“Magari Iv avesse la Bestia, il problema sono i giornalisti”

“Magari Renzi avesse la sua Bestia. La metterei su io, se avessi i soldi. Una Bestia democratica e liberale, contro tutte le fake news”. A parlare al Fatto è Enzo Puro, impiegato in una controllata della Regione Lazio, già dirigente del Pd (presidente del VI municipio di Roma per tre mandati) e ora pasdaran di Italia Viva. È entrato nelle cronache per un suo post sui social rilanciato da Renzi in persona, che lo ha definito “uno di noi”: “Tu a me squadrista non mi ci chiami”, scrive Puro, in maiuscolo, rivolto a Corrado Formigli.

Il riferimento è allo sfogo del conduttore di Piazzapulita, che ha definito “squadrismo” la pubblicazione di foto e dettagli della sua abitazione romana su pagine social vicine a Matteo Renzi. Il tutto dopo che, nella puntata di giovedì scorso, Formigli aveva chiesto conto all’ex premier del prestito avuto dall’imprenditore Riccardo Maestrelli, poi nominato in Cassa depositi e prestiti, per acquistare una villa sui colli fiorentini. “Questo Paese sarà una democrazia quando i giornalisti che esibiscono gli estratti di conto corrente dei politici, lo faranno mostrando i loro”, si legge sul gruppo “Italia viva” accanto alla foto del palazzo di Formigli.

Puro, non è squadrismo questo?

Macché squadrismo! Squadristi sarete voi che scrivete falsità per infangare le persone. Per giorni sono circolate foto illegali scattate nella proprietà privata di Renzi. La privacy di Formigli vale più di quella di Renzi? La verità è che la casta dei giornalisti si sente minacciata e si difende.

Uno è un privato cittadino, l’altro fa politica.

Non è un privato cittadino. È un giornalista, nella società di oggi è molto più potente di un politico. Con la differenza che i politici li scelgono gli elettori, i giornalisti gli editori. Io la morale da Formigli, dall’alto del suo attico milionario, non me la faccio fare.

La gogna sui social non somiglia al modo di comunicare dello staff di Salvini?

Bontà vostra fare questo paragone. Non esiste nessuna Bestia. Magari avessimo una struttura così potente. La farei io, se potessi.

Un leader politico non dovrebbe rispondere sui propri conflitti d’interessi?

Ci sono reati? No, e allora parliamo dei reati, i vostri. Parliamo delle scuse che voi del Fatto dovete a chi avete infangato, come state facendo adesso su questa vicenda della casa. Parliamo della ministra Guidi o del padre della Boschi, che avete tenuto per anni in prima pagina. E stia attento perché sto registrando la chiamata, noi di Italia Viva abbiamo gli avvocati sempre pronti. Soprattutto con il suo direttore.

Quindi secondo lei Renzi non deve spiegare nulla?

Ma la volete smettere con questa storia? State parlando del nulla. Fate i giornalisti, quelli seri. Come quelli del Watergate. Ormai in Italia si parla solo di gossip.

Ci sono giornalisti seri anche da noi?

Sì, qualcuno è rimasto.

Mi faccia dei nomi.

Fabio Fazio, ad esempio. O il mio amico Piero Sansonetti, una persona perbene. Vi consiglio di leggerlo. Ma in tanti sono ossessionati da Renzi.

Perché, secondo lei?

Perché è stato un rivoluzionario, ha sconvolto gli equilibri. Ha tolto di torno i vecchi politici. E loro gli scatenano addosso i media.

Anche adesso che è a capo di un partitino?

Hanno paura che torni, che gli italiani capiscano quanto può fare ancora.

“Con la mia legge soldi pubblici anche a Open”

Il senatore Antonio Saccone, forzista eletto in quota Udc, è ricercatissimo. Ha scritto una proposta di legge per il ripristino del finanziamento pubblico ai partiti. Un testo che verrà depositato la prossima settimana a Palazzo Madama, che recita così: “Ai partiti politici che abbiano presentato proprie liste alle elezioni politiche, regionali ed europee e che abbiano riportato almeno l’uno per cento dei voti validi espressi spetta un finanziamento a carico del bilancio dello Stato pari a 1 euro per ogni voto ottenuto”.

Quanto vale questa torta?

Un contributo pubblico tra i 90 e i 100 milioni di euro. In base al provvedimento sarà inoltre possibile sempre per i partiti raccogliere anche il contributo dei privati nella misura massima del 50 per cento del finanziamento pubblico ricevuto in proporzione al risultato ottenuto dalle singole forze politiche alle urne.

È un assist a Renzi?

Lavoro a questa proposta da tempo. Se vuole proprio saperlo penso che il dibattito di oggi che scaturisce a valle di un’inchiesta della magistratura, nasce già zoppo perché la politica non ha avuto autonomamente il coraggio di discutere di un problema che esiste. Quindi no: nessun assist.

Lei parlerà in aula.

È ora di fare un’operazione verità: i partiti hanno bisogno di fondi per fare politica, ne va della difesa della democrazia liberale. Il finanziamento pubblico c’è in tutta Europa con la sola esclusione di Andorra, Ucraina e Malta. Questi Paesi sono meglio di Germania, Francia o Spagna?

Non rischia di prendersi qualche fischio?

