Un talk show seppellirà noi (e pure la verità)

“Non è il tempo per dividersi o per lasciarsi dividere”, dice il premier Conte nel suo intervento sulla riforma del fondo Salva-Stati di fronte a una Camera semideserta, soprattutto tra i banchi della maggioranza. E già viene da chiedersi: ma come si fa a tenere uniti i partner europei, se manco si riesce con quelli italiani? Eppure in quel vuoto c’è di più: nelle assenze parlamentari su temi – come il Mes – che invece fanno il pieno su giornali e talk, c’è il chiaro segno che ormai la battaglia politica si è spostata altrove: tv, social e – Renzi docet – tribunali.

Così le questioni diventano evanescenti, discutibili, opinabili, non Uno vale Uno ma Tutto vale Tutto, chiunque può dire la qualunque su qualunque cosa (tanto anche le competenze sono ormai evanescenti), la verità non esiste perché si mente sapendo – o non sapendo – di mentire (il risultato è lo stesso), al solo scopo di aumentare i propri tifosi, gratificarli, nutrirli con nuove polpette (avvelenate) e, possibilmente, zittire gli oppositori, chi la pensa diversamente o, semplicemente, dice le cose come stanno. Ma che importa? Sarà vero? Perché lo dice lui? Lui chi? È la mia parola contro la sua! Cip, mi insultano sui social. Drin, squillano alla porta: c’è una querela…

È così che gli italiani sono terrorizzati per l’arrivo di “ben” 11 mila migranti nel 2019 e non sanno come fronteggiare l’“invasione”, o temono l’assalto ai loro conti per salvare le banche tedesche, anche se il 66 per cento non sa assolutamente cosa sia il Mes. Un Meccanismo elaborato nel 2011 col governo Berlusconi-Lega, istituito col governo Monti (e la Meloni nella maggioranza che lo sosteneva), arrivato alla riforma durante il governo gialloverde con la condivisione di Lega e Salvini, ma ora per i leader nero-verdi è un “attentato ai danni degli italiani” colpa dei giallorossi. E il premier “un bugiardo”, “si vergogni”. Nel regime de “la mia parola contro la tua” l’unico sprazzo di verità sembra essere: come mai Salvini non querela Conte – al pari suo – se dice falsità nei suoi confronti? Un film già visto: si intitolava Russiagate e Salvini prendeva le distanze ma non querelava Savoini, per averlo trascinato nell’inchiesta per corruzione internazionale del Metropol.

Il Salvini paladino dei risparmiatori contro le banche feroci era l’altra sera dalla Berlinguer: “Ricordo la direttiva sulle banche, il bail-in, votata a furor di popolo dal Pd: andate a chiedere ai risparmiatori (…) che ci hanno rimesso miliardi di euro per salvare le banche”. Applausi. Così in tv, ma nella realtà la direttiva 59 che ha introdotto il bail-in (far pagare le crisi bancarie ad azionisti, obbligazionisti, correntisti) fu approvata dall’Europarlamento nell’aprile 2014 col sì del Pd, certo, e di FI. E la Lega si oppose? No, si astenne (anche l’europarlamentare Salvini).

E l’uso del contante? A ottobre dalla Gruber, in pieno furore anti-manovra e pro-cash, tuonava: “È sbagliato limitare l’uso del contante!”. Solo 7 mesi prima, marzo 2019, sempre l’Europarlamento aveva approvato la Relazione sui reati fiscali, evasione ed elusione fiscale che diceva testualmente: “Le transazioni in contanti restano un rischio molto elevato in termini di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale, nonostante i benefici, quali accessibilità e velocità”, si “invita pertanto la Commissione a elaborare una proposta sulle restrizioni europee ai pagamenti in contanti”. Come votò la Lega? A favore! Già, si preparava a governare…

Di lotta e di governo, di palco (tv, social) e di realtà.

La privacy di Renzi violata da lui stesso

Alla fine degli anni 50 il commendator Meneghini, marito di Maria Callas, fece causa ad alcune testate giornalistiche lamentando gli ampi resoconti sulle sue sfortune coniugali. La Cassazione respinse le tesi del facoltoso industriale sul rilievo che lui stesso, in passato, aveva rivelato, sui media, fatti intimi del suo rapporto con la “divina”.

