Il treno che investì i processi Mediaset

C’è una questione da considerare, che forse è la questione di questo processo. Nel corso dell’udienza preliminare abbiamo visto due treni che correvano paralleli: da un lato c’era l’udienza preliminare e dall’altro il cammino legislativo della cosiddetta legge Cirielli sulla prescrizione. A un certo punto, un treno ha investito l’altro: la Cirielli ha investito l’udienza preliminare. Ma davvero. Non come in quel famoso film dei Lumière in cui la gente è scappata perché pensava che fosse un treno e invece era un film: no, questa volta il treno è arrivato veramente e la distruzione è sotto gli occhi di tutti.

Però non ci sarà qui alcun riferimento al significato o alle interferenze di questo cammino legislativo, perché obiettivamente è materia del dibattito politico e sarebbe assolutamente inutile ripeterla in questa sede, sarebbe anche deprimente perché in fondo in questa sede non rimane che prendere atto del disastro. Non sarà invece, da un punto di vista tecnico-giuridico, neppure tentato un sortilegio per far svanire il disastro, cioè una richiesta di dichiarare l’incostituzionalità della legge sulla prescrizione. Perché? Per motivi abbastanza intuibili: è una legge a favore del reo e quindi molto difficilmente censurabile in sede costituzionale. Questo è un problema che probabilmente, quando è stata scritta la Carta costituzionale, non si era posto, però forse oggi bisognerebbe cominciare a pensarci, perché se una legge comincia ad apparire irragionevole nelle sue premesse, allora, forse, dovrebbe esserci una maggiore possibilità di sindacato in sede costituzionale. Ma questo non è il diritto attuale: quindi io andrò direttamente a concludere sulla base del materiale di causa, sulla base delle leggi vigenti, ovviamente, prima tra tutte la cosiddetta “ex Cirielli”, che poi è uno strano nome che in genere si usava per, non so, l’ex Gil, l’ex Littorio. Cioè una legge si dovrebbe chiamare con il suo nome, ma noi la chiameremo così, anche se non la chiameremo più perché da ora in poi vedremo semplicemente gli effetti di questa legge.

Giudice, io ho preparato uno specchietto abbastanza dettagliato […] dove, capo per capo, è spiegato per quali fatti viene chiesto il rinvio a giudizio e per quali fatti viene chiesta invece una dichiarazione di non luogo a procedere per prescrizione o per non punibilità in base alla norma cosiddetta sul condono fiscale. Come noterete, anche qui c’è un “cosiddetto”, è il secondo “cosiddetto”, dopo la “cosiddetta Cirielli”, perché anche il condono fiscale è un “cosiddetto” giuridico: però quello è, […] non è un’amnistia perché per fare un’amnistia ci sarebbero voluti due terzi del Parlamento […]. È una sanatoria alla quale consegue una causa di non punibilità. […] In altri casi si era fatta un’amnistia […]. Mi dispiace comunque che si stiano affollando un po’ tutti i motivi che possono avere qualche spunto polemico, per cui finirei qui dicendo che anche questo è un dato, ne prenderemo atto a livello poi di conclusioni.

Fondamentalmente, prima di entrare nel dettaglio degli effetti, in questo processo sono contestate ipotesi di: appropriazione indebita, di frode fiscale, di falso in bilancio e di riciclaggio. L’appropriazione indebita si prescrive, al massimo, secondo la legge sulla prescrizione del 5 dicembre 2005, in 7 anni e mezzo, quindi in sostanza le ipotesi che continuano a rimanere in vita sono i fatti (se non ho sbagliato i calcoli) commessi da ottobre-novembre 1999. È un po’ strano perché qua discutiamo di una cosa che ancora è viva ma tra due mesi potrebbe essere morta […]. Queste sono le uniche ipotesi di appropriazione indebita che sono, diciamo, coltivabili.

Per quanto riguarda la frode fiscale, bisognerà fare un discorso un po’ più articolato e io mi baserò anche su quanto è stato argomentato dalla Difesa Del Bue sugli effetti del condono perché, a mio avviso, il condono non coprirà comunque tutta l’imputazione di frode fiscale. Per quanto riguarda, invece, il falso in bilancio, fondamentalmente due esercizi sono estinti per prescrizione, cioè il 1996 e il 1997. Invece è ancora non prescritto, diciamo così, non estinto, il 1998, perché il bilancio è stato approvato il 30 aprile 1999, quindi anche qui (sperando di non aver sbagliato i calcoli) si dovrebbe estinguere a settembre del 2006, mentre l’altro falso in bilancio a settembre del 2007.

Siccome, come da tutti viene auspicato, il processo penale, soprattutto in questa fattispecie, è un processo celere, voi immaginerete che cosa succederà entro la fine del 2007, però continuiamo a fare il lavoro che ci viene richiesto e quindi per questi reati, non so quanto in fatto utilmente, verrà chiesto il rinvio a giudizio. Questo è tutto per le ipotesi base. Per le ipotesi di riciclaggio, non c’è allo stato prescrizione e non ci sarà prevedibilmente prescrizione per molti anni a venire; ci sarà sicuramente un altro degli effetti benefici della legge sulla prescrizione, cioè lo spezzettamento degli anni, la fine di quel criterio di unificazione dei reati ai fini della prescrizione, per cui la prescrizione decorreva dal momento in cui era cessata la continuazione. Questo effetto è stato – non si capisce con quale logica perché non ho trovato nei dibattiti parlamentari alcun riferimento al motivo – abolito, per cui in sostanza ogni anno si giudica di per sé. Quindi probabilmente in corso di giudizio anche alcune ipotesi di riciclaggio verranno meno, però al momento nulla è prescritto.

