Bibbiano, lo psicoterapeuta Foti interdetto per sei mesi dalla sua professione

Per i prossimi sei mesi Claudio Foti ha il divieto di esercitare l’attività di psicologo-psicoterapeuta su minori. La misura interdittiva cautelare, emessa dal gip di Reggio Emilia, colpisce il dominus del centro La Cura di Bibbiano, nel reggiano, coinvolto nell’inchiesta Angeli e Demoni sulla gestione degli affidi. L’accusa è frode processuale: avrebbe convinto una minore di essere stata abusata sessualmente dal padre e dal suo socio. Una testimonianza indotta che ha portato la minorenne a non voler più incontrare il familiare, decaduto poi dalla potestà genitoriale. Foti avrebbe alterato lo stato psicologico ed emotivo della ragazza per ingannare i giudici. Il tutto sarebbe testimoniato da un video, lo stesso che lo scorso luglio era servito a Foti per ottenere la revoca degli arresti domiciliari.

Per il Riesame in quelle immagini – venti ore circa per 15 sedute di psicoterapia – non c’erano gravi indizi sull’accusa di aver manipolato una paziente. Foti in quella occasione dichiarò: “Su di me fango, salvato dai video delle mie sedute. Il tribunale ha preso atto del fatto che la mia terapia era basata sul rispetto empatico, che non vi erano elementi di induzione, né una concentrazione forsennata sull’abuso”. Adesso però le nuove indagini e l’analisi fatta da un consulente tecnico della Procura di Reggio Emilia hanno portato a una valutazione del materiale video completamente antitetica, ritenendolo piuttosto una prova a sostegno delle ipotesi accusatorie. Foti era lo psicoterapeuta incaricato dall’Asl delle sedute con la minore protagonista dei video, proseguite poi nel centro La Cura di Bibbiano in Val d’Enza. La madre della bambina accusò poi Foti di aver usato la figlia come “cavia” per le sue terapie, accusa respinta dallo stesso. Il centro di Foti aveva vinto un bando dell’Asl di Reggio Emilia che prescriveva un’attività di formazione di un gruppo di psicoterapeuti della stessa Asl: avrebbero dovuto assistere alle sedute in una stanza con una videocamera a circuito chiuso. Foti è accusato anche di abuso di ufficio, reato per cui, invece, la misura venne confermata.

“L’olgettina minacciava B.: se non paghi dico tutto”

Minacce di mostrare alcuni video dell’ex premier Silvio Berlusconi durante le famose cene eleganti di Arcore se non avesse pagato. Questo è emerso ieri all’udienza del processo Ruby ter dove Berlusconi, accusato di corruzione in atti giudiziari, è imputato con altre 28 persone, tra le quali molte olgettine. A spiegare la vicenda è stato l’architetto Ivo Redaelli sentito come teste in aula. Il professionista ha così ricordato alcune parole di Barbara Guerra, una delle partecipanti alle serate. “Minacciava – ha spiegato l’architetto – di andare da un giornalista affamato di notizie, diceva: vado a mostrare i video. Io non li ho mai visti, posso supporre che riguardassero immagini casalinghe di Berlusconi”. Circostanze smentite seccamente ieri da Barbara Guerra.

Oltre a lei, viene citata anche Alessandra Sorcinelli. Entrambe, secondo l’accusa, sarebbero state ricompensate da Berlusconi per il loro silenzio. L’ex premier avrebbe messo a disposizione anche due ville realizzate da un archistar. In più, stando alla testimonianza di Redaelli, Barbara Guerra lo avrebbe poi anche minacciato per avere ancora soldi, dicendogli che altrimenti avrebbe diffuso dei video. Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli, come ha raccontato l’architetto “amico” dell’ex presidente del Consiglio, anni fa sono andate a vivere “in comodato d’uso” e senza “pagare le utenze” in due ville realizzate da Mario Botta nel Monzese, comprate dal leader di FI “per circa 800 mila euro l’una, per un totale di 1,6 milioni”. Particolare anche questo smentito ieri sia dalla Guerra che dalla Sorcinelli. Il teste ha spiegato anche che Guerra “dava in escandescenze” in quel periodo e che gli disse che se l’ex Cavaliere “non le dava i soldi che chiedeva, lo avrebbe minacciato di andare dai giornalisti con dei video”. Berlusconi, stando alla deposizione di Redaelli, “si sentiva molto triste, è una persona sensibile, aiuterebbe chiunque, le vedeva in mezzo alla strada senza lavoro dopo lo scandalo e sperava si rifacessero una vita”.

