Salvini è nei guai: indagato per i voli sugli aerei di Stato

Nuova grana giudiziaria per Matteo Salvini. Questa volta davvero imbarazzante anche per lui e i suoi, diversamente da quelle sugli sbarchi. L’ex vicepremier è indagato per abuso d’ufficio nell’inchiesta su alcuni voli di Stato utilizzati quando era anche ministro dell’Interno. La Procura di Roma, dopo aver ricevuto il fascicolo dalla Corte dei conti, ha iscritto Salvini nel registro degli indagati come atto “dovuto” e ha trasmesso le carte al Tribunale dei ministri, competente a indagare su eventuali reati commessi nell’esercizio delle funzioni ministeriali. È a questo organo che spetta il compito di acquisire documentazione e atti, per poi decidere se archiviare o procedere.

La vicenda riguarda alcune trasferte dell’ex ministro a bordo di velivoli di Polizia e Vigili del fuoco. Alcuni voli sono avvenuti su un Piaggio P-180, un bimotore noto come “la Ferrari dei cieli” per i suoi arredi di lusso.

Dalla D’Urso, poi i vertici e le campagne elettorali

Nel maggio scorso fu un’inchiesta di Repubblica a ricostruire alcune trasferte del 2018-2019, spiegando l’escamotage usato dall’ex ministro: agganciare agli impegni istituzionali quelli di partito. Sarebbe per esempio accaduto – secondo quanto ricostruito dal quotidiano – il 4 gennaio 2019, quando Salvini volò da Milano a Pescara abbinando un vertice sulla sicurezza all’apertura della campagna elettorale abruzzese.

C’è poi il 10 maggio 2019: giornata assai complicata per l’allora ministro, che intorno alle 7 del mattino parte da Ciampino per Reggio Calabria a bordo di un P-180. Qui un Agusta lo porta nel comune di Platì per una cerimonia antimafia. Dal paese reggino si sposta a Lamezia Terme e poi in elicottero fino a Catanzaro, dove c’è un comizio elettorale. Ma quel giorno l’agenda è fitta. Perché poi Salvini vola ancora a Napoli, in occasione della conferenza stampa sugli arresti per il ferimento della piccola Noemi (l’ex vicepremier sarebbe passato in Prefettura) e conclude la maratona atterrando a Milano Linate.

Altro giorno, altro volo. Sempre Repubblica fa riferimento al 25 aprile 2019, quando un P-180 porta l’allora ministro da Ciampino a Palermo, dove poi monta su un elicottero fino a Corleone per inaugurare il nuovo commissariato di polizia e festeggiare lì la festa della Liberazione. E poi c’è il 16 settembre quando, a bordo del solito Piaggio, Salvini vola a Linate: nel pomeriggio è ospite di Barbara D’Urso a Domenica Live.

“Con i voli di linea
stessi costi, ma…”

Dopo l’inchiesta di Repubblica, la Corte dei conti apre un fascicolo, che si chiuderà con l’archiviazione. I magistrati contabili comunque analizzano “20 voli con aereo P-180 e 14 voli con elicotteri in dotazione al Dipartimento di Pubblica sicurezza, nonché un volo con aereo P-180 in dotazione” ai Vigili del fuoco, utilizzati a partire dal 1° giugno 2018 “per trasferimenti in ambito nazionale” di Salvini e “di altro personale al seguito (scorta, capo segreteria, capo ufficio stampa, ecc.)”. Sono dunque 35 le trasferte che la Corte dei conti ritiene fuorilegge: è “ritenuta illegittima – si legge nel decreto di archiviazione – la scelta di consentire l’uso dei menzionati velivoli per la finalità di trasporto aereo del ministro e del personale al seguito”.

Vediamo il perché. Durante i loro approfondimenti, i magistrati contabili analizzano la documentazione normativa fornita dal Corpo dei Vigili del fuoco e dal Dipartimento di Pubblica sicurezza. E nel decreto spiegano che i voli di Stato vengono disciplinati dal decreto legislativo n. 98 del 6 luglio 2011: all’articolo 3 viene prescritto che siano limitati al capo di Stato, ai presidenti di Camera e Senato, al presidente del Consiglio e al presidente della Corte costituzionale. Le cinque massime cariche dello Stato. Il comma 2 ammette “eccezioni”, che però devono essere “specificamente autorizzate”. È proprio questa autorizzazione che manca nel carteggio in mano ai pm contabili, che nel decreto di archiviazione parlano di una “circostanza che non ricorre nella fattispecie concreta all’esame”.

Per la Corte dei conti non vi è alcun danno erariale. Questo perché – ragionano i giudici contabili – se Salvini avesse preso un volo di linea, le spese sarebbero state superiori o uguali ai voli di Stato (per i quali è stata calcolata una spesa inferiore a 1.000 euro all’ora): “I costi sostenuti – scrivono – non appaiono essere palesemente superiori a quelli che l’amministrazione dell’Interno avrebbe sostenuto per il legittimo utilizzo di voli di linea”.

Fin qui, il giudizio contabile.

Polizia: “Tutto è in regola”

Sulla vicenda in passato è anche intervenuto il Dipartimento di Pubblica sicurezza per ribadire che non vi era nulla di irregolare. Questo perché a Salvini – si spiegava –, era “attribuito il primo livello di protezione che gli dà diritto all’utilizzo di aerei di Stato al pari dei soggetti sottoposti al medesimo livello di sicurezza”.

Quando la Corte dei conti aprì il fascicolo, Salvini commentò: “L’inchiesta sui voli di Stato fa ridere”. Quell’indagine è stata archiviata, ma la faccenda è ora aperta sotto il profilo penale davanti al Tribunale dei ministri. Lì si vedrà se Salvini avrà altri motivi per ridere.