Io penso che qui ci sia in ballo molto di più della popolarità: tutti devono avere le stesse possibilità di partecipare alla vita democratica del Paese. Poi è giusto che chi prende più voti perché ha più appeal, riceva di più. Ma intanto questa mia proposta di legge garantisce un diritto di tribuna anche ai piccoli come noi dell’Udc. Che siamo moderati e perciò meno attraenti perché non è nelle nostre corde essere polarizzanti come pare essere necessario sui social. Dove peraltro veicolare un solo messaggio, vero o falso che sia. Mi dite dove vengono presi oggi i soldi per farlo?

Non basta il 2 per mille?

Vogliamo raccontarci le favolette e continuare a vivere nel sotterfugio? Voglio che siano trasparenti i conti dei partiti, delle fondazioni e pure quelli delle srl come la Casaleggio. Perché l’alternativa al finanziamento pubblico è il sistema ambiguo di oggi. Su cui pende la spada di Damocle delle inchieste per traffico di influenze.

Nonostante il finanziamento pubblico, in passato i partiti hanno fatto ricorso, eccome, pure al finanziamento parallelo e illegale…

I corrotti c’erano allora e ci sono ora che è stato abolito. Il problema sono i controlli: noi vogliamo siano stringenti, magari anche con il coinvolgimento delle associazioni dei consumatori. Uso una metafora: in autostrada c’è il limite dei 130 all’ora. Non è che per paura che si superi quel limite noi possiamo chiudere le autostrade, come si è fatto in politica togliendo il finanziamento pubblico. Semmai dobbiamo mettere più tutor e agenti della stradale a controllare.

“Renzi è un leader come Craxi, la politica ha bisogno di denaro”

“Da Renzi in Senato non mi aspetto nessun discorso alla Craxi. Sono diversi il contesto, le situazioni, gli uomini. Anche se poi alcune analogie tra i due leader ci sono”. Se c’è una persona che ha conosciuto bene sia Bettino Craxi sia Matteo Renzi, questa è Umberto Del Basso De Caro, avvocato di Benevento con lunghi trascorsi politici, dal Psi craxiano, appunto, al Pd. Del Basso De Caro, sottosegretario alle Infrastrutture dei governi Renzi e Gentiloni, di Craxi era l’avvocato. Il 29 aprile 1993, il giorno in cui la Camera negò l’autorizzazione a procedere nei confronti del leader socialista (il 30 ci furono le monetine al Raphael), parlò dopo Bettino, tentando di smontare le accuse che gli erano mosse dalla Procura di Milano. Oggi, nonostante sia un ammiratore di Renzi, è rimasto nel Pd.

Chissà cosa dirà Renzi oggi in Senato sul finanziamento alla politica. Magari tirerà in ballo tutte le fondazioni…

Non saprei, ma la vicenda Open non ha alcun rilievo penale. È una fondazione come tante altre e tutti i versamenti sono stati regolarmente registrati, i nomi dei finanziatori sono usciti.

Sì, ma alcuni finanziatori forse sono stati poi aiutati dal Renzi politico, come l’imprenditore Maestrelli poi nominato in Cassa depositi e prestiti.

Maestrelli in Cdp ci stava già. Riguardo ad altri aiuti di questo tipo, sarà la magistratura a valutare se ci sono casi che possano identificarsi come corruzione. Finora non c’è nulla. E per l’operato dei giudici bisogna avere rispetto.

Lei in passato sui magistrati ha usato parole pesanti.

Era un’altra epoca e durante Mani Pulite ci sono state delle evidenti forzature. Basta vedere le effettive condanne rispetto alla mole accusatoria.

Ci sono state condanne e molte prescrizioni. In cosa si somigliano, Renzi e Craxi?

Sono due leader, dalla forte personalità e temperamento, con un notevole intuito politico. Craxi, come Renzi, era diretto e non le mandava a dire. Il primo è stato uno statista, il secondo un grande presidente del Consiglio. Sono due riformisti che hanno tentato di modernizzare l’Italia e si sono scontrati con poteri che l’hanno impedito. L’Italia è un Paese conservatore, quando qualcuno tenta di spostare gli equilibri viene aspramente combattuto.

Craxi è stato inquisito e condannato, la riforma di Renzi è stata sconfitta con un referendum.

Sì, ma lei sa bene che i due hanno incontrato resistenze al di là della vicenda giudiziaria di Craxi e del referendum perso da Renzi.

Secondo lei Craxi ha fatto bene a lasciare l’Italia?

Ho considerato Bettino un leader in esilio e non un latitante, la risposta si trova sulla sua tomba: “La mia libertà equivale alla mia vita”.

A gennaio ricorre il ventennale della morte. Lei sarà ad Hammamet?

Sì. E credo che dopo vent’anni la sua figura sia stata rivalutata, anche a sinistra. I suoi nemici di allora ammettono che la storia politica di Craxi non si può ridurre alla vicenda giudiziaria.

Non crede che Renzi e Craxi abbiano in comune anche una certa spregiudicatezza nel modo di far politica e di reperire risorse?

Abolire il finanziamento pubblico è stato un grave errore e mette in pericolo la democrazia, infatti da più parti s’invoca un ripristino. Non parlerei di spregiudicatezza, ma di forte volontà nel tentare di raggiungere i propri obbiettivi. Se posso dare un consiglio a Renzi, gli suggerirei però di contare fino a dieci prima di parlare o agire…

Craxi era più cauto?

Il leader socialista veniva da una grande scuola politica, quella di Pietro Nenni. E poi era un’altra epoca, i processi politici erano più lunghi.

