Meno peggio un corno

La variante più letale del Sars-Cov-B. si chiama TTB (Tutti Tranne B.”), detta anche MP (Meno Peggio): siccome rischiamo che al Quirinale ci vada B., sta passando l’idea che vada bene chiunque altro. Quindi dovremmo addirittura sperare, e poi rallegrarci, che il nuovo presidente della Repubblica sia Gianni Letta, o Pera, o Amato, o Casini, o Frattini, o la Moratti. Ora, che quest’idea malsana la diffondano B. e i suoi giannizzeri è comprensibile: tutti i soldatini suddetti si sono già mostrati capaci di tutto e nessuno si stupirebbe se lo risarcissero per il Colle mancato col Senato a vita. Ma la variante TTB/MP sta contagiando, con una rapidità che fa invidia a Omicron, il Pd di Letta (nel senso di Enrico) e l’ala dimaiana e poltronista dei 5Stelle. Tutta gente così distratta dai giochi di palazzo da dimenticare chi sono e cosa vogliono i suoi elettori. Il Fatto, nato 13 anni fa per restituire la memoria agli smemorati, conclude oggi la biografia di B. in 36 puntate. Ma inizia subito a narrare le gesta degli altri impresentabili che qualcuno tenta di riverginare col decisivo argomento che il Caimano sarebbe peggio.

In che senso, per dire, Gianni Letta sarebbe meglio di B., visto che dal 1987 è sul suo libro paga e nel cerchio magico del Biscione con Confalonieri e Dell’Utri? E che prima, per 15 anni dal 1973, era stato Ad e direttore del Tempo, uno dei quotidiani più servili (e più amati dalla P2) che la storia del giornalismo e del servilismo ricordi? In quella veste, nel 1984, fu coinvolto nello scandalo dei fondi neri dell’Iri, quando il presidente dell’Italstat Ettore Bernabei mise a verbale davanti a Gherardo Colombo: “Venne a trovarmi Gianni Letta, al quale consegnai 1,5 miliardi di lire in Cct, dietro promessa di appoggio alla politica economica di Italstat”. Letta ammise: “L’Iri pagava una campagna promozionale. Chi doveva dirci che i fondi erano neri?”. Peccato che a Bernabei quella campagna non risultasse: “Nulla so dell’effettiva utilizzazione da parte del Letta di Cct per 1,5 miliardi di lire”. Il processo traslocò da Milano a Roma e riposò in pace. Intanto Letta-Letta (come lo chiamava Sergio Saviane) era passato alla Fininvest: conduttore e vicepresidente, con delega alle “relazioni istituzionali” nei palazzi romani. Proprio negli anni della legge Mammì, imposta da Craxi & Andreotti per salvare il monopolio illegale del Biscione. Nel ’93 si beccò un avviso di garanzia dal Pool di Mani pulite per una mazzetta di 70 milioni di lire versata nel 1989, vigilia della “legge Polaroid”, al segretario del Psdi Antonio Cariglia. E confessò con la consueta precisione: “La somma fu da me introdotta in una busta e consegnata tramite fattorino”. Ma lo salvò l’amnistia. E poi l’amnesia.

Dolci note di compagnia all’atroce morte nei lager

L’ebreo polacco Simon Laks (1901-1983), pianista e compositore, narra nel suo libro Mélodies d’Auschwitz che verso la fine del 1943 i prigionieri come lui del lager di Auschwitz II-Birkenau “furono autorizzati dal comando tedesco del campo a mandare un messaggio scritto alle loro famiglie. Spinto dal desiderio di far sapere ai miei cari che ero in vita e che questo era l’unico modo di farglielo sapere, scrissi che: ‘Sono in buona salute e faccio il mio mestiere’. Il mio mestiere era quello del musicista”. Quando dopo la liberazione Laks rivide la sua compagna, lei gli “confermò di aver ricevuto la lettera”, ma aggiunse “di non avere creduto che io facessi veramente il mio mestiere, e aveva supposto che lo avessi scritto per metterla tranquilla. Chi, in effetti, avrebbe potuto credere all’esistenza di un lavoro come il mio in un campo tedesco?”.

Invece era proprio così, era tutto vero: i campi di sterminio nazisti ebbero una loro musica, vera come le camere a gas, i forni crematori e tutto il resto. Fu intanto una colonna sonora di ribellione e di speranza, declinata nei canti clandestini e nelle composizioni dei detenuti, alcune delle quali di notevole valore. E fu poi la musica infernale connessa agli ordini delle SS, con cui imponevano agli internati di accompagnare con brani musicali le torture, le marce al lavoro e verso le camere a gas. Ad Auschwitz, a Buchenwald, a Dachau, a Terezin, poi, non mancarono la musica delle orchestre di prigionieri, allestite per intrattenere gli aguzzini o per la propaganda nazista. Note che, a volte, potevano persino essere quelle della musica “degenerata” per eccellenza, il jazz, visto che non “erano rari i casi di militari e ufficiali delle SS che amassero il jazz”.