 

Dite qualcosa

Noi, detestando il potere, non invidiamo nessun politico. Ma, tra i politici che non invidiamo, quello che invidiamo di meno è Luigi Di Maio. È vero che se l’è cercata: nessuno l’ha obbligato nel 2017 a diventare il capo politico dei 5Stelle, poi a cumulare la carica con addirittura tre poltrone governative nel Conte1 (vicepremier, ministro del Lavoro e pure dello Sviluppo economico), né a scegliersi nel Conte2 il dicastero degli Esteri, che lo porta spesso fuori dall’Italia quando dovrebbe presidiarla palmo a palmo per metter ordine in quel casino (dis)organizzato che è il Movimento. Ma non lo invidieremmo neppure se restasse “soltanto” il capo del M5S che, fra tutte le forze politiche in campo, è la più complicata da guidare. Di Maio deve fare i conti ogni giorno con Grillo, Casaleggio jr., Rousseau e i suoi iscritti, e poi Di Battista, Fico, i malpancisti su questo o quel dettaglio, quelli al primo mandato che brigano per il secondo, quelli al secondo che trescano con la Lega per il terzo e così via. Invece, nella Lega, Salvini comanda e gli altri obbediscono. Idem la Meloni in Fratelli d’Italia e Renzi in Italia Viva. Il Pd, specie da quando s’è liberato di Renzi e Calenda, va col pilota automatico. Per quanto ammaccato, mantiene una rete territoriale di abitudini e potere che gli garantisce uno zoccolo duro intorno al 20%: tutta gente che ne ha viste troppe e digerisce tutto, anche senza un leader forte, tant’è che Zinga non si vede quasi mai e il partito sopravvive fingendosi morto. I 5Stelle, descritti per anni come un “partito personale” (di Grillo, o di Casaleggio, o di tutti e due), non sono mai diventati né un partito, né tantomeno personale. Ed è la loro fortuna e la loro maledizione. Fortuna perché mantengono una vivacità di dibattito interno sconosciuta agli altri. Maledizione perché, in una politica decisa da 4-5 capi, i 5Stelle appaiono gli unici eternamente rissosi e spaccati. Prova ne siano le demenziali fuoruscite di ieri dal gruppo del Senato verso la Lega, col pretesto di una questione ipertecnica – il celebre Mes – che 4 italiani su 5 non sanno neppure cosa sia e, da quando Salvini s’è accorto che esiste, che la Lega lo battezzò con B. e ci ha investito un mese di strepiti, ha solo perso consensi.

Può darsi che il M5S, una volta realizzato il grosso del suo programma – reddito di cittadinanza, spazzacorrotti, dl Dignità, taglio dei vitalizi e dei parlamentari, e ora (si spera) salario minimo, acqua pubblica, legge sul conflitto d’interessi e sulla departitizzazione della Rai e della sanità – e “grillizzato” la politica, abbia esaurito la sua funzione e sia destinato a rapida estinzione. “Biodegradabili”, dicevano Grillo e Casaleggio sr..

Ma può anche darsi che abbiano un futuro, sia pur molto diverso dal passato. Ed è qui che, oltre a non invidiare Di Maio, fatichiamo a capirlo. Dopo la débâcle
delle Europee e il cambio di alleanze del Conte2, un leader astuto avrebbe coinvolto tutte le anime del Movimento nella sua gestione: per condividere onori e oneri e tappare la bocca a chi passa le giornate a strillare tutto e il contrario di tutto, salvo poi lamentare la mancanza di democrazia interna. Invece il mille volte annunciato “nuovo assetto” interno somiglia tanto a Godot: tutti lo aspettano, nessuno sa chi sia né che faccia abbia né cosa voglia, lui fa sapere che oggi non verrà ma domani sì, e infatti non arriva mai. Idem per gli “stati generali” che dovrebbero ridisegnare gli obiettivi del nuovo M5S: si parla di marzo, mentre urgono subito. Anche perché non ci vuole uno scienziato per capire cosa serve: basterebbe ascoltare quel pazzo visionario di Beppe Grillo che, diversamente da chi sta nel palazzo, ha mantenuto le antenne, il fiuto e l’entusiasmo per intercettare gli umori della gente e lo spirito del tempo. Alla festa dei 10 anni a Napoli ha invitato tutti, eletti ed elettori, a guardare avanti con entusiasmo, fino a mandare affanculo chi è fermo ai vecchi schemi e anatemi. E nel recente blitz a Roma non s’è limitato a confermare l’alleanza col Pd e la leadership di Di Maio, ma nella diretta social al suo fianco ha ridettato le parole d’ordine dei nuovi 5Stelle: ambientalismo al passo coi tempi, tecnologie innovative, energie alternative, nuovi modelli di mobilità e produzione, riduzione di scorie, scarti e rifiuti, riconversioni industriali, redistribuzione delle ricchezze. Che sono poi da sempre i suoi cavalli di battaglia, la piattaforma su cui nacque il M5S. Invece ha raccolto altro attendismo e altra afasia.

Nessun’altra forza politica ha la fortuna di aver anticipato di 10 anni (Grillo di 30) i ragazzi di Greta e il boom dei verdi in tutt’Europa. Possibile che Di Maio&C. non avvertano questo vento di radicalità gentile che gonfia le vele ai movimenti di piazza, dai Fridays for Future alle Sardine? Che aspettano a parlare a queste persone, anziché attardarsi in polverose narrazioni da vecchi notabili democristiani del Sud, in difesa di chi paga e incassa in contanti e dei ladruncoli allergici al Pos annidati fra le partite Iva? Ma lo capiscono o no che i piccoli e medi evasori non voteranno mai per loro, perché si fidano molto di più di chi li garantisce da una vita? E che fuori da quel piccolo mondo antico c’è un paio di generazioni post-ideologiche come loro che attendono soltanto un segnale? Hanno la fortuna di esser nati “né di destra né di sinistra”, ma si stanno trasformando in un guazzabuglio di gente di destra e di sinistra che ogni giorno litiga sul restare col Pd o tornare con la Lega (auguri). Il tutto mentre la narrazione del Pd muore di noia e quella della Lega perde colpi perché il Cazzaro Verde non sa dire altro che “elezioni subito” e “fuori i negri”. I voti che Salvini perde a destra li intercetta la Meloni, ma quelli post-ideologici, più che nel centrosinistra, potrebbero traslocare nei 5Stelle. Se i 5Stelle ritrovassero la parola.