In sintesi: chi si espone volontariamente nel mondo dell’informazione non può poi lagnarsi se le notizie a lui relative non sono sempre gradevoli. Grava sulla sua autoresponsabilità aver accettato di far parte dell’ingranaggio e di consegnare al pubblico la sua immagine e quanto a quella si riferisce. Questo insegnamento giurisprudenziale, che cito a memoria, ha più di cinquant’anni ma mantiene una sua inalterabile freschezza. Il principio si estende ovviamente a quanti ricorrono senza parsimonia ai media, in primo luogo i politici. Ciò deriva dalla libera scelta di estrinsecare la loro personalità nel più ampio contesto della vita pubblica. Di questo deve essere consapevole chi coltiva quella vocazione perché il suo operato è continuamente valutato (come dimostrano i sondaggi) per essere ricondotto alla ricerca del bene comune, fondamento dichiarato di ogni attività politica. Chi vi si dedica professionalmente deve mettere in conto che la sua vita diventa per la collettività una specie di libro aperto, del quale potrà cercare di nascondere qualche pagina, senza pretendere di poterlo chiudere a piacimento. L’impone l’affidamento che la gente deve avere in lui e che non riguarda solo i provvedimenti, le leggi e le iniziative del suo ufficio, ma anche la sua credibilità come persona, da misurare anche sotto il profilo dell’agire non pubblico. In altre parole: la dimensione privata non può essere opposta a tutela della riservatezza per il politico che sborsa più di un milione di euro per comprare una villa o per quello che si diletta con intraprendenti musmè nella sua residenza. Coloro che hanno dato loro fiducia e gli altri componenti della collettività hanno pieno titolo a conoscere anche questi aspetti “non pubblici” perché il consenso elettorale si fonda non solo su programmi, discorsi e difesa di interessi, ma anche sull’opinione complessiva che si ha di una persona abilitata a gestire i destini del Paese.

Queste imprescindibili clausole comportamentali per l’uomo politico non sono del tutto chiare al senatore di Scandicci, il quale reclama, lamentandone la violazione, la piena riservatezza su acquisti milionari, conti correnti e conoscibilità della residenza. È stato lo stesso senatore a rendere pubblico, a suo tempo, il suo conto corrente con un attivo di poche migliaia di euro, di fatto legittimando la generale curiosità sui successivi strepitosi miglioramenti. Quanto alla villa, è previsto, per le “note personalità”, lo stazionamento di un servizio di guardia per preservarne la serenità, con l’effetto di estendere la piena conoscibilità del luogo a un indeterminabile numero di soggetti. A prescindere dagli squadristici attacchi al giornalista Formigli da parte di esponenti di Italia Viva, quello che stride, nella lamentazione renziana, è la dichiarata volontà di separare nettamente, in un mondo dominato dalla comunicazione continua, il piano privato da quello pubblico.

In passato operazioni del genere sono riuscite bene a personaggi come Hitler, Stalin, Mao, cioè a dittatori. Per personaggi di minor peso, come il predetto senatore, vale ancora una celebre battuta di Humphrey Bogart: “È il giornalismo, bellezza!”

Mail box

 

Sardine, a chi strumentalizza dovete dire solo “no grazie”

Caro Travaglio, non sono d’accordo con la sua ingenua apertura, a Otto e Mezzo, ai militanti di CasaPound che magari si convertono alla democrazia partecipando alle Sardine. Come non sono stato d’accordo con Ogongo che apre a CasaPound nell’intervista al Fatto. Avevo già scritto una lettera al riguardo, dicendo che le Sardine dovevano solo dire “no grazie” (come titolavate ieri) per un semplicissimo motivo: la strumentalizzazione pubblicitaria che quelli di CasaPound avrebbero fatto della loro presenza nel movimento, con o senza Sardine in mano. Così come avrebbe fatto Berlusconi, con la foto della fidanzata Pascale in qualche piazza di Sardine e l’amplificazione istantanea sui social media.

Possibile che non vi rendiate conto che anche senza bandiere, basta la freccia (specie se nota) a sputtanare il movimento? In nome di una ideale e strumentale “apertura a tutti”?

Infine, Bella Ciao cantata dalle Sardine non può essere trattata come qualcosa di strumentalizzante, dato che proviene dallo spirito antifascista della Costituzione. Va difesa dagli attacchi di Salvini e dei neofascisti!

Marzio Campanini

 

CasaPound a San Giovanni? Perché no, magari guariscono

Caro direttore, seguo sempre Otto e mezzo quando vi partecipa lei, Scanzi o Padellaro. Sentire in tv quello che leggo tutti i giorni sull’edizione cartacea è una notevole soddisfazione.

Non sono d’accordo però su quanto ha detto riguardo alla partecipazione di CasaPound alla manifestazione delle Sardine. Se alcuni di CasaPound vi partecipassero in forma privata, a titolo personale e senza pubblicità non ci sarebbe niente di strano, ma in questo modo, con la rilevanza mediatica che viene data all’avvenimento, penso sia controproducente.