Open a parte, non crede che sia sbagliato che un leader politico ancora protagonista della vita pubblica si faccia pagare fior di quattrini per tenere conferenze in giro per il mondo?

Non ci vedo nulla di male. Lo fanno tutti i grandi leader: Blair, Clinton, Obama.

Libertà di stampa. Le “lettere” della Casellati

Martedì vi abbiamo raccontato delle lettere che il direttore del Fatto Marco Travaglio e due colleghi giornalisti, Ilaria Proietti e Carlo Tecce, hanno ricevuto dall’avvocato della presidente del Senato Elisabetta Casellati. Si tratta di una raccomandata – nel caso dei due colleghi, recapitata direttamente a casa – che non contesta nel merito gli articoli, ma dà preavviso di un’azione civile riferita a “pubblicazioni ritenute lesive dei suoi diritti”. Una comunicazione generica e inusuale che, per come è scritta, sembra più voler intimidire chi ha osato raccontare le gesta della Presidente piuttosto che difenderla da non meglio specificate diffamazioni. Abbiamo chiesto cosa ne pensano ad alcuni corrispondenti della stampa estera in Italia. Che non hanno mancato di ricordare come l’episodio avvenga a poca distanza dall’attacco social contro il giornalista Corrado Formigli, reo di aver chiesto conto a Matteo Renzi del prestito con cui ha comprato la villa a Firenze.

 

Gavin Jones*
Sono intimidazioni: per questo in Italia tante interviste sdraiate

È evidente che un politico debba potersi tutelare contro notizie che ritiene false, ma questo è ben diverso dal mandare lettere preannunciando cause legali senza nemmeno indicare a quali eventuali falsità si riferisce. Questa è intimidazione. Allo stesso modo un giornalista, in questo caso Corrado Formigli, ha il diritto e dovere di chiedere conto a un politico di una villa legata a una indagine, senza temere di vedere la foto della sua casa pubblicata online. Paragonare le due cose mi sembra assurdo. Creare un clima di intimidazione nei confronti dei giornalisti scomodi, anche grazie a denunce a raffica, serve anche a convincere gli altri a non esserlo. Questo forse aiuta a spiegare la gran quantità di interviste “sdraiate” ai politici in Italia: vorrei vedere qualche intervista simile a quelle fatte nelle ultime settimane da Andrew Neil sulla BBC al capo dei laburisti, Jeremy Corbyn, e al capo dei nazionalisti scozzesi, Nicola Sturgeon. Per chi è interessato, si trovano facilmente sul web.
*Corrispondente dell’agenzia Reuters da Roma

 

Petra Reski*
Servirebbe una legge europea contro le querele temerarie

Mi è capitato di dover rispondere a diverse querele per il mio lavoro, ma mai mi è successo di ricevere una lettera indirizzata a casa mia contenente avvisi di eventuale querele. Tantomeno se questi avvisi partono da esponenti politici così importanti. È un atto assolutamente intimidatorio. Non voglio dire che in Germania sia semplice la vita per la stampa libera, soprattutto per chi si occupa di mafia o di ex servizi segreti della Ddr, su cui quasi nessuna redazione investe proprio per paura di denunce, ma forse anche per questo servirebbe un intervento normativo a livello europeo. Magari ci fosse una legge sulla querela temeraria, per esempio. Nel frattempo, la categoria dei giornalisti dovrebbe riflettere, perché questo pessimo clima attorno alla stampa è anche figlio del fatto che una parte dei media ha sviluppato un rapporto fin troppo disponibile con il mondo politico. Anche da qui nasce la convinzione di certi personaggi di poter disporre dei giornalisti a proprio piacimento.
*Giornalista tedesca, esperta di mafia

 

Eric Jozsef*
È grave che a minacciare siano perfino le alte cariche dello Stato

Quando un politico utilizza la magistratura non per far valere le sue ragioni, ma per mandare messaggi di intimidazione allora significa che c’è un clima preoccupante. Matteo Renzi ha avuto un atteggiamento inconcepibile nel paragonare la sua vicenda a quella di Corrado Formigli, dimenticando del tutto il diritto e dovere di cronaca. Questo la dice lunga sul personaggio: eravamo abituati a pensare che certi attacchi alla stampa appartenessero a formazioni politiche più radicali, invece qui arriva da chi dovrebbe rappresentare i moderati. La cosa grave – nel suo caso come in quello dell’ex ministro Salvini e la moto d’acqua o quello delle minacce per conto della presidente del Senato al Fatto – è che finiscono coinvolte importantissime cariche dello Stato, non è soltanto l’atto del singolo politico. E purtroppo questa pericolosa messa in discussione della stampa vedo che è in atto anche in Francia, dove anche senza ricorrere alla giustizia sempre più spesso i politici si rifiutano di parlare con certi giornalisti o passano alle minacce.
*Corrispondente del quotidiano Libération

 