Libri rari e opere d’arte: citofonare Bellonci

“AMaria Bellonci, senza secondi fini (novembre 1949)”. La dedica sul libro è di Cesare Pavese, che sette mesi dopo avrebbe vinto il Premio Strega proprio con La bella estate per poi togliersi la vita ad agosto, nella stanza dell’albergo Roma che aveva preso in fitto il giorno prima a Torino. La casa di via Fratelli Ruspoli Pavese non la vide mai, perché i coniugi Maria e Goffredo Bellonci ci si trasferirono solo nel 1951, quando il proprietario dell’appartamento in cui avevano vissuto fino ad allora in viale Liegi ebbe bisogno di riprenderselo per “problemi di cuore”: l’ascensore gli avrebbe salvato la vita. Eppure Pavese definì il salotto letterario romano come la “casa amica” e ancora oggi la sensazione che si ha entrando nell’attuale sede della Fondazione Bellonci è la stessa: un viaggio nella Storia della letteratura italiana.

E non soltanto per i 24 mila volumi presenti: passeggiando sul parquet consumato e scricchiolante, ammirando i ritratti di Maria, le altre opere d’arte – De Pisis, Mafai, Morandi, Campigli, per citarne qualcuno – e i volumi ammassati fin sugli stipiti delle porte, l’impressione è quella di avere accesso a un mondo di intellettuali che ormai si studia solo a scuola. A casa Bellonci dal ’44 si riunirono gli Amici della Domenica, che nel ’47 decisero di dare vita al Premio Strega. Da qui passavano scrittori, registi, attori, liberi pensatori, ma anche politici e imprenditori. Qui si intraprendevano battaglie culturali, e non si determinavano solo le sorti di un libro. “A Maria Bellonci, che sa i segreti di altri labirinti”, scrisse Umberto Eco dedicando Il nome della rosa a colei che fino all’ultimo – e poi grazie al sapiente lavoro di Anna Maria Rimoaldi – ha saputo tenere vivo il principale riconoscimento letterario italiano. Nel 2020 l’appartamento all’ultimo piano di via Fratelli Ruspoli, “bene di eccezionale interesse culturale” dal ’93, verrà ristrutturato con l’obiettivo di realizzare una casa-museo, “un luogo aperto a tutti”, ha spiegato ieri il direttore della Fondazione Bellonci, Stefano Petrocchi. Saranno rifatti gli infissi, la pavimentazione, l’impianto elettrico, le scaffalature con un costo preventivato di 75 mila euro, recuperati tra un bando regionale e il sostegno di Banca Popolare dell’Emilia-Romagna. Nel frattempo, i preziosi volumi – ci sono prime edizioni di inizio Novecento introvabili – verranno custoditi e restaurati presso la Biblioteca Nazionale, dove – è l’auspicio – si provvederà anche alla loro digitalizzazione. La casa-museo tornerà a essere sede della prima votazione per lo Strega nel 2021.

Negli anni 30, Maria Bellonci scriveva sul suo diario: “Che bello, è tornato Goffredo e ha portato un Mafai”. Solo il giorno prima si lamentava di non avere i soldi per pagare le tasse. La cultura non dava da mangiare nemmeno allora.

Istanbul, Atene, Vienna: le città visibili di Markaris

Anticipiamo stralci di “Lo scrittore e le sue città”, uno dei due saggi di Petros Markaris pubblicati per la prima volta in italiano in “Ospiti & ospiti”, in libreria da qualche giorno con New Press Edizioni.

Sono nato e cresciuto a Istanbul, figlio di un armeno e di una romea, ossia di una donna ortodossa di lingua greca e di cittadinanza ottomana. In effetti, dire “sono nato a Istanbul” è abbastanza generico. Per essere più precisi, non sono nato a Istanbul, o meglio a Costantinopoli come la chiamano i greci – noi ellenofoni, invece, diciamo semplicemente Polis, Città per antonomasia – ma nella terza delle Isole dei Principi, Halki in greco, o Heybeliada, secondo il nome ufficiale dell’isola, in turco. Lì ho passato gli anni della mia infanzia e lì ho intrapreso gli studi, nella scuola elementare di lingua greca…

Anche nella scelta delle scuole superiori, io sono stato un’eccezione. L’iter normale per un ragazzo della comunità ellenofona era di frequentare o un liceo greco oppure, più raramente, un liceo francese. Mio padre, invece, mi spedì al liceo austriaco della Città…

Ogni volta che ritorno con il pensiero al passato, mi chiedo se l’amore che nutro per Istanbul, Costantinopoli, insomma la Città, sia dovuto alla solitudine degli anni della mia adolescenza, oppure alla magia di quel luogo. Credo più alla magia…

Amo molto le città, in particolare i centri cittadini. D’altro canto, ho un rapporto con la natura limitato all’essenziale. Ovviamente la natura mi piace, spesso provoca la mia ammirazione, ma in fondo mi annoia. Dopo una settimana di vacanze nella natura, sono arrivato ai miei limiti e voglio tornare in città.