Alla colonna sonora dei campi di sterminio, “tormento e motivo di consolazione, ossessione e motivo di speranza”, è dedicato il libro L’ultima nota. Musica e musicisti nei lager nazisti (Marietti 1820, pagg. 328, euro 24) del giornalista e scrittore Roberto Franchini. Tante, quasi tutte tragiche, sono le storie che Franchini racconta. Come quelle di Simon Laks, del violinista gitano Oskar Siebert, di Alma Rosé, la nipote di Gustav Mahler, direttrice dell’orchestra femminile di Auschwitz, morta nell’aprile del 1944; e di Alice Herz-Sommer, che da bambina aveva suonato per Franz Kafka, dei Ghetto Swingers, la jazz band di Terezín, del cantante italiano Emilio Jani. Quest’ultimo, fascista ebreo, emulo di Beniamino Gigli, si salvò proprio grazie alla sua voce. “Sono Emilio Jani di Trieste”, avrebbe ricordato, “mi hanno arrestato a Roma, un tempo facevo il tenore e qui (ad Auschwitz) fortunatamente ho ripreso la professione abbandonata per tentare di salvare la pelle, e fino a ora ci sono riuscito”. In un libro di memorie, scrisse: “Le mie esibizioni canore sono state la mia salvezza e ho la grande soddisfazione di avere risparmiato a più di un compagno, con il mio intervento, ulteriori e più gravi sevizie, sempre in nome del bel canto”.

La “grande arte”, disse Thomas Mann, si era alleata durante il nazismo con il “grande diavolo”, cioè Hitler. Del resto, narra Franchini, molte belve naziste amavano la musica, commuovendosi “fino alle lacrime ascoltando sinfonie o romanze d’opera, notturni di Chopin o un brano swing”. Gli assassini “sedevano in prima fila ad ascoltare orchestre e cantanti, gruppi jazz e compagnie di cabaret. Si commuovevano fino alle lacrime, ridevano fino alle lacrime. Poi riempivano i treni e le camere a gas di prigionieri, senza mostrare alcun sentimento, sempre a ciglio asciutto”. Gli esempi, continua Franchini, “sono numerosi e a tutti i livelli della gerarchia militare. Per esempio, Perry Broad, funzionario della Gestapo del campo di Auschwitz-Birkenau, era un virtuoso del jazz, che conosceva a memoria tutti i successi americani”. Con “la sua fisarmonica raggiungeva la baracca dell’orchestra e si metteva a suonare insieme a un quintetto (violino, clarinetto, tromba, trombone e percussioni), oppure si lasciava andare ad assoli pieni di passione. Broad, poco più che ventenne, era capace di apprezzare le capacità di un musicista per poi mandarlo a morte alla prima occasione. Nel dopoguerra venne arrestato e riconosciuto colpevole per aver partecipato a torture e uccisioni”.

Anche il comandante di Birkenau, Josef Kramer, era un appassionato di musica. Fania Fénelon, musicista dell’orchestra di Birkenau, rammenta: “I violini attaccano. Herr Lagerführer tiene gli occhi chiusi, si lascia assorbire completamente dalla musica. La grande Irene attacca il suo assolo di violino. Suona benissimo. La malinconia che mette nell’esecuzione deve toccare il cuore del comandante. Qualche nota prima della fine del pezzo, Kramer riapre gli occhi: sono velati di pianto. Si lascia andare all’emozione e, sulle guance scrupolosamente rasate, scendono le lacrime”.

Israele. La mafia araba: usura e record di omicidi

Il 2021 si è chiuso con un record di omicidi e un’ondata di violenza che ha investito tutta la comunità araba israeliana, gli assassinii sono stati 128, decine i rapimenti a scopo di estorsione in un crescendo mai visto in Israele.

I funzionari israeliani hanno accusato dell’ondata di violenze le famiglie criminali arabe che hanno accumulato potere e armi negli ultimi due decenni. Il primo ministro Naftali Bennett ha specificamente puntato il dito contro i gruppi criminali arabi che hanno “sviluppato uno Stato nello Stato”. La coalizione di governo di Bennett, la prima da decenni a includere un partito arabo, ha approvato misure per combattere la violenza migliorando le condizioni socio-economiche tra i cittadini arabi che da tempo lamentano disparità di trattamento rispetto agli ebrei israeliani. Ma tali interventi, che stanno ancora decollando, non hanno impedito al 2021 di diventare l’anno più mortale mai registrato per omicidi con vittime arabe (128), erano state 113 nel 2020, 96 nel 2019 e 67 nel 2018. La stragrande maggioranza delle vittime sono uomini e Lod è una delle aree più colpite da queste violenze. Secondo il criminologo Walid Haddad, già consulente del ministero dell’Interno, sono cinque le principali famiglie criminali arabe il cui potere è aumentato dal 2003. Quell’anno un fallito attentato al boss mafioso ebreo Zeev Rosenstein uccise 3 innocenti a Tel Aviv, spingendo l’allora premier Ariel Sharon a ordinare la repressione della criminalità organizzata a guida ebraica, con l’aiuto dell’FBI americano. Una volta indebolita la mafia ebraica – racconta Haddad – le gang arabe che erano state “subappaltatrici degli ebrei, hanno riempito il vuoto di potere”. “Hanno deciso di basare le loro attività nelle comunità arabe perché sapevano che alla polizia non importava cosa succedeva lì”, spiega il criminologo, le forze di sicurezza israeliane hanno dato la priorità alla violenza nazionalista palestinese rispetto alla criminalità legata alla mafia. Parte di queste violenze è causata dalla crescita dell’usura: i mafiosi arabi offrono denaro veloce ai cittadini arabi discriminati dalle principali banche israeliane.

