Salva Stati, la riforma e i rischi per l’Unione

La riforma del Mes – il Meccanismo Europeo di Stabilità, più comunemente detto Fondo salva Stati – che fa tanto discutere in questi giorni, non arriva certo all’improvviso. Nell’originaria idea franco-tedesca, presentata nella dichiarazione congiunta di Meseberg del giugno 2018, poi sottoscritta dagli altri capi di governo nel giugno scorso, il Mes dovrebbe diventare una sorta di Fondo monetario europeo, fornendo assistenza agli Stati membri della zona euro e/o ai loro sistemi finanziari, sulla falsa linea di quello che il Fondo monetario internazionale fa nel resto del mondo. Sono più di uno i punti in cui si cita nella riforma il parallelo con il Fmi. In particolare, e veniamo al nodo della discussione, al punto 12B del preambolo si stabilisce che “in casi eccezionali, un’adeguata e proporzionale forma di coinvolgimento del settore privato, in accordo con le pratiche del Fmi, dovrebbe essere considerata nei casi dove il sostegno è accompagnato da condizionalità nella forma di un programma di aggiustamento macroeconomico”. In pratica, se il coinvolgimento del Mes prevede la necessità dello Stato in difficoltà di correggere i propri conti pubblici e/o i conti esteri, occorre verificare se ciò sia compatibile con la sostenibilità del debito pubblico. Se questa sostenibilità non è garantita, il Mes può decidere di erogare i soldi solo dopo che il debito pubblico sia reso sostenibile, attraverso una ristrutturazione delle scadenze, dei tassi o un abbattimento dello stock. Una qualche forma di default che imponga a privati un taglio del valore dei titoli che posseggono.

A molti questo passaggio ha fatto tornare in mente un’altra dichiarazione franco-tedesca, quella di Deauville dell’ottobre 2010. In quell’occasione, Merkel e Sarkozy annunciarono che avrebbero lavorato per riformare i meccanismi di aiuto agli Stati in crisi, in modo che una volta che fosse stato richiesto l’intervento del Fondo salva Stati vi dovesse essere automaticamente il coinvolgimento del settore privato. L’allora ministro delle Finanze greco Papaconstantinou ha dichiarato nelle sue memorie che Deauville ha trasformato “una crisi che poteva esser contenuta in un completo disastro sistemico”. Si dice che Jean-Claude Trichet, allora governatore della Banca centrale europea, abbia informalmente avvertito i due leader che in quel modo avrebbero distrutto l’euro. Avvertimento che non è poi andato molto distante dalla realtà.

Se in teoria è ragionevole stabilire che un debito che non può essere sostenuto debba essere ristrutturato, quando si parla di debito degli Stati i casi di ristrutturazione si sono dimostrati nella pratica procedimenti più lunghi e complicati di quanto ipotizzato, con ripercussioni in termini di stabilità macroeconomica spesso più gravi rispetto a quanto stimato dai modelli. A questo si aggiunge il fatto che nella zona euro, non esistendo un bilancio federale, sono i debiti pubblici dei singoli Stati a svolgere la funzione (per la canalizzazione del risparmio e la trasmissione della politica monetaria) che negli Stati federali è svolta dal debito federale. Per questa serie di ragioni la Bce avversò fermamente la possibilità che ci potesse essere un coinvolgimento del settore privato nella crisi del 2010/2012. Gli effetti positivi che si potevano ottenere da una riduzione del peso del debito sui contribuenti dello Stato in difficoltà potevano esser più che compensati dagli effetti negativi legati all’incertezza del processo di ristrutturazione, alla riduzione patrimoniale dei creditori e all’allontanamento di una serie di investitori più pazienti.

È da ricordare come allora il Fondo salva Stati veniva spesso rinominato fondo salva banche, proprio perché prestava agli Stati i fondi per rimborsare i creditori privati, tra i quali appunto le banche estere. Se vi fosse stata una forma di coinvolgimento dei privati, le banche francesi e tedesche creditrici, avrebbero perso buona parte della loro esposizione. Questo certamente non avrebbe evitato ai Paesi in difficoltà la necessità di misure, in termini di aumento delle imposte, riduzione delle spese e cessione dei beni pubblici, che un aggiustamento macroeconomico comporta, ma almeno avrebbe ripartito i sacrifici con i creditori privati. Nell’ipotesi però che i creditori privati, essendo a conoscenza di questo rischio, avessero mantenuto le loro esposizioni su quei titoli. Avvenne invece che, a seguito delle dichiarazioni di Deauville, la costruzione europea si rivelò in tutta la sua incompletezza, inadeguata a fronteggiare la fuga di capitali che prosciugò il mercato dei titoli di Irlanda, Grecia e Portogallo e che poi, nonostante i passi indietro, contagiò anche Spagna e Italia.

Il nodo della questione rimane la costruzione europea e la volontà politica di dotarsi di strumenti di condivisione del rischio. Se si ritiene che essa sia adesso sufficientemente solida per affrontare il rischio di una nuova polarizzazione dei flussi di capitali, che possa potenzialmente lasciare a secco interi sistemi economici, allora questa parte di riforma del Mes andrebbe nella giusta direzione di far compartecipare i creditori (che possono essere i singoli risparmiatori ma anche le grandi banche internazionali) ai sacrifici dei contribuenti del Paese debitore, una volta che quest’ultimo si trovi in difficoltà.