Ho avuto la fortuna di viaggiare molto in vita mia, e di visitare molte città. Questa abitudine a viaggiare in città sconosciute mi ha aiutato a crearmi due regole di comportamento. La prima, consiste nel visitare per ultimi i musei e solo dopo aver fatto conoscenza con la città. C’è solo un modo per conoscere una città: percorrerla a piedi e, preferibilmente, senza avere una meta definita. Ma perché senza una meta? Perché è meglio che sia la città a incontrare il visitatore, piuttosto che il visitatore la città. Una città non è solo i suoi musei, le sue strade e le sue vetrine. È i suoi palazzi, vecchi e nuovi, e specialmente è le persone che la abitano. E le persone abitano e circolano in ogni città in modo diverso: in un modo a Istanbul, in un altro a Barcellona, in un altro modo a Milano, a Parigi, a Monaco, a Berlino, ad Atene e a Londra.

Ogni volta che in una città mi imbatto in uno di quegli autobus turistici che mostrano ai visitatori i luoghi d’interesse, mi metterei a urlare. Penso che queste persone lasceranno vagare il loro sguardo sugli edifici, visiteranno qualche museo, e non capiranno che una città non coincide affatto con le sue bellezze turistiche…

La seconda regola che mi guida nella scoperta di una nuova città, riguarda gli odori e i profumi che la caratterizzano. Una città deve profumare, e io devo poter inspirarne gli odori. Se una città non ha odori, mi è difficile superare la distanza che mi separa da lei…

L’Atene degli anni Sessanta era, per me, emigrante che arrivava da Istanbul e da Vienna, una città di provincia. E quello che ne ho amato sin dal primo momento sono state le sue contraddizioni. Se Istanbul era assolutamente orientale, Vienna assolutamente occidentale, Atene era insieme Europa e Balcani…

Quando mettevo insieme le mie esperienze nelle varie città che ho visitato, non avrei potuto mai immaginare che le mie esperienze, insieme alla mia passione per quelle città, si sarebbero riversate nei miei romanzi, dopo ben quarant’anni. Il romanzo giallo contemporaneo è un romanzo metropolitano. Questo è indubbio, anche se c’è dell’altro. Perché la città non è nel romanzo poliziesco contemporaneo solo un’atmosfera o un ambiente, ma fa parte dei protagonisti… Oggi il romanzo poliziesco si è trasferito nelle città, che sono i centri delle attività economiche…

Le città cambiano. La Città è cambiata: la Città orientale e multietnica si è trasformata in un colosso mostruoso dei nuovi ricchi, e diventata la mall city come la definisce ironicamente un amico turco, vignettista, perché i centri commerciali si alzano uno di fianco all’altro. Anche Atene è cambiata. La piccola, allegra città che ho conosciuto si è evoluta ed è diventata una metropoli che raccoglie ancora i rottami delle Olimpiadi e, allo stesso tempo, combatte per restare in piedi negli anni della crisi.

Le città non muoiono. A volte, però, come se soffrissero di Alzheimer, cancellano la loro memoria.

“Sono fuggita da Hollywood La Deneuve? Mi dava del lei”

Juliette Binoche, ne Le verità di Hirokazu Kore-eda, a Natale nelle sale francesi, è la figlia di Catherine Deneuve: com’è andata?

Io le davo del tu, lei mi dava del lei, tranne che per esigenze di copione. Finito il film, è tornata al lei.

Una relazione a senso unico?

Sul set, Catherine fumava tantissimo, un giorno le ho chiesto una sigaretta, senza risultato. L’ho implorata: “Te la ridò”, lei nulla: “Non si prestano le sigarette”. Non mi sono persa d’animo: “Ti ridò un pacchetto”. Alla fine, me l’ha tirato lei. È stato il primo passo, siamo state bene.

Che cosa c’è dietro il suo lavoro?

La curiosità è la base dell’essere umano. La passione che mi prende di imparare, scoprire grandi artisti.

È ospite d’onore al Festival di Macao (IFFAM): sensazioni?

Ho avuto un fidanzato cinese, è un buon modo di conoscere il mondo (ride). Amo la Cina, ho visitato la campagna e sono rimasta colpita dalle tradizioni, la poesia, il modo di pensare. Shengong, agopuntura, che è la mia medicina in Francia, sono affascinata dalla cultura cinese, è così raffinata.

Ha esordito nel 1985 con Jean-Luc Godard: Je vous salue, Marie.

Ero giovanissima, lavoravo come cassiera, ho fatto il provino, mi hanno preso, un piccolo ruolo. Ho detto al padrone che me ne andavo, che facevo un film con Godard: niente, voleva convincermi a rimanere, “crescerai qui al negozio”.

Invece Godard?

Ho passato tre, quattro mesi in hotel: lui girava quando gli pareva. A un certo punto mi dà un lungo monologo e insieme gli auricolari: “Ripeti quel che ti dico”. Mi oppongo: “Questo non è recitare, è ripetere”. Il giorno dopo torna sui suoi passi: via l’auricolare. Ad aprire il film la mia battuta, “Tout ce que je dis c’est de la merde”: non male come inizio.

Il primo ruolo da protagonista in Rendez-vous di André Téchiné: Nina, che si divide tra tre amanti.

Il freddo, un incubo. E nudità, scene di sesso, ma quell’esperienza mi aiutò a stringere un patto dentro di me, a trovare la fiducia e affrontare i miei limiti. Quando sei giovane e donna, le persone ne approfittano, ma è lì che sono diventata capace di dire no.

Oggi c’è il #MeToo.

Quando leggo copioni in cui le donne sono viste come oggetti del desiderio, ci vado sempre coi piedi di piombo. Il #MeToo è un movimento importante, ma dovrebbe essere anche You Too, He Too, We Too…

Che cosa pensa delle nuove accuse di stupro a Roman Polanski? Condivide il boicottaggio di j’accuse?