Questo è il quadro generale delle imputazioni. Evidentemente, anche solo però questo, diciamo, residuo di cui discutiamo oggi è legato in maniera molto stretta a quello che è successo in passato. È chiaro che quella che, prima della Legge 5 dicembre 2005, sarebbe stata coltivabile in termini di esercizio dell’azione penale come una pretesa punitiva per una enorme appropriazione indebita che comincia, in base al capo d’accusa, nell’anno 1988 e finisce nell’anno 1999, ecco che di colpo diventa un reato che si limita a 4-5 bonifici. Però l’impianto probatorio che è necessario prendere in considerazione alla fine non muta, per cui un certo riferimento all’assetto probatorio di base sarà necessario. Per esempio, il rapporto fra Silvio Berlusconi e Frank Agrama, amici da sempre e da sempre soci, anche se occultamente: “Amico” lo definisce Gabriella Ballabio in un interrogatorio di qualche mese fa, dicendo: “Frank Agrama era amico di Berlusconi”, peraltro c’era anche un documento in cui si parlava di una forte relationship di Frank Agrama con la famiglia Berlusconi, quindi è qualcosa che veramente risale a epoche molto lontane. Questo rapporto oggi noi dovremmo continuare a chiamarlo in causa ugualmente, anche se, appunto, dopo il disastro, è rimasto solo un frammento; ma comunque l’edificio lo dobbiamo descrivere ugualmente, è un edificio che non c’è più, però dobbiamo descriverlo perché sennò non si capisce neanche il frammento.

Turbina Usa ai russi, Caparini inguaiato da un agente coperto

È stato un undercover agent, un agente sotto copertura, a mettere nei guai Gabriele Villone eBruno Caparini, i due manager italiani che gli Stati Uniti vogliono processare per cospirazione, frode e riciclaggio. Sono accusati aver cercato di comprare una turbina di produzione Usa per cederla a un’azienda di Stato russa. Sette milioni e mezzo il prezzo di acquisto, 17 milioni e 300 mila dollari quello di vendita. Un guadagno da quasi dieci milioni per i quali rischiano fino a 45 anni di carcere, insieme a due imprenditori russi e uno americano.

Villone è il managing director della Gva International Oil and Gas services con sede a Dubai. Arrestato il 28 agosto a Savannah, in Georgia, è stato richiuso nel penitenziario di Chatham County per 24 ore prima di essere trasferito: secondo quanto risulta al Fatto è stato poi rilasciato, ma è al momento irreperibile. A piede libero, invece, Caparini, che ha nome, cognome e curriculum praticamente identici a quello di un industriale bresciano, storico amico di Umberto Bossi e padre di Davide, deputato della Lega dal 1996 al 2018 e oggi assessore al Bilancio in Regione Lombardia. I Caparini del Carroccio negano di aver mai saputo nulla delle contestazioni americane.

Nei documenti dei magistrati il Bruno Caparini sotto accusa è identificato come commercial director of an Italian engineering and construction company. In un’organigramma online della Mesit, società italiana di ingegneria e costruzioni con sede a Milano, Bruno Caparini è indicato come direttore commerciale, mentre il figlio Davide figura come presidente. Quella pagina, però, non è più online: è rintracciabile solo la cache.

Con lo stesso meccanismo, tra le consociate di Mesit si trova anche la Gva di Villone e sul sito di Gva (anche questo offline) si rintraccia il logo di Mesit. I simboli delle due società fanno bella mostra persino nella brochure di presentazione della Mesit. Che sulla carta è amministrata da uno studio di commercialisti di Bergamo attraverso un trust. Dal 2018 l’amministratore è la moglie di Bruno Caparini, Teresina Gasparotti, che ha preso il posto di Angelo Balzarini. Mesit ha sede Milano in piazzale Duca d’Aosta 12, dove è domiciliata la Sti, una società consortile fondata nel 2010 e presieduta proprio da Bruno Caparini. Amministratore della Sti nel 2010? Sempre Balzarini, ex ad di Mesit.

Insomma: i legami tra la Gva e la società per cui lavorava Caparini, amministrata dalla moglie, sono molti. Solo che il Caparini noto in Italia per il sostegno alla Lega nega di essere lo stesso Caparini che in Usa rischia 45 anni di carcere. Un nodo che non si scioglie, visto che nell’atto d’incolpazione del Grand jury non è contenuta né la data né il luogo di nascita degli imputati. In compenso sono descritte tutte le accuse. In 30 pagine Caparini è citato 14 volte: a partire dall’aprile del 2017, quando l’italiano incontra i rappresentanti della “compagnia A” per acquistare una turbina Vectra 40G.

L’identità della “compagnia A” è omissata, ma secondo il quotidiano russo Kommersant si tratta della ex Dresser-Rand, oggi Siemens. La “compagnia A” più volte chiede a Caparini – e a Dali Bagrou, l’imprenditore americano sotto inchiesta – spiegazioni sull’uso della turbina. Dall’invasione della Crimea, infatti, è tra i beni che è vietato vendere alla Russia. Agli atti ci sono messaggi ed email che Caparini e Villone si scambiano: sostengono di voler utilizzare negli Usa quella turbina. “Sanno già di mentire”, scrive il Grand Jury.

Nel frattempo, infatti, sono spuntati i russi Oleg Vladislavovich Nikitin e Anton Cheremukhin della Ks Engineering. Che da una parte si accordano per comprare da Gva. D’altra s’impegnano a rivendere a una compagnia di Stato russa che la userà sulla piattaforma Prirazlomnaya nel mare Artico, gestita da Gazprom Neft. Le contrattazioni procedono fino al 2019: il manager della Gva Villone invia foto della turbina ai russi e allo stesso Caparini. Crede che l’affare sia praticamente fatto.