Non so se partecipando alla manifestazione qualche esponente dei “fascisti del terzo millennio” possa cambiare idea, è molto più facile che il movimento perda qualche migliaio di loro simpatizzanti di sinistra.

Giulio

Caro Giulio, era proprio questo il senso della mia affermazione: se qualche militante di Casapound, a titolo personale e senza bandiere, vuole andare in piazza con le Sardine, è libero di farlo. E credo che incontrare tante persone normali potrebbe aiutarlo a guarire.
m.trav.

 

Contro il liberismo sfrenato il M5S è ancora decisivo

Nella conclamata crisi del Movimento 5 Stelle, da iscritto, vorrei contribuire al “che fare?”. Bisogna partire col chiederci se, e a quali condizioni, il M5S sia decisivo per il Paese. Secondo me lo è, perché in Italia c’è bisogno di una forza rivoluzionaria ma non “sfascista”. Rivoluzionaria rispetto a un Pd sedotto dal liberismo, ma anche rispetto a una sinistra irrilevante. Non “sfascista” perché riconosciamo nella destra l’alfiere del capitalismo predatorio: e quindi, mentre ci battiamo per una società solidaristica, sappiamo rifuggire da campanilismi anti-Europa. E nel Paese c’è bisogno di una forza politica capace di perseguire una guerra all’evasione fiscale, un contrasto risoluto alla corruzione dilagante, una lotta agli sprechi a 360° e una capacità di ridisegnare l’economia del Paese a partire dal giacimento di arte, cultura, paesaggio, stile di vita e nicchie di made in Italy. E infine c’è bisogno di accrescere i diritti civili, tra i quali è preminente l’eutanasia. E l’immigrazione? Purtroppo il dilagare di un liberismo che ha precarizzato non solo il lavoro, ma la stessa vita, ha provocato un senso di insicurezza esistenziale che la destra ha avuto buon gioco a strumentalizzare. Ormai quest’insicurezza è entrata ai primi posti dell’agenda politica e richiede di essere gestita, non ignorata. Con misure anche “securitarie”, da non lasciare nelle mani della destra.

Rinaldo Alberico

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo pubblicato ieri a pag. 11 del Fatto Quotidiano dal titolo: “Privacy, il sogno di Ignazio resiste” riferito alla programmata votazione in Parlamento per eleggere i componenti dell’Authority della Privacy, mi permetto di segnalare che non ho mai dichiarato di voler fare il Presidente dell’Authority, né tantomeno di voler lasciare il Parlamento e, come prescrive la legge, ogni impegno non solo politico ma anche professionale.

Vorrei che prendeste quindi atto che per me sicuramente non è e né potrebbe essere “un sogno” rinunciare alle mie passioni (politica e professione) per un ruolo per quanto prestigioso in una Authority. Certo che questa incredibile e spasmodica attività di ambienti governativi (o comunque ostili al centrodestra) per creare una norma o almeno una qualsiasi soluzione “contra personam”, da un lato mi inorgoglisce ma da un altro lato mi fa tristezza perché ripercorre la tradizionale conventio ad excludendum nei confronti degli uomini di destra in ogni campo. Finirà che se insistono potrei anche rivalutare la mia decisione di non lasciare la politica.

Ignazio La Russa

Napoli. De Laurentiis e Ancelotti: se i ruoli non sono chiari, allora salta sempre tutto

Dopo la cacciata di Ancelotti dal Napoli, pongo una questione: di chi sono le squadre di calcio? Chi comanda? Perché, da quanto avete rivelato voi con Ziliani, l’allenatore non conta nulla, non decide neanche le parole per i suoi social; allo stesso tempo le società non sembrano così solide, quadrate intorno a un progetto. I calciatori? Marionette del momento. I tifosi? Sempre meno organizzati, sempre meno incisivi. Quindi, chi?
Luca Nascimbeni