 

Il clan di kabila e quei 138 milioni spariti dalle casse statali

Il 19 novembre scorso, sulle pagine di Mediapart, avevamo pubblicato il primo capitolo dell’inchiesta giornalistica “Congo Hold Up”, che portava alla luce uno scandalo di corruzione e malversazione di fondi pubblici nella Repubblica democratica del Congo (Rdc) di cui hanno beneficiato l’ex presidente Joseph Kabila e la sua famiglia. I leaks raccolti da Mediapart, insieme ad un consorzio di altri diciotto media e cinque ong, erano composti da milioni di transazioni bancarie, contratti, mail, documenti riservati della Banca centrale del Congo, della Direzione generale delle imposte e di altre istituzioni. L’impatto dell’inchiesta è stato forte: ha imbarazzato la classe politica congolese e anche l’attuale presidente della Rdc, Félix Tshisekedi, che al suo predecessore deve la sua scalata al potere. Da allora sono seguiti ventidue articoli in tre settimane, a cui si aggiungono gli oltre 130 contributi dei nostri partner internazionali. Ecco le nostre principali rivelazioni.

L’ex presidente della Rdc, Joseph Kabila, rimasto al potere per diciotto anni, fino al gennaio 2019, e i suoi familiari si sono riforniti direttamente nelle casse dello Stato. In cinque anni, il clan Kabila e i suoi soci in affari hanno sottratto almeno 138 milioni di dollari di denaro pubblico. Soldi che appartenevano alla Banca centrale del Congo, alla Gécamines, la compagnia mineraria statale, all’Assemblea nazionale, alla Commissione responsabile dell’organizzazione delle elezioni e persino alle Nazioni Unite. I soldi venivano trasferiti sui conti della Sud Oil, una società di facciata controllata dal fratello e dalla sorella di Joseph Kabila, di un’azienda di importazione di prodotti alimentari, la Egal, gestita da personaggi vicini all’ex capo dello Stato, di una misteriosa società portuale di proprietà di Joseph Kabila dal 2015, di sei membri della sua famiglia e ancora di un’azienda tessile, la Sotexki, controllata al 60% da un fratello di Kabila, Francis Selemani. La frode è stata possibile grazie alla complicità di una banca, la Bgfi, di cui la famiglia Kabila controllava la filiale congolese. La filiale francese ha fatto transitare decine di milioni di dollari in operazione sospette. L’inchiesta ha rivelato anche come due gruppi industriali cinesi si siano aggiudicati nel 2008 un faraonico contratto minerario da 6,6 miliardi di dollari, il più grosso in Rdc, corrompendo la famiglia Kabila e i suoi soci. E che la Gécamines, la compagnia mineraria nazionale, ha versato 530 milioni di dollari di tasse alla Banca centrale, di cui l’Ispettorato generale delle Finanze (Igf) non ha trovato la minima traccia nelle casse dello Stato. Ma i 3,5 milioni di documenti a cui il consorzio giornalistico ha avuto accesso non riguardano solo la famiglia Kabila né solo la Rdc. Almeno due ministri dell’attuale presidente Félix Tshisekedi portano avanti attività lucrose in cui rischiano il conflitto di interessi. Esistono possibili reti internazionali di riciclaggio di denaro legate a individui accusati di finanziare Hezbollah e a diversi uomini d’affari indiani basati nella Rdc. Degli attori economici francesi ed europei ne trarrebbero beneficio. Società francesi hanno ottenuto contratti sotto Kabila in circostanze discutibili. Un uomo d’affari belga, Philippe de Moerloose, si è arricchito gonfiando le fatture di trattori e altre attrezzature agricole vendute al Paese la cui popolazione è tra le più povere al mondo. L’inchiesta ha infine permesso di fare luce sul disastroso progetto immobiliare “La Cité du fleuve”, nella capitale Kinshasa, il cui promotore è un uomo d’affari francese. Il primo ministro del Belgio, prima potenza coloniale in Congo, Alexander De Croo, è stato tra i primi a reagire alle nostre rivelazioni: “Ogni forma di corruzione è inaccettabile”, ha detto il 19 novembre stesso, ma, ha aggiunto, è “nell’interesse stesso della Rdc” che questa vicenda sia venuta a galla. Nella Rdc, diverse Ong, tra cui “la Lucha”, hanno fatto appello alla giustizia.

