L’affare multinazionale dell’acqua minerale: il regalo a Nestlè e soci

Se c’è un simbolo di come una cosa di tutti possa essere privatizzata per il guadagno di pochi quella è l’acqua. Non si parla qui del servizio idrico, su cui pure qualcosa ci sarebbe parecchio da dire, ma delle concessioni sulle acque minerali e termali, la cui assegnazione in qualche caso si perde nella notte dei tempi: basti dire che l’autorizzazione della mitica Sorgente San Pellegrino 1 a San Pellegrino Terme, nel bergamasco, data giugno 1933. I numeri sono presto detti: all’ultima rilevazione del Tesoro (2018) lo Stato incassava da 307 concessioni per l’acqua minerale (il 15% in Piemonte, l’11% in Lombardia e Lazio) meno di 20 milioni di euro all’anno; il fatturato del settore tra mercato interno ed export arriva invece vicino ai 4 miliardi. Insomma i canoni concessori valgono lo 0,5% dei ricavi, che in larga parte finiscono in tasca a grosse aziende: in sostanza un trasferimento di ricchezza dalla collettività alle grande impresa privata. La situazione delle acque termali, anche se le aziende sono di minori dimensioni, non è diversa: oltre 800 milioni di euro di fatturato pre-Covid, neanche 2 milioni di canoni versati (lo 0,2%, ma il fatturato contando l’indotto non “sanitario” sale a circa 2 miliardi).

Torniamo all’acqua minerale. L’Italia è il nono mercato al mondo e il primo per consumo pro-capite, secondo il report 2021 dell’area studi di Mediobanca: il fatturato 2019 delle 82 aziende sopra il milione di ricavi ha superato i 3,8 miliardi (un terzo dovuto all’export) e i primi cinque gruppi valgono il 66% del totale (le imprese a controllo estero sono sei e pesano per 1,5 miliardi di ricavi). I numeri sono favolosi, per quanto in calo rispetto al passato: l’utile operativo medio del comparto è del 9,6%, il ritorno sull’investimento (Roi) al 14,9%, quello sul capitale proprio al 20,3%. Se non siamo in zona Google non siano neanche lontani. E chi si gode questo Bengodi realizzato imbottigliando e mettendo l’etichetta ad acque di proprietà dello Stato per 19 milioni l’anno? I dominatori del mercato sono due: il primo è il gruppo San Pellegrino (che ha anche altri marchi come Levissima) di proprietà della multinazionale Nestlè, il secondo è il gruppo San Benedetto (Nepi, Guizza) della famiglia Zoppas, quella che fu degli elettrodomestici. Queste due imprese, da sole, valgono circa un terzo del mercato italiano. Rilevanti anche la piemontese Fonti di Vinadio (marchio Sant’Anna) della famiglia Bertone, un tempo dedita all’edilizia, e le campane Lete (Nicola Arnone) e Ferrarelle (Lgr Holding della famiglia Pontecorvo), quarto gruppo italiano in volume. Poi c’è Acque Minerali d’Italia (Norda, Guadianello, Sangemini) finito l’estate scorsa nell’orbita di Clessidra e del fondo americano Magnetar a testimoniare di un mercato che attrae molti capitali, anche stranieri: la Coca Cola ha rilevato nel 2019 Lurisia, l’olandese Refresco s’era già presa Spumador e Recoaro. Insomma, non esattamente il ritratto della Pmi che l’occhio benevolo dello Stato deve tutelare dai moloch della finanza cattiva.

Le acque termali sono un caso simile nei numeri, ma diverso nella pratica: anche se realizzano un quarto del fatturato, occupano il doppio dei lavoratori (15mila contro 7.500 a non contare l’indotto) e non garantiscono automaticamente guadagni da Silicon Valley. Il canone concessorio da 1,9 milioni l’anno però resta ridicolo. Si parla qui delle sole strutture sanitarie, autorizzate dalle Regioni, che utilizzano in concessione acque riconosciute come terapeutiche dal ministero della Salute: oltre 300 concessionari distribuiti su tutti il territorio nazionale (Molise escluso) che – secondo la Confindustria di settore – nel 2019 avevano messo assieme ricavi per oltre 800 milioni nel solo ambito sanitario, che arrivavano a sfiorare i due miliardi contando l’indotto. Al proprietario di quel tesoro naturale, la collettività, finiscono le briciole.

Riecco i balneari: 15 mld di ricavi, pagano lo 0,6%

Erieccoci ai balneari o, per meglio dire, alle concessioni di demanio marittimo, fluviale e lacustre: una vicenda giudiziaria e normativa che spazia lungo una quindicina d’anni, uno spostamento enorme di risorse dal pubblico ai privati che dura da decenni e si calcola con cifre a nove zeri ogni singolo anno.