Premesso che parliamo di due entità diverse, società e squadra, con la prima che contiene la seconda come in una matrioska, lo schema dovrebbe essere semplice: alla società pensa il presidente e alla squadra (che pure appartiene al presidente) pensa l’allenatore. I ruoli (e le prerogative, e i compiti) devono essere chiari, altrimenti nessuno ci capisce più niente, né i giocatori né i tifosi, saltano tutti i paletti e si scatena il caos. Esattamente com’è successo a Napoli, e davvero nessuno se lo sarebbe aspettato. Un po’ perché De Laurentiis fa il presidente dal 2004, magari con un po’ di spocchia di troppo, ma dire che non l’abbia fatto bene è impossibile (prese il club in Serie C e da qualche anno l’ha portato a giocare stabilmente in Champions League); e un po’ perché Ancelotti, l’uomo che assieme a Zidane ha vinto più Champions nella storia (cinque: due da calciatore e tre da allenatore), aveva un pedigree tale da scacciare ogni dubbio sul fatto che anche a Napoli, come a Milano, Londra, Parigi, Madrid e Monaco, sarebbe stato allenatore con la A maiuscola. E invece no. Nella stagione in cui tutti attendevano la consacrazione del Napoli a top club europeo, la scoperta, tragicomica, è stata quella di ritrovarsi davanti a un Napoli dimensione Borgorosso Football Club; con un presidente che chiede e ottiene, da contratto, che l’allenatore non metta becco in tema di ritiri della squadra, gli consegni le chiavi dei suoi account social col diritto di scrivere ciò che vuole a suo nome, si paghi la lavanderia e i rabbocchi di benzina al distributore; e un allenatore (Ancelotti, mica Piripicchio) che china il capo e accetta e firma ogni clausola; e poi a un certo punto inevitabilmente va a sbattere quando i giocatori scoprono che non conta nulla e che non può tutelarli nemmeno se pensa, come pure pensa, che andare in ritiro punitivo dopo il Salisburgo sia un’idiozia. Il figlio e il genero di Ancelotti fatti inserire a libro-paga nel suo staff tecnico erano un indizio: Ancelotti stava facendola fuori dal vaso. De Laurentiis ha voluto superarlo, stravincere: e così alla fine hanno perso tutti. Soprattutto i tifosi.
Paolo Ziliani

“Banca di Piazza Fontana, vedo un braccio umano”

Il pomeriggio del 12 dicembre 1969 fu particolare anche prima delle 16:37. Su una Milano quasi invernale, il clima era più cupo del solito. Un po’ perché sulla città cadeva fitta una pioggia nebulizzata che appesantiva la nebbia. Un altro po’ per il crepuscolo anticipato rispetto al solito a causa di una cappa di smog così straordinaria da finire sui giornali. Si aggiungeva l’assenza di luminarie pubbliche per il Natale ormai prossimo. Quell’anno, infatti, il Comune, guidato dal sindaco socialista Aldo Aniasi, aveva deciso di destinare i trecento milioni previsti per i festoni alle famiglie degli operai che, nel corso dell’autunno caldo, avevano scioperato facendo precipitare economie domestiche già normalmente tutt’altro che floride. Così, per tutti questi motivi, quello che si stava avvicinando, per la stampa, era già un Natale nero.

Poi riecheggiò l’esplosione. Anzi, le esplosioni, succedutesi nel giro di cinquantatré minuti. Il plurale è d’obbligo perché, oltre a Piazza Fontana, fu colpita in tre punti diversi anche Roma, mentre a Milano, alla Banca Commerciale di piazza della Scala, venne trovata una valigetta contenente l’ennesima bomba di quella giornata. Non saltò per aria, ma alle 21:00 del 12 dicembre l’ordigno fu fatto brillare, ufficialmente perché ritenuto pericoloso. Una precauzione che nella sostanza fece perdere importanti reperti che avrebbero potuto essere utili alle indagini. Sembrò il momento iniziale di un colpo di Stato. E il messaggio era implicito, ma chiarissimo: possiamo agire ovunque, a centinaia di chilometri di distanza, in modo simultaneo, decidendo della vita e della morte di ignari cittadini. Perché alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, pieno cuore di Milano, le vittime vennero deliberatamente cercate. Qui si registrò il più devastante degli attentati della giornata. Impossibile, come sostenuto da qualcuno, che si volesse colpire a istituto chiuso, senza fare morti. Tutti infatti sapevano che gli sportelli, in quel giorno della settimana, erano aperti perché accadeva ininterrottamente dal 1921, anno in cui gli agrari fondarono la Bna e in cui si deliberò la concessione straordinaria alle contrattazioni del venerdì pomeriggio. Collocando una bomba sotto il pesante tavolo del salone centrale, quello che veniva chiamato la “rotonda”, il massacro sarebbe stato inevitabile. E lo scenario che si stagliò nei minuti successivi alla deflagrazione lo dimostrò.