Sa che è brutto quel che ha fatto, ed è stato giudicato per quello. La vittima ha detto di voltare pagina. Credo che l’uomo sia capace di trasformarsi e imparare dai propri errori. La vita è movimento: c’è chi rimane bloccato, io preferisco andare avanti.

E le nuove accuse?

Mi sono già espressa: voltare pagina! Per chi è il mestiere del cinema? Per gente forte, che però deve mantenere una vulnerabilità, il cuore aperto. Io sapevo di avere il fuoco dentro, ma ignoravo se sarei riuscita a vivere di cinema.

Oggi può dire di essere arrivata.

No, non puoi dirlo mai: puoi dire di aver dato tutto. La recitazione è una forza che ti attraversa, non ne sei totalmente responsabile.

Lei è passata anche per Kieslowski, Film blu.

Krzysztof era un genio. Io gli buttavo lì un sacco di idee, lui ribatteva: “Grazie, ma sono interessato solo a questo zucchero e questo caffè sulla tavola”.

Nel 1997 l’Oscar per Il paziente inglese le apre le porte di Hollywood.

Al contrario, sono scappata: mi sentivo colpevole del mio successo. Ma c’era un’altra ragione: io non volevo essere un’attrice hollywoodiana, ma globale. In America sarei entrata a far parte del sistema, che mi spaventa: sono sempre stata indipendente.

Tra i grandi con cui ha lavorato ci sono Leos Carax (Rosso sangue e Gli amanti del Pont-Neuf) e Abbas Kiarostami (Copia conforme).

Sì, ma in mezzo son passati vent’anni e ho fatto due figli… Carax era misterioso, ne ero attratta, nondimeno non volevo mi riducesse all’immagine della bellezza: “Sono una persona, capito?”. Per Gli amanti voleva avessi un’esperienza diretta, e mi sono messa in gioco: ho dormito per strada, non potevo passare la notte in hotel e poi fresca come una rosa presentarmi sul set a interpretare una clochard… E Kiarostami?

Come Kieslowski, racchiudeva un film in una frase. Ma aveva qualche problema a discernere verità e finzione, e non si capacitava che piangessi leggendo il copione: “Sono lacrime false!”.

Haneke l’ha diretta per due volte, lo stesso è accaduto con Claire Denis.

E ogni volta non si è più gli stessi. In High Life, il secondo film con Claire, ho girato le scene di sesso tranquillamente, sebbene fossero folli, perché mi fidavo di lei. Fosse stato il primo, non so se le avrei fatte.

E come va il film con Alain Delon?

È in sospeso, per i suoi problemi di salute. Nel frattempo, ho girato la seconda regia di Emmanuelle Carrère, Le quai de Ouistreham, un’inchiesta sulle terribili condizioni delle donne delle pulizie, e La bonne épouse, sulle scuole nell’Alsazia degli anni Sessanta per formare la moglie ideale, brava a cucinare, a cucire e pure a letto. Tranquilli, faccio saltare tutto per aria!

@fpontiggia1

Jeremy, il cigno nero che vuole fare risorgere la sinistra

Fino al 2015, Jeremy Bernard Corbyn è una figura marginale nel Partito laburista: il rappresentante eccentrico dell’ala minoritaria di sinistra, visto come il nostalgico relitto di un socialismo sconfitto dalla storia. Pacifista, anti-monarchico, patron di tutte le cause minoritarie, uomo delle mille petizioni, ostinato nel votare, nei 13 anni del Labour al potere, 420 volte contro il suo stesso partito. Polemico ma inoffensivo, con le sue camicie comprate al mercato sotto casa, lo stile frugalissimo, la bicicletta, l’orto, le conserve di marmellata autoprodotte, tre matrimoni di cui due falliti, si dice, per eccesso di militanza.

Laburista da sempre, entra in Parlamento per Islington North, il collegio elettorale dell’intellighenzia liberal, nel 1983, anno della sconfitta bruciante di un Labour che si era presentato ai seggi con un programma di sinistra poi definito “la più lunga lettera di suicidio della storia”. Dalle ceneri emerge la stella di Tony Blair, che sposta con successo il Labour al centro, sposa il libero mercato, inaugura una fase di straordinario benessere economico e sociale ma trascina il paese nel disastroso conflitto con l’Iraq.

Ma il carisma di Blair tramonta, nel 2010 tornano al governo i Conservatori. Nel 2015 il candidato laburista Ed Miliband perde le elezioni e torna il problema della successione. Il Regno Unito è ancora pesto per gli effetti della crisi finanziaria del 2008 ma in Europa la sinistra è tornata a dare risposte, da Syriza in Grecia a Podemos in Spagna. Corbyn raccatta per un soffio i 35 voti necessari e si candida alla segreteria. I bookmaker lo danno 100 a 1. Il dirigenti lo snobbano, ma le piazze si riempiono di giovanissimi e nuovi simpatizzanti. Fra maggio e settembre gli iscritti passano da 200 mila a 550 mila. A sorpresa diventa segretario del maggior partito di sinistra europeo. Lo sposta subito a sinistra, “epurando” gli oppositori interni. Ha una piattaforma radicale di riforme economiche: aumento delle tasse per società e redditi alti, compartecipazione dei lavoratori, diritto allo studio gratuito, nazionalizzazione di ferrovie, società energetiche, settimana lavoratori di 32 ore, un tetto al costo degli affitti, lotta al climate change. For the many, not the few, è il suo slogan. Un Robin Hood affabile, ma deciso a sottrarre ai ricchi per ridistribuire ai poveri.

Vasto programma, che esalta un pezzo di working class ma spaventa la classe media e la City. La Corbyn-mania dura fino al 2017: alle elezioni di giugno recupera 20 punti sui conservatori di Theresa May e poco dopo, al festival di Glastonsbury, è acclamato come una rockstar.