Partiamo dalla fine. A novembre il Consiglio di Stato ha stabilito che le concessioni in essere scadranno a fine 2023: basta con le proroghe, quelle vecchie sono illegittime, entro due anni bisogna metterle a gara. Come farlo, in base a quali criteri, tutelando quali interessi, è un busillis irrisolvibile dal lontano 2006: per capirlo il governo ha riaperto un tavolo tecnico rimasto praticamente deserto dal 2018, anno in cui s’era stabilito che prima di muoversi serviva una puntuale ricognizione dello stato dell’arte (mai fatta visto che la si invoca anche ora). Al tavolo, curiosamente, gli unici invitati sono gli attuali gestori degli stabilimenti.

Ora torniamo invece all’inizio. Fino al 1977 sulle spiagge governava lo Stato, poi sono arrivate le Regioni: è a questa diversa era geologica che risalgono quasi tutte le concessioni in essere. È del 2006 invece la famigerata direttiva europea Bolkenstein, che ha dato il via alla tarantella che balliamo ancora oggi: ridotta all’osso, la norma Ue prevede la messa a gara delle concessioni, ma da allora tutti i governi hanno continuato a prorogare quelle in essere sulle spiagge. La cosa ha ovviamente comportato l’avvio di un contenzioso incrociato tra i vari attori. Basti dire che la prima procedura d’infrazione aperta dall’Ue sul tema risale al 2008, poi ritirata perché l’Italia aveva fatto qualche mossa: fu abrogato all’epoca il cosiddetto “diritto di insistenza” , cioè la preferenza accordata al gestore in essere al momento del rinnovo della concessione.

Il punto di svolta è del 2016, quando la Corte di Giustizia Ue giudicò contraria al diritto comunitario la legislazione italiana sul tema (cosa pacificamente evidente anche da un paio di sentenze della Consulta): nel 2018 l’Italia promette una riforma, ovviamente all’esito della ricognizione di cui sopra, ma la legge di bilancio per il 2019 (governo gialloverde) proroga invece le concessioni in essere per altri 15 anni, fino al 2033. Il governo Draghi, nel cosiddetto “ddl Concorrenza”, ha buttato la palla in tribuna, ma a novembre il Consiglio di Stato gli ha scombinato i piani: dopo diverse sentenze contrastanti nei Tar di mezza Italia, l’organo supremo della magistratura amministrativa ha sancito l’illegittimità di ogni proroga e la scadenza di ogni concessione a fine 2023. In sostanza, entro due anni il governo deve riformare la disciplina del settore e le Regioni fare le gare: a questo serve l’odierno tavolo tecnico.

I balneari, dal canto loro, hanno ottime sponde politiche (trasversali con particolare incidenza nella Lega) e poche ragioni: una concessione è fatta per ripagare i suoi investimenti durante il suo arco di vita, specie se dura da decenni, se poi il problema è tutelare le Pmi contro i big mondiali del turismo questo può essere fatto anche in un sistema che preveda le gare.

L’unica cosa certa è che il sistema attuale è un furto ai danni della collettività. Come ha scritto la Corte dei Conti, che localmente ha anche avviato alcune inchieste per danno erariale, “i canoni attualmente imposti non risultano proporzionati ai fatturati conseguiti dai concessionari”. Qualche cifra aiuta a capire: le 12.166 concessioni a uso turistico in vita nel 2021 hanno portato un incasso medio allo Stato nel quinquennio 2016-2020 di 101,7 milioni di euro (peraltro dieci in meno di quanto realmente dovuto) in un settore il cui giro d’affari è calcolato in 15 miliardi: riassumendo all’erario finisce lo 0,6% annuo del fatturato di un’industria che vende in sostanza l’uso di un bene pubblico con qualche servizio sopra (ombrelloni, bar, pedalò, etc).

La testimonianza plastica della follia del sistema è dato dalla pratica “ancora diffusa” delle sub-concessioni ovvero “l’affidamento a terzi della gestione” (è la Corte dei Conti a parlare). Come funziona? Prendiamo il caso di Flavio Briatore. Quando una ventina d’anni fa aprì il Twiga a Marina di Pietrasanta – 4 milioni di fatturato nel 2019 – la sua azienda pagava l’affitto al “vero” concessionario: 110mila euro l’anno inizialmente, poi divenuti 200mila, più il canone dovuto allo Stato (4.300 euro, poi saliti a 14mila). Alla fine Briatore è riuscito a comprarsi la concessione: la cifra non si sa, ma al Fatto nel 2014 disse che la richiesta all’epoca era 8 milioni.