Subito i telefoni della banca iniziarono a squillare. A chiamare era la questura, dove era scattato l’allarme, e un agente chiese cosa fosse successo a un sopravvissuto. Alzò la cornetta un impiegato della Bna, Fortunato Zinni, che sotto choc cercava di muoversi al buio, circondato dal fumo acre e dai lamenti dei feriti. “Che cosa vede?”, gli domandò il poliziotto all’altro capo del filo, in via Fatebenefratelli. “Un braccio umano”, rispose Zinni, buttando giù il telefono subito dopo. L’uomo, per quanto traumatizzato, si rese conto dell’assurdità della risposta. Una risposta che sarebbe stata adatta per un’azione di guerra, non per un pomeriggio prenatalizio. Per questi fatti, nei decenni a seguire, tre furono i filoni d’indagine. (…) Il terzo portò sul banco degli imputati un medico (ed ex ufficiale medico) di Venezia laureatosi a Padova, Carlo Maria Maggi, poi condannato per un’altra strage, come si vedrà. Accanto a lui c’era un mestrino più giovane, cultore di filosofie orientali e di arti marziali, Delfo Zorzi, e un milanese, Giancarlo Rognoni. I primi due furono accusati di aver deciso e coordinato l’esecuzione della strage di Piazza Fontana mentre al terzo, leader della Fenice, articolazione lombarda di Ordine Nuovo, venne contestato il supporto logistico. Un quarto imputato, Stefano Tringali, doveva rispondere di favoreggiamento nei confronti di Zorzi.

Manzione senza requisiti: oggi si decide

È l’ultimo round prima della sentenza. E l’udienza di oggi al Consiglio di Stato, chiamato a decidere sulla legittimità della nomina da parte dal governo presieduto da Matteo Renzi di Antonella Manzione proprio a Palazzo Spada, sarà decisiva. Tanto che le difese di Manzione e dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi, che ha fatto ricorso contro la sua designazione a consigliere di Stato, se le sono date di santa ragione. Memorie e repliche al vetriolo. L’amministrativista di grido Luisa Torchia, che assiste l’ex capo dei vigili urbani di Firenze, sostiene che avesse tutti i titoli per essere indicata dal governo Renzi come consigliere di Stato dopo la fine del suo incarico al Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi. E questo nonostante la Manzione nel 2016 non avesse i requisiti e l’età minima per ottenere l’incarico, come continua a sottolineare l’avvocato di Anma, il professor Enrico Follieri.

Che nella replica depositata agli atti di Palazzo Spada scrive testualmente: “Si commenta da sé il dato che il politico il quale ha segnato positivamente gli sviluppi della carriera amministrativa della contro interessata, l’abbia ritenuta capace di svolgere la funzione cui è stata preposta, ritenendola equiparata a un dirigente generale dello Stato (?). Evidentemente questo imprimatur non può vincolare né il giudizio del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa né il sindacato del giudice amministrativo”.

Cosa sostiene Manzione, tramite i suoi avvocati? Che il ricorso contro la sua nomina è irricevibile perché tardivo. Anzi, l’Associazione che riunisce i magistrati amministrativi non aveva diritto di opporsi alla sua nomina per carenza di legittimazione. E ha voluto costruire “artificiosamente un casus belli” con il caso Manzione col solo obiettivo di mettere in discussione la facoltà stessa del governo di indicare una quota di consiglieri di Stato.

E i requisiti che mancherebbero all’appello? Manzione non è né professore universitario né magistrato o avvocato di lungo corso, ma era dirigente, per quanto in un’amministrazione locale. Il che renderebbe il suo curriculum perfettamente equiparabile a quello dei grand commis di Stato. Pure sul requisito minimo dell’età è necessario chiudere un occhio, anzi due. L’Anma non può “pretendere di sostituire le proprie valutazioni a quelle dell’organo deputato alla formulazione del parere, con un inammissibile sconfinamento in un ambito riservato in via esclusiva alla discrezionalità dell’amministrazione”.

Abete vuol licenziare 23 cronisti. L’esposto ai pm contro la sua ex

Luigi Abete è stato ed è mille cose: presidente di Bnl, ad esempio, come pure della Luiss Business School, della Febaf (Federazione banche, assicurazioni e finanza), eccetera. Abete è pure imprenditore in proprio tramite la holding di famiglia A.Be.Te, che l’anno scorso gli ha dato qualche dispiacere visto che, dopo svalutazioni per 2 milioni di euro, ha registrato una perdita da 1,7 milioni.

Le brutte notizie per A.Be.Te sono dovute soprattutto ad Askanews, un’agenzia di stampa in cui non hanno mai messo soldi e sulla quale da gennaio pende una richiesta di concordato preventivo in continuità al Tribunale di Roma. In sostanza, gli Abete vorrebbero far pagare la crisi a dipendenti e creditori: chiedono, in particolare, di licenziare almeno 23 giornalisti su 76 per risparmiare circa 2,4 milioni di euro in un’azienda che, da quando esiste nel 2014, ha più o meno continuamente usufruito di ammortizzatori sociali. Il giudice non ha ancora deciso, ma intanto l’azienda ha comunicato al sindacato la chiusura delle trattative interne: si parla solo al tavolo ministeriale, un bello schiaffo pure al sottosegretario Andrea Martella, che ha la delega all’editoria e ha convocato azienda e comitato di redazione per stamattina.