A febbraio invia il preventivo da 7 milioni e mezzo ai russi ma cancella il prezzo. “Il costo – spiega – è più alto del previsto perché l’oggetto non è più in produzione e per via dello stretto controllo”. Alla fine si accordano per 17 milioni e 300 mila dollari: circa 10 milioni in più. Nel frattempo, però, nella trattativa si è infiltrato un agente sotto copertura. Villone lo incontra a Savannah il 28 agosto pensando di concludere, ma quel giorno viene arrestato. Stando ai documenti del giudice, però, continua a scrivere ai russi: “Abbiamo immediatamente bisogno di 500 mila dollari oggi. È un emergenza che vi spiegherò più avanti”. Qual è l’emergenza? A cosa servono i soldi? Due settimane dopo Nikin vola da Mosca alla Georgia: ad attenderlo gli agenti dell’Fbi.

Umberto B., parabola di un leader dimenticato

Saronno, anno 2017. Sotto i tendoni e sopra le lunghe tavolate di legno si gioca a tombola, qualcuno mangia, altri ordinano ancora da bere. In cima a uno dei tavolacci un uomo anziano – il gesto sembra lontanamente familiare – picchia le nocche sul legno e poi, con la stessa mano, pare mimare una lieve sconcezza. Tenta di accendersi un sigaro, ma il vento – o forse il suo stesso respiro, chissà – spegne la fiamma dell’accendino. Riprova due, tre volte e alla fine desiste, rimanendo però nella posizione di chi tenta di accendersi un sigaro. Accanto all’uomo la gente passa, indifferente. A un tratto due persone lo accompagnano verso il palco. L’uomo sale, nonostante la fatica di chi non può più permettersi di camminare per lunghi tratti. A quel punto una voce annuncia il suo nome e gli cede la parola. Dal pubblico – dopo un’interminabile frazione di secondo di silenzio – si levano uno, forse due o tre, timidi applausi. L’uomo sul palco si chiama Umberto Bossi, la platea di fronte a lui è quella della Lega che un tempo lo osannava e ora, nell’attesa del comizio finale di Matteo Salvini, lo ignora.

Viene da pensare al finale di Umberto D., capolavoro di Vittorio De Sica del 1952, quando l’anziano e disperato protagonista rischia di perdere anche l’amicizia del suo cane. Non a caso, infatti, la scena di Saronno è il finale di un Umberto B. documentario di Francesco Amato (produzione EiE film, in onda giovedì sera su Nove alle 21:25) che ripercorre la parabola di un protagonista assoluto della vita politica italiana tra la fine degli anni 80 e l’aprile 2004, quando l’ictus lo fermò e precipitò la storia tra trote, cerchi magici e 49 milioni spariti.

Umberto B. è un affresco politico e umano a più voci: i fedelissimi della prima ora, come il sempre fedelissimo Leoni che con “il Bossi” entrò in Parlamento nel 1987, l’ambiguo, per molti ex amici, Maroni, il povero Patelli che si addossò la colpa della tangente Enimont nel 1992 (“O facevo così, o tiravo in mezzo il Bossi”), gli ormai docili Castelli e Speroni, un’irresistibile Pagliarini (con tanto di maglia catalana) e una saggia Pivetti.

E poi D’Alema (imperdibile, per gli amanti del genere, la descrizione dell’“indigenza alimentare” bossiana), Fini e Gad Lerner, che con il celebre Milano, Italia portò i barbari nei tinelli di tutta Italia. Tra la prima Lega Nord e il M5S si sprecano le analogie – dal voto sull’entrata al governo per alzata di mano del pubblico (non esistevano ancora le piattaforme) a un comizio del capo (che alla fine decideva) alla calata degli sconosciuti a Montecitorio (“Abbiamo portato a Roma di tutto”, Castelli dixit) – ma a Salvini che corre subito il pensiero. Secondo il regista Francesco Amato “la Lega di oggi non ha più nulla a che fare con quella originaria, prova ne è il fatto che gli stessi leghisti moderni considerino Bossi superato”. La seconda parte di questa affermazione è tragicamente confermata dalle sequenze finali, la prima non è esente da obiezioni. A vedere Umberto B., tuttavia, si fa fatica a non essere almeno un po’ d’accordo con Massimo D’Alema: “La Lega di Bossi era antifascista – sostiene l’ex segretario Ds – quella di Salvini è il punto di riferimento di tutta l’estrema destra”.

Lega, operazioni sospette anche con Salvini in carica

Operazioni per oltre 450 mila euro compiute tra il marzo 2013 e l’aprile 2018, quando Matteo Salvini era segretario della Lega. Secondo i pm genovesi sarebbero una fetta dei 49 milioni che gli inquirenti cercano da anni nelle casse del Carroccio. Nell’inchiesta sul tesoro scomparso della Lega arriva il primo indagato: Stefano Bruno Galli, assessore del Carroccio nella giunta di Attilio Fontana (Cultura e Autonomie), indagato per riciclaggio dai pm genovesi. Ieri la Finanza ha compiuto perquisizioni che, oltre a Galli – toccato dall’inchiesta in quanto presidente dell’Associazione Maroni Presidente – hanno riguardato le società Boniardi Grafiche srl e Nembo srl. Della prima è socio il parlamentare leghista Fabio Massimo Boniardi: è stato sequestrato materiale contabile, ma gli investigatori non hanno potuto acquisire il contenuto del pc e dei server aziendali perché Boniardi ha fatto valere le sue tutele in quanto la tipografia rientra tra le sue “residenze” e nella memoria sarebbero collocati file riservati relativi ad attività parlamentari.

Ecco l’ipotesi dei pm: tra il 2013 e il 2018 parte del tesoro della Lega, depositato presso la banca Aletti, sarebbe passata all’Associazione Maroni Presidente. Di qui quasi 500 mila euro sarebbero andati alle due società tipografiche per la realizzazione di campagne elettorali (soprattutto per il “sì” al referendum per l’autonomia di fine 2017). Ma, sostengono i pm, poster e volantini non sarebbero stati stampati e il denaro sarebbe tornato nelle casse della Lega; sarebbe il provento della truffa ai danni del Parlamento. Di qui l’ipotesi di riciclaggio.