Affari milionari tra privati che hanno come oggetto un bene dello Stato, che ne ricava zero e nel frattempo neanche sa cosa succede al suo patrimonio: ispezioni e controlli sono pochi e persino in casi gravi quasi mai arriva la decadenza della concessione; il “Sid – Portale del mare” che dovrebbe garantire un aggiornamento della situazione in tempo reale non è alimentato come dovrebbe e pare pensato in un’altra era. Basti dire che s’è deciso che il sito non userà strumenti di rilevazione fotografica e cartografica: costano troppo, mica come le concessioni.

C’è Moby Dick. Gassman diventa Achab e il mare delle “balene” svela la sua magia

Passeggiando sul porto vecchio di Genova mi appare una nuova costruzione, bianchissima, sembra una vela, o il dorso di una balena. Ci guardo dentro, spio e vedo che stanno facendo delle prove teatrali: Il Moby Dick, ovvero Ulisse e la balena bianca, ideato, voluto, scritto e celebrato da Vittorio Gassman. Che meraviglia! Mentre osservo mi viene in mente un documentario che ho visto in tv sulle balene; raccontava che questi enormi cetacei dispongono di un’estensione vocale di almeno sette ottave, di conseguenza il canto delle balene è fatto di ritmi e schemi identici ad alcune forme musicali umane. Del resto gli uomini di mare hanno sempre descritto questi canti, ammalianti, e capaci di attrarre la mente e catturare il cuore. Nel suo capolavoro Melville affronta il tema dell’ignoto, del riscatto, e trasforma il viaggio del capitano Achab in un’allegoria della condizione della natura umana, la lotta rappresenta una sfida tra il bene e il male. Gassman è lì, nelle vesti di Achab, che dà ordini alle masse di mimi e ballerini, agile nonostante la gamba di legno; sussurra un tono a un’attrice, si incaponisce con un altro attore, ascolta, ride, interviene, poi tutto si blocca e prova il suo monologo. Non sento nulla, eppure percepisco tutto, l’aria è immobile, c’è un’atmosfera bellissima come se l’universo si fosse fermato ad ascoltarlo. Ho i brividi. Achab, Ulisse, Vittorio: un bel trio, non c’è che dire. Le prove s’interrompono, tutti si dileguano verso le mense, qualcuno gli chiede qualcosa poi va via. Gassman rimane lì, solo, si svita la gamba di legno e la osserva a lungo, sembra pensoso. Forse ripassa, forse riflette sulla messa in scena, i riccioli lunghi e la barba possente gocciano di sudore.

Se Melville avesse visto le prove di questo spettacolo avrebbe odiato di meno la sua grande balena bianca o forse di più.

 

Pezzi di giornalismo. I protagonisti da fiction dell’Italia reale raccontata da Massimo Fini

Voi vi trovate in mano un grosso libro di Massimo Fini, (Il giornalismo fatto in pezzi, Marsilio) e mentre cercate in quale parte degli scaffali stracolmi troverà posto, dopo averlo sfogliato, vi rendete conto che state cadendo in una trappola. Poiché gli ultimi cinque libri di narrativa che avete ricevuto nelle ultime settimane superano le 300 pagine, questo corposo volume di 600 pagine non può che essere fiction. Errore? Eppure l’autore vi aveva avvertito mandando avanti un titolo che annuncia una raccolta di frammenti di giornalismo, come dire: ciò che è rimasto in bottega dopo una vita di reporting. Non so per quale ragione ma il titolo inganna e vuole apparire stranamente umile e un po’ laterale, sotto la firma orgogliosa di Massimo Fini. In realtà questo libro vi prende di sorpresa perché non è fiction. Personaggi, interpreti e situazioni sono vere e solidamente ambientate nella realtà. Ma è un grande romanzo, parte del racconto di un’epoca, stracarico di materiali realmente accaduti e di personaggi realmente esistiti.

Di solito il grande romanzo, come avverte Tommasi di Lampedusa, qua e là cambiai fatti, pur senza alterare la storia. Fini fa il contrario, rinuncia a qualche prova di verità dei suoi racconti pur di non scostarsi dall’ossatura del vero, non come un testimone ma come marchio di fabbrica del narratore. Il lettore sente che l’abilità narrativa è grande, ma niente si deve alla abilità narrativa. Quando le virgolette si chiudono, la battuta è quella. e altrove ne troveremo la conferma o la coincidenza. Ciò che cattura subito la decisione del lettore di non andare via e di sapere di più è una tecnica narrativa alla Kubrick di cui non so se Fini si renda conto. Va vicinissimo alla persona che userà come testimone e narratore. Resta a una distanza cauta e rispettosa dai grandi eventi, dai grandi ambienti, dai grandi spazi (Milano, Torino, le fabbriche) in modo che sia il lettore e non l’autore a vedere.

