“Noi traduttori: i veri braccianti intellettuali”

“Bisogna lavorare tutti i giorni, tante cartelle per questo e quello e quell’altro, fino a far pari, anche la domenica. Se ti ammali non hai mutua, paghi medico e medicina lira su lira, e per di più non sei in grado di produrre, e ti trovi doppiamente sotto”. Quasi sessant’anni dalla Vita agra di Luciano Bianciardi e poco è cambiato. Le condizioni in cui il traduttore editoriale opera oggi in Italia sono ancora quelle degli anni Cinquanta. Siamo insomma braccianti intellettuali, mal pagati e privi di tutele sociali nell’ambito sia della salute che della previdenza.

La traduzione editoriale nel nostro Paese è riconosciuta dalla legge come opera d’ingegno, ma contrariamente a quanto avviene in molti altri Paesi d’Europa, come Olanda, Svizzera, Francia e Germania, noi non percepiamo percentuali sulle vendite dei nostri libri, salvo rarissime eccezioni. Eppure il traduttore è di fatto l’autore dell’opera che i lettori di altre lingue comprano, leggono, amano e citano.

In Italia, dove peraltro i fatturati dell’editoria son ben più modesti che in Francia, perché ben più modesta è la percentuale dei lettori, salvo rare eccezioni, ai traduttori viene corrisposto un compenso a cartella di 2000 battute, che soltanto nel migliore dei casi supera i 18 euro lordi, partendo spesso da cifre invereconde; la media per un traduttore di lungo corso si aggira sui 15/16 euro. In Francia o Germania, invece, i nostri omologhi guadagnano tra i 20 e i 30 euro a cartella da 1600/1800 battute e, se il reddito supera una soglia da cui si evince che la traduzione per loro è un mestiere e non un simpatico hobby, godono di contributi versati dallo Stato in apposite casse per gli artisti. In più possono scaricare le spese, compresi i libri acquistati per diletto, perché tutto – letteralmente tutto – per un traduttore può diventare materia di studio.

Quello del traduttore è un mestiere che non si improvvisa. Tradurre significa accumulare decenni d’esperienza, in ambiti che possono spaziare dalla narrativa alla saggistica. Significa avere la responsabilità di dare voce a grandi autori. La traduzione è in parte una battaglia da cui si esce quasi sempre vincitori, ma anche un po’ (consapevolmente) sconfitti. Per esempio, nel caso di Simenon – di cui sono una delle voci italiane – le difficoltà sono paradossalmente quelle dovute all’apparente semplicità della scrittura: il ritmo, la scansione del testo idiosincratico, la punteggiatura e l’alternanza dei tempi verbali, le stesse scelte lessicali, tese a creare in modo sensoriale la famosa “atmosfera” simenoniana, le “mots-matières”, parole semplici ma precisissime ed evocative, capaci di rendere in modo netto un odore, una luce, un’espressione del volto. Impossibile trasportarle in un’altra lingua se non si hanno le stesse doti che deve avere uno scrittore: una spiccata sensibilità linguistica e una grande padronanza della scrittura.

Ho una formazione umanistica, appartengo a una generazione di traduttori che si è formata con la pratica quotidiana, cominciando a tradurre “senza rete”, ossia senza una preparazione specifica, ma con ottime basi culturali e linguistiche.

Negli ultimi anni sono nati moltissimi corsi, master e scuole di traduzione letteraria ed editoriale, ma il nostro resta un mestiere che non si impara in poche ore di laboratorio, così come un diploma o un master non garantiscono la maturità del traduttore, che nel corso della carriera deve invece seguire, come ogni professionista, una formazione continua.

In questa direzione va, ad esempio, “Laboratorio italiano”, programma interamente finanziato e dedicato ai traduttori madrelingua italiani, inaugurata dalla Casa dei traduttori Looren di Zurigo. Su questo piano, la Svizzera coltiva infatti la sua terza lingua nazionale molto più di quanto non faccia l’Italia, dove nel pubblico come nel privato è quasi impossibile reperire fondi con cui sostenere programmi di formazione continua a medio-lungo termine. Oltralpe sono comunque tante le esperienze virtuose. Strade, il sindacato dei traduttori editoriali, da anni è impegnato a farle approdare anche in Italia.

Quello che le istituzioni devono capire è che la traduzione non va considerata soltanto il prodotto di un’industria culturale: la traduzione è una risorsa e uno strumento fondamentale per la circolazione delle culture e dei sistemi di pensiero contro l’appiattimento e l’omologazione, un modo per salvaguardare le diverse identità culturali e insieme metterle in dialogo, aprire gli orizzonti a mondi diversi. La lingua dell’Europa è la traduzione, ricordava Umberto Eco. E mai come in questo momento l’Europa ha bisogno della traduzione e dei traduttori per riposizionarsi nel circuito dei grandi flussi di culture e popoli che da sempre l’hanno attraversata. Sostenere la traduzione è sostenere un’idea di futuro e non può non riguardare un investimento politico e una responsabilità istituzionale.