La storia era scritta in un esposto di 30 pagine depositato alla procura di Milano nel febbraio 2018. A firmarlo l’ex consigliere regionale Marco Tizzoni eletto nel 2013 con la lista Maroni Presidente. Si leggeva: “Nello statuto dell’Associazione Maroni Presidente sono segnalati gli scopi e nessuno di questi risulta essere mai stato perseguito dai suoi membri… Vi è il sospetto che l’associazione sia stata tenuta nascosta a noi consiglieri dovendo servire quale soggetto occulto di intermediazione finanziaria in favore della Lega o di terzi”. Il fascicolo fu aperto e nel registro degli indagati venne iscritto Galli (appropriazione indebita) che poi ottenne l’archiviazione. Ma la Procura di Genova ha ripercorso la storia ritenendo di aver trovato traccia dei 49 milioni: nei bilanci dell’associazione si parla di quasi mezzo milione che risulta restituito al partito, senza che siano specificati i passaggi bancari. Ora i pm genovesi vogliono ricostruire il percorso del denaro che, in due fette da oltre 200 mila euro, è andato alle società perquisite (soci e amministratori non sono indagati). Da qui sarebbe tornato al partito.

Boniardi nega: “Abbiamo fornito alla Finanza la documentazione contabile richiesta. Il materiale di propaganda è stato realmente stampato e spedito per corriere”. Ma è vero che una parte del materiale richiesto dagli investigatori è stata negata? “Nel mio pc e nel server aziendale c’erano file sulla mia attività parlamentare. Per questo mi sono opposto”.

L’Associazione Maroni Presidente ha continuato a svolgere la sua attività anche dopo le elezioni 2013. Come racconta Boniardi e come risulta dal sito si è impegnata per il referendum del 2017 e ha sostenuto l’attuale governatore Fontana. Tra i fondatori, oltre a Galli, compaiono altri nomi noti del Carroccio (non toccati dall’inchiesta). Ci sono Andrea Cassani – sindaco di Gallarate indagato per turbativa d’asta nell’indagine milanese sulle tangenti legate a Nino Caianiello – e Aurora Lussana, ex direttrice della Padania e moglie di Nicola Molteni, ex sottosegretario di Matteo Salvini. Nel consiglio direttivo anche Stefano Candiani, sottosegretario agli Interni con Salvini ministro.

“Con la minaccia il potente parte avvantaggiato”

Ci sono le letterine di “avviso” della presidente del Senato al Fatto, ma anche gli espliciti avvertimenti dell’ex premier Matteo Renzi: “Ho attivato 80 azioni civili e non avrò alcuna timidezza a chiedere i danni”. È l’effetto annuncio di azioni legali l’ultima moda nei rapporti tra politica e stampa. Ne abbiamo parlato con Caterina Malavenda, avvocato specializzato in diritto dell’informazione. Che fa un’indispensabile premessa: “La legge consente a chi si ritenga diffamato di agire in sede penale e civile per vedere ristorati i danni e condannato il colpevole. Intendo dire che finché ci si limita alle azioni legali, si esercita un diritto costituzionale”.

C’è un ma?

Certo. Tutt’altro discorso è l’annuncio urbi et orbi di una futura azione legale, ripresa e rilanciata dagli organi di informazione, uno strumento cui può ricorrere solo l’uomo pubblico: un’analoga iniziativa del comune cittadino sarebbe ignorata. Non sempre poi all’annuncio seguono i fatti, sicché è molto più comodo ed efficace intanto farlo e poi riflettere sul da farsi, tanto l’effetto annuncio permane, con un evidente e inevitabile effetto deterrente.

Ecco: che effetto fa ai comuni cittadini secondo lei?

Pensano che chi si accinge ad agire abbia ragione, perché altrimenti non si esporrebbe. Quindi questi annunci generano un pregiudizio positivo a favore di chi li fa. Nell’immaginario collettivo una persona attrezzata culturalmente, con un avvocato alle spalle e certamente in grado di capire le conseguenze delle sue azioni, pensa di vincere la causa. Le buone ragioni di chi annuncia un’azione legale sono date, perciò, quasi per scontate. Poi, su cento azioni annunciate, se ne avviano molte meno e quando si arriva alla sentenza, ammesso che se ne parli, nessuno si ricorda più il fatto iniziale, ma intanto si è gettata un’ombra sul destinatario.

Se sei un ex premier o il presidente del Senato, sei sicuro di avere un titolo sul giornale.

Be’, i fatti dimostrano che è così. E aggiungo: nessuno dice mai “agirò legalmente e mi rimetterò al giudice per la decisione”, sono tutti sicuri di vincere, ma non entrando nel merito delle questioni impediscono al reprobo di difendersi e replicare.

Matteo Renzi ha detto che non avrà timidezze.

Ma che c’entra la timidezza? È un sentimento che è estraneo al diritto. Se chiedi un appuntamento a una ragazza e sei timido incontri qualche difficoltà in più, ma una causa si fa perché si ritiene di avere delle ragioni, non perché si vince la timidezza. Occorre, invece, essere cauti, per non incorrere in liti temerarie, ma questo è un altro discorso… Ecco la prudenza mi sembra una qualità più appropriata….

È in discussione in Senato la modifica della norma che prevede in caso di azioni temerarie un risarcimento da liquidare al cronista che è stato querelato o citato senza ragioni fondate.