Ma lungo il percorso i racconti crescono, si fanno più romanzo. Se scorrete l’indice avete l’impressione di una grande collezione di argomenti e persone. Se cedete all’invito ed entrare nel percorso tracciato dall’autore, scoprite uno spazio vasto, vasto, appunto, come lo spazio di un romanzo, popolato da personaggi distinti da un tratto fisico o da un frammento di linguaggio, ben identificabili anche da lontano, descritti nei dettagli, ma senza un giudizio. Alcuni brani potrebbero essere definite interviste (Suni Agnelli, Inge Feltrinelli, Stefania Sandrelli, decisamente le più belle in quegli anni) ma in realtà sono le voci di un’unica coerente narrazione, come lo sono, quando passano attraverso le pagine, le figure di Olivetti, Agnelli (Gianni e Umberto) , Pirelli, Feltrinelli, Luchino Visconti, Nureyev, come lo è la folla di italiani che fa da comparsa al vasto evento che è il romanzo di Massimo Fini, gremito di vita, persone ed eventi che non sono schizzati fuori dal giornalismo ma solo i protagonisti di una grande narrazione.

 

Il giornalismo fatto in pezzi – Massimo Fini, Pagine: 600, Prezzo: 28, Editore: Marsilio

Mail Box

Il generale che non sa quale uniforme indossare

Ma Figliuolo ha le idee chiare? Ha risolto i problemi di dicotomia fra generale e specialista? Come tutti i generali dell’Esercito veste l’uniforme da generale, appunto, però copre la testa con un simbolo da specialista: infatti gli Alpini sono una specialità della Fanteria, che a sua volta è una delle cinque Armi dell’Esercito. È come se un primario ospedaliero si presentasse in corsia con il camice da portantino: una contraddizione. Inoltre indossa indistintamente l’uniforme o la tuta, senza tener conto del buon senso o del regolamento sull’uso dell’uniforme: ordinaria con il pubblico o in città, mimetica per operazioni di campagna o esercitazione. Speriamo che nelle operazioni che dirige abbia le idee più chiare.

Paolo Latini

 

Dopo un anno di Draghi, Mattarella si è pentito?

Forse un anno fa quelli che hanno “insediato” Draghi a capo del nuovo governo di larghe intese pensavano che la pandemia sarebbe stata vinta in pochi mesi con le vaccinazioni e, quindi, era giunto il momento di mettere le mani sul “malloppo europeo” – magari facendo evaporare i 5 Stelle. Credo che la variante Omicron abbia rotto loro le uova nel paniere. Ha ragione il professor Montanari quando scrive: “Questa Italia, dominata da una classe dirigente anziana e avida, non vede il futuro prossimo di tutti, ma solo l’interesse immediato di pochissimi. E, dunque, continua a banchettare sulla nave che sta ormai affondando”. Tanto poi chi paga dazio è sempre il popolo che sì, ha le sue responsabilità, che però sono spesso indotte dalla classe dirigente attraverso i media e i programmi televisivi “leggeri”, che intontiscono la gente: meglio che non pensi troppi e si appassioni piuttosto a robe come il GF Vip ecc. Ovviamente la situazione è complicata dalla corsa al Quirinale, intrecciata con la pandemia. Ne potrebbe approfittare B., realizzando il suo sogno e facendoci diventare pagliacci di fronte al mondo intero. Il presidente Mattarella non si è mai chiesto se ha agito bene, un anno fa, a seguire i consigli di chi gli suggeriva questo governo di larghe intese?

Ruggero Franceschi

 

Il Nano ha rovinato tutto e ora vuole pure il Colle

Siamo al capolinea. L’ho capito quando un amico, vedendomi costernato di fronte all’eventualità di un Berlusca puttaniere e pregiudicato al Quirinale, mi ha detto che “tanto, non cambia nulla”. Gli ho risposto che “è vero, ha cambiato tutto lui”, nel senso che ha reso la politica a sua immagine e somiglianza. La corruzione e i ricatti imperano nei palazzi del potere, i magistrati sono vituperati e screditati, i media con gli occhi foderati di prosciutto ci dicono che siamo governati dai “migliori” e si dimostrano incuranti del fatto che a breve potremmo avere i ritratti di un pregiudicato appesi nelle stanze istituzionali di tutta Italia. E così la legalità, sempre difesa dal Fatto e dai veri democratici, avrà il suo benservito.

Luciano Giovannini

 

Il nuovo libro di Vespa va venduto a metà prezzo

Si è molto ironizzato, a mio avviso giustamente, sul frettoloso e opportuno stop, all’inizio dell’autunno 2020, del libro di Speranza intitolato Perché guariremo: dai giorni più duri a una nuova idea di salute. Poco più di un anno dopo ha invece avuto regolare pubblicazione, con onore delle consuete liturgie di presentazione, il libro di Bruno Vespa intitolato Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando). Nulla da eccepire sulla prima parte del titolo, ma visto che la pubblicazione è ormai avvenuta e dato l’evidente avvitamento della situazione di governo, credo che sarebbe appropriato offrire al pubblico il prezioso saggio di Vespa a prezzo ridotto, privo della seconda parte.

