Se c’è un simbolo di come una cosa di tutti possa essere privatizzata per il guadagno di pochi quella è l’acqua. Non si parla qui del servizio idrico, su cui pure qualcosa ci sarebbe parecchio da dire, ma delle concessioni sulle acque minerali e termali, la cui assegnazione in qualche caso si perde nella notte dei tempi: basti dire che l’autorizzazione della mitica Sorgente San Pellegrino 1 a San Pellegrino Terme, nel bergamasco, data giugno 1933. I numeri sono presto detti: all’ultima rilevazione del Tesoro (2018) lo Stato incassava da 307 concessioni per l’acqua minerale (il 15% in Piemonte, l’11% in Lombardia e Lazio) meno di 20 milioni di euro all’anno; il fatturato del settore tra mercato interno ed export arriva invece vicino ai 4 miliardi. Insomma i canoni concessori valgono lo 0,5% dei ricavi, che in larga parte finiscono in tasca a grosse aziende: in sostanza un trasferimento di ricchezza dalla collettività alle grande impresa privata. La situazione delle acque termali, anche se le aziende sono di minori dimensioni, non è diversa: oltre 800 milioni di euro di fatturato pre-Covid, neanche 2 milioni di canoni versati (lo 0,2%, ma il fatturato contando l’indotto non “sanitario” sale a circa 2 miliardi).
Torniamo all’acqua minerale. L’Italia è il nono mercato al mondo e il primo per consumo pro-capite, secondo il report 2021 dell’area studi di Mediobanca: il fatturato 2019 delle 82 aziende sopra il milione di ricavi ha superato i 3,8 miliardi (un terzo dovuto all’export) e i primi cinque gruppi valgono il 66% del totale (le imprese a controllo estero sono sei e pesano per 1,5 miliardi di ricavi). I numeri sono favolosi, per quanto in calo rispetto al passato: l’utile operativo medio del comparto è del 9,6%, il ritorno sull’investimento (Roi) al 14,9%, quello sul capitale proprio al 20,3%. Se non siamo in zona Google non siano neanche lontani. E chi si gode questo Bengodi realizzato imbottigliando e mettendo l’etichetta ad acque di proprietà dello Stato per 19 milioni l’anno? I dominatori del mercato sono due: il primo è il gruppo San Pellegrino (che ha anche altri marchi come Levissima) di proprietà della multinazionale Nestlè, il secondo è il gruppo San Benedetto (Nepi, Guizza) della famiglia Zoppas, quella che fu degli elettrodomestici. Queste due imprese, da sole, valgono circa un terzo del mercato italiano. Rilevanti anche la piemontese Fonti di Vinadio (marchio Sant’Anna) della famiglia Bertone, un tempo dedita all’edilizia, e le campane Lete (Nicola Arnone) e Ferrarelle (Lgr Holding della famiglia Pontecorvo), quarto gruppo italiano in volume. Poi c’è Acque Minerali d’Italia (Norda, Guadianello, Sangemini) finito l’estate scorsa nell’orbita di Clessidra e del fondo americano Magnetar a testimoniare di un mercato che attrae molti capitali, anche stranieri: la Coca Cola ha rilevato nel 2019 Lurisia, l’olandese Refresco s’era già presa Spumador e Recoaro. Insomma, non esattamente il ritratto della Pmi che l’occhio benevolo dello Stato deve tutelare dai moloch della finanza cattiva.
Le acque termali sono un caso simile nei numeri, ma diverso nella pratica: anche se realizzano un quarto del fatturato, occupano il doppio dei lavoratori (15mila contro 7.500 a non contare l’indotto) e non garantiscono automaticamente guadagni da Silicon Valley. Il canone concessorio da 1,9 milioni l’anno però resta ridicolo. Si parla qui delle sole strutture sanitarie, autorizzate dalle Regioni, che utilizzano in concessione acque riconosciute come terapeutiche dal ministero della Salute: oltre 300 concessionari distribuiti su tutti il territorio nazionale (Molise escluso) che – secondo la Confindustria di settore – nel 2019 avevano messo assieme ricavi per oltre 800 milioni nel solo ambito sanitario, che arrivavano a sfiorare i due miliardi contando l’indotto. Al proprietario di quel tesoro naturale, la collettività, finiscono le briciole.