Altro che Donbass, quello che conta è il gas

Al termine di una giornata densa di colloqui, il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo ucraino Volodimyr Zelensky si sono incontrati ieri a Parigi per il loro primo faccia a faccia. All’uscita del summit Putin si è detto “soddisfatto”. Nella capitale francese era presente, oltre al padrone di casa Emmanuel Macron, anche la cancelliera Angela Merkel; entrambi hanno riposto nella riunione le speranze di ottenere una pace stabile. “Abbiamo bisogno del consolidamento del cessate il fuoco, dello sminamento lungo la linea di contatto, di definire nuove zone di disimpegno dei combattenti, di prevedere nuovi scambi di prigionieri”, hanno detto all’Eliseo. Il conflitto che dal 2013 flagella il Donbass (la regione orientale ucraina al confine con la Russia) e ha fatto almeno 14.000 vittime. Il formato a quattro, detto “Normandia”, si riferisce al quartetto che si riunì durante la commemorazione del 70° anniversario dello sbarco in Normandia, il 6 giugno del 2014. Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky si sono parlati dopo la conferenza stampa congiunta dei quattro leader. Non è rimasta sullo sfondo la “questione energetica”.

Il problema dell’approvvigionamento e del transito del gas russo attraverso l’Ucraina è deflagrato anch’esso con la rivoluzione di EuroMaidan di cinque anni fa. Che il ‘gas’ sia una delle più dolenti e dirimenti note del rapporto tra Kiev e il Cremlino, lo dimostra il fatto che Putin sia arrivato nella capitale francese con l’amministratore delegato del gigante statale Gazprom, Aleksej Miller, e il ministro dell’Energia russo Aleksander Novak. Zelensky era a sua volta affiancato dal ministro ucraino dell’Energia, Oleskiy Orzhel, e dal direttore esecutivo di Naftogaz, la società nazionale di petrolio e gas ucraino, Yuriy Vitrenko. Alla fine del mese scorso, l’Ucraina ha esultato: la Corte d’appello svedese, lo scorso 27 novembre aveva confermato la sentenza del marzo 2018 emessa dal tribunale arbitrale di Stoccolma che ha ordinato al monopolista del gas controllato dal Cremlino, Gazprom, di pagare più di 2,5 miliardi di dollari all’Ucraina Naftogaz per una controversia contrattuale riguardante la fornitura e il transito del gas. Il giorno precedente, il vertice della società petrolifera aveva celebrato il quarto anniversario della decisione di Kiev di iniziare a comprare gas dall’Occidente anziché dalla Russia. Tre settimane fa, una nave cisterna con 90 milioni di metri cubi di gas liquido naturale (Gnl) acquistata dalla società privata Energy Resources of Ukraine, è arrivata a un terminale polacco. Il gas liquido era giunto dagli Usa, come si evince dal tweet dell’ambasciata americana in Ucraina che descrive l’arrivo della gasoliera come “un altro passo per aiutare l’Ucraina a raggiungere l’indipendenza energetica”.

Ma anche l’acquirente è cauto riguardo a qualsiasi fornitura a lungo termine di Gnl americano. “Non è possibile parlare di contratti a lungo termine su forniture di Gnl all’Ucraina e dell’acquisto di importi significativi”, ha dichiarato il partner amministrativo di Eru, Yaroslav Mudryi. Numerosi esperti vedono le vittorie dell’Ucraina nella “guerra del gas” come quelle di Pirro. Kiev potrebbe anche finire per perdere la guerra dato che Mosca assicura percorsi alternativi di transito del gas verso l’Europa, mentre i nuovi fornitori dell’Ucraina, che è da tempo a corto di liquidità, sono più costosi. Del resto c’è un legame tra Russia e Ucraina che le rende scomodamente dipendenti l’uno dall’altro: una rete di condutture dell’’era sovietica che trasportano le esportazioni russe di gas naturale verso l’Europa e fungono da pilastri della potenza economica del Cremlino. Fra un mese scadrà il contratto di transito di 10 anni tra Ucraina e Russia e non ci sono ancora soluzioni in vista.

Fuori dai Giochi fino al 2023. Atleti pronti a lasciare Mosca

“Una tragedia”. “Una giusta punizione”. “Politica”. Mosca è silente, poi borbotta, infine urla dopo la decisione dell’agenzia mondiale antidoping. Alla Russia la Wada, ha detto di nuovo niet. Bandita dalle Olimpiadi di Tokyo dell’anno prossimo e da quelle del 2022 a Pechino. Bandita dai campionati del mondo, dalle Universiadi, dai campi di gioco e dai podi per i prossimi quattro anni. Per lo stesso periodo rimangono fuori i membri dell’Rpc, Comitato paralimpico russo e Roc, comitato olimpico. Gli atleti di Mosca fissano l’orizzonte del loro futuro, che da ieri si palesa di nuovo con i colori della bandiera neutrale. Sotto il tricolore patrio non potranno gareggiare ai campionati gli sportivi del Paese su cui ora pende anche il divieto di ospitare qualsiasi competizione sportiva.