Il professionista ha poi chiarito che Berlusconi nel 2010 “mi chiese di selezionare degli immobili, per un investimento” e “gli proposi quelle due ville”. Dopo che lui le acquistò, “seppi che in una era andata ad abitare Guerra e nell’altra Sorcinelli”. Guerra – ha aggiunto – “mi telefonava per dirmi che non funzionavano le cose, per me era una fatica, perché era successo lo scandalo che l’aveva innervosita, dava in escandescenze anche per la rottura di una lampadina”. Redaelli ha poi spiegato: “Da un parte c’era una persona che stimo, Berlusconi, dall’altra queste che facevano scene da pazze per qualsiasi cosa, forse perché non avevano più un lavoro”.

Fu poi l’architetto a proporre il comodato d’uso “per regolarizzare e dare forma giuridica” alla presenza delle ragazze nelle ville. Ha detto poi che pagava le utenze e poi si faceva rimborsare dal ragioniere di fiducia di Berlusconi. L’ex Cavaliere, ha aggiunto Redaelli, “mi disse che si sentiva moralmente in debito con loro, sperava che potessero ricominciare una vita normale”. In un verbale l’architetto aveva parlato di “forti pressioni da Guerra a Berlusconi” per ottenere soldi e delle sue reazioni di “rabbia” se non li otteneva. Ha però affermato di non sapere cosa contenessero quei “video” di cui parlava Guerra, che gli diceva che avrebbe “cantato” coi giornalisti. Le due ex olgettine hanno ribadito: “Mai nessuna minaccia e nessun atto prevaricatorio si è mai concretizzato nei confronti di Silvio Berlusconi”.

Lo scaricabarile su Assad finisce (bruciato) su RaiPlay

Alla fine, la famosa intervista di Monica Maggioni a Bashar al Assad è andata in onda sulla tv siriana e su una tv libanese, ieri sera, alle 20. Poi, solo intorno alle 21, la Rai ha deciso di metterla a disposizione su RaiPlay: un’ora più tardi. Una vicenda gestita male fin dall’inizio, con Maggioni che si propone senza averne titolo per fare un’intervista al presidente siriano e l’ad Fabrizio Salini che le dà l’ok senza porsi il problema, poi, di dove trasmetterla. Ma una volta fatto il patatrac, col rifiuto di Antonio Di Bella e di una sfilza di altri direttori a trasmetterla (Carboni, Sangiuliano, Paterniti e pure Annunziata), in Viale Mazzini hanno deciso di “darsi un buco da soli”, come dicono molti in azienda.

Già, perché ieri, dopo una burrascosa riunione tra Salini, Di Bella e Maggioni, l’ad ha riunito il suo staff per decidere se mandare in onda l’intervista su RaiPlay. Il canale online non ha un direttore di testata: dipende dall’area digital di cui è direttrice Elena Capparelli. Qui nessuno può opporsi e trasmetterla è più facile, anche perché Viva RaiPlay di Fiorello il lunedì sera non va in onda. Il problema è il tempo: i media siriani hanno annunciato la messa in onda alle 20 ora italiana. Verso le 17 le agenzie battono la notizia che “la Rai sta valutando di trasmettere l’intervista su RaiPlay”. I tempi ci sono. Ma la riunione va per le lunghe e alla fine si decide di posticipare la messa on line. “Non era una corsa contro il tempo, tanto più che non si voleva sottostare all’ultimatum siriano. L’importante è averla messa a disposizione dei telespettatori: è un documento importante”, dicono da Viale Mazzini. Già, però, nel frattempo, la Rai l’autogol l’ha fatto. Perché non solo la vicenda ieri ha fatto il giro del mondo, con i centralini bersagliati dalle telefonate dei giornalisti stranieri, ma alle 20, quando l’intervista va in onda sui media arabi, le parole di Assad vengono riportate da tutte le agenzie internazionali.

In Viale Mazzini, ieri, la vicenda ha toccato punte surreali alla Monty Python. In mattinata Salini, Maggioni e Di Bella hanno ricostruito l’accaduto in un acceso faccia a faccia, finito con le urla del direttore di Rainews che si sono sentite per tutto il settimo piano. Poi è iniziato il tira e molla sul da farsi: mandare o no l’intervista su RaiPlay e quando? Tra l’altro nessuno ha spiegato perché la tv siriana ha potuto trasmettere un prodotto della Rai. Una copia dell’intervista era a disposizione di Assad come regola d’ingaggio con la Maggioni, ma tra averne una copia e poterla trasmettere ce ne corre. E la questione dei diritti all’estero è materia proprio della Maggioni, come ad di RaiCom. Ambiguità su ambiguità.