Se invece questa costruzione, che manca ancora di un’assicurazione unica sui depositi, di un bilancio e un debito federale, è ritenuta troppo fragile, sarebbe bene operare in sede europea per eliminare la parte sul coinvolgimento del settore privato. Ben sapendo però che, una volta che si dovesse riverificare una situazione analoga a quella greca del 2009, il fondo salva Stati presterà fondi al Paese in difficoltà in modo che possa rimborsare interamente i creditori privati, banche internazionali comprese.

Dietrofront della Ue: vincoli meno stringenti per Xylella

L’Ue è pronta a revocare la misura più drastica imposta all’Italia per contrastare la diffusione della Xylella. Quella che dal 2015 impone di radere al suolo tutte le piante nel raggio di 100 metri da ogni ulivo positivo al batterio che si trovano in una fascia di demarcazione di 10 km a Nord della zona infetta, il Salento. E, dopo una procedura d’infrazione aperta nel 2015 contro l’Italia per non averla implementata, è l’Ue che ora vuole ridurla a 10 metri, con un decreto previsto a inizio 2020. Dando ragione ad associazioni di cittadini e proprietari di uliveti che dal 2015 protestano contro gli espianti.

Alla base della prima misura c’è un parere dell’Agenzia europea per la Sicurezza alimentare (Efsa), secondo cui è l’insetto sputacchina, che veicola il batterio, a poter contagiare una pianta nel raggio di 100 metri. Perché ora ne bastano solo 10? “Non esiste alcuna menzione, nei pareri scientifici di Efsa forniti alla Commissione, sull’efficacia dei 10 metri”, spiega Efsa al Fatto. La decisione non è scientifica, ma politica: negli ultimi due anni Xylella è stata trovata anche in Francia, Spagna e Germania. Paesi in cui sono emerse criticità nella possibilità di attuare la misura dei 100 metri. Con una differenza rispetto alle proteste sollevate dai pugliesi: stavolta la Commissione non ha aperto procedure d’infrazione, ma ha cambiato la misura. Perché? “Si sta discutendo la questione con gli Stati membri, i comitati fitosanitari e gli esperti di Efsa con l’idea di rivedere la legge. Non possiamo fornire ulteriori dettagli”, dice il portavoce per il dg Agricoltura dell’Ue al Fatto. In Italia, invece, ricercatori e rappresentanti del comitato Fitosanitario non sarebbero d’accordo sulla riduzione, anche se il presidente del comitato Bruno Faraglia non ha risposto alla richiesta di chiarimenti del Fatto. L’Ue potrebbe così decidere di permettere a ogni Paese di adottare la misura che preferisce, oppure per una misura di 50 metri per accontentare tutti, senza fondamento scientifico.

La questione oggi più urgente è il destino dell’area infetta (il Salento, la provincia di Brindisi e parte del Tarantino) dove fino al 2019 non erano previsti espianti. Circa 9 milioni di ulivi potrebbero morire in un anno. Un decreto legge del 29 marzo scorso, poi convertito in legge, prevede che i proprietari possano espiantare gli ulivi in deroga ai vincoli paesaggistici e autorizza il reimpianto di due sole varietà, il Leccino e la Favolosa, considerate resistenti a Xylella nonostante non ci siano ancora certezze scientifiche. “Sulla Favolosa non ci sono preclusioni”, chiarisce al Fatto Maria Picarreta della Sovrintendenza di Lecce che spiega: “È un ulivo che va piantato come i filari di vite, quindi la necessità economica va bilanciata con quella della tutela del paesaggio”. Eppure c’è un modo per salvare gli ulivi. Un trattamento a base di rame e zinco sperimentato per 4 anni da Marco Scortichini, dirigente dell’Istituto di ricerca Crea. Ha riportato piante con forte disseccamento ad essere verdi e produttive. Il costo è di soli 3 euro a pianta l’anno. Ma il metodo è osteggiato da politici, scienziati e Coldiretti.

“I risultati di Scortichini non sono validi perché non sottoposti al controllo degli esperti da parte di riviste scientifiche”, ha detto al Fatto Giuseppe L’Abbate, sottosegretario al ministero delle Politiche agricole. Peccato che esistano 4 pubblicazioni scientifiche a smentirlo. “Efsa dice che ad oggi non esiste una cura anche se il metodo è promettente”, spiega Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia. Una pretesa che non appare scientifica: raramente si riesce a trovare un prodotto che uccida una volta e per sempre un patogeno delle piante, come il caso della peronospora della vite combattuta con trattamenti annuali che comunque non la debellano. Lo stesso fa il metodo Scortichini contro Xylella.

Voto di scambio, suicidi e truffe 10 mila vittime della formazione

Omesso controllo, svincolo dei fondi europei e un conseguente danno erariale da almeno 100 milioni, su un giro d’affari ultra-miliardario. Ma anche 8mila lavoratori assunti a tempo indeterminato e poi licenziati senza le tutele che gli spettavano per legge, perchè “i soldi sono finiti”. In mezzo, suicidi, proteste, famiglie rovinate. E da qualche giorno, anche l’abrogazione di quella norma che avrebbe potuto salvarli tutti, in fretta e furia, mascherata da riforma del settore.

Siamo in Sicilia. Qui la formazione professionale è un sistema complesso e lo è stato per anni: enti di formazione, spesso collegati ai principali sindacati, hanno utilizzato i soldi della Regione e di Bruxelles per assumere migliaia di persone, costruendo anche un discreto bacino elettorale, per poi lasciarle senza lavoro e senza tutele quando i fondi sono finiti. “I soldi sono stati gestiti male, una condotta che ha leso la dignità dei siciliani, scellerata e senza morale”. Angela Fasano è l’avvocato che la settimana scorsa, in Commissione petizioni a Bruxelles, ha rappresentato circa 1.350 ex lavoratori della formazione. La Regione – secondo i ricorrenti –, è colpevole di aver preso per anni i soldi del Fondo sociale europeo e, dopo averli gestiti male e senza controllo, di averli perfino destinati ad altri capitoli di spesa. Tanto che la Commissione ha accolto i rilievi e inviato una lettera per aprire una procedura di infrazione. “Se la Regione non dimostra di aver agito in modo virtuoso, ci saranno pesanti sanzioni”, spiega la Fasano.