Il portavoce di Joseph Kabila, senza smentire nulla, ha osservato che la “Congo Hold Up” non presentava alcuna prova “dell’implicazione fattuale” dell’ex presidente in queste frodi. In un comunicato, la banca Bgfi ha negato le “pratiche discutibili” che le sono rimproverate. Un sito congolese ha denunciato il complotto internazionale. Il 24 novembre, la giustizia della Rdc ha aperto un’inchiesta giudiziaria contro l’ex presidente Kabila e il suo clan su richiesta della Guardasigilli Rose Mutombo: “Non possiamo ignorare tali accuse”, aveva detto il portavoce del governo Patrick Muyaya. In realtà, la posizione di Félix Tshisekedi è ambigua. “Congo Hold Up” può mandare in frantumi il fragile equilibrio politico del Paese. La vittoria di Félix Thsisekedi alle elezioni presidenziali del dicembre 2018 è segnata da gravi irregolarità: il 20 gennaio 2019, la Corte costituzionale lo ha dichiarato vincitore malgrado ci fossero prove materiali che era stato il suo avversario, Martin Fayulu, a raccogliere il maggior numero di voti. Per diventare presidente, Tshisekedi ha firmato nel 2019 un accordo politico (il cui contenuto esatto non è noto) con Joseph Kabila. All’epoca Tshisekedi disse che non avrebbe “scavato nel passato” del suo predecessore. E infatti Kabila e la sua famiglia non sono mai stati indagati. L’inchiesta giudiziaria aperta dopo le nostre rivelazioni potrà andare fino in fondo? I segnali non sono incoraggianti. Jules Alingete, capo dell’Ispettorato generale delle finanze, ha finito col far cadere le accuse contro l’azienda di importazione di prodotti alimentari Egal, controllata dal clan Kabila, nello scandalo dei 43 milioni di dollari sottratti alla Banca centrale, diversamente da quanto aveva dimostrato la nostra inchiesta. Il 25 novembre, in una lunga intervista a Radio France International, il capo dell’Igf aveva spiegato di aver scagionato Egal per non essere riuscito a ottenere tutti i documenti necessari: i giornalisti di “Congo hold-up”, aveva detto, “hanno raccolto più informazioni di noi e sono riusciti a identificare i veri beneficiari”. Ma, in un’altra intervista, rilasciata lo stesso giorno ma diffusa quattro giorni dopo, Alingete ha cambiato completamente versione e affermato che la banca Bgfi era la sola responsabile e che Kabila e i suoi non avevano intascato nulla. Di sicuro dietro le pressioni del presidente Tshisekedi, il capo dell’Igf ha denunciato a sua volta un “complotto della stampa internazionale”. Il vero banco di prova per Félix Tshisekedi sarà però il caso Gécamines. Il 3 dicembre, il presidente ha licenziato senza spiegazioni il potente Albert Yuma, un uomo vicino a Kabila, dalla presidenza della compagnia mineraria nazionale. Di sicuro per via della nostra inchiesta “Congo hold-up”. Due settimane prima, avevamo infatti rivelato che Gécamines aveva versato 20 milioni di dollari a Sud Oil, una società di facciata della famiglia Kabila. Via una lista di domande che gli avevamo inviato, il presidente era del resto stato informato che presto avremmo pubblicato un’inchiesta sull’enorme scandalo di 530 milioni di “anticipazioni fiscali” pagate da Gécamines. I nostri documenti provano che parte del denaro era stato sottratto indebitamente, in particolare a beneficio della famiglia Kabila. Un’inchiesta è in corso all’Igf. Seguiranno azioni in giustizia? Quando lo abbiamo contattato, il ministro delle Finanze, Nicolas Kazadi, ha rifiutato di risponderci, denunciando la “montatura mediatica” della nostra inchiesta che avrebbe, secondo lui, “screditato l’immagine del Paese e oscurato gli sforzi reali che il governo attuale sta facendo nella lotta alla corruzione”. “Nel settore minerario la frode e la corruzione hanno raggiunto dimensioni vertiginose – ha detto Jules Alingete al giornale Jeune Afrique -. Sarebbe un miracolo se il nostro lavoro finisse col dimostrare il buon governo della Gécamines”.

Il presidente congolese dovrebbe ricevere a breve il rapporto finale dell’Igf e, data l’entità della frode, Félix Tshisekedi dovrà per forza di cose far fronte alle proprie responsabilità. (Traduzione di Luana De Micco)

Trump: “Biden disastroso, tornerò alla Casa Bianca”

Il disco non è rotto, ma ripete sempre e solo lo stesso ritornello: “Avevo vinto io le elezioni 2020 e nel 2024 ci riprenderemo la Casa Bianca”. Un’affermazione falsa, ma che la gente sotto il palco crede vera; e una promessa non impossibile da mantenere, se l’Amministrazione Biden continuerà a steccare e se a novembre, nel voto di midterm, i repubblicani strapperanno ai democratici il controllo del Congresso. A Florence, tra Phoenix e Tucson, in Arizona, Donald Trump torna ad arringare la folla dopo mesi sotto traccia. “Questo è l’inizio di un’onda rossa – proclama -: ci riprenderemo il Congresso; e, poi, ci riprenderemo la Casa Bianca”. Tornato presidente, lui renderà la “Cina responsabile per il virus” e le farà pagare “miliardi in danni” e impedirà a Vladimir Putin di “giocare con gli Stati Uniti”. Il magnate ex presidente attacca il suo successore Joe Biden: “Sapevamo che fosse debole, ma pochi si immaginavano che sarebbe stato un tale disastro… Ha umiliato il nostro Paese sulla scena internazionale… Sta distruggendo gli Stati Uniti, i democratici ci stanno strappando dignità e libertà”. Ancora: per il “disastro” dell’Afghanistan ad agosto, “non è caduta nessuna testa”, questo è vero.