Questa scelta è “il continuo dell’isteria anti-russa, ormai è diventata una condizione cronica” ha detto Dimitry Medvedev e per il Cremlino “la Wada sta cercando di dividere lo Stato e i suoi atleti, questo non è sport. È politica”. Il muro delle versioni ufficiali però è frantumato da voci fuori dal coro, quelle possenti di chi ha già molte medaglie d’oro al collo. “Abbiamo avuto quello che meritavamo, sono d’accordo con la decisione della Wada” ha detto il campione russo di biathlon Aleksander Tikhonov. Parla di quelli che molti chiamano “atleti della Duma”, gli sportivi vicini al Cremlino che avrebbero “potuto darsi da fare per sistemare le cose” ma sono rimasti fermi. Che nel suo Paese si ricorresse al doping sistematicamente è certo l’ex tennista Evgeny Kafelinkov: “la reputazione dello sport russo si sarebbe potuta salvare se i colpevoli avessero detto “ho sbagliato, perdonatemi”. Molti sono rimasti zitti, pochi stanno facendo il contrario. Per Yuri Ganus, capo della Rusada, agenzia russa antidoping, “è una tragedia e molti atleti stanno contemplando di lasciare la Russia”, quel Paese che secondo Craig Reedie, presidente Wada, poteva cambiare, “ricongiungersi alla comunità antidoping globale” ma ha continuato “a mantenere una posizione di inganno e negazione”.

Per la Wada la Russia ha fallito di nuovo: ha manomesso le informazioni fornite per far procedere le indagini, fornito dati accompagnati da prove false o quasi distrutte, insieme ai campioni dei test antidoping, che avrebbero permesso nei dossier di evidenziare i nomi di chi aveva fatto ricorso a sostanze vietate. Le discrepanze nei dati forniti per far continuare le indagini “sono dovute a problemi tecnici del laboratorio”, ha spiegato Pavel Kolobkov, ministro russo dello sport. La Mosca che ha ammesso infine il ricorso al doping dei suoi atleti, evidenziato dal rapporto McLaren del 2015, ha continuato a negare le responsabilità delle sue istituzioni e autorità sportive nell’organizzazione di quello che costituiva un metodo sistematico e non un’eccezione.

Ora le discussioni andranno avanti alla Rusada, ha riferito Svetlana Zhurova, ma finiranno probabilmente in appello alla Cas, corte arbitrato per lo sport con sede a Losanna. “Nessuna sorpresa per questo risultato”, ha detto ferma Maria Lasitsekne, zarina del salto in alto. “Non ho mai creduto alle promesse di chi diceva che sarebbe stato tutto ok, continuerò a combattere per il mio diritto di gareggiare”. Prima ha attaccato i dirigenti russi per le riforme mancate: “Gli atleti puliti sono indifesi”, poi quelli americani dell’Usada. Alle Olimpiadi di Tokyo la Russia non ci sarà, sotto colore neutrale lei invece sì.

Il Labour, i Tory e la guerra ai seggi “marginal”

Meno due giorni alle elezioni. I conservatori sono ancora in vantaggio, con scarti che, a seconda dei sondaggi, vanno dai 14 punti che garantirebbero la maggioranza assoluta, ai 6 che promettono un Parlamento paralizzato. Ogni gesto, errore, dichiarazione può ancora avere un impatto sugli indecisi. Sullo sfondo di una fabbrica, Boris Johnson viene intervistato da Joe Pike di ITV, che sul proprio telefonino gli mostra un’immagine che nel Regno Unito da qualche giorno è virale. Ritrae Jack Williment-Barr, 4 anni, possibile polmonite, riverso su un mucchio di cappotti sul pavimento di un ospedale di Leeds che non ha letti disponibili. Johnson non guarda, parte in automatico con la propaganda elettorale, le promesse di maggiori fondi al Servizio sanitario, il mantra del voltare pagina, come se a governare da 9 anni non fosse il suo partito. Pike insiste. Johnson pur di non guardare si mette il telefonino in tasca. Il giornalista lo smaschera, Boris balbetta le scuse a lui e alla famiglia del bambino.

Ma è uno scivolone grave in una giornata difficile di tour in cui ha incontrato tanti focolai di contestazione, tanto da essere costretto a cancellare appuntamenti elettorali. Perché quell’incidente conta? Perché dimostra una totale mancanza di empatia in una fase in cui la vittoria potrebbe dipendere da poche decine di migliaia di elettori È il calcolo di Best for Britain, lobby anti-Brexit, secondo cui basterebbero 41.000 voti per cambiare i destini di 36 marginals, i collegi elettorali contesi dove i Tories nel 2017 hanno vinto con scarti minimi. La battaglia per Downing Street e il futuro del Paese si giocano lì, perché per il sistema elettorale britannico conta il numero di collegi vinti, non il totale dei voti nazionali. E il voto stavolta si decide su Brexit, sì o no, più che sull’asse della fedeltà al partito o della fiducia nei programmi elettorali. In una situazione così fluida, la differenza potrebbe farla il voto tattico, il voto utile in Italia: puntare sul candidato che ha più chance di fermare i Tories e concentrare il voto su quello, senza disperderlo sugli altri. Ergo: i conservatori pro Remain inorriditi dallo slogan di Johnson Get Brexit Done potrebbero votare per i Lib-Dem, che vuole cancellare il risultato del referendum, o i simpatizzanti lib-dem confluire sul candidato laburista. “Hold your nose”. Turarsi il naso e votare contro: una strategia di lunga tradizione italiana che qui potrebbe convincere fino al 10% degli elettori, Può funzionare? I Tories lo temono, e hanno scatenato una massiccia offensiva soprattutto nelle roccaforti laburiste leaver del nord-est e della Midlands. Dove il problema si chiama Jeremy Corbyn. “Cerchiamo di parlare del programma, ma è meglio se non nominiamo Corbyn” ammette uno dei volontari dell’armata laburista che in queste ore continua il porta a porta. Doodley North, Bishop Auckland, Peterborough, Rotherham. Aree post industriali che hanno votato Leave con percentuali oltre il 65%, ma che disprezzano l’ambiguità del segretario laburista sulla Brexit tanto da stracciare la tessera e addirittura votare conservatore, per la prima volta nella vita. Come dire, la Lega in Emilia-Romagna. E poi c’è la Scozia, dove i Tories sembrano reggere malgrado la defezione, in dissenso con Boris, della loro leader Ruth Davidson. Per il Labour è quasi certa una disfatta, tutta a vantaggio degli indipendentisti di Nicola Sturgeon.

