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La bomba di piazza Fontana servì a far tacere il Sessantotto

Cinquant’anni fa la strage di piazza Fontana (12 dicembre ’69) e tre giorni dopo (15 dicembre) la “morte accidentale di un anarchico”, Pino Pinelli, nei locali della questura di Milano. Il ’67 aveva visto nascere la contestazione studentesca a Milano, iniziata con l’occupazione della facoltà di Architettura ed “esplosa” poi, nel ’68, con le occupazioni della facoltà di Medicina e delle facoltà umanistiche, contestuali alle manifestazioni continue in tutta Italia. La rivolta studentesca andava di pari passo con quella operaia. Tutta l’Italia era in sommossa. Il “potere” tremava, bisognava mettere a tacere la contestazione. La strage di piazza Fontana e la successiva morte di Pinelli, e la persecuzione di Valpreda, vanno viste in quest’ottica.

Bisognava mettere a tacere non solo gli operai, ma anche e soprattutto gli universitari, perché erano i figli di chi deteneva il potere e rappresentavano quella che sarebbe stata la classe dirigente del domani. Ecco la bomba e il tentativo di buttare la colpa sugli anarchici. Perché gli anarchici? Perché non erano difesi da nessuno, non erano amati nemmeno dal Pci, solo il Psi (bisogna dargliene atto) si era schierato contro la semplificazione bomba = anarchici. Pinelli è stato fermato lo stesso giorno della strage (che velocità nelle indagini!) ed è stato tenuto in questura, privato dei più elementari diritti, dal venerdì al lunedì notte quando è volato giù dalla finestra; eppure si sapeva benissimo che non c’entrava nulla con le bombe e che aveva peraltro un alibi di ferro. Era chiaro a tutti che non erano stati gli anarchici, seguire tale pista è stato utile solo al consueto depistaggio.

Albarosa Raimondi

 

Solidarietà al “Fatto”, vittima di intimidazioni dei potenti

Ho visto una volta l’attuale presidente del Senato – all’epoca era solo una parlamentare di Forza Italia – polemizzare con Marco Travaglio dalla Gruber, tanto per cambiare su Berlusconi, a suo dire trattato ingiustamente dal giornalista.

Naturalmente non mi avevano convinto le motivazioni della Casellati, che mi erano apparse pro Berlusconi al di là di ogni ragionamento, riproponendo la solita litania che i difensori d’ufficio dell’ex Cavaliere hanno sciorinato negli ultimi vent’anni. Certo non mi sarei aspettato che a un personaggio del genere fosse conferita addirittura la seconda carica dello Stato: ma la politica attuale ci ha abituati a queste mediazioni, che talvolta non propongono “il meglio”.

A conferma di questo ho letto ciò che questo giornale (unico a non genuflettersi davanti al potere) ha raccontato del presidente del Senato (ascensore, foto con condannati, ecc.) e ho letto del tentativo di intimidazione nei confronti dei giornalisti e naturalmente del direttore del Fatto Marco Travaglio.

Ho a cuore la libertà di stampa, a maggior ragione di un quotidiano come il Fatto che ci informa e ci fa capire le trame non sempre limpide della politica: quindi vorrei informare la seconda carica dello Stato che io e tutti quelli (e sono molti di più dei lettori di questo giornale) che credono nella libertà di stampa e nella democrazia faremo tutto il necessario affinché questi principi non siano calpestati e condizionati. Ai giornalisti e al direttore Travaglio tutta la mia solidarietà e appoggio.

Leonardo Gentile

 

Evasione, a essere indecente è anche l’inerzia dei partiti

Il presidente Mattarella è stato chiaro e duro: “Evadere il fisco è indecente”. Ma l’indecenza riguarda soltanto il singolo evasore oppure anche la politica?

Nonostante gli elementi e i mezzi a disposizione, la nostra classe dirigente proprio non riesce a stanare questi “signori”, i quali, tra l’altro, sfruttano i servizi pagati dal contribuente onesto.

È forse un mistero che in Parlamento sia presente qualche forza politica pro-evasori?

Pasquale Mirante

 

Sardine, nessuno spazio a CasaPound in manifestazione

Ho deciso di andare in piazza San Giovanni per sostenere le Sardine. Poi ho letto una dichiarazione sconcertante al Fatto da parte di uno degli organizzatori, il giornalista Stephen Ogongo. “Per me, almeno per ora, chiunque vuol scendere in piazza è il benvenuto. Che sia di sinistra, di Forza Italia o di CasaPound. Ai paletti penseremo dopo”.

No, signor Ogongo, non sono affatto d’accordo. C’è già qualcosa di più di un “paletto”, da cui non si può prescindere: la Costituzione. Quindi chiedo al signor Ogongo una rettifica netta della sua dichiarazione, perché o accetta CasaPound o le persone democratiche come me. Se non c’è questo chiarimento, io non andrò.