Intanto lei ha detto cronista, e qui c’è un primo, serio problema: una norma giuridica non può valere solo per una categoria, sarebbe incostituzionale. Ho sentito poi il ministro Bonafede parlare, in caso di azioni temerarie in sede penale, di somme destinate Cassa delle ammende, mentre sarebbe meglio privilegiare coloro che le subiscono e debbono affrontare spese per difendersi.

La proposta del senatore grillino Di Nicola prevedeva una sanzione pari al 50 per cento della somma risarcitoria richiesta, ma in commissione la soglia è stata abbassata al 25.

Non credo sia tanto un problema di quanto viene riconosciuto. Oggi esiste una norma che consente al giudice di liquidare, in via equitativa, un danno se la causa è temeraria, un’indennità se vi è stato il meno grave abuso di processo. Sono due gradi di responsabilità diversa, ma il cui riconoscimento è rimesso al giudice civile. In genere l’indennità è pari alle spese processuali e il danno è a quantificazione variabile. Ora il punto non è tanto stabilire delle soglie, quanto incentivare il riconoscimento della responsabilità di chi non avrebbe dovuto agire, cosa che, nella mia esperienza, accade assai raramente, nonostante la Cassazione sanzioni l’abuso di processo con una certa severità.

Il problema a monte rimane la solvibilità dell’obbligato. Possono anche liquidare 100 mila euro, ma se chi ha agito risulta nullatenente è inutile. Meglio sarebbe ipotizzare una sorta di cauzione a carico di chi agisce, a garanzia dell’eventuale condanna, ma so già che è molto difficile, perché porrebbe un limite economico ingiusto. Non se ne esce, forse è meglio lasciar perdere i politici e occuparsi della foca monaca che non sa scrivere…

La casa di Formigli online: pure Renzi ha la sua Bestia

“Forse c’è una bestia… forse siamo soltanto noi”: il dialogo è dal romanzo Il Signore delle Mosche di Golding, ma si addice molto a quanto accade sui social in queste ore, a cavallo tra politica, cronaca e digitale.

Da un lato c’è Matteo Renzi, ex premier e oggi leader di Italia Viva: è stato paladino del contrasto all’odio sui social, promotore diretto e indiretto di leggi bavaglio contro l’anonimato online, in prima linea nella battaglia per identificare pagine, gruppi, profili che dalla Lega ai Cinque Stelle risultassero collegati alla Russia anche solo tramite lontani parenti. L’uomo anti fake news, anti odio, del politically correct online, con lo sguardo traverso di chi su questi temi sembra sempre di saperne più degli altri. Dall’altro c’è Corrado Formigli, giornalista e conduttore su La7 di Piazza Pulita, reo di aver intervistato Renzi il 5 dicembre in trasmissione e di avergli chiesto conto della cronaca di questi giorni, ovvero dell’indagine dei pm toscani sulla Fondazione Open e sulla questione del prestito di 700mila euro da parte di un finanziatore per la villa di Firenze: una notizia, insomma, trattata da una persona che faceva il suo lavoro e che solo così avrebbe potuto e dovuto farlo. Ci si può quindi immaginare la sorpresa nello scoprire che l’ondata denigratoria e violenta nei confronti del giornalista non arriva né dalla addestrata Bestia di Salvini, tantomeno dalla macchina web della Casaleggio, ma dalle pagine e dai gruppi sostenitori proprio di Italia Viva: basta una breve ricerca per risalire all’origine e capire attraverso chi si propaga. A condividere il primo commento contro Formigli è un utente in un gruppo che si chiama ITALIA VIVA (in maiuscolo) poco dopo l’intervista. “Ma a questo pezzetto di cacca secca nessuno chiede come ha trovato LUI i soldi per comprarsi tre anni fa la casa dei miei in Prati, che gli è costata più di quella di Matteo Renzi? Ma ci rendiamo conto a cosa abbiamo assistito stasera?”, si legge in un post. Si definisce un renziano sin dalla seconda Leopolda, è un attivista dei diritti Lgbt, la sua immagine di copertina ha ritrae un “I love Matteo” con l’immagine di Renzi. La reazione è immediata: c’è chi chiede più informazioni (che arrivano, con descrizione dettagliata di metratura, indirizzo, vicini di casa e finanche la fotografia: insomma, oltre ad essere identificabile l’arredo lo è anche la posizione) e in pochissimo si crea l’ondata di vendetta digitale per difendere l’onore violato del leader di Italia Viva. Il post e la foto iniziano a rimbalzare in tutti i gruppi di sostegno a Italia Viva: li condividono soprattutto uomini e donne ultracinquantenni, scrivono in maiuscolo, un commento dopo l’altro, istigano altri a diffonderlo. “Sei un PORCO e sarai trattato da PORCO” è una delle espressioni più gentili rivolte a Formigli. Chi le scrive anima pagine locali di Italia Viva, gruppi, ha nelle immagini di copertina e del profilo riferimenti al simbolo o anche al movimento delle sardine. “Italia Viva partito della nazione”, “Simpatizzanti liberi con Matteo Renzi e Italia Viva” o “Siamo renziani di Italia Viva” sono i nomi di alcune delle pagine. E cosa fa Renzi per distendere i toni?

Un furbo tweet con tre cose: dice che è “inaccettabile” fotografare la casa di un giornalista, poi informa di aver ricevuto degli sms dal giornalista (informazione che non era comunque autorizzato a diffondere perché, spiega Formigli al Fatto, “non volevo rendere pubblica la vicenda per evitare l’eco mediatica, ma solo adire vie legali e con denunce, come ho fatto” e poi istiga, volente o nolente, il pubblico social. “Violare il segreto d’ufficio o la proprietà privata per far foto dentro casa mia invece è ok?” conclude. Così si nutre la Bestia. “Vorrei mandare un abbraccio a tutti coloro che lottano sulla rete per difendere le nostre idee – ha scritto ieri su Facebook –. Siete stati massacrati da troll per anni con Fake News e adesso vi attaccano persino sui giornali, solo perché difendete la verità e le vostre idee. Vi abbraccio forte forte”.