Pensioni, il mago della riforma cade sulle polizze vita

Nel pieno della protesta contro la riforma delle pensioni, i francesi hanno scoperto che il “Monsieur Retraîtes” di Macron, l’uomo delle pensioni che sussurra all’orecchio del presidente le linee guida del contestato testo, è “strettamente legato” con il mondo delle assicurazioni. È stato Le Parisien a rivelarlo: Jean-Paul Delevoye, l’“alto commissario” per le pensioni del governo, è anche consigliere all’Ifpass, l’Istituto per la formazione delle professioni dell’assicurazione.

Un organismo, fondato nel 2004, “di riferimento per il settore”, ha detto una fonte anonima al quotidiano, “dove tutti gli assicuratori mandano a studiare i loro dipendenti”. E che è dunque legato alla FFA, la Federazione francese dell’assicurazione, principale organismo di rappresentanza delle società d’assicurazione francesi. Insomma, il Signor Pensioni in pubblico insiste sulla necessità di misure che peggiorano le condizioni pensionistiche dei lavoratori, con la soppressione dei “regimi speciali” più vantaggiosi, e in privato va a braccetto con chi tutti i giorni vende polizze vita a fondo pensione e si sta già sfregando le mani. Le Parisien ricorda che in un intervento al Journal du Dimanche, già un mesetto fa, il direttore di una nota società di assicurazione francese aveva commentato: “La riforma delle pensioni apre delle prospettive”. Il rischio di conflitto d’interesse appare evidente. Ma c’è di più. Delevoye ha omesso di indicare la missione all’Ifpass, che svolge a titolo gratuito, nella sua dichiarazione all’Authority per la trasparenza della vita politica, obbligatoria per chiunque occupi un posto ministeriale, consegnata a novembre ma resa pubblica sabato scorso. Colto in fallo da Le Parisien, sommerso da critiche a destra e a sinistra, il diretto interessato ha detto che si è trattato di una “dimenticanza”. Ma poi ha ammesso di aver commesso “un errore” e si è dimesso dall’Ifpass. Il ruolo di Delavoye nella riforma delle pensioni, che intende introdurre un sistema universale a punti, mettendo ordine nel complesso sistema pensionistico francese che conta 42 casse e regimi specifici, è stato determinante. A 72 anni, l’ex ministro di Jacques Chirac è un macronista della prima ora. Nel 2017 il presidente gli ha affidato l’incarico di compilare il rapporto che sarebbe servito come base della futura riforma. Lo scorso settembre è entrato al governo per spalleggiare l’esecutivo. Ancora ieri doveva incontrare i sindacati per tirare le conclusioni di mesi di dibattiti. L’“architettura della riforma” che il premier Edouard Philippe dovrà, per la prima volta, illustrare domani ai francesi è in gran parte opera sua.

Philippe Martinez, segretario generale del sindacato Cgt e uno dei volti principali della protesta contro la riforma, ieri ha boicottato l’incontro con Delevoye: “Gli assicuratori sanno che possono trarre vantaggi da questa riforma che spinge i francesi verso un’altro tipo di pensione, la pensione complementare mediante capitalizzazione”. Persino alcuni membri di LaRem, il partito di Macron, hanno ammesso che la situazione è “imbarazzante”. Mentre Anticor, l’associazione per la lotta alla corruzione, spiega che le dimissioni ora dall’Ifpass “non cambiano nulla” perché Delevoye sono già due anni che lavora sulle pensioni. Da giovedì scorso, primo giorno di mobilitazione, che ha portato un milione di persone nelle strade, la Francia si muove a rallentatore. Ieri mattina, con i treni e i trasporti pubblici fermi, si è creato all’ingresso di Parigi un traffico di 631 chilometri, un record per il 2019. Il Louvre ha dovuto chiudere delle sale per mancanza di personale. Oggi, nell’attesa degli annunci di Philippe, è di nuovo sciopero generale.

Marin, premier più giovane e con famiglia “arcobaleno”

Quando il potere è giovane e donna: accade in Finlandia, dove Sanna Mirella Marin, 34 anni, che oggi diventa capo del governo, è la più giovane premier al mondo, anche se un uomo può ancora fare meglio di lei: l’austriaco Sebastian Kurz, già divenuto cancelliere nel 2017 all’età di 31 anni – oggi ne ha 33: è nato nove mesi dopo Sanna – aspetta di tornare a occupare il posto, una volta fatto l’accordo di governo dopo le elezioni di fine settembre. Marin, figlia di due genitori dello stesso sesso, due donne, è stata scelta dai socialdemocratici, che sono al potere nel Paese, per succedere ad Antti Rinne in carica dal giugno, dopo avere battuto, nelle elezioni di aprile, i Veri Finlandesi, versione finnica del populismo europeo. Rinne, che aveva così riportato al potere, per la prima volta dopo vent’anni, i socialdemocratici, s’era visto ritirare l’appoggio del principale alleato, il Partito di Centro, dopo critiche alla gestione del servizio postale di proprietà statale.