Ma si schianta sulla Brexit, su cui troppo a lungo ha una posizione ambigua. Questo e il suo passato da euroscettico gli alienano i Remainers. La decisione tardiva di sostenere un secondo referendum invece gli aliena i Leavers, che sono maggioranza nelle roccaforti laburiste del nord e delle Midlands. La sua popolarità precipita. Da sempre critico delle politiche di Israele e simpatizzante della causa palestinese, viene coinvolto in denunce di antisemitismo nel partito a cui reagisce in modo non abbastanza efficace. Dopo 9 anni di austerità Tory dovrebbe vincere facilmente, invece il suo partito insegue e, in molte aree del Paese gli attivisti evitano di fare il suo nome. In campagna elettorale punta tutto sulla difesa dell’Nhs, il servizio sanitario nazionale, accusando Johnson di volerlo mettere sul piatto del trattato commerciale post Brexit con gli Stati Uniti. Funziona fino a un certo punto, perché queste sono elezioni sulla Brexit, dentro o fuori, tema su cui è divisivo e vulnerabile.

Può ancora sorprendere, visto che è un cigno nero dall’inizio della sua ascesa. Ma se perde, difficile possa resistere alle inevitabili pressioni per le dimissioni.

Boris, l’esecutore del piano: bugiardo però convincente

Alexander Boris de Pfeffel Johnson. Per i familiari ancora Alex, per il resto del mondo semplicemente Boris. Vita mai convenzionale: nasce a New York, nell’Upper East side, primo dei tre figli di Stanley, studente di Economia alla Columbia University e Charlotte, eccentrica artista di famiglia liberal. Annuncia presto di volere diventare “re del mondo”. È così brillante da vincere la prestigiosissima borsa di studio King’s per Eton, dove si distingue per genio e pigrizia. Di lui il preside scrive, profetico: “Credo davvero consideri meschino da parte nostra non trattarlo come una eccezione, uno con il diritto di essere libero dalla ragnatela di obblighi a cui sono soggetti tutti gli altri”. A Oxford è primus inter pares; David Cameron, George Osborne, Jeremy Hunt, Michael Gove, la futura classe dirigente dei Tories.

Per tutti è un predestinato. Sceglie il giornalismo, senza gavetta: grazie alla rete di conoscenze di Oxford viene presentato al direttore del Daily Telegraph Max Hastings, che lo invia a Bruxelles come corrispondente. Inaugura il sotto-genere giornalistico, poi diventato popolarissimo, del “dàgli all’euroburocrate”: “Tutto quello che scrivevo da Bruxelles aveva questo incredibile, esplosivo impatto sul partito conservatore, e mi dava uno strano senso di potere”. Troppo: inventa notizie e viene licenziato. Hastings dirà di lui: “È completamente inadeguato a fare il primo ministro. Il suo vizio peggiore è la codardia, che si riflette nel suo desiderio di dire a chiunque quello che vuole sentirsi dire, salvo contraddirsi inevitabilmente un’ora dopo. Nessuno di quelli che lo conoscono davvero pensa sia una brava persona”. Ma la sua ascesa è inarrestabile, la sua ambizione incontenibile. Diventa deputato, poi sindaco di Londra: piattaforma per costruire rapporti con banchieri e costruttori, utili per il salto in politica nazionale. L’occasione arriva nel 2016. L’amico di una vita David Cameron concede il referendum sull’Unione europea per liberarsi una volta per tutte dell’ala euroscettica dei conservatori e Boris lo pugnala alle spalle. Diventa il leader della campagna Vote Leave, mette faccia e credito politico sulla promessa “350 milioni in più all’Nhs” una volta fuori dall’Unione.

È un bugia, ma convince. Quando il Leave vince il referendum e Cameron si dimette, è il primo a esserne spiazzato. Perde, o fa sfumare, l’occasione di diventare primo ministro: la rogna Brexit passa nelle mani di Theresa May. Lei cerca di tenerlo a bada facendolo ministro degli Esteri, lui passa il tempo a boicottarla con editoriali da primo ministro in pectore sul fido Daily Telegraph, a 250 mila sterline l’anno. Punta alla premiership, sfrutta abilmente la fronda interna ai Conservatori, diventa il candidato di riferimento dei falchi Brexiteers. Quando Theresa May, a luglio scorso si dimette Boris viene scelto dagli iscritti Tories ad ampia maggioranza. Stile volutamente trasandato, due mogli, un numero imprecisato di amanti, 5 figli, una fidanzata 20 anni più giovane. L’imperscrutabile segreto del suo successo lo rivela Lisa, parrucchiera gallese e Leaver: “Boris Johnson è un bugiardo. E questo lo rende umano. Perciò ho fiducia che manterrà la sua parola”. La sua parola in questa campagna elettorale è uno slogan semplice e ripetuto alla nausea: Get Brexit Done. Realizzare la Brexit. Mantenere la promessa fatta agli elettori. E poi: aumentare i fondi all’Nhs, arruolare 21 mila nuovi poliziotti, introdurre un sistema di quote per controllare l’immigrazione. Pochi giorni fa ha dichiarato: “Per troppo tempo gli immigrati europei hanno trattato questo Paese come fosse loro”. Chissà se si rimangerà anche questo.

Dem, due accuse per affondare Trump

Donald Trump s’è reso colpevole di abuso di potere e di ostruzione alla giustizia: queste le accuse ieri formalizzate dalla Commissione Giustizia della Camera, sulla scorta dell’indagine condotta dalla Commissione Intelligence. Nancy Pelosi, speaker della Camera, leader democratica, dice che il magnate presidente “è una minaccia per la nostra democrazia”. I presidenti delle Commissioni, Adam Schiff e Jerry Nadler, parlano di “prove schiaccianti”.