Elisabetta Casellati cuore di mamma (e di megavitalizio)

Dopo aver occupato l’ingresso del palazzo di Giustizia di Milano, assieme ai colleghi di Forza Italia, per protestare contro la “persecuzione dei magistrati” di Silvio Berlusconi, il 24 marzo 2018 inopinatamente l’avvocato Maria Elisabetta Alberti Casellati ha occupato lo scranno più alto di Palazzo Madama. Il centrodestra compatto e i 5S inebriati l’hanno eletta presidente del Senato, la prima donna, la seconda carica dello Stato. Fu allora accolta dall’esile opposizione con la riesumazione di una vicenda imbarazzante, ai tempi della nomina a sottosegretario al ministero per la Salute.

Nell’inverno del 2005 e del terzo governo Berlusconi, Casellati reclutò da Publitalia, concessionaria pubblicità di Mediaset, il capo della segreteria Ludovica Casellati, sua figlia. I 5S non sapevano e al centrodestra non importava che la medesima Ludovica, in quei giorni, stesse per terminare la consulenza di comunicatrice di Barbara Degani, sottosegretaria all’Ambiente negli esecutivi di Renzi prima e Gentiloni poi, già presidente della provincia di Padova, la città dei Casellati, e cara amica di Elisabetta.

Ludovica ha intrapreso una carriera nell’editoria della cosiddetta mobilità sostenibile, con una società dedicata, un portale che si chiama Viaggi in bici e un protocollo d’intesa, addirittura con l’Anci, l’associazione nazionale dei comuni, per premiare ogni anno con l’Urban Award i municipi che investono nei trasporti a due ruote. Il contatto con l’Anci, come scritto dal Fatto, fu agevolato anche dal sottosegretario Degani. Il 24 maggio 2018, Casellati mamma e figlia hanno visitato la fondazione Iseni e incontrato il patron Fabrizio Iseni, imprenditore nella sanità privata, e la sera Casellati mamma ha partecipato a un evento dell’associazione “Il sogno che va” del cavaliere Rosario Rasizza, amministratore delegato di Openjobmetis. Nel 2018 e nel 2019, la fondazione Iseni è stata tra gli sponsor di Urban Award di Casellati figlia, nel 2019 lo diventa Openjobmetis, che il 14 ottobre 2018, al Pirellone di Milano, ha presentato la sezione dedicata alle badanti con il patrocinio del Senato, che viene sempre concesso dagli uffici del presidente. Il 26 giugno 2018 Casellati partì per una visita negli Usa tra Washington e New York. Il 2 luglio Casellati fu una giornata non piena in quel di New York, la mattina un salto all’apertura di Wall Street, una corona di fiori al memoriale dell’11 settembre e pranzo da Eataly, l’agenda del pomeriggio era vuota, finché il Fatto non scoprì che il vero impegno era il concerto a Central Park del figlio Alvise, direttore d’orchestra. Alvise è il promotore di Opera italiana is in the air, Eataly ha sostenuto l’edizione 2018. I voli Roma-Venezia (6 giugno 2019), Venezia-Roma (10 giugno 2019) e Roma-Parigi (12 giugno 2019) di Alitalia hanno patito ritardi o disguidi a bordo per i capricci della presidente del Senato, che per esempio non voleva salire a imbarco non completo, come riportato nelle relazioni dei capi degli scali. Più di recente, di Casellati si ricorda la foto-spot al fianco della stilista di fiducia e al di lei figlio condannato per aver palpeggiato due modelle.

Una disattenzione, anche se sin dall’inizio, con parecchia attenzione, ha vigilato sulla trasparenza del Senato, per limitarla, e sulle interrogazioni dei senatori. E se ne sono accorti quelli del Pd al momento del dibattito sull’inchiesta Moscopoli che tange la galassia leghista. Con ben tre atti di sindacato ispettivo firmati dai dem e dichiarati inammissibili, perché per Casellati il Senato “non può essere il luogo del dibattito che riguarda pettegolezzi giornalistici”. L’autunno scorso s’è esercitata molto sui vitalizi, in particolare uno: il suo.

Mentre veniva battezzata la riforma sul taglio agli assegni degli ex senatori, gli organi di giustizia interna di Madama le assegnavano gli arretrati da lei richiesti anche per il periodo in cui era stata al Csm: in primo grado il Senato le aveva risposto picche, ma in appello, quando era già presidente, la decisione era stata rivista, nonostante il regolamento interno sui vitalizi vieti il cumulo con i ricchi assegni che spettano a chi ricopra incarichi come il suo al Csm.

Inutile chiedere lumi all’interessata sulla sentenza che le ha dato ragione. O richiamarsi al regolamento sulla trasparenza adottato finalmente anche al Senato, ma che contiene molte limitazioni ed esclude il diritto di accesso anche “nei confronti dell’attività diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione”. Inaccessibili gli atti di nomina (con i relativi compensi) di iniziativa della presidente a partire da quello del suo capo di gabinetto, l’ex ministro forzista Nitto Palma. Che è tra i ricorrenti contro il taglio dei vitalizi su cui si dovrà pronunciare la Giunta presieduta dall’azzurro Giacomo Caliendo e nominata dalla Casellati che ha indicato nell’organismo anche un vecchio amico di Nitto Palma, l’ex magistrato Cesare Martellino che è proprio il relatore dei ricorsi presentati dagli ex senatori.