Sanna, al momento ministro dei trasporti e delle comunicazioni, sarà anche la più giovane premier finlandese di sempre, la terza donna a ricoprire l’incarico. E sarà lei a rappresentare la Finlandia al Vertice europeo del 12-13 dicembre a Bruxelles. La Finlandia esercita attualmente la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue e la manterrà fino alla fine dell’anno. Eletta per la prima volta al Parlamento di Helsinki nel 2015, a trent’anni, Marin ha avuto un figlio dal suo compagno Markus Raikkonen. Nata a Helsinki, ha studiato a Tampere, dove cominciò a fare politica. La sua ascesa è un tassello dell’affermarsi del potere femminile in tutto il mondo, dall’Europa – Commissione europea e Bce, oltre che Germania – alla Nuova Zelanda, passando per l’Africa e l’Asia. Il potere femminile arretra solo in America Latina, dove una volta erano donne le presidenti di Brasile, Argentina e Cile.

Dopo Greta arriva Beata: la lotta diventa femminista

Se a tutte le ragazze venisse insegnato come amarsi ferocemente invece di competere tra loro e odiare i propri corpi, in quale mondo diverso e bello vivremmo. (“If all girls were taught how to love each other fiercely instead of how to compete with each other and hate their own bodies, what a different and beautiful world we would live in”). Firmato Nikita Gill. Non ci sarebbe bisogno di altre presentazioni che questi pochi versi della poetessa femminista britannica che divulga le sue elegie su Instagram per rappresentare lei, che i versi li fa suoi sul suo personale account. Eppure Bea Ernman per gli amici, all’anagrafe Beata Mona Lisa Thunberg, che posta foto di “serate a ridere con le amiche”, concerti con lei protagonista sul palcoscenico, è nota per ben altre ragioni. Sorella dell’attivista svedese per il clima che ieri ha strigliato di nuovo i “grandi” presentando i suoi coetanei del Sud del mondo al Vertice per il clima di Madrid, 13 anni, trucco e capelli da rockstar, Beata finora è stata sempre la seconda della foto, con il volto coperto da pixel sulla copertina de La nostra casa è in fiamme, il libro di famiglia in cui sua madre, l’ex cantante lirica Malena Ernman che ha abbandonato la carriera dopo una breve e fallace interpretazione pop a Eurovision, ha scritto per raccontare come è “nata” Greta.

Se non fosse che anche lei, Beata, da cantante agli esordi ai concerti materni di strada ne sta facendo già molta, anche se lontana dalla sorella, e non soltanto per via del livello di CO² che consumerebbe seguendo le orme della primogenita in giro per il mondo. Ma, a proposito di seguaci, su Instagram di follower ne ha già più di 14 mila e ha da poco inciso un nuovo disco, dal titolo emblematico Bar du vill “Basta volerlo”. Ma la sua cifra non starebbe né dietro alla visibilità della sorella, né dietro ai tour di sua madre: il suo obiettivo è la lotta femminista. Affetta anche lei da sindrome di Asperger sommata a quella del deficit d’attenzione e iperattività, Beata Mona Lisa nel perseguire il suo scopo è del tutto simile a sua sorella Greta, anche se pare che la sua situazione sia più grave. “La sua patologia è più disordinata – scrive sua madre, di cui lei porta il cognome nel libro – difficile da inquadrare e da gestire”. “Le patologie psichiche in ragazze e ragazzi tra i 10 e i 17 anni sono aumentate del 100% in 10 anni”, racconta Malena, aggiungendo che “l’oppressione delle donne e delle persone con disabilità derivano dal cambiamento climatico e da una vita insostenibile. Se fossi cresciuta in questi anni, anche io come le mie figlie mi sentirei persa”, conclude Malena, teorizzando un legame tra crisi globale e crisi familiare. Fatto sta che, anche per la sua patologia, si diceva, come già accaduto a sua sorella maggiore, anche la piccola della famiglia Thunberg si è data uno scopo che tutto pervade: rendere il mondo migliore. “Non capisce perché le cose siano differenti per una donna rispetto a un uomo”, afferma ancora la madre. E a breve potrebbe intraprendere il cammino dell’attivismo come sua sorella, ma nel femminismo. A questo la starebbero “preparando” i genitori. Tanto papà Svante quanto mamma Malena, infatti, da quando Greta ha iniziato la sua battaglia scioperando per il clima ogni venerdì fuori da scuola, hanno abbandonato le rispettive carriere di cantante e insegnante alla Reale accademia svedese di Musica e di attore e si sono dedicati esclusivamente alla causa della propria figlia. A organizzare la logistica di Greta, infatti, è suo padre, così come a gestire testi e incontri e partecipazioni sarebbe sua madre, i quali ora raddoppierebbero l’impegno seguendo anche la secondogenita. “Nessuna speculazione personale”, specifica il padre a ogni piè sospinto, sottolineando – tra l’altro – che per evitare chiacchiericci su un probabile tornaconto familiare dalla causa del clima di Greta, ogni dono o provento proveniente dalla causa, alla causa i Thunberg lo devolvono. Tornando a Beata, ciò che appare chiaro seguendo le sue gesta sui social è che ha intenzione di intraprendere la strada opposta a quella di sua sorella Greta: fatta di luci e riflettori, seppure non facili da gestire. Usando la voce per farsi sentire, laddove la maggiore delle Thunberg ha appena sottolineato che non è la sua di voce quella che conta, ma quella di tutti i giovani che lottano contro il cambiamento climatico. Parafrasando la canzone di Bea: “Decidi tu chi sei”.