Pure ieri, poi, i siriani hanno gettato benzina sul fuoco accusando la Rai – e il governo italiano – di censura. “La mancata messa in onda dell’intervista è una sottomissione alla volontà americana e ai suoi progetti distruttivi”, sostiene il giornale filogovernativo al-Watan, di proprietà di Rami Makhlouf, cugino del leader di Damasco. Nel colloquio con Maggioni, Assad ha lanciato accuse all’ex presidente Usa Obama, alla Francia e all’Europa per la guerra in Siria (“hanno appoggiato i terroristi all’interno del mio Paese”), ha negato l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito siriano e annunciato la disponibilità dei siriani espatriati a finanziare la ricostruzione.

L’intervista fantasma della Maggioni, tra l’altro, è stata realizzata qualche giorno prima dell’apertura di Luigi Di Maio verso Damasco. “Bisogna dare maggiore impulso al dialogo con il governo di Assad”, ha detto Di Maio al Corriere della Sera il 6 dicembre scorso. Del viaggio della Maggioni alla Farnesina nessuno era al corrente. “Non ci ha informato in alcun modo”, fanno sapere dal ministero degli Esteri.

Mor scrive la Divina commedia del renzismo

Noi pensavamo che Italia Viva fosse un partito-fantoccio messo in piedi da Renzi per restare sul mercato imbarcando i personaggi più scarsi della sua fallimentare avventura politica insieme a indagati, imputati e massoni pure di centrodestra e facendo pendere sul governo la spada di Damocle della sua convenienza personale.

Ma un saggio intitolato L’Italia è viva! (Paesi edizioni) ci ha fatto ricredere. L’autore è Mattia Mor, prestante bocconiano già tronista di Uomini e donne e concorrente del Grande fratello, titolare di un’azienda di t-shirt fallita e quindi eletto col Pd nel 2018.

Mor vuole combattere “la retorica del lamento” (il dato andrebbe aggiornato, perché da che Renzi si è un po’ tolto di mezzo ci si lamenta meno in Italia, casomai è lui che ha qualche motivo di preoccuparsi per il futuro) ed è diviso per sezioni e sottosezioni come il Tractatus di Wittgenstein. Ciascuna è affidata a un intellettuale di Iv: Boschi, Rosato, Marattin (e pensare che Dante ha scritto la Commedia da solo) o a un dio del Pantheon di Renzi, come il “capitalista umanista” del cachemire Cucinelli (“La politica è questione di fascino”) o Alec Ross, ex consigliere della Clinton (“definito da molti futurologo, io lo ritengo un evangelizzatore della tecnologia”), un tale genio da ritenere “che Renzi e il suo team siano dei grandi pensatori”.

Il fulcro è la meritocrazia (infatti la prefazione è affidata alla Bellanova), che vige a Singapore, dove Mor ha lavorato come “senior vice president di Lazada, la più grande azienda di e-commerce del Sud Est asiatico”, per poi diventare “executive director di Mei.com, piattaforma specializzata in flash sales lusso del gruppo Alibaba”, non chiedeteci che cosa voglia dire. Segue una summa del neo-liberismo di provincia: il made in Italy, il brand Milano, la locomotiva d’Europa, le start-up… Un asse Singapore-Pontassieve, anche se Mor più che Jeff Bezos sembra Manuel Fantoni che si imbarca su un cargo battente bandiera liberiana: “Così come ho scelto di partire, ho poi deciso di tornare. Singapore mi offriva una situazione perfetta… eppure in me vi era qualcosa che continuava a ruggire”.

Era l’amore per l’Italia: “Abbiamo l’obbligo etico e morale di rivitalizzare questo Paese dal sonno della ragione”. Un nuovo Illuminismo con Bellanova e Mor nei panni di Diderot e Voltaire. “L’Italia convince se adotta i princìpi della Repubblica di Platone, dove è la logica a governare il discorso politico”; da Platone, de plano, a Renzi, il figlio di Tiziano, l’amico di Lotti. Bellanova dice che loro giovani di Italia Viva sono contro i furbi: perciò si è messa con uno che aveva un tariffario per parlare con gli imprenditori, tipo cantante neomelodico che si offre per cantare alle comunioni.

Per Mor Renzi è autore di “contromosse geniali”, capace di “cambiare il paradigma”, “governare il caos”, “infiammare le folle”, infatti “piace all’estero perché oltrefrontiera si ha una visione meno polemica e più meritocratica”, al che viene da domandarsi perché questo genio incompreso non espatri, visto che qui ormai pare uno stand up comedian di Colorado Cafè. Potrebbe andare a fare il futurologo insieme a Alec Ross, il quale, dice Mor, “ha vissuto a lungo nel nostro Paese arrivando ad amarlo quasi quanto fosse la sua terra natale”, proprio così, “quasi quanto fosse”, a proposito di competenze.