Arresti, processi e voto di scambio

Per capire l’entità di quello che è accaduto, si può partire dalle vicende giudiziarie. Solo a titolo di esempio, ci sono le intercettazioni della Procura di Trapani recentemente diffuse e raccontate da Live Sicilia: mostrano come tra il 2010 e il 2012 ci sia stato un rapporto molto stretto tra un deputato siciliano del Nuovo Centro Destra, Giuseppe Lo Sciuto, e il presidente di uno dei maggiori enti di formazione, l’Anfe, Paolo Genco. In estrema sintesi, secondo i pm che hanno condotto l’indagine (l’iter giudiziario è ancora in corso), il primo si faceva garante del sistema a Roma, il secondo dava lavoro e al tempo stesso utilizzava i contributi pubblici della Regione Sicilia e dell’Ue. Un danno di oltre 53 milioni di euro e la preoccupazione su “come ci presentiamo davanti alle persone che ci devono votare?”. A settembre, la Corte d’appello di Messina ha invece condannato a 6 anni e 8 mesi l’ex deputato del Pd, Francantonio Genovese (che in primo grado aveva avuto 11 anni) nel processo “Corsi d’oro 2”. E ancora, le vicende attorno all’ente di formazione Ciapi.

La Corte dei Conti, nei mesi scorsi, ha confermato uno sperpero di soldi per almeno 32 milioni (per i quali sia l’ex governatore Crocetta sia molti assessori sono stati condannati a risarcire 2 milioni in totale), con l’assunzione di 1.750 sportellisti, oggi rimasti senza lavoro, e l’indizione di corsi fantasma e autoformazione a casa. “La malagestio dei Fondi sociali europei è conclamata – spiega l’avvocato Fasano – I soldi invece di finire a tutti gli enti, confluivano solo in alcuni, magari i più grandi, che li utilizzavano per altri scopi non previsti dalla normativa: Ial, Cefop, Anfe. E questo ha implicato il coinvolgimento della Regione perché davano questi fondi extra-budget ad alcuni e non ad altri”. Il sistema generato era senza via d’uscita. “L’ente di formazione assumeva, assumeva e assumeva. Poi l’organico non ce la faceva più a tenere tutti i dipendenti, andava in crisi ed era costretto a licenziare. Un domino vergognoso”. In una relazione della Commissione Bilancio della Regione del 2011 si legge che in quegli anni, tra corsi, sportelli e Oif (Obbligo formativo per i minori che abbandonano la scuola dell’obbligo) lavoravano circa 10 mila persone, il 46 per cento di tutti gli operatori della Formazione in Italia. Il picco delle assunzioni risale al 2006 e al 2008. Sotto le elezioni regionali.

Il miracolo della Sicilia che sembra la Svezia

“Quando ero responsabile delle risorse umane per uno degli enti, mi sembrava di vivere in Svezia: piovevano assunzioni, facevamo solo contratti a tempo indeterminato. Parlavano di disoccupazione e pensavo: ‘Ma dove?’”. Maria Teresa Cimminisi è stata responsabile delle risorse umane di un grande ente e oggi è la coordinatrice di un movimento autonomo che si batte per vedere riconosciuti i propri diritti. “La formazione in Sicilia è arrivata a contare 10 mila persone, un bacino enorme. Era un ambito tutelato, c’era una legge ben precisa che non è stata rispettata”.

Quella a cui fa riferimento la Cimminisi è la legge regionale 24 del 1976 che organizza e regola il settore della formazione prevedendo che l’assessorato si organizzi per favorirla. Era, ed è, un modo per formare i giovani, dar loro una professione, aiutarli a entrare nel mondo del lavoro. In pochi anni gli enti crescono a dismisura, ci sono almeno 12 mila assunti a tempo indeterminato. Poi, dal 2010, i soldi iniziano a finire, la Sicilia è governata da Raffaele Lombardo (ancora a processo per voto di scambio), la Regione non stanzia più soldi per la formazione e ciò che resta è poco più della quota dei Fondi sociali europei (Fse) che finiscono o a pochi enti oppure ad altre voci di spesa. L’assessorato alla formazione a quel punto emana un avviso a cui partecipano tutti gli enti: sono previste 400 mila ore, secondo i costi standard introdotti dal Fse valgono 127 euro l’una (quindi in totale sono 50 milioni di euro), ma la metà delle ore va a un solo ente, il resto se lo dividono gli altri tre o quattro storici. Fuori ne restano a decina, che iniziano a fallire e chiudere. Moltissimi chiedono la cassa integrazione, arrivano i sussidi statali.