Per manager e imprenditori, si sa, razionalizzare i costi e mandare a casa i lavoratori è spesso un’operazione impersonale: sono numeri. In realtà, per chi è coinvolto, è personalissima e stavolta anche Luigi Abete dovrà trattarla come tale. Alla Procura di Roma è depositato infatti un esposto (che ad oggi non ha prodotto indagati) in cui si parla di Abete, Askanews e di Désirée Colapietro Petrini, giornalista e sua ex fidanzata: l’accusa, in sostanza, è di averla assunta in forza alla redazione spettacoli – in Asca e poi in Askanews – senza che la collega abbia mai effettivamente lavorato per l’agenzia (dove, effettivamente, in dieci anni non l’ha vista quasi nessuno).

Poco male, se non fosse che la stessa cronista risulta nella lista di chi ha usufruito di contratti di solidarietà e Cassa integrazione. Insomma, è stata in carico al già malmesso Inpgi (la cassa previdenziale dei giornalisti): cifre marginali, ma la vicenda è imbarazzante. Nell’ultimo round negoziale sulla Cassa integrazione, all’inizio del 2019, questa storia fu tirata fuori dal sindacato persino al tavolo ministeriale senza che l’azienda replicasse nulla. L’interessata – che online si descrive come press agent nel settore spettacoli – al Fatto smentisce la ricostruzione dell’esposto: “Sono stata assunta nel 2009 in Asca per aprire la sezione spettacoli, ho un part time che mi consente di fare anche il mio altro lavoro di ufficio stampa e ho sempre fatto quel che dovevo da contratto, anche andare in redazione quando mi è stato chiesto. Sapevo di questa cosa e umanamente mi addolora, ma sono tranquilla: si usa la mia vita privata per colpire l’azienda”. Anche l’azienda nega qualunque problema: “Tutti i dipendenti assunti lavorano regolarmente per l’agenzia”.

In realtà la procedura concorsuale – che ha le sue ragioni nelle perdite per oltre 5 milioni degli ultimi due bilanci (cui se ne dovrebbero aggiungere almeno 2 quest’anno) – potrebbe rivelarsi “imbarazzante” anche per un altro motivo. Per capire, serve un breve riepilogo. Askanews nasce nel 2014 dalla fusione tra la cattolica Asca, già controllata da Abete, e TmNews, che l’uomo di Bnl aveva preso da Telecom, previa ricapitalizzazione, pagando un euro (sic). Quella fusione creò, tra le altre cose, anche un credito da 2,6 milioni di Askanews nei confronti della A.Be.Te, debito che quest’ultima ha poi passato alla News Holding, sempre di Abete. A marzo 2017, mentre già si parlava di crisi dell’agenzia, News Holding “vende” ad Askanews due partecipazioni (tra cui il 19% di Internazionale) per oltre 2,2 milioni di euro, estinguendo di fatto il credito dell’agenzia. Soldi che avrebbero fatto assai comodo oggi, specie in presenza – se verrà autorizzata – di una procedura concorsuale che chiama i creditori a partecipare alle perdite.

Ora, bizzarramente, il credito verso A.Be.Te è un diventato debito (anche se, a fine 2018, di modesta entità) e – nel piano messo a punto dall’azienda – c’è pure il trasferimento della sede dal centro di Roma alle palazzine di proprietà della famiglia nella periferia orientale della città al costo di 150 mila euro l’anno: soldi a cui la holding, bontà sua, rinuncerà (temporaneamente) per rimpinguare il capitale di Askanews. Oggi la palla è a Palazzo Chigi, paradossalmente la vera causa della crisi con la scelta scellerata di assegnare i fondi attraverso il farraginoso sistema delle gare inventato da Luca Lotti.

Aria di ricambio all’Anas, Simonini traballa

La battaglia è in corso e magari regalerà colpi di scena e tempi più lunghi. Ma la certezza è che tira aria di ricambio all’Anas, la società pubblica delle strade controllata dalla Ferrovie dello Stato. La ministra dei Trasporti Paola De Micheli si sarebbe ormai convinta a cambiare l’ad, Massimo Simonini. Resta da capire cosa pensa il Tesoro, che controlla le Fs e i 5Stelle, a cui isi può ascrivere il manager.