Come sempre, il discorso di Trump è intriso di affermazioni inesatte, di palesi menzogne. I suoi fan le prendono per oro colato. Il New York Times le passa al setaccio: non è vero che i bianchi non abbiano accesso ai medicinali anti-Covid o ai vaccini (“Se siete bianchi, vi vengono negati”, dice il magnate); non è vero che i democratici respinsero il ricorso alla Guardia Nazionale a presidio del Congresso il 6 gennaio 2021 – Trump sostiene di avere sollecitato l’invio di 10 mila uomini, ma non v’è traccia della richiesta –; non è vero che in Arizona i voti contestati sono più di quelli con cui Biden s’aggiudicò lo Stato – anzi, la riconta fatta ha aumentato il margine a favore di Biden, da circa 10.500 a quasi 11.000 suffragi –. Ma l’accuratezza dei dettagli non è mai stata un cruccio del magnate, che pure dice: “La gente è affamata di verità”. Migliaia di sostenitori lo accolgono trionfalmente, agitando cartelli e bandiere con su scritto ‘Trump 2024 or before’ e ‘Let’s go Brandon’, espressione volgare per ‘Fuck Joe Biden’. Lui, che indossa il cappellino rosso ‘Make America Great Again’, parla un’ora e mezza e fa campagna per Kari Lake, candidata repubblicana a governatore dello Stato. I democratici vogliono fare dell’Unione “un Paese comunista”, sono “incapaci e incompetenti”, sono animati “da uno spirito maligno di fascismo di sinistra”. Sulla pandemia che, anche a causa del lassismo con cui lui inizialmente la affrontò, ha fatto più vittime negli Usa che in qualsiasi altro Paese al Mondo, “ci vogliono intimidire con i loro obblighi sui vaccini, mentre Big Pharma s’arricchisce”. Sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, i protagonisti dell’irruzione nel Congresso “sono dei perseguitati, stanno vivendo un inferno”. “Perché – chiede Trump – i democratici non indagano sulle elezioni del 3 novembre 2020? La vera insurrezione c’è stata quel giorno”. E giù critiche a chi fra i repubblicani lo contesta, come l’‘arci-nemica’ Liz Cheney, deputata del Wyoming, figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney, che siede nella commissione di indagine della Camera.

Cultura. Le donazioni (con sconto fiscale) sono un altro modo per approfondire le disuguaglianze

Il 10 dicembre scorso la direzione generale Bilancio del ministero della Cultura ha diffuso a tutti gli uffici una circolare. Riguardava le erogazioni liberali (donazioni) raccolte nell’anno 2020, per finalità culturali. Non sono stati fatti comunicati stampa, ma più di qualche funzionario ha letto la circolare con amarezza e frustrazione. Del totale di oltre 21 milioni di euro raccolti, solo 1.500 in tutto sono andati a finanziare istituti e attività di Marche, Puglia e Sardegna, mentre 0 euro sono arrivati in Sicilia, Calabria, Molise, Abruzzo, Basilicata e Val d’Aosta. Ci si riferisce a “istituti e attività” perché queste erogazioni liberali, deducibili a livello fiscale ai sensi del Testo Unico della Imposte sui Redditi, pur monitorate dal ministero non vanno al ministero stesso, ma a “Stato, regioni, enti locali territoriali, enti o istituzioni pubbliche, comitati organizzatori appositamente istituiti con decreto, fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro, che svolgono o promuovono attività di studio, di ricerca e di documentazione di rilevante valore culturale e artistico o che organizzano e realizzano attività culturali”.

E quindi, seppur in Toscana siano stati raccolti oltre 4 milioni di euro, la sola Fondazione Peccioli ne ha fatti propri € 3.770.000; nel Lazio, su €2,8 milioni, oltre due sono andati alla sola Fondazione Accademia di Santa Cecilia; in Lombardia più di metà dei quasi 6 milioni raccolti sono a favore di due sole fondazioni, Teatro alla Scala e Bracco. Sembra piuttosto chiaro che la presenza di un’imprenditoria diffusa sul territorio conti, ma non sia da sola in grado di spiegare la mole di erogazioni liberali, connesse anche con la presenza di Fondazioni con finalità culturali: tra i maggiori donatori troviamo le fondazioni bancarie e le aziende che partecipano a quelle stesse fondazioni culturali, e dunque possono contribuire a decidere dove e come saranno indirizzati i fondi, nonostante l’evidente conflitto di interessi.

Un problema che replica quello che si registra con la più recente legge sull’ArtBonus, “il più forte incentivo fiscale che ci sia in Europa per favorire il mecenatismo culturale”, come definito dal ministro Dario Franceschini, che consente un credito d’imposta (sconto sulle tasse) del 65% a chi dona ma, come le altre erogazioni liberali, consente di scegliere chi sarà il beneficiario. Ed ecco quindi che il patrimonio meno noto, che garantisce meno pubblicità, e il patrimonio che si trova in regioni con pochi privati con capacità economiche importanti, diventa molto meno attraente. E la possibilità di donare a Fondazioni, di cui si può diventare soggetti partecipanti e esercitare un controllo, crea una concorrenza sleale impossibile da sostenere per Soprintendenze e Comuni.