Con vigilanza democratica,

Massimo Marnetto

I NOSTRI ERRORI

Ieri nel richiamo in prima pagina del commento di Massimo Fini abbiamo scritto per errore Istat anziché Censis. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Fq

“Via dalle scuole: lo dice la Carta” “Attenzione però al laicismo intollerante”

Gentile Direttore, per cortesia, spieghi a Pietrangelo Buttafuoco che togliere i crocifissi dalle scuole (e magari anche dalle aule di giustizia) non è “segno del più squinternato laicismo” (Il Fatto Quotidiano di venerdì scorso), ma è l’affermazione del principio di laicità dello Stato, riconosciuto e affermato anni fa dalla Corte costituzionale quale principio fondante della Repubblica italiana, la quale non è, almeno de iure, una repubblica confessionale. Il crocifisso è un simbolo religioso, e come tale sta bene nei luoghi di culto e nelle abitazioni private dei fedeli; nei luoghi pubblici, nelle scuole, nelle aule di giustizia, è fuori posto.

Guido Bertolino

 

Me l’ha spiegato, gentile Guido Bertolino, me l’ha spiegato l’affermazione del principio di laicità dello Stato. Solo che sono tardo di comprendonio; e le scrivo adesso da dietro la lavagna dove Marco Travaglio mi ha spedito dopo la sua doverosa e cortese segnalazione; ho anche dovuto mettere me stesso – de iure – nell’elenco dei cattivi. Ma gli è che ho un mio punto di vista e togliere i crocifissi dalla scuole e magari anche dalle aule di giustizia è il primo passo per poi cominciare a dilatare il concetto di spazio pubblico alla strada, alle piazze, all’orizzonte urbanistico in genere dove, oplà, il sentire laico di qualche zelante totalitario può essere turbato dalla presenza delle chiese, delle moschee e di altri luoghi dove una croce, una mezzaluna o lo stesso Fuoco di Vesta può far vibrare la presenza del sacro.

La logica con cui la Regione Lombardia ha tentato di impedire la costruzione delle moschee è sostanzialmente una conseguenza del pregiudizio anti-musulmano, dunque un mero pretesto di propaganda che trova però una speculare corrispondenza – apparentemente opposta – nella pratica di un laicismo formale e intollerante: una presunzione mentale che cataloga la presenza della religione, e il sentimento intorno a questa, tra i cascami di un pittoresco retaggio da cui affrancarsi.

Un qualcosa tipo la Turchia del laico Atatürk quando erano proibiti il velo, la barba del Profeta e lo stesso futuro Giovanni XXIII – al tempo Nunzio Apostolico ad Ankara – era diffidato dall’indossare l’abito talare, e andava per strada in doppiopetto e cappello. Che non fossero fuori posto il velo, la barba del Profeta e la tonaca dei preti – giusto in Turchia – l’ha dimostrato la storia. È tornato tutto. E spesso se ne fa carico il cuore di certi ritorni. Con quelle ragioni che nessuna Corte costituzionale potrà mai squinternare.

Pietrangelo Buttafuoco

Fazio archiviato: non è costato troppo

Il contratto di Fabio Fazio era regolare e non ha danneggiato le casse dello Stato. La Corte dei Conti ha deciso di archiviare l’inchiesta aperta dopo l’esposto dell’allora deputato del Pd, ora di Italia Viva, Michele Anzaldi. Secondo i magistrati contabili, non c’è danno erariale perché il costo delle puntate “è stato inferiore del 50% rispetto al costo medio dei programmi d’intrattenimento Rai”. Inoltre “i ricavi e lo share sono stati in linea con le aspettative”. La Corte poi sottolinea come, secondo un parere dell’Avvocatura dello Stato, nella tv pubblica le prestazioni artistiche “non siano limitate al tetto dei 240 mila euro annui, previsto invece per i dirigenti”.

Dunque, secondo la Corte, Che tempo che fa non costa uno sproposito, anzi la Rai risparmia. Il paragone va fatto con le fiction o con gli show tipo Ballando con le stellee non con i normali talk show, molto meno onerosi per mamma Rai. Il conduttore, dopo anni di attacchi prima renziani e poi salviniani, esulta. “Dopo un linciaggio durato anni, questo è l’ovvio finale”, scrive su Twitter. Gioisce anche Mario Orfeo, l’ex dg che ha messo la firma sul quel contratto e tanto ha voluto il passaggio di Fazio da Raitre a Raiuno: “Questa decisione ribadisce la correttezza del lavoro fatto con il passato Cda, ma soprattutto conferma il valore editoriale ed economico per la Rai”. Anzaldi, smentito dalla Corte dei Conti, non si rassegna. “In certi casi il silenzio è d’oro. Il mega contratto milionario fu giudicato anomalo e non conforme dall’Anac di Cantone e questo resta…”, scrive il deputato renziano su Facebook.