Umberto Monterubbianesi

 

I lupi sanno organizzarsi meglio di noi uomini

Nel libro di Konrad Lorenz E l’uomo incontrò il cane, c’è un racconto di come un lupo, quando sente di diventare anziano e più vulnerabile, finisce per trascinare il proprio branco (che non è soltanto un insieme di individui, ma un’organizzazione sociale ben più complessa, che risponde a determinate regole e seguendo particolari gerarchie, come un nucleo sociale) in un’avventura piena di pericoli, ostacoli, insidie, in modo che tra loro emerga un altro esponente più forte e intelligente, che li porti via e prenda il suo posto. Così Travaglio ha espresso in poche righe, in una sintesi d’effetto, il finale di un suo editoriale: “Una delle più importanti differenze tra gli uomini e gli animali è che gli animali non permettono al più idiota di diventare capobranco”.

Giorgio De Tommaso

I meriti di renzo Arbore e l’accademia francese troppo poco “british”

PROMOSSI

Era ora! Innovatore di radio e televisione, regista, musicista, talent scout, ambasciatore del talento italiano nel mondo: Renzo Arbore è diventato Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica. Il presidente Mattarella sabato ha insignito il grande showman della prestigiosa onorificenza per meriti artistici. Noi da anni sogniamo Renzo senatore a vita: piano piano ci arriveremo…

 

NON CLASSIFICATI

Sanremo point of view. Da tempo sappiamo chi sono i big in gara, finalmente sappiamo anche chi sono le signore che affiancheranno Ama nella conduzione del Festival: Ornella Muti (martedì), Lorena Cesarini (mercoledì), Drusilla Foer (giovedì) Maria Chiara Giannetta (venerdì) e Sabrina Ferilli (sabato). Sappiamo che ci saranno Checco Zalone (oggettivamente il più grande colpo di Amadeus, il mercoledì) e Roberto Benigni (il venerdì). Tra gli ospiti musicali, dopo il diniego di Jovanotti (“sono impegnato come autore della canzone di Morandi, non ho testa per altro”) e di Vasco, arriverà Cesare Cremonini. Il posto d’onore per l’ultima sera è riservato a Fiorello, ma non è per nulla scontato che alla fine decida di andare. Quel che è certo intanto è che sarà un Sanremo blindato come l’anno scorso: tamponi obbligatori per tutti ogni 48 ore, oltre al Green Pass. Sia gli artisti che i giornalisti che lo staff dovranno eseguire un tampone ogni 48 ore e solo una volta ricevuto l’esito negativo otterranno l’accredito per accedere agli spazi del Festival. E il pubblico? Per ora la legge prevede la capienza dei teatri al 100% ma, la Rai sta valutando come procedere. È sicuro che ci sarà l’obbligo di indossare sempre le mascherine Ffp2.

Aux armes, citoyens! L’Accademia della Crusca francese è sul piede di guerra: sulle nuove carte di identità del Paese ci sono delle parole in inglese! Esiste infatti un regolamento europeo che richiede la traduzione delle parole “Carta d’identità” in almeno un’altra lingua dell’Ue, ma Bruxelles lascia la decisione se tradurre o meno il resto del documento agli Stati membri. Le carte d’identità tedesche includono traduzioni sia in inglese che in francese, in Italia sono bilingue (anche in inglese) le diciture “nome”, “cognome” o “nazionalità”. L’accademia è addirittura pronta a fare causa al governo di Parigi. Hélène Carrère d’Encausse, “segretaria perpetua” dell’Académie ha detto a “Le Figaro” che è stato un oltraggio “mettere l’inglese alla pari del francese” sulle carte d’identità: la decisione, presa “di nascosto”, è illegale e deve essere revocata. Per questo ha incaricato gli avvocati di scrivere al primo ministro Castex per cancellare i termini inglesi dai documenti sostendo che contravvengono alla costituzione, che stabilisce che “il francese è la lingua della Repubblica”. In caso contrario, entro due mesi, l’organismo porterà il caso al Consiglio di Stato. Noi decisamente esageriamo con la mania dell’inglese, ma pure i francesi… Restez calmes!