Eppure basterebbe così poco: ad esempio lasciare gli incentivi fiscali, ma scegliere che una parte dei fondi così raccolti sia reinvestita dal Ministero nei territori e nei progetti più bisognosi, con una progettualità che superi le esigenze o i desideri dei donatori. Per evitare che chi è indietro, resti sempre più indietro.

 

I rischi sull’energia ci sono: smantelliamo il libero mercato

Gli attacchi di panico sono caratteristici dei grandi consumatori occidentali di energia. La prima volta è avvenuto negli anni 70, dopo il cosiddetto “choc petrolifero”. Per sette decenni i consumatori avevano beneficiato di prezzi del petrolio in calo, abbandonandosi a sprechi di ogni sorta, per poi cercare di salvarsi con le “domeniche a piedi”. È accaduto nuovamente a metà anni 2000, quando in molti gridarono al “picco” della produzione: uno spettro che nemmeno l’invasione dell’Iraq riuscì ad allontanare. Oggi la crisi europea dipenderebbe dal calo delle forniture di gas russo che, assieme al rimbalzo dell’economia, avrebbe prodotto un aumento dei prezzi energetici tra le 5 e 10 volte rispetto ai livelli medi del decennio 2010-2020.

Nel panico si prendono, il più delle volte, decisioni sbagliate: proprio quel che sembra profilarsi con l’inclusione di gas e nucleare nella “tassonomia verde” dell’Ue o coi folli propositi di aumentare la produzione italiana di idrocarburi. Come si è arrivati all’attuale mix energetico europeo? Per reagire allo choc petrolifero del ’73 i governi dell’Europa occidentale vararono una serie di contromisure, inclusi investimenti nel nucleare (soprattutto Francia) e nel gas naturale. Dall’inizio degli anni 90, l’Ue ridusse moderatamente le proprie emissioni di CO2 nonostante la crescita del Pil, in gran parte grazie alla sostituzione delle centrali elettriche a carbone con quelle a gas.

Il modello energetico post-Guerra fredda è strutturalmente diverso dal precedente. In primo luogo da fine anni 90 vi è stato il progressivo abbandono dei contratti di fornitura di gas a lungo termine in favore di prezzi di mercato e dell’apertura a terzi di gasdotti e reti per evitare monopoli. In secondo luogo, dopo la privatizzazione delle società energetiche nazionali e la liberalizzazione del mercato, vi è stato un progressivo aumento delle bollette oltre l’inflazione. I grandi beneficiari sono stati gli azionisti e si è costituito un potente oligopolio privato: 7 società, negli anni Duemila, si spartivano 350 milioni di consumatori.

Questo modello è oggi sottoposto ad alcune sfide strategiche. In primo luogo la produzione Ue di gas è in constante declino per la crescente sensibilità ambientalista e il progressivo esaurimento dei giacimenti. L’Olanda, a lungo il maggior fornitore europeo, è passata da un picco di produzione di 88 miliardi di metri cubi (mmc) nel 1976 ai 3,9 attuali: un tracollo dovuto anche alla necessità di contenere l’attività sismica legata all’estrazione nell’area di Groningen. La Danimarca ha bloccato gli investimenti in petrolio e gas. L’Italia, dove il gas aveva garantito la quasi totalità dei profitti di Eni fino agli anni 90, è passata da un picco produttivo di oltre 20 mmc nel 1994 ai 4 di oggi. In secondo luogo il consumo di gas naturale, già in calo dopo la crisi nel 2008-9, dovrà continuare a calare per rispondere agli obiettivi Ue di riduzione delle emissioni. La terza questione è che la transizione energetica incentrata sulla de-carbonizzazione, checché ne dicano i tecno-entusiasti, ha una profilo inflazionistico. Questo perché: servono investimenti enormi, specie nell’accumulo di elettricità e nella distribuzione; le materie prime legate alle rinnovabili, dal cobalto al litio, sono concentrate e tutt’altro che inesauribili; i prezzi dei permessi di emissione nel mercato Ets sono in rialzo. I rischi per famiglie e imprese energivore sono concreti.

Le soluzioni a questi problemi passano per una rimessa in discussione del libero mercato Ue dell’energia e per un rafforzamento del ruolo statale. Si parte dalla misura più semplice di raddoppiare le royalties su gas e petrolio estratti in Italia (tra le più basse al mondo): con il petrolio a 80 dollari al barile lo Stato potrebbe incassare oltre 430 milioni l’anno da utilizzare per calmierare i prezzi delle bollette. Questo andrebbe accompagnato da un aumento della fiscalità sulle aziende energetiche che impedisca loro un tasso di profitto annuale oltre una certa soglia. L’energia è un servizio pubblico: l’alternativa al riscaldamento domestico è l’ibernazione. La seconda strada è cestinare il libero mercato dell’energia e riprendere accordi coi fornitori, in primo luogo di gas naturale, fondati sulla stabilità dei prezzi e sulla garanzia di forniture. La Russia dipende per il 40% del suo bilancio dalle esportazioni di idrocarburi, in gran parte in Europa, ed è assai più dipendente dall’Ue di quanto non sia vero il contrario. La via maestra resta però quella di aumentare la produzione da rinnovabili e ridurre i consumi energetici, per esempio sostenendo ulteriormente gli investimenti nell’isolamento termico delle abitazioni visto che, per esempio, il riscaldamento invernale delle abitazioni rappresenta il 50% della domanda Ue di gas.