Come più volte riportato da questo giornale, e di recente anche dal Sole 24 Ore, Che tempo che fa ha un costo totale per la Rai di 18,3 milioni l’anno, ovvero 73 milioni in 4 anni. Così suddivisi: 2,24 milioni è lo stipendio di Fazio; 10,6 milioni poi scesi a 9,6 milioni pagati a Officina srl (dello stesso Fazio e di Magnolia), di cui 704 mila annui per i diritti del format; 5,4 milioni di costi industriali per la Rai. Nelle due passate stagioni in cui Fazio andava in onda su Raiuno con due programmi, Che tempo che fa è costato 410 mila euro a puntata per un totale di 32 prime serate, mentre Che fuori tempo che fa, in onda il lunedì, è costato 160 mila euro a serata. Col passaggio a Raidue (una sola serata, la domenica) i numeri si sono abbassati rispetto alla rete ammiraglia: nel mese di novembre lo share del programma si è attestato da un minimo del 7% (il 3 novembre) a un massimo del 9,7 (il 10 novembre). Domenica scorsa, 8 dicembre, l’anticipazione Che tempo che farà ha totalizzato il 4,8% (poco più di 1 milione di telespettatori), mentre Che tempo che fa ha fatto l’8,2% nella prima parte (più di 2 milioni) e l’8,3 nella seconda (quella del tavolo con gli ospiti). Sempre al di sopra della media di Raidue dello scorso anno, ovviamente alla metà degli ascolti registrati su Raiuno. L’azienda, con Che tempo che fa, calcola di aver incassato un guadagno pubblicitario medio di 600mila euro a puntata.

Malagò ce l’ha fatta: sarà il re delle Olimpiadi 2026

La prima medaglia delle Olimpiadi invernali di Milano e Cortina 2026 va assegnata a Giovanni Malagò, che però, ancora una volta, ha anticipato tutti e se l’è assegnata da solo: il capo del Coni s’è fatto eleggere presidente a vita della fondazione che organizza i Giochi. Il cda è composto da 20 membri, dieci espressione del Coni e dieci degli “azionisti” – i comuni di Milano e Cortina e le regioni Lombardia e Veneto – più un rappresentante del governo che cambia a ogni cambio di governo, più il presidente Malagò che resta finché non viene sciolta la Fondazione, cioè (per ora) nella primavera del 2027, ben oltre il secondo mandato al Coni che termina nel 2021. I governatori leghisti Luca Zaia (Veneto) e Attilio Fontana (Lombardia) e il sindaco milanese Beppe Sala (Pd) hanno accontentato Malagò e ignorato la posizione del 5Stelle Vincenzo Spadafora, il ministro dello Sport che ieri, non a caso, annunciando una legge olimpica per avere “maggiore trasparenza e divisione dei ruoli”, ha parlato di “Fondazione Malagò”. L’asse Lega-renziani, lo stesso che ha blindato Malagò, ieri ha infilato in manovra un miliardo di euro da qui al 2026 per le infrastrutture “olimpiche” in Veneto, Lombardia e Trentino Alto Adige. Il governo ha detto sì perché il fondo impegna per ora “solo” 50 milioni nel 2020: così comincia, però, la saga dei Giochi “a costo zero per lo Stato” che non sono già più a costo zero.

Per un Malagò che trionfa sempre, c’è un altro Malagò che cresce (e peraltro i due si sono combattuti ferocemente): si tratta di Rocco Sabelli, ad nonché presidente di “Sport e Salute”, la società controllata dal Tesoro a cui sono stati affidati i circa 400 milioni di contributi al settore al posto del Coni. Per giorni il governo e il ministro Spadafora hanno ragionato sull’ipotesi di scindere i doppi poteri in mano a Sabelli per adeguarsi all’assetto delle aziende pubbliche.

Era già pronto un emendamento alla manovra, un nuovo sconvolgimento per il sistema. Un effetto collaterale della riforma dello scorso anno: la politica si è ripresa lo sport, ma la politica è volubile. Mutato il governo, arrivato un nuovo ministro, può succedere che i vertici nominati pochi mesi fa siano già vecchi. Spadafora ha trovato una macchina avviata, che ha appena distribuito 270 milioni di finanziamenti pubblici per il 2020, e un manager decisionista scelto da altri, dal leghista Giorgetti, intorno a cui si sono coagulati gli interessi delle Federazioni più importanti, calcio in primis. Lo dimostra l’audio di AlaNews: Sabelli parla (sembra col n.1 del calcio Gabriele Gravina) dell’assegnazione in cui il pallone ha mantenuto i contributi che rischiava di perdere e invita i membri in giunta Coni a “tirar fuori le palle”. Una frase che al Foro Italico è suonata come un’invasione di campo, e non è passata inosservata a Palazzo Chigi: “Sabelli chiarisca, fugando ogni dubbio sul fatto che il suo operato si muova lungo i binari dell’imparzialità, correttezza e trasparenza”, ha dichiarato Spadafora.