Le accuse Usa a Caparin. Il leghista nega, è mistero

Due manager italiani sono stati messi sotto inchiesta dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Le accuse sono gravi: cospirazione, frode, riciclaggio e violazione delle sanzioni alla Russia. Avrebbero tentato di eludere l’embargo di Washington a Mosca, in combutta con due imprenditori russi e uno americano, per vendere a un’azienda di Stato russa una turbina Vectra 40G di produzione americana del valore di 17,3 milioni di dollari. Una cessione che dopo l’invasione della Crimea da parte di Vladimir Putin è vietata dalle leggi americane: reati che possono essere puniti anche con 45 anni di carcere e una multa da più di un milione di dollari. La storia, però, potrebbe essere anche più delicata.

A dare notizia della vicenda è stato lo stesso Dipartimento di giustizia che in una nota fa i nomi dei due italiani coinvolti: il primo è quello di Gabriele Villone, manager director della Gva International Oil and Gas services, società con sede a Dubai. Villone è stato fermato il 28 agosto a Savannah in Georgia. Pochi giorni dopo l’Fbi arresta altri due imprenditori, un russo e un americano, rinchiusi nel penitenziario di Chatam county a Savannah. Il secondo italiano, invece, è libero: nella nota del Dipartimento di giustizia viene identificato come Bruno Caparini, “employee” (cioè dipendente) della Gva di Villone. Nell’atto d’incolpazione del Grand jury della Georgia meridionale, di cui il Fatto è in possesso, Caparini viene indicato invece come “commercial director of an Italian engineering and construction company based in Italy”. La stessa qualifica vantata nel suo curriculum su Linkedin da Bruno Caparini, nato il 26 agosto del 1939 ad Edolo, nel bresciano, e dal 1987 consulente tecnico di Mesit. Cos’è Mesit? Una società italiana di ingegneria e costruzioni nel cui organigramma trovano spazio i figli di Caparini, Davide ed Elena, mentre la moglie Teresa Gasparotti ne è l’amministratrice. Ma Bruno Caparini è anche un vecchio amico di Umberto Bossi, mentre suo figlio Davide è stato parlamentare del Carroccio per cinque legislature e oggi è assessore al Bilancio in Regione Lombardia con Attilio Fontana.

Il Caparini storico sostenitore della Lega è lo stesso Caparini finito sotto inchiesta negli Usa? Interpellato dal Fatto il diretto interessato nega: “Non ne so nulla, io sono in pensione. Le accuse che lei mi sta comunicando sono per me una novità assoluta”. Smentisce anche il figlio: “È la prima volta che sento questa storia. Mio padre è nel mondo dell’oil and gas da una vita. Ma adesso è in pensione”.

Per sciogliere ogni dubbio basterebbe conoscere la data e il luogo di nascita del Caparini che in America rischia fino a 45 anni di galera, ma l’informazione sembra impossibile da ottenere. Sia nei documenti del Dipartimento di Giustizia che nell’atto d’incolpazione del Grand jury non si fa mai cenno ai dati personali degli imputati, indicati solo con nome e cognome. Il tribunale ha omissato persino il nome delle aziende sotto accusa limitandosi a definirle “società A” o “B” e spiegando che l’identità “è nota al Grand jury”. Il Fatto ha contattato il distretto giudiziario della Georgia meridionale per ottenere i dati anagrafici del Caparini sotto inchiesta, ma dagli uffici hanno fatto sapere che “in nessuna circostanza sono autorizzati a dare informazioni diverse rispetto a quelle contenute nei documenti ufficiali”. E dunque senza una data e un luogo di nascita è impossibile dire con certezza se il Caparini che voleva violare l’embargo americano alla Russia sia lo stesso storico sostenitore della Lega. Partito da sempre contrario alle sanzioni a Mosca.

Gli elementi che collegano i “due” Caparini non mancano. Il sito web della Gva, la società di Villone finita sotto inchiesta in America, ad esempio: il portale è attualmente offline, ma una ricerca con wayback Machine mostra come il 15 agosto del 2018 sulla home page comparisse il simbolo di Mesit. E d’altra parte anche sul sito della società italiana compare la citazione della Gva come parte del gruppo. Insomma, le due aziende sono – o sono state – in qualche modo legate.

Poi c’è Gazprom. Stando alle ricostruzioni di alcuni media americani dietro quel generico “company B” si celerebbe il colosso di Stato russo. Era alla Gazprom che doveva finire la turbina da 17 milioni di dollari? Di sicuro c’è che con Gazprom Bruno Caparini ha dei trascorsi. Come raccontato dal Fatto, infatti, nell’agosto 2015 il Ros intercetta l’imprenditore: “Il 28 – dice – devo portare su quattro russi, uno dei quali è direttore generale della Gazprom Energo. Loro hanno trecento milioni di dollari e però vogliono cercare altri fondi. Insomma vengono su per fare dei ragionamenti su tante cose che poi ti spiego”. Non si sa come sia finito l’affare, ma pochi mesi prima è sempre Caparini che accoglie una delegazione di industriali russi in visita al gruppo della Lega in Consiglio regionale in Lombardia. Tra i presenti anche Gianluca Savoini, l’uomo al centro dell’affare del Metropol a Mosca e ora indagato dalla Procura di Milano.