Barbie Nadeau*
Criticai B. e mi suonarono a casa. Non possiamo più restare zitti

Quelli accaduti a Corrado Formigli e ai giornalisti del Fatto sono episodi ingiustificabili, è l’unica cosa che si può dire in questi casi. Non si può lasciare che venga attaccata così la libertà di stampa, non possiamo starcene tutti in silenzio. In Italia mi sembra che ci sia una certa facilità per i politici nell’andare contro i giornalisti. Io stessa ho subito una vicenda assurda ormai una decina di anni fa: scrissi un pezzo su Newsweek in cui criticavo Berlusconi e la maniera in cui era trattato il corpo femminile nelle sue televisioni, citando Striscia la Notizia. Poco dopo vennero i carabinieri a casa mia per consegnarmi una denuncia per diffamazione che proveniva proprio da Striscia. Ricordo che ero coi miei figli piccoli in casa e loro erano increduli, mi chiedevano cosa stesse succedendo vedendo quegli agenti. Questo clima è tutto di responsabilità della politica e di come per anni i governi hanno trattato la libera stampa. E le conseguenze purtroppo continuano a vedersi anche oggi.
*Corrispondente di The Daily Beast/Newsweek (Usa)

 

Tobias Piller*
Troppo pochi gli editori puri, perciò non c’è condanna sociale

È ovvio che non tutti i giornalisti sono sempre corretti e non tutti i politici sono tutti delinquenti. Ma in Germania, quando un politico fa minacce a vuoto e senza ragione a un giornalista, si copre di ridicolo. Nessuno si può permettere di fare campagne di denigrazione in pubblico nei confronti della stampa, perché rischiano poi di trasformarsi immediatamente in un suicidio per il politico di turno. E tutti ne sono consapevoli. Forse in Italia manca quest’aspetto di condanna sociale contro chi denigra i giornalisti e il motivo credo risalga alla natura dell’informazione italiana, dove quasi non esistono editori puri e dove quindi parte dei media è percepita come vicina a chi comanda, non come osservatore e commentatore terzo. Spesso in Italia la gente vede certi giornali come un pezzo del groviglio del potere o associa la carriera di alcuni giornalisti ai loro legami con la politica. Questo incide nella reputazione dei media e nella valutazione del comportamento dei politici.
*Corrispondente Frankfurter Allgemeine Zeitung

 

Lorenzo Mila Mencos*
In Spagna sarebbe uno scandalo Mi ricorda i tempi dell’Eta

Un giornalista che riceve una lettera di minacce a casa è un fatto che in Spagna riporta ai tempi dell’Eta (l’organizzazione terroristica dei separatisti baschi, ndr), quando magari a qualche giornalista basco era intimato di lasciare il Paese. In alcuni casi, purtroppo, le minacce non si fermavano alle lettere. È una follia totale, se succedesse oggi in Spagna sarebbe uno scandalo nazionale. Sono molto dispiaciuto e abbraccio i colleghi. Purtroppo la strategia della politica è sempre la stessa: screditare la categoria attraverso il linguaggio, facendo passare il messaggio che i media siano parte del problema. Così isoli anche i bravi giornalisti e quando succedono episodi di questo genere capita anche che non ci sia nessuno a difenderti. Per fortuna in Spagna non siamo ancora a questi livelli di disprezzo nei confronti della stampa, ma ultimamente le cose stanno peggiorando e la discussione attorno al giornalismo si sta sempre più polarizzando. Non è affatto un buon segnale.
*Corrispondente di Tve, la tv pubblica spagnola

Ursula, scommessa verde dalla parte dell’industria

La scommessa verde di Ursula von der Leyen, il cosiddetto Green new deal, esprime una ambizione più generale del modello sociale europeo. Nelle linee guida presentate ieri al Parlamento europeo e poi nel documento approvato dalla Commissione all’unanimità, il progetto viene definito come “il primo uomo europeo sulla luna”, con 1.000 miliardi da investire con la proposta, per il prossimo marzo, della “prima legge europea sul clima”.

L’ambizione è la stessa dell’industria europea: cogliere il nodo ecologico come una “opportunità” per una ristrutturazione in grande stile, in grado di smuovere l’economia continentale. Le linee guida, così, seguono questa traccia: decarbonizzazione, gestione del meccanismo delle quote di emissione, economia circolare, riconversione e produzione sostenibile fino a un’agricoltura dalla Farm to the fork come recita il documento, dalla produzione alla tavola, quindi con filiera corta.

“Il Green new deal è la nostra nuova strategia per la crescita”, dice la presidente della Commissione, “muovendoci per primi e rapidamente aiuteremo la nostra economia ad assumere la leadership a livello mondiale”. Sia lei che il suo vicepresidente esecutivo, Franz Timmermans, eludono il tema dello scomputo dal deficit degli investimenti green: “Sarò aperto a discutere ma non sono ingenuo – spiega Timmermans – e so che se apriamo quella discussione spesso viene usata come un pretesto per non osservare il Patto per niente”.

L’ambizione è misurata dalla tabella di marcia presentata ieri: 47 “azioni” in due anni, nel biennio 2020 e 2021, con la prima, la “legge europea sul clima” da presentare entro marzo, per ottenere la neutralità climatica dell’Unione entro il 2050. Entro l’estate sarà presentata la strategia sulla biodiversità per il 2030, la nuova strategia industriale e il piano d’azione sull’economia circolare, la strategia “dal produttore al consumatore” per una politica alimentare sostenibile.

Ambizione anche per quanto riguarda gli investimenti. Oltre a quelli previsti la Commissione stima ulteriori 260 miliardi di euro ogni anno fino al 2030, “per i quali sarà necessaria la mobilitazione dei settori pubblico e privato”. L’idea è che “almeno il 25% del bilancio a lungo termine dell’Ue dovrebbe essere destinato all’azione per il clima” e gli organismi di cui si chiama la mobilitazione sono la Banca europea per gli investimenti e la Banca europea per il clima. Per fare in modo che al progetto contribuisca anche il settore privato “nel 2020 la Commissione presenterà una strategia di finanziamento verde”.