 

BOCCIATI

Giovani, carini e… incazzosi Fabio D’Innocenzo, regista insieme al fratello Damiano di Favolacce, è stato protagonista di una rissa social. Un utente ha scritto su Istagram: “Vediamo se i grandi fratelli D’Innocenzo sono riusciti a fare un film più brutto del primo, ma soprattutto più brutto del secondo”. Lui ha cominciato a criticare il tizio lasciando sulla di lui pagina commenti pieni di insulti e bestemmie. Prima di lasciare Instagram ha postato delle scuse. “Mi scuso con chi ha subito un insulto come reazione a una sua opinione. Non credo che Instagram sia un posto adatto a me perché abbraccia la possibilità di soccombere alle proprie vulnerabilità: la mia è l’insicurezza. Il non riuscire. Il non essere all’altezza”. Scusarsi era il minimo. Però gli vogliamo dire di provare a immaginare come si sentono poco all’altezza tutti quelli che non sono un regista giovane, carino e già premiato a Berlino…

 

Sassoli, di timmermans il ricordo più bello. Il “tradimento” di Becchi

Oltre.Esistono dei limiti che non andrebbero mai superati. Mai. Persino i dispregiatori di mestiere dovrebbero sapere che esiste un momento in cui bisogna fermarsi, che il proselitismo fatto avvelenando i pozzi, oltre una determinata soglia, avvelena innanzitutto chi lo fa. Paolo Becchi, filosofo, professore ordinario di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Genova, nel corso della sua vita ha deciso di aderire a quel patto sociale che permette agli uomini di rivestire incarichi pubblici e di essere considerati relatori implicitamente accreditati al dibattito culturale collettivo. O almeno così credevamo. La scorsa settimana il professor Becchi ha violato quel patto sociale, superando la soglia del consentito e rompendo quel tacito accordo che permette agli esseri umani di convivere – o morire – in civiltà. Becchi ha speculato in maniera del tutto pretestuosa sulla morte di David Sassoli, al solo fine di utilizzare la ribalta della notizia per mettere in luce le proprie teorie antivacciniste: “Rispetto per la morte di #DavidSassoli. Ma è morto in seguito alla terza dose? Non c’è nessuna correlazione? Non rendete pubblica neppure l’autopsia? O non la fate neppure? Costringete la gente a vaccinarsi e a morire. State costruendo una tirannia sanitaria mai esistita prima”. Sassoli è morto per un mieloma, Paolo Becchi ha tradito il galateo degli uomini.

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Ponti e a capo.La prematura e improvvisa scomparsa di David Sassoli ha lasciato sgomento l’intero mondo politico-giornalistico e non solo. Tra le mille voci che lo hanno sentitamente ricordato, colpiscono le parole di Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, che con il presidente del Parlamento europeo ha lavorato fianco a fianco dal 2014, costruendo con lui un forte rapporto di amicizia: “Per lui è stato difficile nella pandemia come far operare il Parlamento. C’erano visioni diverse nell’emiciclo ma lui era un vero pontifex, era un costruttore di ponti, anche tra politici che hanno una distanza enorme sapeva trovare il modo per parlare con loro, con il suo modo di sorridere. Non ho mai visto nessuno arrabbiato con David, sapeva sempre trovare il giusto modo per far sentire l’altro a proprio agio anche se non parlava italiano: servivano 5 secondi e poi David aveva costruito il suo ponte. Dal quando è diventato presidente del Parlamento europeo ha operato così”. Le qualità umane, la comprensione, la gentilezza, la capacità di ascoltare, sono quelle caratteristiche che permettono alla politica di riunire invece di dividere, di tessere invece di disfare, di coinvolgere invece di allontanare. David Sassoli aveva quelle qualità e le ha sapute usare, in Italia e in Europa. Basta vedere le reazioni alla sua morte per capire quanti ponti sia riuscito a costruire.

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Poveri noi.Roberto Burioni ha commentato così l’esaurimento dello Zitromax nelle farmacie italiane: “’Scarseggia nelle farmacie l’antibiotico usato per curare Covid-19’. Il fatto che scarseggi un farmaco che non rientra nelle linee guida per la terapia di Covid spiega bene la nostra situazione”. Effettivamente la dice lunga.

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Il cattolico Sassoli. Quell’impegno che nasceva da Don Milani e Turoldo

Durante la radiocronaca dei funerali di David Sassoli, ho ascoltato una cronista politica definirlo prima socialista e poi, messo in second’ordine, cattolico. Una grave imprecisione per chi conosceva la formazione culturale e ideale di Sassoli. Non so se quella giornalista sia di area di sinistra e se, soprattutto abbia studiato bene la storia del cattolicesimo democratico. Ma è certo che non ha un’idea precisa di ciò che quel filone ha rappresentato e rappresenta nella storia della politica Italiana e del pensiero del nostro Paese

Carlo Iemoli

 