Parafarmacie. Niente tamponi. L’ennesimo regalo alle lobby

È indiscutibile il lavoro encomiabile che le farmacie stanno facendo da due anni sotto la pressione dell’emergenza pandemica. Presìdi territoriali permanenti, ma in evidente affanno tra le file per le Ffp2 e i test rapidi (ne processano in media mezzo milione al giorno). Ma guai ad alleggerirgli il lavoro, e di conseguenza il business, sfruttando le loro “cugine” sventurate: le parafarmacie. “Una vergognosa interferenza lobbistica”, per dirla con le parole del presidente della Federazione nazionale parafarmacie, Davide Giuseppe Gullotta, ha impedito a 4 mila strutture di essere autorizzate a fare i tamponi potendo aumentare la capacità diagnostica di circa il 20%. Mercoledì scorso, centrodestra e Italia Viva hanno votato contro il parere favorevole del governo affondando un emendamento al decreto Covid, a firma Castaldi (M5S)-De Petris (Leu), che avrebbe consentito alle parafarmacie, il cui titolare è un farmacista, di far fare test molecolari e antigenici rapidi. Contro la modifica si è schierata anche Forza Italia, il cui vice presidente della Camera Andrea Mandelli dal 2009 è presidente della federazione Ordine farmacisti italiani. Ma tra Camera e Senato siedono una decina di farmacisti. “Questo è il quinto emendamento bocciato dal Parlamento”, spiega Daniele Viti, presidente dell’Unione nazionale farmacisti titolari di sola parafarmacia (Unaftisp). “In alcune circostanze – prosegue – le motivazioni sono state scandalose, come l’intervento della Ragioneria che affermò che non vi erano coperture, quando si trattava solo di redistribuire la possibilità di fare i tamponi, evitando le file in farmacia. O ad esempio che le parafarmacie erano un esercizio di vicinato, come se non vi esercitasse un farmacista”. Ora, anche se i Cinque Stelle presenteranno un emendamento al decreto Milleproroghe che ritenta di allargare anche alle parafarmacie la gestione dei test, questo caso rappresenta l’ennesima sconfitta per la concorrenza dopo la mancata liberalizzazione della distribuzione dei farmaci. “Non c’è concorrenza, stiamo parlando di un mercato che resta ad appannaggio delle 19mila farmacie presenti in Italia che detengono anche il monopolio dei medicinali di fascia C con obbligo di prescrizione. Una lobby talmente potente da riuscire a bloccare il processo di liberalizzazione iniziato nel 2006”, ammette Gullotta.

 

Tirocini, così hanno sfruttato milioni di stagisti invisibili

Pure il 2021 ha visto crescere esponenzialmente i tirocini, dopo che nel 2020 erano diminuiti di molto ma solo a causa del Covid. Ora il governo, con la nuova manovra, ha approvato norme che in teoria dovrebbero portare una stretta su questa tipologia di contratto, pensata come un’occasione di formazione per giovani, e che in pratica si è tradotta in lavoro sottopagato, anche di 300 euro al mese. Intenzioni a parte, chi segue il tema, servendosi di una metafora sulle scommesse sportive, descrive la situazione con la tripla chance: potrebbe migliorare, ma anche restare uguale o addirittura peggiorare.

Dopo anni di sostanziale liberi tutti, l’obiettivo è circoscrivere gli stage extracurricolari, cioè quelli tenuti al di fuori di percorsi di studio, solo i soggetti “con difficoltà di inclusione sociale”. Tutto però dipenderà dalle linee guida che saranno approvate dal governo insieme con le Regioni che hanno la competenza in materia di politiche attive del lavoro. Sulla carta, questo documento dovrà essere approvato entro sei mesi, ma l’esperienza testimonia che le tempistiche scandite dalla legge per gli atti esecutivi sono spesso categorie dello spirito. E, soprattutto, finora nel redigere le linee guida le Regioni hanno sempre mantenuto una certa sensibilità verso le richieste delle imprese. L’ultima volta, a maggio 2017, hanno stabilito la durata massima di ben 12 mesi e l’indennità minima di appena 300 euro. Anche in questo caso la posta in gioco è delicata; tutto ruoterà attorno alla definizione di “difficoltà di inclusione sociale”: se si dovessero inglobare i disoccupati, quantomeno quelli che secondo la profilazione dei centri per l’impiego risultano “a bassa occupabilità”, allora la platea dei tirocinanti continuerà a essere molto ampia. In questo caso, insomma, cambierà poco. Ma c’è addirittura l’ipotesi che le cose peggiorino. Lo ha fatto notare Eleonora Voltolina, direttrice del sito larepubblicadeglistagisti.it: “Se si eliminassero o si limitasse fortemente l’accesso agli stage extracurricolari, la normale conseguenza sarebbe, ove possibile, un travaso verso quelli curricolari. Bisogna assicurarsi di avere una buona legge sui tirocini curricolari che attualmente non c’è”. Gli stage curricolari offrono anche meno tutele: non è nemmeno obbligatoria l’indennità. Insomma, si potrebbe passare dalle misere retribuzioni garantite dagli extracurricolari, alla totale gratuità.