I licenziamenti, la crisi e i suicidi

“Gli operatori si ritrovano all’improvviso in mezzo alla strada – spiega la Cimminisi – in attesa di essere ricollocati”. La legge regionale prevedeva, in caso di crisi, che il personale andasse trasferito in altri enti della Pa o in aziende private attraverso protocolli d’intesa, ma questo non è successo. “Gli enti, d’accordo con i sindacati, non hanno chiesto di seguire la procedura prevista dalla legge, hanno accettato i licenziamenti come se si trattasse di enti privati, attraverso i licenziamenti collettivi. Noi abbiamo ricevuto la cassa integrazione per 24 mesi e basta”. Intanto, ci sono i suicidi: nel 2013 e nel 2017, l’ultimo è del 2018. In totale si contano almeno 8 casi che coinvolgono ex dipendenti della formazione che avevano perso il lavoro. Molti altri hanno tentato di togliersi la vita: “Non potevo più mantenere figli e moglie, non potevo pagare casa – racconta Costantino Guzzo – Protestavamo ma nessuno ci ascoltava. Un giorno siamo saliti sul tetto della Regione, sotto la pioggia per giorni: hanno sbloccato un milione per pagarci, ma gli enti non volevano farlo”. Niente assegni familiari, malattie e contributi perduti. Costantino viene denunciato durante una delle sue proteste: “Non sono violento, ma non poter dare da mangiare a un figlio è devastante. Da tempo non ho più paura di nulla, neanche delle ritorsioni”. Passano gli anni e nelle procure siciliane arrivano gli esposti.

Le proteste, i tavoli e il lavoro a rilento

Protestare, in Sicilia, non è facile. Nelle piazze sono in pochi, i manifestanti (ai quali restano solo i sindacati di base) provano a farsi sentire come possono mentre sono senza lavoro, senza stipendio e senza sussidi visto che nel 2017 finisce anche la Naspi per la maggior parte di loro. A Roma, a fine 2018, riescono a farsi ricevere da Luigi Di Maio, allora ministro del Lavoro. Viene aperto un tavolo istituzionale con Regione e sindacati. Viene sollevato il tema della legge che impone di assorbire i gli ex dipendenti in altre strutture. “Non so, controlleremo”, rispondono gli uomini della Regione. Da allora, però, tutto va a rilento, complici anche le elezioni: i lavoratori siciliani sono ancora senza né aiuti né ricollocamenti. Ieri i manifestanti, in Sicilia, hanno occupato l’assessorato al Lavoro. Il nuovo ministro, Nunzia Catalfo (M5S) ha partecipato a tutti i tavoli e ha risposto a tutte le istanze “nonostante la tematica sia regionale”, spiegano dal Ministero. Sono stati aperti tavoli di lavoro tematici che hanno coinvolto anche l’Inps e l’Anpal. “Nei prossimi giorni – aggiungono – Catalfo incontrerà gli assessori siciliani Scavone (Lavoro) e Lagalla (Formazione)”.

I lavoratori chiedono di poter usufruire dei prepensionamenti e di essere riutilizzati nel potenziamento dei centri per l’impiego. Intanto, a fine novembre l’Assemblea regionale ha abrogato del tutto la legge del 1976. “Solo M5S si è astenuto – spiega una fonte – la legge finora ci aveva consentito di tenere in piedi la vertenza. L’abrogazione non è retroattiva, ma il messaggio che lancia è sconcertante”.

Gli economisti servono a qualcosa?

Gli economisti parlano troppo o troppo poco? Francesco Daveri, un economista, se lo chiede su Lavoce.info. Non è una questione corporativa o psicanalitica. Passata la sbornia populista, arriva la richiesta di una nuova politica (vedi le Sardine). Sostituire gli esperti con gli incompetenti, dall’Italia alla Gran Bretagna agli Stati Uniti, non ha dato i risultati sperati. Ma gli esperti, e in particolare gli economisti, che ruolo devono avere?

Alan Binder, consigliere degli ultimi presidenti democratici negli Stati Uniti, ha scritto un libro sul tema, Advice and dissent: gli economisti cercano di elaborare politiche ottimali sulla base di alcune ipotesi di fondo, i politici sono interessati a soluzioni immediatamente applicabili, che possano essere approvate e che garantiscano loro la rielezione. Conciliare questi due mondi è difficile. Anche perché gli economisti hanno una singolare visione del proprio ruolo.

Mentre in Italia abbondano i tuttologi – macroeconomisti che discutono di Ilva, economisti del lavoro che parlano del fondo Salva Stati ecc. – l’accademia americana è vittima dell’iperspecializzazione. I metodi quantitativi sempre più avanzati, grazie a big data e machine learning, danno l’illusione di raggiungere certezze. Ma spesso si tratta di piccole verità che evaporano quando si cerca di generalizzare (le conseguenze di un aumento del salario minimo sono le stesse in New Jersey e a Parigi?). Daveri e altri economisti auspicano che la disciplina continui ad ampliare la base di conoscenze condivise basate su solida evidenza empirica. Ottimo. Ma il maggiore contributo che gli economisti possono dare al dibattito pubblico è aiutare i non specialisti a pensare i problemi in termini economici, a valutare i costi nascosti, le conseguenze di lungo periodo, le esternalità negative. Meglio avere elettori capaci di formarsi un’opinione propria, per quanto imperfetta, che distribuire pillole di saggezza alle masse.

Federconsorzi, Gualtieri chiama al Tesoro il creditore del Tesoro

Si potrebbe dire che dopo quasi 30 anni il bubbone Federconsorzi torna ad agitare i piani alti del ministero dell’Economia, se non fosse che non ha mai smesso di farlo. Stavolta la vicenda tocca vette inesplorate nella pur incredibile storia dell’ex feudo Dc: nel gabinetto del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, siede l’uomo che da tempo intima allo stesso ministero di pagare somme ingenti, prefigurando accuse di danno erariale.