Sono d’accordo con lei: definire Sassoli come socialista, e solo in un secondo momento cattolico, è travisare la sua bella e coerente storia personale. Da dove nascesse il suo pensiero è noto, anche per ragioni familiari: dal cattolicesimo “eretico” di Don Milani e di David Maria Turoldo (Sassoli si chiamava proprio così: David Maria), poi dall’esperienza di formazione negli scout, dalla militanza cultural-politica nella Rosa Bianca di Paolo Giuntella e infine dai contatti con la Comunità di Sant’Egidio. Semmai, varrebbe la pena ricostruire il diverso modo di svilupparsi dell’impegno dei cattolici sociali nell’Italia del dopo 25 aprile 1945. Con i cattocomunisti di Franco Rodano e Felice Balbo, la sinistra sociale della Dc guidata da Carlo Donat-Cattin, che praticava un anticomunismo non reazionario, ma piuttosto intendendo il Vangelo come alternativa piena al marxismo leninismo proprio sul terreno dei diritti dei più deboli, e infine la sua nuova versione dopo la fine della Guerra Fredda. Quella ispirata da intellettuali come Achille Ardigò o Pietro Scoppola, per esempio, e che trovò in giovani come Giuntella e lo stesso Sassoli, accomunati singolarmente dal mestiere di giornalista, nuovi interpreti. Essendo di parte, come ha spiegato nella sua omelia funebre il cardinale di Bologna Matteo Maria Zuppi, “ma intendo, come parte, la persona umana”. Personaggi che, purtroppo, non hanno avuto la fortuna di trovare anche il seguito e gli strumenti per costruire un nuovo modo autonomo e significativo di concepire l’impegno politico dei cattolici nella società italiana. E in questo non certo aiutati da una Chiesa che ormai è molto più arretrata dei suoi stessi laici impegnati.

Ettore Boffano

Juve non al Max. Tanto Allegri d’estate, ma molto meno Allegri nel freddo inverno

Allegri d’estate, meno Allegri d’inverno. Capita, a volte. Pochi giorni fa, alla vigilia di Roma-Juventus Massimiliano Allegri in conferenza-stampa ha testualmente detto: “Sono venuto qui sapendo che era l’anno in cui bisognava cambiare la squadra, cominciare a lavorare per iniziare nel giro di un anno o due a competere e lottare per lo scudetto. Ci vuole pazienza. Tutti vorremmo vincere, lottare per lo scudetto, ma ci sono momenti in cui devi costruire e tornare nel giro di uno-due anni a lottare per lo scudetto”. Nessun giornalista ha fiatato: tutti a far segno di sì col capino. E però, possibile che nessuno ricordasse le parole del tecnico alla presentazione del 27 luglio scorso? Allora, col presidente Agnelli seduto alla sua sinistra, il buon Max aveva parlato in ben altro modo: aveva detto che la Juventus partiva per vincerlo, lo scudetto. E non solo.

Scudetto. “Mi sento responsabile della scelta che ho fatto verso una società che mi ha dato la possibilità di tornare ad allenare e soprattutto di tornare a vincere, che alla fine è quello che conta. Dobbiamo essere bravi piano piano a costruire un percorso che ci porterà a fine maggio, che è quello che conta, a vincere il campionato”. Testualmente, e dopo un grazie ai suoi predecessori. “Trovo una squadra che negli ultimi due anni ha vinto un campionato con Maurizio Sarri e due trofei con Andrea Pirlo, devo lavorare su quello che mi è stato lasciato: un buon lavoro con buoni giocatori”.

Qualità. “Sono molto contento della rosa che ho a disposizione. La fortuna che ho è che questa squadra ha tanti giocatori che hanno gol nelle gambe: Chiesa, Ronaldo, Morata, Dybala, Kulusevski, Bernardeschi, Rabiot, McKennie. Alla fine del campionato bisogna fare 75 gol; le punte di solito ne fanno 40-45, poi bisogna trovare tra centrocampisti e difensori. Rabiot l’anno scorso ha fatto 3 gol, per la qualità che ha sono pochi, deve farne di più. McKennie anche. Poi abbiamo buoni saltatori di testa quindi sotto questo aspetto la squadra ha grandi potenzialità”. Si sentiva ricco in estate Allegri. Eppure, anche dopo i 4 gol rifilati alla Roma, la Juve con questo ben di Dio ha segnato meno di Inter, Milan, Napoli, Atalanta, Fiorentina, Roma, Lazio, Sassuolo, Empoli e Verona. Mezza Serie A.

Tabella. “Io credo che l’obiettivo di questa squadra è vincere più competizioni possibili e soprattutto per me creare valore su questi giocatori, cioè migliorarli: la cosa per cui sono stato chiamato. L’allenatore deve portare risultati e creare valore. Io credo che in questo campionato tra 86 e 88 punti sarà la quota scudetto. Il corto muso? Non è che devi vincere il campionato con 10 punti di vantaggio: l’importante è arrivare in fondo e quel punticino che basta per portare a casa lo scudetto”. Peccato che a fine andata la Juve abbia girato a 34 punti, che vorrebbe dire 68 finali: quota insufficiente anche per acchiappare il quarto posto che vale la Champions. E peccato che di valore aggiunto Max ne abbia riversato ben poco su Rabiot, Arthur, Kulusevski, Kean, Ramsey, Alex Sandro, Kaio Jorge. Persino Chiesa è sembrato a lungo un separato in casa.