A nominarlo a fine 2018 è stato l’allora ministro Danilo Toninelli, che ha sostituito il renziano Gianni Armani pescando una figura di quarta fila: è entrato in azienda nel 1966, quando il padre era capo Compartimento dell’Anas. Oggi non è più chiaro se il manager possa contare sulla copertura dei 5Stelle, che non sembrano in grado di fare le barricate, ammesso che lo vogliano. A Simonini sono imputati risultati non brillanti: la produzione di nuove opere è prevista crollare del 50% nel 2019 principalmente a causa del fallimento di diverse ditte appaltatrici.

Fino a ieri in pole position per prenderne il posto era dato Cristiano Cannarsa, ad della Consip, manager assai caro a Matteo Renzi. Candidatura tramontata per l’assenza di qualsiasi esperienza nel settore. Il nuovo nome pensato dalla De Micheli è quello di Ugo Dibennardo, manager interno, già fedelissimo dell’ex padre padrone della società Piero Ciucci e promosso dal suo successore. Il suo nome era già circolato quando Toninelli decise di silurare Armani.

È il primo ricambio nel settore dei trasporti, che sembra stare molto a cuore ai renziani. Nelle scorse settimane Italia Viva aveva messo nel mirino il capo delle Fs, Gianfranco Battisti, anche lui scelto da Toninelli, senza però riuscire ad affondare il colpo. L’attacco aveva messo in fibrillazione il mondo delle Fs ancora legato a Mauro Moretti, l’ex padre padrone dell’azienda vicino a Renzi e che nei corridoi ministeriali è considerato il consigliori della De Micheli.

Il tentativo di revanche si sposa con quel che sta accadendo al ministero, dove i burocrati che in questi anni hanno dettato legge a Porta Pia sognano la rivincita. Il primo segnale è stato l’avvicendamento al vertice del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Il presidente Donato Carlea si è dimesso dopo una lunga diatriba giuridica con gli uffici ministeriali perché prossimo alla pensione. Era stato nominato meno di un anno fa da Toninelli. Da Provveditore alle opere pubbliche in Lazio e Abruzzo aveva fronteggiato la cosiddetta “cricca” di Angelo Balducci nella ricostruzione post-terremoto de L’Aquila. Nel 2013 l’allora ministro Maurizio Lupi lo fece fuori, relegandolo a Napoli. Lo sostituì Massimo Sessa, alto dirigente del ministero rimasto poi al comando fino alla nomina di Carlea. Ora ne riprenderà il posto.

Il viadotto A6 come il Morandi. La Finanza nelle sedi dei Gavio

Un’inchiesta gemella. L’indagine sul crollo del viadotto sull’autostrada A6, vicino a Savona, sembra la copia con carta carbone di quella genovese sul Morandi. Si parte da un disastro – stavolta senza vittime – ma si mette il naso nei controlli e nella manutenzione. Tanto che la Guardia di Finanza di Savona è in stretto contatto con i colleghi di Genova che negli ultimi due anni hanno maturato esperienza sul campo.

A Savona sotto la lente di ingrandimento non c’è l’Aspi, partecipata dalla famiglia Benetton, ma ci sono le società del gruppo Gavio (il secondo gestore autostradale d’Italia con 1.423 km in concessione e il quarto al mondo con 4.156 km). Sul fascicolo per disastro colposo non ci sono indagati, ma ieri la Finanza agli ordini del maggiore Giuseppe De Mitri si è recata a Torino negli uffici dell’Autostrada dei Fiori e nelle sedi di Milano e Savona della Sina per acquisire documenti. Ecco un’altra analogia: Aspi è concessionaria dell’autostrada dove si trovava il Morandi, ma i controlli erano affidati a una società controllata, la Spea. Sulla A6 i controlli di sicurezza erano compiuti anche dalla Sina (gruppo Gavio). Quella prassi che il governo ha dichiarato di voler cambiare, come ha promesso ieri in Parlamento il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli riferendo sul caso Savona: “Le valutazioni di sicurezza devono essere compiute da soggetti indipendenti”. Il governo vuole coinvolgere anche le università chiedendo ai gestori di rispettare “i più alti standard tecnici”.

Ma torniamo a Savona. I pm Ubaldo Pelosi e Marco Cirigliano vogliono vederci chiaro sui controlli, la manutenzione e soprattutto i voti di sicurezza attribuiti ai viadotti da chi doveva analizzare la salute delle opere. In realtà i fascicoli aperti sulla A6 sono due. Il primo è partito dall’esposto presentato ben prima del crollo del 24 novembre da Paolo Forzano. L’ex ingegnere Ansaldo, dopo il crollo del Morandi, aveva puntato il dito sulle condizioni dei viadotti della A6, sostenendo “che non vi sia stata manutenzione profonda, ma cosmesi… Nessun intervento di ripristino o rinforzo”. Il secondo fascicolo, appunto, è quello sul crollo di novembre. Si dovrà intanto stabilire se la causa sia stata un difetto di costruzione o manutenzione del viadotto. Oppure se tutto sia dovuto alla frana. E in questo caso se vi sia qualche responsabilità che non toccherebbe i concessionari dell’autostrada.