Il 29 ottobre scorso, Gualtieri ha nominato come vicecapo di gabinetto il magistrato della Corte dei conti Andrea Baldanza, già capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio dal maggio 2015 al marzo 2018, dove sostituì il fedelissimo del segretario dem, Maurizio Venafro, travolto da un’inchiesta per turbativa d’asta. A far storcere il naso a molti è il fatto che Baldanza è anche commissario della Federazione italiana consorzi agrari.

Federconsorzi è una creatura mitologica, uno dei maggiori potentati economici italiani fino al 1991, anno in cui esplose in un gigantesco crac. Per decenni è stato un feudo della Dc, che lo guidava attraverso la Coldiretti e la Confagricoltura. Formalmente di natura privata, ha gestito una montagna di soldi pubblici: il suo fallimento ha anticipato la stagione di Mani Pulite e, come accade nelle grandi crisi italiane, generato una sequenza impressionante di atti burocratici di cui non si vede la fine (a ogni modo i creditori aspettano da 25 anni). Nel 1992 Federconsorzi è stata ammessa al concordato dal Tribunale di Roma e affidata a un commissario liquidatore. Una legge del 1999 ne imponeva lo scioglimento, ma così non è stato. Nel 2010 l’allora ministro dell’Agricoltura Giancarlo Galan (FI) ha nominato Baldanza commissario, con il compito di verificare se sussistessero i presupposti per sciogliere la società e procedere alla ricognizione del “contenzioso sui crediti derivanti dalla rendicontazione della gestione degli ammassi agricoli e di quello promosso dagli ex dipendenti”, e definirlo “anche in via transattiva”. L’ente non è stato sciolto, anzi, è stato riesumato e così sopravvivono due realtà: la Federconsorzi “concordataria”, gestita dal Tribunale e la Federconsorzi “gestione ammassatoria”, di cui Baldanza da nove anni è commissario, incarico retribuito con 81 mila euro l’anno, che si sommano allo stipendio da magistrato.

La nomina di Baldanza sta agitando il dicastero di Gualtieri per un motivo semplice. Per conto di Federconsorzi sta gestendo un contenzioso milionario che lo vede contrapposto al ministero dell’Agricoltura (Mipaaf) a cui chiede di pagare i crediti maturati dai consorzi agrari per le spese sostenute nel dopoguerra per la gestione degli ammassi obbligatori. Baldanza chiede anche i soldi con cui rifondere le banche creditrici. In questo caso la richiesta viene avanzata anche al ministero dell’Economia. Le diffide si sono fatte pressanti dopo che a maggio del 2018 la Corte di appello di Roma ha imposto di restituire circa 40 milioni di euro a un pool di banche, che hanno avviato le azioni esecutive. Da gennaio a luglio 2019, Baldanza ha scritto sei lettere perentorie ai due ministeri intimandogli di pagare perché – ricorda – la sentenza stabilisce che hanno l’obbligo di manleva nei confronti dei debiti di Federconsorzi. Nelle lettere, il commissario lamenta che per pagare gli istituti gli è stato imposto di vendere 20 milioni di titoli di Stato detenuti. Per questo annuncia che farà causa e avvisa che sarà “inevitabile la segnalazione dalla Procura regionale della Corte dei conti” visti i “gravissimi danni erariali derivanti da un’ingiustificata inerzia”. Chiede anche di rifondere le spese legali: in settembre ha fatto inviare dai legali un atto di precetto che intima di saldare i 60 mila euro di spese. I due ministeri finora non hanno pagato, anche perché in un primo momento l’Avvocatura dello Stato – a seguito di una sentenza della Cassazione del maggio 2016 – ha stabilito che, considerati tutti i rapporti di debito/credito, è lo Stato che vanta un credito verso Federconsorzi di 40 milioni. In aiuto di Federconsorzi, e della Coldiretti che tanto si era battuta nel 2016 per sostenere il Referendum costituzionale, a fine 2017 era comparso un emendamento Pd alla manovra che azzerava il debito di Federconsorzi verso lo Stato e stanziava altri 40 milioni. La norma saltò per le proteste delle altre organizzazioni del mondo agricolo.

Ora i dirigenti del ministero dell’Economia si trovano in una situazione surreale: ai piani alti del ministero c’è l’uomo che gestisce il contenzioso col ministero. alle riunioni per cercare di risolvere il contenzioso Baldanza dovrà sedere come commissario di Federconsorzi a un tavolo dove dall’altra parte ci sono i dirigenti del “suo” ministero. Una situazione surreale che ha già fatto saltare la prima riunione, prevista il 5 dicembre al ministero dell’Agricoltura. La convocazione come commissario Federconsorzi a Baldanza gli è stata spedita alla mail del ministero dell’Economia.

Dal Tesoro fanno sapere al Fatto che “non esiste alcuna incompatibilità tra i due ruoli. Baldanza è stato designato commissario dal Mipaaf e non ha alcuna delega assegnata dal Mef sulla materia. Conseguentemente non è legittimato, in quanto vice capo di gabinetto Mef, a partecipare a nessuna riunione sulla materia”. Può però partecipare come creditore del Mef.

