La riforma del Mes – il Meccanismo Europeo di Stabilità, più comunemente detto Fondo salva Stati – che fa tanto discutere in questi giorni, non arriva certo all’improvviso. Nell’originaria idea franco-tedesca, presentata nella dichiarazione congiunta di Meseberg del giugno 2018, poi sottoscritta dagli altri capi di governo nel giugno scorso, il Mes dovrebbe diventare una sorta di Fondo monetario europeo, fornendo assistenza agli Stati membri della zona euro e/o ai loro sistemi finanziari, sulla falsa linea di quello che il Fondo monetario internazionale fa nel resto del mondo. Sono più di uno i punti in cui si cita nella riforma il parallelo con il Fmi. In particolare, e veniamo al nodo della discussione, al punto 12B del preambolo si stabilisce che “in casi eccezionali, un’adeguata e proporzionale forma di coinvolgimento del settore privato, in accordo con le pratiche del Fmi, dovrebbe essere considerata nei casi dove il sostegno è accompagnato da condizionalità nella forma di un programma di aggiustamento macroeconomico”. In pratica, se il coinvolgimento del Mes prevede la necessità dello Stato in difficoltà di correggere i propri conti pubblici e/o i conti esteri, occorre verificare se ciò sia compatibile con la sostenibilità del debito pubblico. Se questa sostenibilità non è garantita, il Mes può decidere di erogare i soldi solo dopo che il debito pubblico sia reso sostenibile, attraverso una ristrutturazione delle scadenze, dei tassi o un abbattimento dello stock. Una qualche forma di default che imponga a privati un taglio del valore dei titoli che posseggono.
A molti questo passaggio ha fatto tornare in mente un’altra dichiarazione franco-tedesca, quella di Deauville dell’ottobre 2010. In quell’occasione, Merkel e Sarkozy annunciarono che avrebbero lavorato per riformare i meccanismi di aiuto agli Stati in crisi, in modo che una volta che fosse stato richiesto l’intervento del Fondo salva Stati vi dovesse essere automaticamente il coinvolgimento del settore privato. L’allora ministro delle Finanze greco Papaconstantinou ha dichiarato nelle sue memorie che Deauville ha trasformato “una crisi che poteva esser contenuta in un completo disastro sistemico”. Si dice che Jean-Claude Trichet, allora governatore della Banca centrale europea, abbia informalmente avvertito i due leader che in quel modo avrebbero distrutto l’euro. Avvertimento che non è poi andato molto distante dalla realtà.
Se in teoria è ragionevole stabilire che un debito che non può essere sostenuto debba essere ristrutturato, quando si parla di debito degli Stati i casi di ristrutturazione si sono dimostrati nella pratica procedimenti più lunghi e complicati di quanto ipotizzato, con ripercussioni in termini di stabilità macroeconomica spesso più gravi rispetto a quanto stimato dai modelli. A questo si aggiunge il fatto che nella zona euro, non esistendo un bilancio federale, sono i debiti pubblici dei singoli Stati a svolgere la funzione (per la canalizzazione del risparmio e la trasmissione della politica monetaria) che negli Stati federali è svolta dal debito federale. Per questa serie di ragioni la Bce avversò fermamente la possibilità che ci potesse essere un coinvolgimento del settore privato nella crisi del 2010/2012. Gli effetti positivi che si potevano ottenere da una riduzione del peso del debito sui contribuenti dello Stato in difficoltà potevano esser più che compensati dagli effetti negativi legati all’incertezza del processo di ristrutturazione, alla riduzione patrimoniale dei creditori e all’allontanamento di una serie di investitori più pazienti.
È da ricordare come allora il Fondo salva Stati veniva spesso rinominato fondo salva banche, proprio perché prestava agli Stati i fondi per rimborsare i creditori privati, tra i quali appunto le banche estere. Se vi fosse stata una forma di coinvolgimento dei privati, le banche francesi e tedesche creditrici, avrebbero perso buona parte della loro esposizione. Questo certamente non avrebbe evitato ai Paesi in difficoltà la necessità di misure, in termini di aumento delle imposte, riduzione delle spese e cessione dei beni pubblici, che un aggiustamento macroeconomico comporta, ma almeno avrebbe ripartito i sacrifici con i creditori privati. Nell’ipotesi però che i creditori privati, essendo a conoscenza di questo rischio, avessero mantenuto le loro esposizioni su quei titoli. Avvenne invece che, a seguito delle dichiarazioni di Deauville, la costruzione europea si rivelò in tutta la sua incompletezza, inadeguata a fronteggiare la fuga di capitali che prosciugò il mercato dei titoli di Irlanda, Grecia e Portogallo e che poi, nonostante i passi indietro, contagiò anche Spagna e Italia.
Il nodo della questione rimane la costruzione europea e la volontà politica di dotarsi di strumenti di condivisione del rischio. Se si ritiene che essa sia adesso sufficientemente solida per affrontare il rischio di una nuova polarizzazione dei flussi di capitali, che possa potenzialmente lasciare a secco interi sistemi economici, allora questa parte di riforma del Mes andrebbe nella giusta direzione di far compartecipare i creditori (che possono essere i singoli risparmiatori ma anche le grandi banche internazionali) ai sacrifici dei contribuenti del Paese debitore, una volta che quest’ultimo si trovi in difficoltà.
Se invece questa costruzione, che manca ancora di un’assicurazione unica sui depositi, di un bilancio e un debito federale, è ritenuta troppo fragile, sarebbe bene operare in sede europea per eliminare la parte sul coinvolgimento del settore privato. Ben sapendo però che, una volta che si dovesse riverificare una situazione analoga a quella greca del 2009, il fondo salva Stati presterà fondi al Paese in difficoltà in modo che possa rimborsare interamente i creditori privati, banche internazionali comprese.