Voglia di bavaglio

Per vent’anni, a mo’ di battuta, abbiamo scritto che B. avrebbe continuato a vincere anche da morto perché, dopo il berlusconismo con B., sarebbe arrivato il berlusconismo senza B.. Ma in Italia non bisogna mai fare battute, perché poi si avverano. B. non è morto, ma non è mai stato così fuori gioco. Eppure il berlusconismo gli sopravvive allegramente presso terzi. Avreste mai immaginato che un giorno la presidente del Senato avrebbe scovato l’indirizzo privato di due cronisti per recapitare loro non una denuncia o una querela, ma una lettera minatoria che preannuncia una causa per danni? Neppure B. aveva osato tanto: madama Casellati sì. Avreste mai immaginato che un conduttore tv, reo di aver intervistato Renzi sui guai giudiziari dei suoi amici, dei suoi parenti e della sua villa, si sarebbe visto pubblicare sui social renziani la foto e l’indirizzo della sua casa privata? Neppure B.&C. avevano osato tanto: Renzi invece ha finto di indignarsi, poi ha aggiunto che chi la fa l’aspetti, come se Formigli fosse un senatore, il leader di un partito al governo, un pubblico ufficiale tenuto ai doveri di trasparenza, disciplina e onore, e come se la magistratura indagasse su casa sua anziché su quella di Renzi. Avreste mai immaginato che il bavaglio alla stampa sulle intercettazioni e gli altri atti d’indagine, cioè l’unica legge-vergogna tentata e fallita per vent’anni da B., l’avrebbe realizzata il Pd renziano col suo ministro della Giustizia Andrea Orlando?

Eppure è quel che accadde due anni fa, poco prima delle elezioni del 4 marzo che punirono il berlusconismo con B. (FI) e il berlusconismo senza B. (Pd). Alla Giustizia arrivò Alfonso Bonafede, che iniziò a deberlusconizzarla con la Spazzacorrotti, la blocca-prescrizione, la riforma del voto di scambio, le manette agli evasori e il rinvio del bavaglio, in attesa di trovare un partner di governo disposto a smantellarlo. Salvini non ci pensava proprio, con tutti gli indagati che ha e prevede di avere in casa. Si sperava nel Pd derenzizzato da Zinga. Col cavolo. Ora che, senza nuovi rinvii, il bavaglio scatta dal 1° gennaio 2020, le Procure sono in allarme: sia per il sistema assurdo e incostituzionale che introduce, sia perché non contiene una norma transitoria che regoli le intercettazioni nelle indagini in corso (quelle avviate col vecchio sistema devono passare in corsa al nuovo, o questo vale solo per le inchieste avviate dopo il 1° gennaio?). Mancando 20 giorni, la soluzione più ragionevole è un altro rinvio per ripensare tutta la legge. Ma è bastato che Bonafede affacciasse l’ipotesi per scatenare gli alti lai del Pd.

Lo scopo della legge Orlando è chiaro: impedire ai giornalisti e dunque ai cittadini di conoscere gli scandali che emergono da intercettazioni. Siccome gli atti d’indagine, una volta depositati alle parti, non sono più segreti, i cronisti li possono raccontare. Soluzione: impedire ai pm e agli avvocati di conoscerli, così resteranno occulti a tutti. Con tanti saluti all’obbligatorietà dell’azione penale, al diritto alla difesa e all’informazione. Funziona così. Oggi l’ufficiale di polizia giudiziaria ascolta tutte le intercettazioni e le riassume in un brogliaccio, così pm e avvocati possono chiedere che vengano trascritte quelle che ritengono utili per l’accusa e la difesa. Domani invece il poliziotto non potrà più inserire nei brogliacci intercettazioni che lui, nella sua discrezionalità, ritiene penalmente irrilevanti o relative a “terzi non indagati” (le risate degli imprenditori dopo i terremoti, B. che raccomanda le sue girl alla Rai o traffica con l’Agcom per chiudere Annozero, Fassino che chiede a Consorte “abbiamo una banca?”, Renzi che dà del bugiardo al babbo su Consip, le polizze vita di Salvatore Romeo col nome della Raggi, la ministra Guidi che caldeggia la norma pro petrolieri caldeggiata dal fidanzato lobbista ecc).

Così quel materiale, che i cittadini devono conoscere e i cronisti raccontare, resterà in mano alle forze di polizia che, diversamente dalla magistratura, dipendono dal governo, con conseguenze facilmente prevedibili. Gli agenti in malafede potranno usarlo per ricattare tizio o caio, barattando il silenzio con uno scatto in carriera. E, se c’è di mezzo qualche loro collega, o amico, o superiore (pensiamo ai carabinieri del caso Cucchi o ai poliziotti del G8 di Genova), potranno “dimenticare” qualche intercettazione anche se è penalmente rilevante, anzi proprio per questo: tanto nessun pm avrà mai il tempo di passare mesi a riascoltarle tutte per scoprire le eventuali “sviste”. Non solo. Una frase che oggi appare irrilevante può diventare importante domani, per accusare o scagionare qualcuno, alla luce di nuovi elementi acquisiti: ora il pm o l’avvocato sa che esiste grazie al brogliaccio e può recuperarla; domani non più, perché il brogliaccio sarà muto e nessuno (a parte l’agente che l’ha compilato) saprà che quella frase è stata pronunciata, salvo che uno disponga di una buona cartomante. E i difensori avranno ancor meno speranze dei pm di scoprire se è stato nascosto un elemento rilevante: potranno ascoltare tutti gli audio per soli 10 giorni, senza leggerne la trascrizione né estrarne copia né prendere appunti. Nel 2010, quando B. tentava di far passare questa porcheria, giornalisti ed editori manifestavano in piazza e Repubblica usciva costellata di post-it gialli con lo slogan “Quello che non potremo più pubblicare”. Anche il Fatto aderì alla campagna, pensando che fosse una battaglia di principio. Invece era puramente strumentale: ce l’avevano con B., non col bavaglio. Infatti, oggi che lo vuole il Pd, tutti tacciono e acconsentono. Dovrebbero uscire con dei post-it marroni e lo slogan: “Basta intercettazioni, se no poi ci tocca pubblicarle”.