“Senza voce perché per legge non esistono”

“Molti caregiver non sanno di esserlo. Anche per questo non hanno voce: non sono organizzati in una vasta rete associativa. Nelle regioni dove sono presenti associazioni strutturate, come in Emilia Romagna, hanno ottenuto riconoscimenti con leggi specifiche. Ma sono casi isolati, non si è mai creata quella massa critica necessaria per esercitare una pressione forte sull’opinione pubblica e sulla politica”. Per Marco Ingrosso, docente di Sociologia della salute all’Università di Ferrara, sono “ancora troppo pochi i punti di riferimento per le persone che si fanno carico del compito di cura di un familiare: il risultato è l’isolamento”.

Professor Ingrosso, lei dice che tanti caregiver non sanno di esserlo. Perché?

Questo è un punto chiave. Non sanno di essere caregiver perché non c’è una chiara legittimazione. Parliamo di persone che svolgono continuativamente un’attività di assistenza senza alcun tipo di riconoscimento e che quindi non sviluppano la consapevolezza di essere portatori di diritti. Un problema che ruota intorno alla cosiddetta assistenza domiciliare, che in Italia è rimasta in un limbo.

In che senso?

L’assistenza domiciliare è partita, dagli anni Settanta, come reazione alla pratica delle istituzionalizzazioni, vale a dire del ricovero in istituti. Si è iniziato a dire: sosteniamo le famiglie nella cura per avere una maggiore personalizzazione, per archiviare la sola custodia, che non tiene conto nemmeno dell’aspetto affettivo. In altri Paesi europei ha funzionato, l’assistenza domiciliare è diventata un luogo importante sotto il profilo socio sanitario imperniato su un familiare che tiene le fila del sistema. Da noi invece il caregiver è rimasto quasi sempre abbandonato a se stesso, senza un coordinamento e un collegamento tra i vari servizi. A differenza di altri Paesi come il Regno Unito, dove si è puntato molto sulla riorganizzazione: un modello irraggiungibile.

Quanto conta l’aspetto culturale in tutto questo?

Un tempo la dimensione familiare era tale per cui si tratteneva in famiglia il compito di cura. A partire dagli anni Sessanta ha iniziato ad affermarsi l’idea di uno Stato che interviene e si fa carico di queste situazioni. Solo che siamo rimasti in una condizione di indeterminatezza, rispetto a queste due tendenze. Da un lato la famiglia si è indebolita, dall’altro lo Stato non ha saputo fornire risposte adeguate, anche a causa dei disservizi. Abbiamo perso due strade senza individuarne una terza, partecipata, che mettesse insieme tutte le risorse di cura.

Forse anche perché si dà ancora per scontato che debba essere la famiglia a farsene carico?

Certamente permane anche una cultura tradizionale legata a un passato nel quale per tutte le figlie scattava l’obbligo di occuparsi dei genitori anziani, lasciando anche il lavoro, se necessario: affidare la cura di un famigliare a un soggetto esterno era fonte di riprovazione sociale. Questo si manifesta soprattutto in alcune aree del Sud, dove però manca anche, clamorosamente, una rete di servizi. E il nostro welfare è sempre stato debole: si è per lo più sempre appoggiato solo alla famiglia.

Giovani “neet” e Millennials: sono i nuovi badanti d’oggi

Alessio, in fondo, si considera un ragazzo fortunato, almeno per quanto può esserlo un giovane al quale l’assistenza quotidiana di un fratello disabile ha sottratto l’adolescenza. “Occuparmi di lui mi ha dato una marcia in più. Sono cresciuto in fretta, ho imparato ad arrangiarmi, a risolvere da solo i problemi, con una sensibilità che mi ha anche avvantaggiato nei rapporti con gli altri. Poi però c’è il lato oscuro: la paura per il futuro, il timore costante di non farcela”. Alessio ha 23 anni, vive in un paese della provincia di Modena e appartiene al mondo silenzioso dei caregiver. Una popolazione di quasi 7,3 milioni di persone, costituita in prevalenza da donne (57%) e concentrata in maggioranza (53%) nelle regioni del Centro, del Sud e delle isole, e nella fascia d’età compresa tra i 45 e i 64 anni. Un esercito di persone impegnate ogni giorno nell’assistenza di una persona cara. Per malattia, vecchiaia, invalidità. In molti casi – due milioni – quasi a tempo pieno: dalle venti ore in su alla settimana.

Un mondo in ombra dove sono tutti invisibili. Ma dove c’è chi è più invisibile degli altri. Alessio è tra questi ultimi. Ed è uno dei tanti. Ufficialmente – ultimo censimento Istat – sono 391 mila i giovani tra i 15 e i 24 anni chiamati a occuparsi di un familiare: non di rado di un genitore tossicodipendente, alcolista o con disturbi mentali. Nella realtà sono molti di più, secondo le associazioni di volontariato e le cooperative sociali che tentano di sollevare il velo su un fenomeno ancora in larga parte sconosciuto. Perché in assenza di rilevazioni sistematiche, di fronte al silenzio, è l’esperienza sul campo a perimetrare il fenomeno. “Facciamo numerose iniziative di sensibilizzazione nelle scuole superiori – spiega Licia Boccaletti, presidente della cooperativa sociale “Anziani e non solo” –, e i numeri che emergono sono univoci: in ogni istituto circa il 20% degli studenti è un caregiver, anche se spesso non sa di esserlo”.