Per questo il governo pensava di intervenire bilanciando l’ad con un presidente. L’ipotesi ha mandato in fibrillazione le principali Federazioni (le più premiate nell’ultima tornata) che sostengono Sabelli in chiave anti-Malagò. C’è stata pure una sollevazione interna ai 5 Stelle, di chi non vuole toccare la riforma. L’emendamento è stato accantonato, ma la questione non è chiusa. Sabelli avrebbe interpretato lo “spacchettamento” come una sfiducia, vuole pieno sostegno al suo mandato: ai suoi collaboratori ha sempre confidato di essere pronto a lasciare in caso contrario. Nella sua prima intervista da ministro, però, Spadafora aveva detto di non amare “chi chiede pieni poteri”. Si riferiva a tutti i Malagò, vecchi e nuovi.

Bozze, nervi e minacce: la lunga vigilia del Mes

Magari non sarà una mina di quelle che fanno traballare un governo. Mancano i numeri per l’assalto e in fondo la volontà. Ma il voto di oggi in Parlamento sulla risoluzione di maggioranza sul Mes è comunque una bella botola, visto che potrebbe certificare che i giallorossi sono maledettamente fragili. Perché c’è un pezzo di Movimento, annidato soprattutto alla Camera, che è pronto a mostrare la bandiera del no da duri e puri alla riforma del vecchio fondo salva stati. Ad armarli anche le nuove bozze, in cui si parla della logica di pacchetto ma in modo progressivo: ovvero la firma del Mes non è vincolata a quello su altri, futuri testi. Mentre il riferimento al ruolo delle Camere nella sua approvazione c’è, ma suona troppo vago ai grillini. “Così non va, nel testo deve esserci scritto che l’ultima parola sul trattato spetta al Parlamento, o non lo voteremo mai” promette a sera tarda un deputato di quelli che spostano umori e posizioni. E chi se ne importa degli sherpa che lavorano fino a notte, di Giuseppe Conte e pure di Luigi Di Maio.

Moltissimo, ovvio, dipenderà dalla stesura finale. E un po’ anche da quanto avrà limitato la crepa nella notte e stamattina proprio lui, il Di Maio che ieri all’ora di pranzo giurava ai senatori: “Il Mes non piace neppure a me, se non cambia non lo firmerò, ma vedrete che grazie alle nostre proteste si potrà modificare, anche paesi come la Spagna hanno interesse a farlo”. Però gli eletti che lo ascoltano notano soprattutto altro, ossia che il capo politico assicura di non aver mai avuto l’urgenza di nuove urne, “se talvolta ho alzato i toni è per portare a casa i nostri temi, ma non ho mai voluto il voto anticipato”.

Di Maio si autodefinisce di lotta e di governo. “Però le due cose non stanno troppo assieme, magari sarebbe meglio forzare la mano ai tavoli senza urlarlo poi tramite social e stampa” ragiona a margine un grillino di esperienza. Nell’incertezza i senatori battono le mani al capo, ma il Mes fa più rumore. Intanto perché un senatore come Gianluigi Paragone voterà “al 90 per cento per il no”, come rende noto, e infatti in riunione propone inserire nella risoluzione anche la possibilità di decidere se restare o meno nell’unione monetaria, e siamo quasi alla barricata. Poi ci sono i silenzi pesanti di Elio Lannutti, ascoltato nel gruppo.

Ma i dubbi albergano anche in senatori solitamente paciosi come l’umbro Stefano Lucidi. “Alla fine saranno due o tre a votare no Palazzo Madama” sostiene un big. Però non è detto, non si capisce dove possa arrivare la voglia di battere un colpo di certi eletti dall’occhio esausto. E poi, soprattutto, c’è Montecitorio, dove due deputati, Alvise Maniero e Raphael Raduzzi, volevano addirittura presentare una mozione contro la riforma del trattato. Di Maio, dopo aver lasciati mordere per agitare il Pd, li aveva fermati prima dell’impatto. Ma alla vigilia del voto i due circolano per il Transatlantico con l’aria di chi non abbasserà lo stendardo. “Io ho una parola sola” scandisce Maniero, 34 anni eppure già ex sindaco di Mira (Venezia).