Proclama. “Questa è una squadra divertente da allenare. Però divertente è un discorso, bisogna vincere. È l’unica cosa che conta, la cosa più importante”. E allora mettiamola così: alla Juve urge un summit. Perché Agnelli 7 milioni netti per 4 anni ad Allegri non li avrebbe mai dati per aspettare di tornare a vincere. Ma era estate. Max andava al massimo. A gonfie vele.

 

Corsi e ricorsi. Quando sui nostri social trionfano i cari, vecchi e bei vespasiani

Ivespasiani, che splendido ricordo. Per i giovani che non li avessero mai visti ricorderò che si trattava, almeno nelle intenzioni, di civilissimi orinatoi pubblici disposti in qualche piazza o giardinetto. Servivano a soddisfare le proprie impellenze gratuitamente senza offendere né le cose (a partire dai portoni delle case) né la buona creanza. Erano di un caratteristico colore verde scuro. Ne ricordo uno ampio e ospitale davanti all’università Statale di Milano. Molti ci scrivevano dentro le loro pensate. A volte vergavano tenere dichiarazioni d’amore, più spesso vi venivano lasciate scritte subumane, dai disegni porno alle bestemmie ai vomiti d’odio contro qualcuno. Alle quali nessuno faceva caso, perché “chi entra in un vespasiano per scrivere, che cosa vuoi che scriva”… Ecco, il vespasiano mi sembra, quanto a creatività mentale, qualcosa di simile ai social. Ho l’età per assicurare che il livello qualitativo del pensiero non è affatto diverso. Anche se il titolo medio di studio è salito nel tempo e anche se chi scrive sui social non è – diciamo così – suggestionato, come forse accadeva allora, dallo stretto contatto con i rifiuti organici della più varia umanità.

Lo so, lo so. Sui social si trovano cose belle e interessanti, come nei vespasiani si trovavano romantici cuori trafitti o ghiotte poesiole satiriche. Ma si trovano sempre più spesso montagne di odio ed escrementi cerebrali la cui produzione non costa nemmeno la fatica di uscire, come ha dimostrato l’orgia no vax contro David Sassoli (che qui voglio ringraziare per la sua vita). Il problema dunque mi sembra un po’ nostro. Perché chi trovava l’escremento mentale sulla parete del vespasiano mica lo fotografava e lo mandava in giro dicendo “guardate che cosa hanno scritto”. Si sottraeva al lezzo nauseabondo dopo avere svolto le sue funzioni e ricominciava a pensare alla vita. Se qualcuno avesse fotografato e diffuso quel materiale scandalizzandosene, i giorni successivi la produzione di escrementi (mentali) si sarebbe moltiplicata. E se la moltiplicazione fosse stata a sua volta seguita da servizi fotografici e relativa diffusione, alla fine la pratica avrebbe mobilitato la feccia intera della società. Quando lo capiremo? “Quant’è brutta la gente”, diceva Eduardo.

Appunto. Sappiamo per definizione che ce ne portiamo dietro una quota. Che inutilmente lo Stato ha fatto studiare. Che magari se ne sta in un ufficio a deprecare la politica e chiunque faccia qualcosa di buono. Non diamole la soddisfazione di andare in prima pagina. La prima pagina la meritano invece i detenuti di Gorizia, dei quali mi è giunta (per curiosi canali) la risposta spedita a un gruppo di volontari che chiedevano loro se volessero intrattenere corrispondenza con i bambini da cui avevano ricevuto una bella lettera. Ecco che cosa hanno scritto: “Ci ha fatto piacere conoscere i nomi dei bambini, grazie a don Alberto che ce li ha portati in cella, perché l’albero è stato posizionato in portineria all’interno del carcere. Vi ringraziamo per la proposta di avere una corrispondenza con i bambini, ma essendo anche noi genitori, figli e fratelli, non vogliamo rovinare il loro mondo gioioso raccontando il disagio della vita dietro le sbarre. Con la speranza di poter lavorare un giorno con voi volontari, realizzando il nostro vecchio progetto ‘la città entra in carcere ed il carcere esce in città’”. La trovo una risposta stupenda e delicata, che dovrebbe essere studiata da quanti (insegnanti, magistrati) si industriano talora di organizzare eventi improvvidi.

Leggendola mi è venuta in mente una affermazione di Cutolo: “La gente migliore si trova nelle carceri o sui gradini delle chiese”. Strumentale, detta da lui insopportabile. Ma che questi detenuti siano infinitamente meglio di migliaia di incensurati frequentatori dei social, non ho dubbi.