L’esplosione dei tirocini extracurricolari è stata anche incentivata da Garanzia giovani, il programma europeo per l’occupazione degli under 29 ha addirittura previsto la copertura con fondi pubblici di una parte della pur infima indennità mensile. Tra il 2018 e il 2019 le attivazioni in Italia sono arrivate a superare le 350 mila all’anno; nel 2020, viste le restrizioni per il Covid, si sono ridotte a 234 mila. Ma nel 2021 la galoppata è ripartita, con aumento di 8 mila nel secondo trimestre e di ben 62 mila nel terzo. L’aspetto formativo è spesso inesistente, tanto che ancora oggi si trovano annunci per tirocini destinati ad addetti a funzioni manuali, come magazzinieri e facchini. E offerte di questo tipo sono state ospitate anche sui siti istituzionali come quello di Garanzia giovani. In Sicilia, negli ultimi anni è stato approvato uno strumento simile alla misura europea, l’Avviso 22. Con questo provvedimento sono stati promossi stage presso aziende private ed enti pubblici, con le indennità a carico della Regione. La beffa è che centinaia di persone coinvolte aspettano ancora di essere pagate. Oresta Lauria si è fatto portavoce di questo movimento, supportato dalla Nidil Cgil di Palermo: “Il mio tirocinio – racconta – si è svolto presso uno studio di commercialisti. Dopo una prima fase di formazione, mi hanno dato compiti di manovalanza, inviare e sistemare documenti, fare scansioni. Speravo di essere assunto al termine dei sei mesi, ma dopo avermi dato un attestato di eccellenza hanno detto di non avere bisogno di me. Poi però hanno preso un altro stagista”.

Un’altra delle storture che si imputano ai tirocini è l’essere stati concorrenti sleali dell’apprendistato. Un contratto più tutelato anche nelle retribuzioni e con obblighi formativi più stringenti. I numeri sull’apprendistato vanno di pari passo con i tirocini: 348 mila attivazioni nel 2019, 237 mila nel 2020. L’impressione è che aumenterebbero se non fosse così semplice e conveniente assumere persone come stagiste. Ma finora non si è posto il problema e, anche ora che ci si avvia a rendere esecutiva la stretta sui tirocini extracurricolari, non è detto che a beneficiarne saranno i contratti di apprendistato. Anche una volta stabilite le norme restrittive, resta tra l’altro il problema degli scarsi controlli: nel 2020, per esempio, le ispezioni hanno permesso di accertare solo 200 tirocini fittizi.

Mala Concessione

Chi pensava che la nascita del governo Draghi, o meglio l’arrivo dell’ex Bce a Palazzo Chigi, avrebbe cambiato le cose è rimasto deluso. Lo Stato continua a regalare la sua proprietà pubblica ai privati. Per pigrizia, per la pavidità di una certa burocrazia, per connivenza o perché così si è sempre fatto, fatto sta che in cambio di briciole si garantiscono profitti stellari e rendite di posizione ad attori che il loro valore aggiunto lo manifestano soprattutto nelle pressioni lobbistiche.

Il sistema delle concessioni è imperfetto, ma l’Italia riesce a regolarlo nel peggiore dei modi. La proprietà resta allo Stato che ne affida la gestione: in teoria questa serve a ripagare gli investimenti, remunerandoli in modo adeguato, ma anche a tutelare i beni e i clienti evitando abusi. Lo Stato in Italia non fa nulla per assicurarsi che questo avvenga: basti dire che trovare dati unitari su tutte le concessioni d’uso è impossibile.

I casi che leggete in queste pagine sono tra i più clamorosi. Le concessioni balneari e quelle per le acque minerali e termali hanno ormai decenni, pagano canoni dello zerovirgola a fronte di fatturati di tutto rispetto e di controlli nulli. Il governo Draghi si è ben guardato dal metterci mano e ora che il Consiglio di Stato l’ha obbligato a fare le gare, almeno per i balneari, la soluzione trovata è un tavolo tecnico a cui sono invitati solo i lobbisti di settore. Non si tratta di punire imprese a conduzione familiare, ma di garantire utili equi evitando un danno alla collettività, visto che si tratta di beni di tutti.

Il guaio è che lo Stato per primo dà il cattivo esempio. Basta guardare Autostrade per l’Italia. I ministri dei Trasporti e dell’Economia stanno spingendo per chiudere la ferita del Morandi facendo pagare a Cassa depositi e prestiti, in cordata con due fondi esteri, 8 miliardi ad Atlantia per prendersi il concessionario. È questa la punizione per una tragedia che è costata 43 morti? A Cdp e soci il ministero dei Trasporti, con l’ok dell’Authority, assicurerà un Piano tariffario che garantirà pedaggi stellari e 16 miliardi di utili fino al 2038. “Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione”, disse Draghi al suo insediamento. Intendeva questo?