Raduzzi, trentino con laurea in Economia, schiva: “Il testo finale della risoluzione ancora non c’è”. Attorno a loro, gruppetti di 5Stelle un po’ curiosi un po’ complici. Si infila anche un dem della commissione Bilancio, il romano Claudio Mancini, e stuzzica Raduzzi: “Non vorrete mica fare l’errore di non votarla la risoluzione? Se si tratta sul Mes è anche grazie a voi…”. Il grillino stira un sorriso tattico, ma mica si espone. “Nessun rischio” ripetono nel frattempo dai piani alti del Movimento, e si capisce. Laura Agea, primo ufficiale nelle trattativa, esce come una saetta dal Senato. “C’era un clima molto positivo nella riunione con i senatori” concede. Ma la trattativa non è da sorrisi. E la guerra fredda delle bozze incrociate, partita lunedì, prosegue con altri frammenti di testi sparsi sulle agenzie, a naso da fonti dem. Proprio come lunedì i grillini si innervosiscono, e allora il M5S tampona: “Smentiamo qualsiasi indiscrezione diffusa”.

I 5Stelle insistono sempre su quel punto, il ruolo del Parlamento. Ma alle sette della sera un maggiorente del Pd non nasconde l’impazienza: “Il testo a me pare chiuso”. Non è affatto così perché dal M5S avvertono gli alleati: “Così non teniamo tutti i nostri”. E infatti il Movimento prima convoca e poi cancella un’assemblea congiunta per le 21.30. “Volevamo leggere la risoluzione agli eletti, ma non è completa” spiegano.

E comunque, l’aver pensato a un’assemblea serale conferma che il Mes resta un problema scivoloso. Stamattina, previste riunioni lampo, l’ultimo appiglio. Poi si voterà, prima alla Camera e poi in Senato. E si vedrà se il governo Conte ha la febbre. E quanta.

Il tribunale chiude l’Ilva: l’altoforno 2 va spento subito

L’Altoforno 2 dell’ex Ilva di Taranto è ancora un impianto non sicuro per gli operai e concedere la proroga della facoltà d’uso significherebbe violare la Costituzione e il testo unico per la sicurezza dei lavoratori. È quanto in estrema sintesi ha sostenuto il giudice Francesco Maccagnano che ieri ha negato la proroga ai commissari straordinari di Ilva che avevano chiesto altri nove mesi di tempo per ultimare la messa in sicurezza dell’impianto sequestrato, appunto “con facoltà d’uso”, dacché, nel giugno del 2015, un incidente uccise l’operaio 35enne Alessandro Morricella.

Non è bastato al giudice il parere favorevole della Procura di Taranto, che comunque aveva chiesto un miglioramento delle misure già attuate sulla base dell’ultima relazione del custode giudiziario Barbara Valenzano, né gli sono bastate le garanzie offerte dai commissari di Ilva, che hanno già pagato all’azienda Paul Wurth 3,5 milioni di euro degli 11 necessari per completare l’automazione della cosiddetta “Mat”, la “macchina a tappare”, l’ultima e più importante prescrizione imposta che automatizza gli interventi nel “campo di colata” allontanando i lavoratori dai maggiori rischi.

Il magistrato spiega che l’azienda ha avuto quattro anni di tempo – il primo termine fu infatti a dicembre 2015 – per mettere a posto le cose e continuare di proroga in proroga significherebbe solo la “ulteriore compressione dell’interesse alla tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori operanti presso l’altoforno”. Nella battaglia – sanguinosa all’Ilva – tra salute e lavoro è ora che il pendolo oscilli verso il primo termine: “la pluriennale opera di bilanciamento di interessi” svolta per “tutelare la continuità produttiva e i livelli occupazionali di uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale”, scrive il giudice Maccagnano, non può “essere ulteriormente proseguita” in danno del testo unico sulla sicurezza sul lavoro e, soprattutto della Costituzione, che all’articolo 41 prescrive che l’iniziativa economica è libera, ma “non può svolgersi (…) in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Per il giudice è infatti chiaro che, in particolare sul cosiddetto “piano di colata”, zona in cui gli operai svolgono una serie di operazioni, i rischi sono troppo alti: “Dalla documentazione in atti – scrive – non pare emergere che siano state formalmente emesse o aggiornate specifiche pratiche operative tali da attenuare l’esposizione dei lavoratori al rischio di essere investiti improvvisamente da gas e polveri ad alta temperatura”. Per il giudice, insomma, la situazione rispetto al 2015 è migliorata, ma non abbastanza da rendere quel luogo sicuro.

La decisione di Maccagnano è l’ultimo capitolo di una vicenda particolarmente complicata che cominciò poco dopo la morte di Morricella quando, dopo il sequestro della procura, l’allora governo guidato da Matteo Renzi emanò in fretta e furia un decreto che consentiva all’azienda di utilizzare quell’impianto sostenendo che, in ogni caso, “l’esercizio dell’attività d’impresa degli stabilimenti di interesse strategico non è impedito dal provvedimento di sequestro”. Insomma, l’Ilva poteva produrre anche mettendo a rischio la sicurezza degli operai.