Scarda il cinico, che smette quando vuole

Come avvocato non sarebbe stato un principe del Foro. Laurea con 80/100, tesi sul diritto economico. Meglio Paolo Conte, se cerchi un azzeccagarbugli fra i cantautori. “Non era mia intenzione esercitare!”, protesta Domenico Scardamaglio, in arte Scarda, che sembra piuttosto voler emulare Guccini. “La mia passione è la scrittura. Ho riletto da poco un romanzo che avevo buttato giù a vent’anni, Non resta che bussare. Lo stile è pessimo, ma la trama non era male. Parla di un cantante che lascia tutto per cercare la sua donna scomparsa. Alla fine diventa un giallo”. Niente autobiografia, giura il nuovo nome caldo della scena pop: “Io non mollerei mai. Ho composto le prime canzoni affidabili a 26 anni, ora tiro dritto”. Scarda non è più un ragazzino: nato nell’86 a Napoli, ha vissuto con la famiglia a Vibo Valentia, poi l’università lo ha catapultato a Roma, dove ha fatto la gavetta nei locali in cui è germinato il nuovo indie. “Che oggi ha mutato pelle. I cantautori si sono formati in gran parte nella Capitale, mentre a Milano le major li hanno tenuti d’occhio, per poi ingaggiarli. Così, a suon di contratti, chi era ruspante si ritrova in breve tempo nei palazzetti, vuole che i suoi pezzi vengano passati nelle radio, e che gli sponsor gli finanzino i post sui social. Un salto che può rivelarsi traumatico. Ma se tieni botta non c’è nulla di male: basta trovare il giusto compromesso. Anch’io sono a un bivio: aspiro a milioni di streaming”, giura ridendo Scarda. Di certo, è alla fine di un tour (ultime date il 12 a Bologna e il 14 a Roma) che lo ha visto fare sold-out nei club di tutta Italia con un repertorio malandrino (chitarra d’antan, suono da fine anni Dieci, testi brillanti) basato sui due album I piedi sul cruscotto e il recente Tormentone, più una candidatura ai David nel 2014 per il contributo a Smetto quando voglio di Sibilia.

“Il mio pubblico dovrebbe essere composto da ultraventenni, ma vengono un sacco di adolescenti. Mi stupisco quando rivelano di essersi innamorati con le mie canzoni. Poi magari tornano dopo essersi lasciati, e provo sollievo. Alla mia età rivendico il diritto a un sano cinismo. Creativo, almeno”.

“Ko De Mondo”: 25 anni fa, il rock da cui tutto partì

Poche volte il rock italiano si è inerpicato in una strettoia in salita come nella realizzazione di Ko De Mondo, riproposto con una nuova masterizzazione e un prezioso dvd con le immagini della realizzazione. Era il 1994 e dalle ceneri dei Cccp e dalla frattura dei Litfiba si creò una originale alchimia, sfociata nel concerto Maciste contro tutti – con Disciplinatha e Üstmamò, poi pubblicato anche su disco. Con Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Giorgio Canali, Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli si unirono Pino Gulli, Alessandro Gerbi e Gineva Di Marco, per isolarsi in un maniero a Finistèrre, in Bretagna in un inusuale processo creativo. Ferretti smise di urlare e cantare la rivoluzione per decifrare il suo mondo interiore analizzando il rapporto tra l’uomo e la realtà, interrogandosi sul significato di civiltà, religione, esistenzialismo, istinto, guerra. Ciò che non cambiò fu il tono apocalittico, enfatizzato dal suo timbro vocale, talmente vibrante (Memorie di una testa tagliata) da inquietare. Chi frequentò i CSI restò spiazzato nello scoprire alcune semplici usanze rispettate da tutti i componenti: democratici nelle decisioni e decisi nel vivere come collettivo, scambiandosi persino le felpe e le tshirt. A Finistère si creò una magia unica, tra passeggiate nella natura e cibo cucinato vicino al camino a legna. C’è un grande equilibrio tra alcune anime diametralmente opposte tra loro, con estremi facilmente individuabili (la soffice Intimisto contrapposta alla punkettona Occidente). Del Mondo scavò sulla dualità dell’essere umano, tra carnalità e spiritualità (“cavità di donna che crea il mondo, veglia sul tempo lo protegge. Contiene membro di uomo che s’alza e spinge, insoddisfatto poi distrugge”). In viaggio contiene i semi di Tabula rasa elettrificata, con un rock scarnificato all’osso scevro da ogni melodia e dotato di una rara capacità di creare un nuovo immaginario. A tratti influenzerà tutto il rock italiano seguente – dai Marlene Kuntz a Le luci della centrale elettrica – eppure, mentre crescono gli epigoni, Ferretti inizierà a indossare una coda di cavallo sugli occhi, per proteggersi dal sopraggiunto ruolo di rockstar (“Non fare di me un idolo, lo incendierò”). Cosa resta di Ko De Mondo? Il sound, un vero marchio di fabbrica, i testi di Ferretti e il suo controcanto con Ginevra Di Marco, unico nel suo genere (persino un brano di MinaFossati si ispira a loro, Come volano le nuvole).

E dopo un viaggio a Mostar, con le ceneri della guerra post-Jugoslavia ancora accese, crollò anche l’intesa intellettuale del collettivo. Ognuno per la propria strada. Sino all’ultimo tentativo di rimettere in piedi i CSI con Angela Baraldi, nel fallito tentativo di riportare sul palco Ferretti, inconciliabile ormai. Del resto la visione del loro percorso era stata espressa in Fuochi nella notte: “Chi è stato è stato e chi stato non è”.