Sardine o meno: chi va, chi no e lo spettacolo che è la realtà

Lo ammettiamo: avevamo sottovalutato il fenomeno delle sardine. Nate come reazione anti-leghista in Emilia Romagna, parevano un fenomeno sostanzialmente locale e invece no, sono una sorta di saggio sulla “società dello spettacolo”. Non ci riferiamo alle molte ospitate tv del giovane leader, né al profluvio di articoli e commenti sulle loro manifestazioni, né al marchio “seimila sardine” prontamente registrato, ma al motivo profondo delle difficoltà che incontrano in questi giorni. Il processo durante il quale l’immagine, lo spettacolo come rapporto sociale tra individui, si oggettiva – durante il quale, per così dire, la sardina di carta si fa realtà – è infatti complesso, spesso contraddittorio. Ad esempio, ad oggi: Francesca Pascale è sardina in forse, Cecchi Paone dal vivo, Fabio Volo contumace, CasaPound non la vogliono, la madamina torinese s’è sfilata da sola. E poi: Anna Falchi è dubbiosa, a Umberto Smaila non piacciono, Conte le trova “una cosa bellissima” (come il 2019), Carfagna le invita a far attenzione alla sinistra, Pancho Pardi a non fare come i girotondi, Prodi (ma pure Fico) a non farsi colonizzare, il renziano Librandi a fare una lista con Italia Viva e Landini (sic), il costituendo partito dei cattolici (sic) a un’alleanza, eccetera. Ora non vorremmo essere equivocati: la partecipazione è davvero una bellissima cosa, un toccasana, un’esperienza che arricchirà chi vi si dedica, a patto che tutti – commentatori, politici, pubblico e sardine – ricordino però che se lo spettacolo è la realtà, un sintomo non è la cura.

Ilva, Alitalia e metalmeccanici: i sindacati si ritrovano in piazza

Vanno risolte subito le crisi aziendali: sono troppe, 160 solo contando i tavoli aperti a livello nazionale, e si stanno protraendo a lungo. I salari, poi, sono bassi e per farli crescere serve una spinta al rinnovo dei contratti scaduti. Lo Stato dovrebbe dare l’esempio iniziando con quello del pubblico impiego. Le pensioni, infine, vanno rivalutate con un sostegno maggiore per le più basse. Ecco le rivendicazioni che in questi giorni hanno messo insieme i tre maggiori sindacati italiani; ieri Cgil, Cisl e Uil hanno dato avvio a una settimana caldissima, ricca di scioperi e manifestazioni unitarie. Il rapporto con il governo non è particolarmente teso, anche perché – dall’insediamento del Conte 2 – le sigle sono state più volte invitate a Palazzo Chigi. L’ultimo incontro ieri, nel quale il premier ha ribadito l’impegno di destinare al Sud il 34% degli investimenti pubblici. Ma il momento resta delicato.

Il futuro incerto di tante grandi imprese, a partire dall’ex Ilva, è stato oggetto dell’appuntamento di ieri mattina a Piazza Santi Apostoli a Roma, dove sono arrivati anche operai da Taranto. “Basta scherzare – ha detto il segretario Cgil Maurizio Landini rivolto ad Arcelor Mittal – Avete sbagliato ad andare in tribunale, tornate al tavolo a partire dall’accordo firmato a settembre dall’anno”. La situazione di Alitalia sarà al centro dello sciopero del trasporto aereo previsto per venerdì. Oltre alle grandi imprese sulle quali si tratta al ministero dello Sviluppo economico, in difficoltà – ha ricordato Landini – ci sono anche le piccole e medie, con una galassia di crisi di lavoro che fanno meno rumore. E c’è pure la questione salariale. Le risorse aggiuntive promesse dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri per il rinnovo del contratto degli statali è ancora troppo poco per i sindacati. In fase di rinnovo sono anche quelli dei metalmeccanici e dei bancari. La seconda manifestazione unitaria, domani, si concentrerà sui contratti collettivi. Intanto, a partire da oggi torneranno a mobilitarsi i pensionati, che si sentono molto penalizzati dalla manovra. Chiedono la rivalutazione, l’estensione della platea che riceve la quattordicesima, una riforma fiscale e una legge sulla non autosufficienza.

Le sigle di categoria lo faranno con presidi in Piazza Montecitorio e poi, martedì 17, di nuovo in piazza con i sindacati nazionali. Nel 2020, tra l’altro, in quello chiamato “cantiere della previdenza” dovrà tornare il problema dell’età di uscita. Il governo dovrà studiare un modo per alleggerire lo scalone previsto dal 2022, quando l’esaurimento di Quota 100 aumenterà di cinque anni i requisiti per lasciare il lavoro.

Persino una bimba stuprata è diventata una “puttana”

Questa storia che vi stiamo per raccontare è accaduta tempo fa a Melito Porto Salvo, un piccolo centro della provincia di Reggio Calabria, dove per due anni un gruppo di ragazzi capeggiato dal figlio del boss del paese, ha abusato di una ragazzina costringendola al silenzio con ricatti e minacce. Anzi no, non di una ragazzina. Nelle carte dell’inchiesta – come ha spiegato La Stampa che ha raccolto la terribile testimonianza del papà della vittima – viene chiamata “la bambina” perché quando le violenze sono incominciate pesava 40 chili, era alta 1 metro e 55 e aveva 13 anni. C’è stato un processo per questi fatti e il Tribunale di Reggio Calabria ha riconosciuto colpevoli cinque ragazzi, con pene che vanno dai sei ai nove anni. Ma non è di questo orrore continuato, ai danni di una bambina che vogliamo parlare. C’è un’appendice a questa orribile storia, che è ancora più rivoltante. Ed è il racconto che fa il coraggioso papà della piccola che oggi ha 19 anni ed è riuscita a diplomarsi con il massimo dei voti. Ma andiamo con ordine. Quando i genitori si rendono conto di cosa sta capitando alla loro figlia – le prime tracce le trovano nella brutta copia di un tema – cercano un contatto con gli altri genitori. Hanno le prove, hanno un video: in un paese così piccolo ci si conosce tutti. Il papà affronta un altro padre, suo figlio è uno dei violentatori e ha appena 17 anni. Ma l’uomo non gli crede, tentenna. E alla fine sputa la sua sentenza: “Con il suo comportamento tua figlia si sta facendo una brutta nomina”. La solita storia: se l’è andata a cercare la piccola puttana. “In quel momento ho capito che eravamo soli”, racconta il papà. Poi il paese si stringe attorno alle famiglie dei ragazzi, in pochi testimoniano vicinanza alla ragazzina. E cominciano le pressioni perché non venga fatta la denuncia. Oggi il papà e la ex bambina vivono a 700 chilometri di distanza, sono scappati come scappa chi ha una colpa da espiare: è su di loro che pesa lo stigma della vergogna, non sui criminali condannati.