Nel 2018 la Consulta bocciò il decreto di Renzi spiegando che il governo non aveva “rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionalmente rilevanti, incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori”.

Concedere la proroga, cioè “l’accettazione di un simile rischio – se pur può dirsi ragionevole entro orizzonti temporali ben limitati – diventa palesemente ingiustificabile” concedendo altri mesi che, sommati ai precedenti, finirebbero per portare il totale del sequestro “a 5 anni, 5 mesi e 6 giorni”.

La vicenda Ilva, quindi, si complica ancora. Mentre governo e ArcelorMittal provano a cercare una soluzione per l’acciaieria ionica, venerdì dovrebbero partire le operazioni di spegnimento dell’impianto che costringerebbe la fabbrica a “marciare” solo con gli altiforni 1 e 4. Il rischio immediato, quindi, è un nuovo ricorso alla Cassa integrazione, mentre aumentano le possibilità che Arcelor continui a cercare una strada per andar via da Taranto: uno dei motivi citati per la revoca del contratto era proprio l’Altoforno 2, sul cui stato i Mittal sostengono di essere stati sostanzialmente ingannati dai commissari.

I due Mario alla sfida e il 5 Stelle che traballa

Apoco più di un mese dalle elezioni regionali del 26 gennaio, la giostra dei candidati governatori della Calabria non accenna a fermarsi. E a oggi conta cinque candidati, solo tra i principali partiti. Perché se il Pd fa i conti con il presidente della Regione Mario Oliverio, che ha mal digerito la scelta di Zingaretti di candidare l’imprenditore Pippo Callipo, ora anche il centrodestra rischia di perdere pezzi dopo che Berlusconi ha ceduto al diktat di Salvini preferendo al sindaco di Cosenza Mario Occhiuto la sua vice Jole Santelli, fedelissima di Cesare Previti.

Nel mezzo c’è il M5S che ha puntato sul docente universitario Francesco Aiello. Definito dal deputato Parentela addirittura “il candidato ideale per condurre questa rivoluzione necessaria”, oggi Aiello rischia di essere archiviato dalla piattaforma Rousseau. Su di lui pesa la polemica sulla casa parzialmente abusiva e qualche uscita pubblica non proprio gradita ai parlamentari calabresi. Se la ratifica del prof non dovesse arrivare (“ci saranno colpi di scena fino all’ultimo” giurano nel M5S), gli iscritti potranno votare un altro nome tra i candidati a consigliere, lo stesso che faranno per l’Emilia-Romagna. L’importante è che Rousseau tolga le castagne dal fuoco prima dell’arrivo di Di Maio previsto per venerdì a Catanzaro.

Fino ad allora le porte del candidato Pippo Callipo e del Pd sono aperte: “Mi auguro che mi chiami – ha commentato l’imprenditore del Tonno ieri a Radio1 –. Se Aiello si ritira, farebbe una cosa bella contro qualche pazzo che vorrebbe venire ad amministrare in Calabria, provenendo da fuori”.

Il riferimento è a Matteo Salvini. Il leader della Lega, di fatto, ha costretto Berlusconi a rinunciare al sindaco di Cosenza Mario Occhiuto che, dopo il “tradimento” della Santelli, ieri ha annunciato di avere avviato la raccolta firme per la presentazione delle liste. Una prova di forza ma anche l’ennesimo avvertimento ai suoi in attesa del vertice di domani tra Berlusconi, Meloni e Salvini.

I due Mario vanno avanti. E se quello del centrodestra ha ricevuto la solidarietà pure di Mara Carfagna (“Si scongiuri la frattura di Forza Italia in Calabria”), quello di centrosinistra, Oliverio, è costretto a rimangiarsi le parole dette nel 2014, all’indomani della sua elezione. Ieri è spuntato il video della sua prima conferenza stampa da presidente della Regione: “Io qui ci starò una sola legislatura, cinque anni non dieci – diceva –. Non avrò l’assillo che dovrò andare a farlo altro. Lo dichiaro in modo tale che poi voi me lo potete ricordare”. Qualcuno ci ha provato, ma Oliverio non l’ha capito.

I sindaci in corteo con Liliana Segre Lei: “L’odio cancelliamolo insieme”

“Questa è una piazza che parla d’amore. Lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera”. La senatrice a vita Liliana Segre usa queste parole per salutare gli oltre seicento sindaci che ieri sera hanno marciato insieme a lei per le vie del centro di Milano. Una “scorta civica” di fasce tricolori che hanno risposto senza esitare all’appello lanciato dall’Anci e dal primo cittadino di Milano Giuseppe Sala: “Questo è il nostro messaggio per i fomentatori d’odio – attacca il sindaco meneghino dal palco – noi siamo pronti a tornare continuamente in piazza se questo clima d’odio non cambierà”.