Europa a emissioni zero entro il 2050, quindi, aumento degli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 dall’attuale 40 al 50-55%, piano di riconversione che comprende anche la de-carbonizzazione dell’industria dell’acciaio, con piani di riconversione industriale, innovazione tecnologica. “Nessuno però deve rimanere indietro”, dice Von der Leyen e quindi viene proposto un fondo di 100 miliardi per sostenere le regioni che più dipendono da fonti fossili. Chi ci sarà tra queste nazioni e come saranno trovati i fondi – se già esistenti nel bilancio oppure aggiuntivi – non è questione ancora definita e quindi su questo è prevedibile che ci sarà una discussione accesa.

“Decarbonizzare” il settore energetico nell’Ue è “cruciale” per raggiungere gli obiettivi per la lotta al cambiamento climatico al 2030 e al 2050, dato che la produzione e l’utilizzo di energia nei settori dell’economia pesa per “oltre il 75% delle emissioni di gas serra dell’Ue”. L’efficienza energetica deve “essere la priorità” e deve essere sviluppato “un settore energetico che sia basato in gran parte su fonti rinnovabili, accompagnato da una rapida uscita dal carbone e dalla decarbonizzazione del gas”.

Per evitare di non reggere la competizione con quei Paesi che non si avvieranno sulla strada della riduzione e quindi contrastare il rischio di una “delocalizzazione delle emissioni (carbon leakage), o perché la produzione viene trasferita dalla Ue ad altri Paesi con minori ambizioni nella riduzione delle emissioni, oppure perché i prodotti Ue vengono rimpiazzati da importazioni a maggiore intensità di emissioni”, la Commissione proporrà l’istituzione di un meccanismo di compensazione delle emissioni inquinanti alle frontiere dell’Ue per “alcuni settori”. Tale meccanismo “assicurerà che il prezzo delle merci importate rifletta in modo più accurato il loro contenuto in termini di emissioni”. E sarà quindi una misura che “verrà strutturata in modo da rispettare le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e gli altri obblighi internazionali dell’Ue”.

La strada è lunga e difficile. Per ora è stata fatta una proposta, molto apprezzata anche dal gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, ma le complicazioni sono evidenti e le contraddizioni emergeranno strada facendo.

Ilva, Mittal rincara la dose: 3500 in Cig per l’altoforno 2

Potrebbero salire a 3500 i lavoratori dell’ex Ilva di Taranto in cassa integrazione dopo la decisione del giudice Francesco Maccagnano che, rigettando la proroga di 9 mesi chiesta per ultimare la messa in sicurezza, ha sostanzialmente disposto che dal 14 dicembre vengano avviate le operazioni per lo spegnimento dell’Altoforno 2, l’impianto in cui nel 2015 morì l’operaio Alessandro Morricella.

Ieri ArcelorMittal l’ha comunicato ai sindacati come conseguenza della decisione del tribunale ionico, scatenando di nuovo l’ira dei sindacati. E non solo per i numeri, ma anche per la modifica degli ammortizzatori sociali. Il numero di nuovi lavoratori in cassa, infatti, è di 1727 che si aggiungono ai 1273 che già da mesi usufruiscono degli ammortizzatori. Stavolta però la multinazionale ha deciso di fare ricorso alla cassa integrazione straordinaria e non più a quella ordinaria: questa infatti è concessa per questioni “congiunturali” e quindi temporanee mentre la prima è legata a questioni “strutturali” ed è spesso il primo passo verso il licenziamento dei lavoratori.

Per Fim, Fiom e Uilm che hanno rigettato la comunicazione aziendale, governo e commissari dell’Ilva devono “fare chiarezza sul futuro di un sito di interesse strategico per il Paese”. Mentre per l’Usb “la decisione della magistratura ha subito visto la reazione scomposta e arrogante della multinazionale”.

Sul fronte giudiziario, intanto, i commissari sono già al lavoro per presentare il ricorso al tribunale del riesame contro la decisione del giudice Maccagnano nella speranza di ottenere la proroga ed evitare lo spegnimento.

Al momento nessuna comunicazione è giunta al custode giudiziario Barbara Valenzano che dovrà sovrintendere alle fasi di spegnimento di Afo2: fino a domani, l’impianto potrà marciare grazie alla proroga concessa qualche mese fa, ma dal giorno dopo deve essere avviato allo spegnimento. Per evitarlo i commissari proveranno a convincere i giudici del riesame dell’errata interpretazione che il giudice Maccagnano avrebbe dato alle consulenze depositate da Ilva in amministrazione straordinaria: come l’analisi del rischio, approvata seppur con qualche rilievo, anche dal custode giudiziario al punto da ottenere il parere favorevole della Procura di Taranto. Toccherà all’avvocato Angelo Loreto spiegare ai giudici che quella proroga della facoltà d’uso richiesta è necessaria per completare l’automazione di un impianto e renderlo definitivamente sicuro per i lavoratori.

La scelta di Mittal ha complicato la già difficile trattativa tra azienda, commissari e governo e quasi sicuramente verrà usata dall’azienda come arma a proprio vantaggio, costringendo i commissari a correre contro il tempo.

Romani e gli altri: la scialuppa anti B.

Pare scattata l’ora X dei nuovi responsabili. Perché al Senato non è passata inosservata la pattuglia di senatori dell’opposizione che non hanno partecipato al voto sulla risoluzione sul Mes dopo le comunicazioni del presidente Giuseppe Conte.