Ma i pm savonesi potrebbero anche acquisire un recente fascicolo conoscitivo dell’Anac che si occupava tra l’altro del tronco A6 Torino-Savona. Anac valutava il rapporto tra gli investimenti complessivi previsti dai concessionari nel piano economico-finanziario e le spese per la manutenzione. Il risultato, in molti casi, non è lusinghiero. Ma riguardo ad Autofiori c’è un elemento particolare: “Non sono stati forniti i dati necessari per calcolare le spese di manutenzione”. Non solo: il rapporto dell’Autorità si concentra anche sugli appalti che i concessionari devono destinare a terzi. Un fattore che giova a competizione e sicurezza. Il paragrafo dedicato ad Autofiori non è esaltante: “Per il Tronco A6 Torino-Savona il limite non sembra sia stato rispettato per gli anni 2015 e 2016; per il Tronco A10 Savona-Ventimiglia non sembra rispettato negli anni compresi tra 2009 e 2016”.

Le indagini di Genova e Savona stanno facendo tremare tutto il mondo dei gestori autostradali. E anche ieri il deputato M5S Simone Valente ha ribadito la richiesta del suo partito: “Revoca delle concessioni”.

L’altro re del Giglio social (che fa gaffe pure offline)

Magari una bestia no, ma una bestiolina di sicuro. A capo della quale c’è Alessio De Giorgi, 50 anni nato a Genova ma “toscano nel cuore”, chiamato nel 2016 a Palazzo Chigi per guidare la comunicazione digitale di Matteo Renzi e oggi del suo nuovo partito, Italia Viva. Ieri ha provato a difendersi da chi accusa i renziani di avere una struttura comunicativa simile a quella di Matteo Salvini dopo gli insulti di molti sostenitori dell’ex premier nei confronti di Corrado Formigli: “No. La Bestia no – ha scritto irritato – Chiamateci come più vi aggrada, ma la Bestia no. Perché ci guida un sistema valoriale ben diverso da quello di Salvini: un sistema molto solido, che magari non tutti condividete ma che non è certo dettato dai likes. Perché non usiamo troll, ma i nostri sono soltanto utenti reali”.

Poi però il capo della comunicazione renziana ha ammesso che “certo, siamo attrezzati e ci coordiniamo” perché “da sempre capiamo l’importanza di una presenza forte sulla comunicazione digitale. E certo, a dei singoli ogni tanto manca il freno a mano e, per quanto ci è possibile, cerchiamo di fermarli”. Eppure, De Giorgi alle uscite a vuoto ormai si è abituato: nell’estate del 2017 era scoppiata una polemica su alcuni post e tweet della pagina “Matteo Renzi news” che ricordavano molto le campagne di Tze Tze del M5S o della Bestia salviniana: “condividiamo”, “diffondiamo” e giù post di Renzi paragonato al capitano della Roma Francesco Totti. De Giorgi aveva spiegato che quel profilo era gestito da fan che “non fanno parte della struttura ufficiale” ma poi aveva risposto a un utente come amministratore della pagina “Matteo Renzi News”. Una gaffe non da poco. Chi lo conosce bene lo definisce un personaggio “molto egocentrico” e “sempre sopra le righe”: primo italiano a unirsi con un’unione Pacs nel 2002, per diversi anni è conosciuto come il re della mondanità in Versilia essendo proprietario di diversi locali e discoteche della zona, tra cui il “Mamamia” di Torre del Lago di cui è ancora socio. Nel 1997 fonda il sito gay.it e ci rimane fino al 2016 quando, dopo aver sostenuto l’ascesa politica di Renzi, lui lo chiama a Palazzo Chigi. Nel mezzo tenta una improbabile discesa in politica con “Lista Civica” di Monti, ma dopo 16 giorni lascia per le foto in compagnia di una drag queen pubblicate da Libero (“un tritacarne mediatico” dirà lui). Che non ami i suoi colleghi giornalisti lo ha dimostrato durante l’ultima Leopolda dopo che il Fatto aveva scritto che il sito di Italia Viva era curato da un’azienda, la Nation Builder, che aveva curato la campagna di Brexit e Trump. Lui, stizzito su Facebook, ci ha definiti così: “Definirvi giornalai è un insulto a una piccola ma preziosa categoria professionale, purtroppo in crisi. Cialtroni, in malafede”. Un signore.