Il corteo si fa strada a fatica tra i turisti in piazza del Duomo e tra i tanti milanesi che applaudono al passaggio del corteo. In prima fila, oltre al padrone di casa, il palermitano Leoluca Orlando, il fiorentino Dario Nardella e la sindaca di Torino Chiara Appendino che racconta: “Qui ci sono sindaci di tanti colori politici, noi ieri abbiamo votato la cittadinanza alla Segre e abbiamo costruito una commissione contro l’odio. Gesti che vogliono riportare al centro i valori della Costituzione”.

Una volta entrato in galleria Vittorio Emanuele II, tempio dello shopping meneghino, alcuni sindaci intonano “Bella Ciao”. Non tutti però la cantano. “Io no non l’ho cantata” racconta Roberto Di Stefano, sindaco di Sesto San Giovanni. La sua maggioranza di centrodestra ha bocciato nelle scorse settimana la mozione che voleva assegnare la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. “Quella era una strumentalizzazione. Non bisogna metterci le bandierine di partito. Per questo siamo qua per rimarcare la vicinanza alla senatrice”. La Segre si unisce al corteo al fondo della Galleria accolta da un’ovazione. “Liliana, Liliana” cantano i sindaci mentre la senatrice percorre gli ultimi metri prima di salire sul palco per concludere la manifestazione: “È nell’oblio della nostra storia che passa il messaggio dell’indifferenza. Cancelliamo insieme le parole odio e indifferenza”.

I consigli degli “io-io-io” per il fish-mob di sabato

Convinto di rendere un servizio alla Nazione, questo diario ha raccolto una serie di consigli da dare alle Sardine in vista della manifestazione di Roma.

Sono un giornalista molto presente nei talk e approfitto di una pausa tra Agorà e Coffee Break per suggerire al bravissimo Mattia Santori di non logorare l’immagine del movimento con troppe apparizioni sul teleschermo. Anche perché, finendo per dire sempre le stesse cose dappertutto, succede che il pubblico poi si stufa. Scusate, ma devo correre all’Aria che tira e a Tagadà, e poi stasera sarò da Gruber, Floris e Berlinguer (la notte la passo da Mannoni).

Sono un famoso scrittore (tendente al celebre) e impegnato come sono nella stesura del mio best-seller di primavera (ne pubblico uno a stagione) ho saputo, per puro caso, di queste Sardine che manifestavano sotto casa mia. Non ci crederete, ma hanno parlato tutto il tempo di antifascismo, antirazzismo, disastri ambientali, mafia, ’ndrangheta e camorra, ispirandosi chiaramente ai miei libri. Ho deciso che dedicherò loro il mio prossimo successo autunnale dal titolo Io, Io, Io e le Sardine.

Scrivo di retroscena politici per un prestigioso quotidiano. Ero così impegnato a documentarmi sulle guerre in corso tra le sette correnti dei Cinquestelle, i dodici ministri del governo Conte e i ventisette finanziatori della fondazione Renzi che non mi sono accorto delle cinquantamila Sardine in piazza Maggiore. Niente paura, grazie a una loro fonte (rigidamente anonima come sempre) ho appreso che stanno per scindersi. Fra poco annuncerò, in esclusiva, l’imminente nascita delle Acciughe e degli Sgombri (tendenza Aringhe).

Sono il direttore più amato dagli odiatori di pura razza ariana e queste acciughe o come cazzo si chiamano mi stanno solennemente sui coglioni. Una massa di Gretini, ignoranti, nullafacenti, buonisti e comunisti che con la scusa del riscaldamento climatico e boiate simili (infatti, imbecilli che non siete altro, qui piove e si gela) fanno sega a scuola. Anche io da giovane avevo i miei ideali (non dico quali altrimenti mi arrestano). Ma non rompevo gli zebedei al prossimo.

Sono un ex sessantottino, noi sì che eravamo tosti: spranghe e molotov, altro che burro e alici. Sono un ex girotondino, e senza di noi, altro che Sardine, ’sto Paese avrebbe ancora al potere quel fascista di Berlusconi e delle sue tv. Del Debbio, Giordano e Porro chi?

Sono un politico di destra e anche se mi è chiaro che questi ragazzotti sono tutti di sinistra, e che marciano comunque contro Salvini mi conviene fare lo gnorri in previsione del voto in Emilia-Romagna e Toscana. Dichiarerò quindi che è confortante vedere tanta freschezza nei giovani che scendono in piazza con dei valori da rispettare. Purché, s’intende, non si facciano strumentalizzare dal governo di Bibbiano e del Mes (hai visto mai che nell’urna qualcuno ci ripensa?).

