, che il sindaco-Pangloss racconta e decanta come il migliore dei mondi possibili, si pratica – dicevamo – il metodo infallibile per far accettare ogni schifezza: indorare la pillola o, se preferite, addolcire la supposta. Vuoi cementificare un milione e passa di metri quadri in sette aree che un tempo servivano come scali ferroviari, arricchendo Fs e Manfredi Catella? Crei dei rendering dove tutto è bello e vedi solo un “fiume verde” che pare il bosco di Biancaneve e i sette nani. Devi dare un senso a un terreno stretto tra due autostrade e un cimitero, per non mostrare di aver buttato miliardi per impiantarci un Expo? Imponi all’Università Statale di trasferirci le facoltà scientifiche e lo vendi sul mercato immobiliare come un polo scientifico fighissimo, uno Human Technopole. Vuoi vendere a Microsoft l’ennesimo palazzo per uffici in città? Chiami le solite archistar – questa volta Herzog e De Meuron – che disegnano un paio di piramidi e in quella più piccola ci piazzi la Fondazione Feltrinelli, così hai realizzato non un’operazione immobiliare, ma una raffinata azione culturale.

L’ultima impresa è la più chic and freak. Con brivido antifascista. Vuoi completare il progetto di Herzog e De Meuron con una terza piramide, sul lato opposto di quella venduta a Microsoft in piazza Baiamonti? Annunci che dentro ci piazzerai il Museo della Resistenza. A questo punto nessuno può resistere. È una bellissima iniziativa. È un investimento straordinario nella materia più preziosa, la memoria. Peccato, però, farlo proprio lì: dove i milanesi avevano chiesto di recuperare l’area un tempo occupata da una pompa di benzina per farne un piccolo parco verde. I cittadini, interpellati dalla giunta, avevano detto: no alla piramide, vogliamo il parco. Il comitato “contro la piramide” aveva raccolto 1.400 firme. Il consigliere comunale Carlo Monguzzi (uno del Pd, mica un grillino) aveva detto: “Dobbiamo dare un segnale forte, meno cemento e più alberi. Abbiamo l’occasione di passare alla storia come quelli che hanno spezzato in due una piramide di cemento e al suo posto piantato alberi”. Invece niente. Bocciata la proposta di Monguzzi e di Milly Moratti (altra pericolosa dem verde), s’impone la piramide. Ma la si indora con il Museo della Resistenza. Bello. Bellissimo. Ma non è che così il sindaco-Pangloss finirà per far odiare, ai cittadini che volevano il parco, perfino la Resistenza?