Forzisti come Sandro Biasiotti che assieme a Paolo Romani è tra i più vicini a Giovanni Toti. Ma pure azzurri refrattari alla linea ufficiale del partito, a loro dire troppo schiacciato sulle posizioni di Matteo Salvini come Mariarosaria Rossi o Andrea Causin più in sintonia con le posizioni di Mara Carfagna. O solo scettici sulla possibilità di Forza Italia di uscire dal torpore che la condanna nei sondaggi, come la cattolica Paola Binetti o Massimo Mallegni. E così sembrano iniziate le grandi manovre a Palazzo. Dove c’è chi racconta che una truppa ben nutrita è pronta a costituire un gruppo autonomo e così staccarsi dalla creatura di Silvio Berlusconi. Operazione già tentata in solitaria e senza successo qualche mese fa dai totiani che però sono rimasti nel gruppo al Senato di Forza Italia nonostante la nascita davanti al notaio del partito “Cambiamo!”, del governatore ligure.

Ora però il quadro starebbe cambiando molto rapidamente, almeno a sentire Romani che insieme a Luigi Vitali si è dato molto da fare nelle ultime settimane.

Come pure Mallegni che è stato sentito profferire parole che sono musica di chi non ne può più di un partito ridotto ai minimi termini: “Dove sono i moduli per raccogliere le firme?”. Le firme che servono per creare appunto un gruppo autonomo. Che per esigenze di regolamento a Palazzo Madama, deve per forza costituirsi “apparentandosi” con un partito che si sia già presentato alle ultime politiche. E se Matteo Renzi è riuscito, dopo la scissione dal Pd, a utilizzare il simbolo dei socialisti di Nencini per creare il gruppo di Italia Viva, per gli azzurri quasi ex, si pensa che il veicolo che possa traghettarli altrove è “Idea”, il movimento dei moderati di Gaetano Quagliariello.

Che da più parti si lavori a un nuovo gruppo dei moderati lo conferma anche Paolo Romani presente alla cena con altri parlamentari azzurri organizzata da Renata Polverini la settimana scorsa a Roma dove ha fatto capolino anche Carfagna. Che qualche mese fa aveva creato un certo trambusto proprio per aver organizzato un appuntamento conviviale a cui per vicinanza politica o solo per amicizia, alla fine i forzisti erano accorsi a frotte. Facendo trasalire il cerchio magico di Arcore. E lo stesso si è ripetuto in occasione della cena da “Gina” organizzata dall’ex governatrice del Lazio, ormai data in uscita da Forza Italia. “A quella cena c’ero in rappresentanza di Cambiamo!” spiega all’Adnkronos Romani che spera che Carfagna si convinca a unire le forze con Toti.

Approvata la risoluzione Mes, ma i 5S perdono tre senatori

Il governo è incolume, il M5S no, il contrario. È il prezzo del Mes, e lo paga tutto il Movimento, dove gli spifferi stanno diventando crateri. Perché le due votazioni in Parlamento sulla risoluzione di maggioranza sul vecchio fondo Salva Stati, partorita dopo una notte infinita, regalano tempo all’esecutivo ma tolgono altri pezzi al M5S, tre senatori che dicono addio e passano a una Lega che festeggia con cori e goliardate da cinepanettone. Tutto grave ma non serio, e comincia di mattina a Palazzo Madama, quando i 5Stelle Ugo Grassi, Francesco Urraro e Stefano Lucidi non votano il decreto sisma, blindato con la fiducia. È come mettersi fuori dal M5S, e infatti è quella l’idea, uscire. E la porta la sbattono di sera, votando no sul Mes con tanto di discorsi in dissenso dal gruppo.

Strappi in un’Aula che pare una balera grazie anche alla gestione surreale della presidente Casellati, che a un certo punto urla a tutti di sedersi e si ritrova con mezzo Senato in piedi. Luigi Di Maio invece è in Albania, come ministro degli Esteri, e molti 5Stelle non gradiscono. “Siamo al mercato delle vacche” accusa da oltremare, mentre nel Movimento si affannano per limitare le perdite. Almeno altri due senatori stavano già infilando l’uscio. Così per convincere a non traslocare al Misto il molisano Luigi Di Marzio si sono mossi due ministri, Stefano Patuanelli e Federico D’Incà. “Oggi ci fermiamo qui, ma se continua così ne perderemo altri” riassume un big. E ne dovrà tenere conto Di Maio, che ieri si è rifiutato di chiamare gli esuli. Li ha lasciati andare, ufficialmente nauseato, dopo aver giocato con il fuoco martedì. Attorno alle 20, aveva rimesso in discussione l’accordo sulla risoluzione tra Pd e Movimento, ormai chiuso. “Così non va bene” ha informato i dem. Sapeva che per un gruppo di deputati, guidati da Raphael Raduzzi e Alvise Maniero, l’ultima bozza era troppo vaga sul ruolo del Parlamento nella decisione finale sul fondo e sulla logica del pacchetto, quella che prevede il sì all’approvazione del Mes ma solo contestualmente a quella dell’assicurazione comune sui depositi (Edis) e del mini strumento di bilancio dell’eurozona, il Bicc. E allora si va avanti fino a notte tardissima. Ballando, forte. “Finisce che cadiamo sul Mes” geme un ministro. Ma si arriva a una quadra. E a una frase chiave: “Si impegna il governo a mantenere la logica di pacchetto (Mes, Bicc, Unione bancaria)”.