Sono la Bestia di Salvini: purtroppo sono Sardine troppo pacifiche. Ma quand’è che arrivano i centro sociali a fare un po’ di casino? Abbiamo già l’hashtag #azzurrefuorierossedentro.

Sono Giorgia Meloni, sono una donna, sono italiana, sono cristiana, sono sardina.

Sono Nicola Zingaretti: quali sardine?

Sardine, primo incidente: lite sulla destra in piazza

“La mia risposta su CasaPound è stata travisata. Nessuna apertura a CasaPound né a nessun altro gruppo che si richiama ai sentimenti di quel fascismo che ha devastato l’Italia e il suo tessuto sociale. Nessuna apertura neanche a quei partiti di destra che vedono con favore il ritorno di questi sentimenti divisivi nel nostro Paese”. Sono le sette di sera quando Stephen Ogongo, leader delle Sardine di Roma, interviene a smorzare il fuoco di polemiche innescato dalla sua intervista al Fatto. “Se uno di CasaPound viene in piazza va benissimo, basta che venga come Sardina”, ha detto ieri al nostro quotidiano. Dando il via alla giornata più difficile nella brevissima storia del movimento anti-Lega.

I cellulari scottano fin dal mattino presto, ancor prima che la notizia venga ripresa dalle agenzie: sono attivisti sul piede di guerra, increduli che una frase del genere sia stata detta così, con un po’ di leggerezza forse. Lo capisce Ogongo, che ci scrive preoccupato: “Perché questo taglio drammatico? Così ci mettete in difficoltà, la nostra è una causa nobile”, lamenta. Una presa di posizione da parte dello stato maggiore sembra inevitabile. La prima, intorno alle 11, viene dai vertici romani: “Non possiamo chiedere a ognuno dei partecipanti la fede politica, è una piazza libera e accogliente, non mettiamo paletti e non cacciamo nessuno. Ma allo stesso tempo fin da Bologna è stata definita una netta linea di demarcazione tra chi crede nei valori della democrazia, dell’uguaglianza, del rispetto e dell’antifascismo e chi invece viene da un passato e da un presente che dimostra tutt’altro”.

Ma i toni del comunicato, per gli iscritti al gruppo Facebook “Sardine di Roma” (quasi 140mila) non sono abbastanza netti. “Non mi piace per niente questa lettera, non è incisiva e non chiarisce che in piazza non vogliamo i fascisti. Me ne tornerò al divano se non chiarite come si deve”, scrive Oriana. “Non siete capaci di scrivere chiaro e tondo il no a CasaPound?”, chiede Laura.

A far esplodere, irrimediabilmente, il caso arriva la mossa a sorpresa di Simone Di Stefano, segretario delle tartarughe. “Le Sardine ci invitano in piazza? Ci andiamo, ma non canteremo di certo Bella Ciao. Parliamo di idee: mutuo sociale, una nuova Iri, come aumentare i salari, come mettere le banche sotto il controllo dello Stato”, scrive su Twitter. E aggiunge: “Cortocircuito globalista in 3, 2, 1…”. Un annuncio che occupa l’apertura di tutte le testate online e apre un caso difficile da gestire per i giovani attivisti. Tanto che al Fatto chiama, assai stizzito, Mattia Santori in persona: il leader bolognese ci accusa di voler sabotare un movimento di migliaia di persone con titoli a effetto. Ma è lui stesso, pochi minuti dopo – sulla pagina Facebook 6000 Sardine – ad ammettere che “Stephen Ogongo ha commesso un’ingenuità”. “Le piazze delle Sardine si sono fin da subito dichiarate antifasciste e intendono rimanerlo”, scrive insieme agli altri fondatori. “Nessuna apertura a CasaPound né a Forza Nuova. Né ora né mai”.

Equivocorisolto, quindi? Non del tutto, perché lo scivolone mediatico ha aperto il dibattito su chi, e con quale titolo, possa parlare a nome delle Sardine. Con il paradosso di alcuni utenti che arrivano a chiedere le “dimissioni” di Ogongo, nonostante il giornalista keniota non rivesta alcuna carica (se non quella di amministratore del gruppo Facebook). “Dovete essere solo voi quattro a parlare”, scrive Alessandro sotto il post di Santori e compagni, mentre Silvestro attacca: “Chi è questo Ogongo e a nome di chi parla? Il ritornello di essere aperti a tutti porta a queste conseguenze”.

Già, perché tra i mal di pancia resi espliciti dalla vicenda c’è quello della frangia che contesta ai “leader” una certa timidezza nello schierarsi. “Il punto è prendere una posizione che non preveda il ‘tutti dentro’”, argomenta Paola. “Perché il ‘tutti dentro’ è un cavallo di Troia, che insieme alla Pascale, ad An e alla Raggi, lascia aperta la porta pure a CasaPound”.