Per Trump, invece, le accuse sono “ridicole”: è “una caccia alle streghe … una pura follia politica”. La Casa Bianca gli tiene ovviamente bordone: “Nessuna prova … è tutto un tentativo di rovesciare il presidente”, che al Senato, dove i repubblicani sono maggioranza, potrà affrontare “un giusto processo”. L’opinione pubblica appare confusa, incerta, polarizzata come i partiti politici, ma poco partecipe. “Un momento surreale”, è il commento di Michelle Obama: “Ne usciremo, abbiamo superato momenti peggiori”.

Entro la fine della settimana, la Commissione Giustizia voterà sulla formulazione dei capi d’accusa. La Camera, poi, deciderà in plenaria, quasi certamente la prossima settimana, sul rinvio a giudizio del magnate presidente, che, a gennaio, sarà processato dal Senato: ci vogliono i due terzi dei voti per pronunciare l’impeachment, cioè la deposizione del presidente. Trump, al momento, rischia poco; e il flop potrebbe diventare un boomerang per i democratici in campagna elettorale. In conferenza stampa lo stato maggiore dei democratici alla Camera, la Pelosi ed i presidenti delle due Commissioni Schiff e Nadler, ha presentato le conclusioni dell’inchiesta: Trump ha violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione mettendo i suoi interessi politici sopra l’interesse nazionale e ha cercato di ostacolare l’indagine contro di lui. Nella riunione di sintesi della Commissione Giustizia, lunedì, molto contrastata, un deputato dem aveva detto che il comportamento di Trump nei confronti dell’Ucraina costituiva “un chiaro e permanente pericolo”, mentre i deputati repubblicani avevano sostenuto che “l’impeachment è un procedimento mal posto, politicamente motivato e infondato”.

Nadler ha un po’ precipitato i tempi dei lavori, respingendo la richiesta dei repubblicani di ascoltare altri testimoni, in particolare Schiff e la talpa, cioè l’agente dell’Fbi che mise in moto l’inchiesta sulla telefonata galeotta del 25 luglio tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, durante la quale il magnate chiese l’apertura a Kiev di un’indagine contro Joe Biden e suo figlio Hunter, subordinando ad essa lo sblocco di aiuti militari per 391 milioni di dollari già decisi dal Congresso. La Commissione Giustizia ha pure evitato di mischiare il Kievgate con il Russiagate, lasciando fuori dalla procedura d’impeachment l’inchiesta condotta dal procuratore speciale Robert Mueller.

Lunedì scorso, il presidente aveva subito uno smacco, quando un rapporto a lungo atteso del Dipartimento della Giustizia aveva concluso che l’Fbi aveva buoni motivi per indagare sui contatti tra la Russia e la campagna del magnate nel 2016, anche se durante le indagini sono poi stati fatti grossi errori.

L’ispettore capo del Dipartimento, Michael Horowitz, ha sì stigmatizzato metodi e scelte degli agenti federali, ma ha nel contempo smontato il mantra di Trump che il Russiagate fosse un’inchiesta “politicamente motivata”.

Brexit, nuovo “referendum”: tu chiamale se vuoi elezioni

Le chiamiamo elezioni politiche ma sono di fatto un nuovo referendum sulla Brexit. La resa dei conti fra due visioni radicalmente diverse del futuro del Regno Unito e un gigantesco punto di domanda sul ruolo di Londra nei futuri assetti geopolitici europei e globali. Una contrapposizione che arriva da lontano, da quel 23 giugno 2016 in cui il 52% degli elettori britannici decide, a sorpresa, di lasciare l’Unione europea. Dopo le immediate dimissioni di David Cameron che quel referendum ha incautamente indetto, la responsabilità di guidare il processo di uscita se la prende Theresa May, che fissa linee rosse che limitano la flessibilità dei negoziati.

Per portarle a termine ha bisogno di un ampio mandato parlamentare: va quindi a elezioni anticipate, nel giugno 2017, ma ne esce con le ossa rotte e una minoranza risicatissima, tanto da dover contare sul tirannico appoggio esterno di dieci parlamentari del Dup, il Partito unionista nordirlandese. A dicembre 2018 riesce a chiudere un accordo di divorzio con Bruxelles che scontenta tutti: viene bocciato tre volte dal Parlamento e provoca la frattura con i falchi nel suo partito. A luglio scorso il suo tempo scade: la sostituisce Boris Johnson. Si presenta come il campione del volere popolare contro l’ostruzionismo dei parlamentari, con una piattaforma aggressiva e la celebre promessa di portare a casa la Brexit a tutti i costi entro il 31 ottobre, con o senza accordo. Fa precipitare lo scontro istituzionale con Westminster: ai primi di settembre epura i parlamentari conservatori che hanno votato con l’opposizione per obbligare il governo a chiedere all’Ue una successiva estensione per scongiurare il rischio di no deal. Poi impone la sospensione del Parlamento per cinque settimane, tirando per la giacca anche la Regina Elisabetta che a quella sospensione dà l’assenso reale. È un azzardo spregiudicato, il punto di massima tensione nella lotta fra poteri. La gente scende in piazza gridando al colpo di Stato. Il 24 settembre, all’unanimità, la Corte Suprema giudica la sospensione illegittima: il caos mette in difficoltà anche Elisabetta, ingannata dal primo ministro.

Il Parlamento torna immediatamente a riunirsi e lo scontro si riaccende. A sorpresa, a metà ottobre Johnson estrae dal cappello un nuovo accordo con Bruxelles: lo presenta come un trionfo personale, ma di fatto ha ceduto su una serie di linee rosse, prima fra tutte la promessa di non creare un confine fra Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Il Dup gli giura guerra.