Mercoledì mattina Maniero si accontenta: “Era il minimo indispensabile ma da qui a febbraio se ne dovrà ridiscutere: il problema è solo rinviato”. Basta ugualmente, e all’ora di pranzo a Montecitorio arrivano 291 sì alla risoluzione. Le rogne sono in Senato, dove Lucidi ha il volto segnato: “Se vado alla Lega? Nel M5S non è più possibile fare politica”. E dietro c’è una ferita fresca, la gestione delle Regionali in Umbria. Il ternano Lucidi è sintetico: “Mi è capitato di scoprire che Di Maio era a una sagra locale la sera stessa, stavo mettendo a letto la mia bimba, non ne sapevo nulla”.

Dal M5S ribattono: “Lui e Grassi volevano fare i sottosegretari”. Invece il Carroccio infierisce: “Da noi verranno almeno in cinque”. Non a caso il ministro per i Rapporti con il Parlamento D’Incà appare tra i banchi per confessare diversi eletti. E c’è altro. “Almeno quattro o cinque dei nostri hanno firmato per il referendum sul taglio dei parlamentari, l’ultimo poche ore fa”, fa notare un 5Stelle. Un’altra ferita, mentre un dissidente minaccia: “Subito dopo il varo della legge di bilancio proveremo a mettere su un gruppo, potremmo essere dieci, o di più”. A occhio esagera. Però il rischio esodo si dilata. “C’è un mercato delle vacche che la Lega porta avanti e mi auguro che le autorità giudiziarie possano verificare il tutto” irrompe Di Maio. “Le vacche in certi Paesi sono sacre” replica Lucidi. Grassi e Urraro invece schivano i cronisti, ma sui banchi il primo, docente di diritto a Napoli, si prende i rimproveri del collega Gianluca Ferrara. Poi si arriva allo snodo, ai tre che al microfono dicono addio prendendosi gli applausi della Lega e urla dal Movimento. “Non mi riconosco più nelle politiche del M5S” scandisce Grassi, che poi vota la risoluzione del centrodestra. “La Lega sa ascoltare, invece il Movimento è sordo” sibila.

Poi Urraro: “Il Mes era fuori del programma del Movimento”. Infine, Lucidi: “La risoluzione è un bluff, non sono un criceto, scendo dalla ruota e voto no”.

C’è anche Gianluigi Paragone a mostrare pollice verso, “ma non è affatto prodromico a una mia uscita dal gruppo, sapevate che ero anti-europeista…”. Si vota, e la maggioranza è salva con 164 sì. Ma in terra è pieno di schegge, tutte a 5Stelle.

“Andarono alla Lista Fontana gli altri 450 mila euro”

La storia dell’associazione “Maroni presidente” finita nell’inchiesta genovese sui 49 milioni di euro spariti, ha un secondo tempo ancora coperto. Se da un lato la Finanza ha seguito e compreso il giro fatto dai 450 mila euro, che dalla “Maroni presidente” finiscono alla Lega, dall’altro c’è da capire che fine hanno fatto gli atri 450 mila euro. I rimborsi elettorali spettanti alla lista che nel 2013 ha portato 11 consiglieri in Regione sono infatti 900 mila euro. Denaro che resta sui conti dell’associazione e della cui presenza Marco Tizzoni e i suoi consiglieri si accorgeranno solo nel 2018.

A febbraio Tizzoni, ex capogruppo della lista Maroni, porta un esposto in Procura. Quando viene interrogato dai magistrati di Genova, che indagano sui 49 milioni, emerge che parte del pacchetto totale dei rimborsi è finito direttamente alla Lista Fontana, in sostanza la formazione nata sulle ceneri di quella di Maroni che però ha avuto un destino diverso.

Dunque dei 900 mila euro totali, 450 mila, come dimostra il decreto di perquisizione di martedì, sono finiti alla tipografia Boniardi e a un’altra società per poi rientrare sui conti della Lega, l’altra metà, invece, stando a quanto verificato dagli investigatori sarebbe andati alla Lista Fontana. Risultato: l’associazione Maroni presidente è stata svuotata. Ad oggi si sa solo che fine hanno fatto i primi 450 mila euro. Denaro, va detto, che l’associazione dà alla Lega come restituzione di un prestito del quale (prestito) però non si ha traccia. Dove è finita la seconda parte di denaro?

La Lista Fontana non ha fatto campagna elettorale, non ha avuto grandi spese. Alle elezioni del 4 marzo 2018 raggiunge solo l’1%, quella di Maroni superò il 10. I soldi erano la vera emergenza di quel periodo per la Lega che si trovava con i conti bloccati.

Tizzoni rivela anche altro. Nel dicembre 2017, dopo che Maroni ha abbandonato la politica, Tizzoni partecipa a una riunione in Regione. Qui è presente Paolo Grimoldi, parlamentare e coordinatore del Carroccio. A organizzarla èStefano Bruno Galli, presidente della associazione e oggi indagato per riciclaggio: “Grimoldi – spiega Tizzoni – disse che voleva i soldi dell’associazione Maroni per la campagna elettorale, noi rimanemmo di stucco, non sapevamo dei rimborsi”.