Alessio riflette in sé le due facce di una stessa medaglia. Maturità emotiva e senso di responsabilità, da un lato. Isolamento, depressione e ansia, dall’altro. In lui, nonostante tutto, prevale la prima. Chi non ce la fa, invece, precipita nell’angoscia. L’abbandono degli studi dopo la scuola dell’obbligo, a causa dell’impegno di cura, è spesso il primo approdo, insieme a una progressiva marginalizzazione e alla rinuncia, talvolta, a ricercare un’occupazione.

La ricerca Istat: i neet, 1 su 4, sono giovani caregiver

Tra i pochi studi realizzati in Italia sui giovani caregiver c’è una ricerca del ministero del Lavoro secondo cui ben il 25,6% dei neet, vale a dire dei ragazzi che non vanno a scuola o all’università e che non lavorano, sono tali per motivi familiari, schiacciati dalla necessità di occuparsi di un parente. Un genitore, un nonno, un fratello. Quasi sempre in assenza di una rete di servizi sociosanitari di sostegno, se non in situazioni di emergenza.

Alessio ha iniziato ad accudire Andrea quando aveva dodici anni. Usciva da scuola e si dedicava al fratello, colpito in tenera età da una bronchiolite diagnosticata in ritardo che ha compromesso le attività cerebrali. Tutti i giorni così, calato nell’esistenza dei siblings: coloro che si prendono cura di un fratello o di una sorella disabile. “Mio padre – dice –, è un piccolo imprenditore, mia madre una insegnante. Entrambi sono sempre molto impegnati e ci siamo ripartiti i compiti. Per tanto tempo mi sono sentito molto solo. I miei coetanei uscivano, io dovevo stare in casa con mio fratello, che ha bisogno di assistenza 24 ore su 24. I momenti di sconforto? Tanti. E poi c’è la rabbia, tanta rabbia, davanti alla latitanza delle istituzioni: qualche aiuto c’è fino a quando il disabile è minorenne. Dopo, l’attenzione già carente si dirada. Solo quando ho conosciuto altri giovani caregiver come me, e mi sono confrontato su una quotidianità che non ti permette di programmare nulla, né una serata fuori né tantomeno, una vacanza, ho capito di non essere l’unico”.

Un fenomeno globale:
in Europa sono 100 milioni

All’origine dell’aumento dei giovani caregiver, secondo le associazioni di volontariato, ci sono diversi fattori. Da un lato il progressivo invecchiamento della popolazione e l’aumento dei nuclei monogenitoriali, privi di una rete familiare. Poi c’è la crescita di patologie come la Sla, i disturbi mentali, il morbo di Alzheimer e di Parkinson. Il ricorso alle badanti, a partire dagli anni Novanta, ha solo attutito l’impatto. “Basta poco, un genitore che si ammala, un incidente che rende invalido un familiare: purtroppo non è infrequente – dice Boccaletti –. Solo che nessuno se ne occupa. Né i medici, né gli psicologi, né gli operatori sociosanitari, né le scuole. Nessuno, fino ad ora, ha voluto scoperchiare il vaso”.

Un fenomeno che riguarda tutta l’Europa: secondo le stime, sarebbero in tutto 100 milioni i caregiver che si prendono cura per oltre 7 ore al giorno di un proprio familiare a livello volontario. Solo che l’Europa è divisa a metà. “In generale nei Paesi del Nord c’è un forte investimento sui servizi sociali e sanitari sulla base di una impostazione che assegna allo Stato il compito di provvedere, in quelli del Sud l’investimento è sui sussidi economici”, spiega Loredana Ligabue, segretaria di Carer, associazione emiliano-romagnola di caregiver. “Con il risultato – prosegue –, che soprattutto in Italia tutto ricade sulle spalle dei familiari che si assumono il compito di cura, rinunciando a progetti di vita”.

L’indennità di accompagnamento, erogata dall’Inps e sganciata dal reddito, è di fatto l’unica forma di sostegno. Poco più di 500 euro al mese per chi ha una invalidità che lo rende non autosufficiente. “Contributo importante, ma non basta”, dice Francesca Centola di Carers, organizzazione europea di associazioni di caregiver. “Perché chi si occupa di un proprio caro resta una persona con aspirazioni ed esigenze. Se è giovane, dovrebbe rimanere attiva nella scuola, se adulta nel mondo del lavoro, tutti dovrebbero continuare ad avere una vita sociale. E sarebbe necessario riconoscerle il periodo di cura anche per quanto riguarda i contributi previdenziali”.

Alessio nonostante tutto è riuscito a proseguire gli studi, oggi è uno studente di Ingegneria. Progetta un futuro, ma sa che il suo è ipotecato. “Mi domando sempre cosa farò quando i miei genitori non ci saranno più e allora dovrò farmi carico di mio fratello da solo. Dovrò conciliare famiglia, vita professionale, assistenza. Mi dico che una soluzione la troverò. Intanto, mi concentro sull’oggi. Perché adesso, tanto, ho una sola alternativa: rimandare il pensiero”.