La brutta “nomina” è diventata un marchio a fuoco. “Si sono schierati tutti con gli stupratori. Con il risultato che loro se ne vanno in giro liberamente per le strade della Calabria, mentre noi ce ne siamo dovuti andare lontano. Confidavo in un minimo di neutralità da parte dei nostri concittadini, perché io sono stato molto attento a non accusare nessuno fino alla sentenza di primo grado. Dopo le condanne, speravo di ricevere un po’ di solidarietà. Ma la solidarietà non è arrivata”. In attesa del processo d’appello, i ragazzi sono stati scarcerati. La vittima è stata ripudiata. Questa storia abbiamo deciso di raccontarla non per denunciare una vicenda singolarmente penosa. Quel che è incredibile è l’arretratezza culturale di una società così legata al modello patriarcale da mettere in atto comportamenti contro i minimi principi di umanità, che non riesce nemmeno a provare pena per una bambina di 40 chili e 13 anni. La vittima diventa carnefice, anche se è una vittima minorenne, minacciata nei suoi affetti più cari se avesse parlato: uccideremo i tuoi genitori. Una cosa da prendere sul serio per una il cui nonno nel 1981 era stato ammazzato dalla ’ndrangheta perché “si era permesso di vincere un appalto destinato ad altri”. Il 1981 è l’anno in cui in Italia vengono abrogati il delitto d’onore e il matrimonio riparatore. È servito a ben poco se nella testa della gente una bambina abusata diventa una puttana da allontanare.

Minacciata o via pizzino, la querela va di moda: ormai si porta con tutto

Querele, avvisi di querele, promesse di querele, querele in mazzetti come gli asparagi o in bouquet come i fiori; al matrimonio c’è il lancio della querela, la damigella che la prende al volo verrà querelata entro l’anno. Oppure: vuoi salire a vedere la mia collezione di querele?

Questa faccenda delle querele mi sa che ha preso un po’ la mano a tutti quanti, tra i fatti e i misfatti che riferiva ieri questo giornale (la signora Casellati) e le recenti performance di querele incrociate (annunciate) tra il presidente del Consiglio e Salvini, prima che scivolasse sulla Nutella. La querela va di moda e si porta con tutto. Si aggiunga l’incredibile attività annunciatoria-querelatoria di Matteo Renzi, che fa il simpatico dichiarando che darà il nome dei querelati alle aiuole del suo parchetto, e siamo dunque alla pochade surrealista. Ma sia, la querela, vera, presunta, annunciata, precompressa, spedita via media, recapitata tramite il pizzino di un’intervista compiacente, o su carta intestata di qualche avvocato, fa ancora la sua porca figura. Dà un brividino, in qualche caso intimidisce, ovvio, ci si immagina uno stuolo di avvocati che sentono l’odore del sangue, tipo film americano.

Per carità, la giustizia faccia il suo corso, ma va segnalato che nel tempo dei social e delle tifoserie politiche, questa faccenda delle querele assume una curvatura che la colloca a metà tra Ionesco e Campanile, insomma, tra l’inarrivabile assurdo e il confortante ridicolo del mondo. Non già i potenti, ma i loro eserciti social – segnatamente negli ultimi giorni, quello di fede renzista – si trasformano magicamente in esegeti del codice civile, o penale, in collegi di azzeccagarbugli che lavorano all’uncinetto articoli e commi. Oppure in zelanti delatori. Mi risponde una signora su Twitter: “La segnalo a Matteo Renzi, poi vedrà lui se querelarla”. Non rendendosi conto, la signora, di portare con sé un sapore così vintage, così démodé e al tempo stesso affascinante, un retrogusto di Ddr e di Stasi, incartato come una caramella in quel “La segnalo”. Meraviglia.

E del resto, va detto, i supporter somigliano sempre al supportato: avere un leader che firmò querele sul palco, con l’avvocato, circondato dal pubblico plaudente, che diffuse indirizzi email a cui segnalare offese ai suoi danni, aiuta nell’immedesimazione. Tutto scorre e tutto è querelabile o minacciabile di querela. Fatti conclamati, opinioni, battute, calembour, una volta gettati nell’arena dei social, hanno immancabilmente come risposta l’ombra di un avvocato che viene a tirarti i piedi di notte. Pacifiche signore, professoresse, impiegati, nonni felici, fulminati sulla via di Rignano, elencano articoli di codice, sfumature tribunalizie, sofismi da leguleio. E in questa loro spirale trascinano tutto quanto: i giornalisti tutti feroci nemici del loro Golden Boy, le televisioni peggio ancora, uh! Il Fatto, figurarsi! L’Espresso, non me ne parli! Uh! Cairo, pussa via! Ah, quel Formigli!