Non è finita. A gennaio Tizzoni arriva nella sede della Lega in via Bellerio per discutere i nomi della Lista Fontana. Sulla carta i consiglieri della Maroni dovrebbero essere presenti. Al colloquio c’è sempre Grimoldi. “Ci disse – ha spiegato Tizzoni – che dovevamo dare 20 mila euro”. Nulla di strano, se non fosse che, scoprirà Tizzoni, quel denaro non doveva essere bonificato sul conto della Lista Fontana, ma sul conto della Lega con causale: “Devoluzione”, ovvero contributo volontario. “Terminata la riunione – conclude Tizzoni – Grimoldi mi presentò Giulio Centemero, il tesoriere della Lega, con lui c’era Davide Caparini, parlamentare e non ancora assessore al Bilancio in Regione”. I tre non sono indagati né a Genova né a Milano. La vicenda dei 20 mila euro chiesti da Grimoldi, Tizzoni l’ha messa nel suo esposto depositato nel febbraio 2018 e poi archiviato nel giugno scorso. Un’indagine che ora, alla luce degli sviluppi genovesi, potrebbe essere ripreso dalla stessa Procura di Milano che ha recentemente chiuso il fascicolo a carico di Centemero, accusato di finanziamento illecito per i 40 mila euro dati da Esselunga alla associazione Più voci.

Lega, caccia ai 49 milioni: nuove gole profonde dai pm

Nuovi testimoni in arrivo. In procura a Genova sono convinti di essere a una svolta nell’inchiesta sui 49 milioni scomparsi della Lega. Una “fonte preziosa” è già passata dai pm genovesi e ha fornito elementi nuovi. Altri arriveranno presto. Secondo i pm, i 450 mila euro (una parte del denaro proveniente dalla truffa ai danni del Parlamento) dalle casse della Lega sarebbero andati all’associazione Maroni Presidente e da qui a due tipografie lombarde cui sarebbe stato commissionato materiale elettorale mai realizzato. Così, alla fine, i denari sarebbero tornati nelle casse della Lega. Si parla di diverse tranche che vanno dal 2013 all’aprile 2018, quindi già durante la segreteria di Matteo Salvini.

Lo snodo dell’inchiesta diventa l’Associazione Maroni Presidente. E l’unico indagato, finora, è Stefano Bruno Galli (assessore della giunta lombarda guidata da Attilio Fontana) che la presiedeva. “Conosco troppo bene Stefano per avere dei dubbi sul fatto che sia specchiato. Quindi si difenderà, farà quanto di sua competenza, e la magistratura altrettanto. Sono assolutamente tranquillo”, lo ha difeso ieri il governatore leghista. Ma i vertici del Carroccio sono in fibrillazione perché in quell’associazione e nella sua gemella Prima il Nord siedono molti pezzi grossi leghisti (tutti estranei all’inchiesta).

Due associazioni, stessi fondatori. Tutti leghisti e tutti vicini all’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Di più: stessi obiettivi. Eccolo il vero mistero dell’inchiesta genovese. Un mistero nato per caso, durante l’udienza milanese della scorsa primavera per discutere la richiesta di archiviazione (accolta) sulla denuncia di Marco Tizzoni. In quel momento l’assessore regionale Galli è indagato per appropriazione indebita. Il suo legale di allora deposita una memoria di 28 pagine e allega l’atto costitutivo di un’associazione. Si pensa all’associazione Maroni Presidente, oggetto dell’esposto che ha avviato l’inchiesta. Invece no: la difesa di Galli deposita l’atto costitutivo di Prima il Nord nata nel dicembre 2012, ovvero poche settimane prima della Maroni presidente nata nel gennaio 2013.

C’è di più: i fondatori, fatta eccezione per Roberto Calderoli, sono gli stessi. Si tratta di nomi legati a doppio filo alla corrente salviniana della Lega. Prima il Nord non rientra nell’inchiesta. È dunque un errore? In entrambe il presidente risulta Galli. Le due associazioni quando nascono hanno sede in via Boschetti 6 a Milano, indirizzo noto alla Lega perché qui ha sede la Fin Group, ovvero la finanziaria del Carroccio, già amministrata da Andrea Manzoni, uno dei fondatori dell’associazione Più Voci finita nell’inchiesta romana sull’imprenditore Luca Parnasi. Solo nel 2015 la Maroni presidente si sposterà in via Passerini a Monza, dove due giorni fa è arrivata la Finanza di Genova.

Torniamo allora ai fondatori. Che ora, dopo le perquisizioni di martedì iniziano a preoccuparsi. A partire da Stefano Candiani, parlamentare ed ex sottosegretario al Viminale, presente in entrambe le associazioni. Come anche Aurora Lussana, ex direttrice del quotidiano La Padania, nonché moglie di Nicola Molteni, altro ex sottosegretario al ministero dell’Interno. Nella Maroni presidente compare, ma poi uscirà, anche Roberto Calderoli. Presente invece Andrea Cassani, leghista e attuale sindaco di Gallarate, in provincia di Varese. Cassani in questo momento risulta indagato per turbativa d’asta nell’inchiesta milanese sulle tangenti in Lombardia. Insomma era tutto già scritto, ma se Milano aveva archiviato le accuse a Galli (appropriazione indebita), Genova studia le carte, rilancia e iscrive il primo indagato nell’inchiesta sul riciclaggio dei 49 milioni. Quando, a marzo, il Fatto pubblica l’intera storia, Galli su Facebook attacca: “Il Fatto Quotidiano mi sbatte in prima pagina con un’assurda e inaccettabile ricostruzione dei fatti”.