Boris non riesce a fare approvare il suo accordo entro la scadenza fatidica del 31 ottobre ed è costretto all’umiliazione di chiedere una ulteriore estensione, che la Ue concede. Non resta che tentare il tutto per tutto: nuove elezioni. Vengono fissate al 12 dicembre. Tre i possibili scenari post voto. Se Johnson conquista una maggioranza ampia può far passare la sua versione dell’accordo con l’Unione europea al più presto, forse già entro Natale. E il Regno Unito esce dall’Ue entro il 31 gennaio, l’ultima scadenza concessa da Bruxelles. Il rischio di un no deal non è però scongiurato, perché c’è ancora da negoziare il futuro trattato commerciale in meno di un anno. Tempi che i maggiori esperti di trattati internazionali considerano troppo stretti. Se invece esce dalle elezioni con una maggioranza risicata si torna allo stallo di un hung parliament, un Parlamento paralizzato, non in grado di scegliere una direzione chiara e che quindi potrebbe non approvare il suo accordo. Questo esito riaprirebbe la possibilità di restare nell’Unione, perché di fronte all’impossibilità di realizzare la Brexit, Johnson potrebbe essere costretto a concedere un secondo referendum con opzione Remain. Infine, improbabile ma possibile, un governo di minoranza laburista guidato da Jeremy Corbyn, non è chiaro se in coalizione o con appoggio esterno di Lib-Dem o Indipendentisti scozzesi. Tenterebbe di riaprire i negoziati con Bruxelles per ottenere una Brexit più soft e, una volta ottenuto un nuovo accordo, lo sottoporrebbe a consultazione popolare in un referendum con opzione Remain.

I Rohingya e Lady Genocidio

The Lady, come era chiamata Aung San Suu Kyi durante la lunga prigionia politica che le valse il premio Nobel per la Pace, pare sia rimasta impassibile ieri mentre ascoltava le testimonianze e vedeva i resoconti grafici della pulizia etnica e degli stupri di massa perpetrati due anni fa dai militari birmani contro i membri della comunità islamica dei Rohingya. L’attuale consigliera di Stato del Myanmar nonché primo ministro de facto, è arrivata ieri alla Corte Penale dell’Aja per prendere parte a un’audizione di tre giorni nell’inchiesta aperta dal più alto tribunale delle Nazioni Unite allo scopo di determinare se quello commesso dalle forze di sicurezza della nazione asiatica sia stato un genocidio, che peraltro continua.

“Sono davanti a te per risvegliare la coscienza del mondo e far sentire la voce della comunità internazionale”, ha dichiarato Abubacar Marie Tambadou, procuratore generale e ministro della giustizia del Gambia, durante l’apertura della causa depositata all’Aja dal proprio paese contro il Myanmar. Dopo aver citato le parole di Edmund Burke: “L’unica cosa necessaria per il trionfo del male è che gli uomini buoni non facciano nulla”, il ministro ha proseguito denunciando che “questa è una macchia sulla nostra coscienza collettiva. Non è solo lo stato del Myanmar che è sotto processo qui, è l’umanità che è sotto processo”. Prima dell’alba si era già formata una lunga fila fuori dal Palazzo della Pace per assistere alle testimonianze sulle operazioni di sgombero militare nel 2017 contro la minoranza musulmana che contava poco più di 1 milione di persone di cui 700.000 furono costrette a fuggire attraverso il confine nel vicino Bangladesh. San Suu Kyi, dovrebbe parlare solo oggi, per difendere l’esercito del suo paese. Come più volte asserito nei suoi discorsi pubblici, The Lady sosterrà che le operazioni militari sono state effettuate in modo legittimo in quanto risposta agli attacchi dei terroristi rohingya. Dopo anni di discriminazioni e tentativi di assimilarli attraverso la promessa di garantire loro lo status di cittadini birmani in cambio della rinuncia all’islam, i Rohingya hanno subito attacchi violenti dai fedeli di un gruppo ultra-nazionalista di monaci buddisti. Dopo che i loro villaggi sono stati bruciati e molti di loro uccisi a bastonate dopo aver assistito allo stupro di mogli e figli, alcuni si sono organizzati in gruppi armati di coltelli e bastoni per tentare di difendersi. Solo una piccola porzione è riuscita ad armarsi per assaltare i check point militari. Secondo la premio Nobel però questa sparuta cellula ha posto una minaccia terroristica così grave per le sorti della Birmania tutta che la risposta dell’esercito è stata giusta e non sproporzionata, tanto meno tesa a sbarazzarsi di un’intera etnia costringendola a fuggire oltre confine per trovare scampo.

La decisione di Suu Kyi di volare nei Paesi Bassi si è rivelata popolare in Myanmar. Durante l’udienza la consigliera godrà dello status di “agente” ufficiale per il Myanmar, il che significa che è la leader ufficialmente designata della delegazione del suo paese e godrà dell’immunità. Il caso è stato lanciato dal Gambia – uno stato dell’Africa occidentale di religione prevalentemente musulmana – per accusare il Myanmar di aver violato la convenzione sul genocidio del 1948 emanata dopo l’Olocausto. Il ministro dello Stato africano afferma che il Myanmar ha perpetrato violazioni “manifeste” della Convenzione attraverso gli atti dei suoi militari e continua a farlo. “C’erano cadaveri sul pavimento; ragazzi del nostro villaggio”, ha citato Lowenstein riportando la testimonianza di un sopravvissuto alla missione di accertamento delle Nazioni Unite. “Quando entrammo in casa, i soldati chiusero la porta. Un soldato mi ha violentata. Mi ha pugnalato alla nuca e all’addome. Stavo cercando di salvare il mio bambino, che aveva solo 28 giorni, ma lo hanno gettato a terra ed è morto”. Secondo i legali San Suu Kyi non ha usato il suo “potere di fatto o autorità morale per arginare o prevenire gli eventi o proteggere la popolazione”.