Si crea così, presso piccoli ma inferociti strati di militanti da tastiera, una sindrome da isolamento che confina con il complottismo. Tutti ce l’hanno con loro, tutti fanno gossip (la casa di Renzi) invece di fare informazione (che so, il “milione di posti di lavoro” del Jobs Act). Poi passano a rimproverarti di quello che non scrivi (e Casaleggio? E Di Maio?, eterna variante di “e allora le foibe?”), poi dicono che è colpa di quelli che hanno votato No. E infine passano a vagheggiare attorno al codice civile e penale, sognando colonne di penitenti in fila davanti alla giustizia che renderà finalmente onore al loro Capo. Come si diceva: tra Ionesco e Campanile, una vernice spessa di ridicolo che copre la tragica sostanza: militanti che diventano arditi e truppe d’assalto, la querela tra i denti e molto sprezzo del ridicolo.

Afghanistan, ancora bugie di guerra

Diciassette anni di bugie, di soldi buttati, di mazzette e corruzione, di morti e feriti. Per niente. Per poco più di niente. Lo dicono gli stessi ufficiali Usa che in Afghanistan hanno combattuto e soggiornato per anni. Si tratta delle testimonianze contenute nelle centinaia di interviste realizzate da un’agenzia federale e che sono venute alla luce grazie al Washington Post.

La bugia della guerra è stampata a caratteri cristallini nelle 2.000 pagine dei Lessons Learned, le interviste fatte sul campo in Afghanistan dalla Sopko’s agency, che il Washington Post, dopo una dura battaglia legale, è riuscito a rendere pubbliche e in cui si legge che “il popolo americano è stato costantemente ingannato”.

Eppure il dispendio di mezzi è stato immenso. La stima del denaro speso tra il 2001 e il 2008 è compresa tra 934 e 978 miliardi di dollari. Soldi gettati al vento a giudicare dalla necessità, 18 anni dopo, di siglare un accordo di pace con i Talebani in cui il punto certo è il ritiro delle truppe e quello incerto è proprio lo stato, economico e democratico, in cui sarà lasciato l’Afghanistan.

A quei numeri occorre aggiungere la fredda contabilità della guerra: 2.300 morti, 20.589 feriti, 775.000 soldati complessivamente impiegati. “Non sapevamo cosa stessimo facendo”, ha detto agli intervistatori del governo Douglas Lute, un generale a tre stelle leader durante le amministrazioni di Bush e Obama. “Che cosa abbiamo ottenuto per questo sforzo da 1 trilione di dollari?, afferma invece Jeffrey Eggers, della Marina e membro dello staff della Casa Bianca.

Senza contare i soldi per la ricostruzione. Sono stati stanziati 133 miliardi per ricostruire l’Afghanistan, più di quanto investito nel Piano Marshall in Europa. Gli stessi dirigenti delle agenzie di aiuti hanno raccontato di miliardi spesi per forza, perché quelli erano gli ordini. E quando c’è tanto denaro in circolazione abbondano i ladri: Hamid Karzai, l’ex presidente afghano, viene indicato come colui che ha “auto-organizzato una cleptocrazia” a colpi di mazzette e corruzione.

Testimonianze devastanti a cui, per assuefazione a quella guerra e a quel tipo di missione militare, non abbiamo dato la dovuta importanza. Bisogna infatti risalire ai Pentagon Papers del 1971 sul Vietnam, per ritrovare documenti così netti sull’inganno della guerra. Come quelli, anche i Lessons Learned non fanno altro che ricordarci le lezioni basilari quando si tratta di guerra.

La prima è che la guerra va di pari passo con le bugie. Basta confrontare queste dichiarazioni a quelle ufficiali del Pentagono, del Dipartimento di Stato e di ben tre presidenti, George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump, sicuri assertori dei “progressi sul campo”. I 18 anni in Afghanistan sono costellati di immagini dei capi di Stato in divisa su qualche portaerei, di visite improvvise per rincuorare le truppe sempre con un’unica missione: seminare bugie.

La seconda lezione, più evidente e ampia, è che la strategia occidentale, guidata dagli Usa, è quella di (provare a) vincere le guerre seminando oltre alle bugie anche un fiume di denaro. Denaro per convincere i nemici a pacificare il Paese, per convincere gli amici a sottoporsi alle proprie strategie e poi per convincere gli amici degli amici a fidarsi. Questa strategia, a quanto pare, è fallita miseramente ed è bene tenerne conto visto che qualcosa di simile si è provato a fare in altre parti del mondo e, per quel che ci riguarda da vicino, anche in Libia.

Terza lezione “imparata” è che se gli Stati Uniti devono ammettere di aver fallito, lo stesso vale per l’Italia, il cui contributo alla guerra è stato nettamente inferiore, ma c’è stato.

Dalla somma degli stanziamenti stabiliti dalle leggi di Bilancio dal 2001 al 2019, desumibili dai documenti della Camera dei deputati, il costo complessivo alla fine di quest’anno ammonta a 6,831 miliardi di euro. Un “obolo” speso per fare da spalla all’inutile guerra americana. Ogni giorno di prolungamento della presenza italiana in Afghanistan (ma il ragionamento potrebbe essere esteso ad altre situazioni), rappresenterà un costo di cui bisognerà rendere conto. E sarebbe bene che nell’azione futura, se questa si svilupperà, il governo Conte facesse tesoro dei papers del Washington Post.

P.s. L’ultima lezione che vale la pena conservare è che, ancora una volta, un quotidiano, cartaceo oltre che online, svolge con forza il suo lavoro. Il Washington Post ha condotto una battaglia legale di tre anni ricorrendo al Freedom of Information Act. E ha vinto.