Ignorando che il senatore degli Emirati Arabi è famoso per essere un perdente di tutte le elezioni dopo le europee degli 80 euro, Mor dispone: “Chi governa un Paese non può essere un mediocre. L’egualitarismo è figlio di un’altra epoca e non si può adattare alla contemporaneità”.

Ben detto, è ora che comandino i filosofi della Leopolda (adesso si capisce perché la magistratura complotti per fermare la temibile ascesa di Italia Viva dal 3,5 al 4,5%).

Nel giornale di Romeo vietato fare domande su San Romeo

La scena è da Scuola di giornalismo, se non altro come stato dell’arte dell’informazione. Ci sono due inviati che vorrebbero intervistare un noto imprenditore immobiliare ora attivo anche nell’editoria, con qualche guaio giudiziario e una indiscutibile rilevanza nazionale data già solo dagli appalti miliardari a cui partecipa il suo gruppo. A far da spalla all’imprenditore, però, rimane per tutto il tempo il direttore del suo giornale, per un pomeriggio nei panni di scudo umano. Non sia mai che ai colleghi sfugga qualche domanda di troppo.

Questo è successo la settimana scorsa nella redazione del Riformista, quotidiano appena tornato in edicola con il denaro di Alfredo Romeo e la direzione di Piero Sansonetti e della deputata di Forza Italia Deborah Bergamini. Le telecamere di Piazza Pulita – il servizio è a firma di Nello Trocchia e del videomaker Paco Sannino – girano un servizio per approfondire l’inchiesta fiorentina sui finanziamenti all’allora cassaforte del renzismo, la Fondazione Open. Romeo è finito citato nelle cronache per un bonifico da 60mila euro all’associazione Big Bang, antenata della Open, e dunque gli inviati di La7 vogliono chiedere chiarimenti all’imprenditore, che li riceve in redazione. Romeo è estraneo alle indagini fiorentine. Ha però altre grane giudiziarie. A Roma il guaio è l’indagine Consip: in un filone è a processo per corruzione, in un altro attende invece la decisione del gip sulla richiesta di archiviazione per una turbativa d’asta (in un ulteriore filone della stessa indagine è finito ma per altre vicende anche il padre dell’ex premier, Tiziano Renzi e anche per lui c’è una richiesta di archiviazione). A Napoli Romeo è in attesa di sapere che ne sarà della richiesta di rinvio a giudizio per associazione per delinquere.

Ma torniamo all’intervista di Piazza Pulita, che ha assunto dei contorni surreali con Romeo assistito durante tutto il tempo dai suoi direttori, Sansonetti e Bergamini. La versione, che già si intuisce dal servizio andata in onda, è confermata dallo stesso Trocchia.

Il giornalista fa domande, l’imprenditore risponde e Sansonetti commenta, inserendosi più volte nella discussione. “Ti confido – ironizza a un certo punto col cronista – che Romeo mi passa i soldi ogni mese. Corruzione pura per scrivere ‘ncopp o giurnale”. E anche alla domanda su Consip e sulla presunta chiacchierata tra Romeo e l’ex presidente della Open Alberto Bianchi, Sansonetti alza gli scudi: “Guarda, pure con me ha parlato di Consip”. A fine intervista, il consiglio: “Se fai questo mestiere devi leggere almeno in giornale che edita”. Qualche interferenza di troppo? Non secondo il direttore: “Eravamo nel mio ufficio e quella non era un’intervista, perché avevano abbassato la telecamera, anche se poi ho capito che avrebbero ripreso. Ma non avevo motivo di andarmene, in teoria stavamo solo chiacchierando”.

Fatto sta che al Riformista non gradiscono per niente l’affronto. “Oggi trionfa un modo di fare giornalismo in cui la pietas è stata sostituita dalla crudeltà. – è l’editoriale della vicedirettrice Angela Azzaro – Un giornalismo che invece di informare processa, invece di capire condanna, invece di verificare le notizie cerca il clamore”. Una barbarie a cui, secondo la redazione, è stato sottoposto il povero Romeo, che a fine servizio si è pure lamentato di non poter fare “l’imputato in pace di Dio”:“I due giornalisti non avevano nessuna intenzione di conoscere i fatti – scrive la Azzaro -, di sapere la versione dell’interlocutore (…). Erano lì per affermare la loro versione, per renderla più veritiera provando a mettere in difficoltà l’intervistato”. Insomma, per citare il titolo dell’editoriale, dei “Grandi Inquisitori”. E di fronte a un simile accanimento, anche i direttori possono diventare addetti stampa.

Altro che Sardine: i “rosari” in piazza per Salvini

“I miracoli intanto si facevano sempre più fitti e tutte le Madonne s’erano messe a muovere gli occhi”. E i preti dicevano alle donne: “Ora noi abbiamo informazioni precise. Non lo dite a nessuno. Se vincono i comunisti, bruceranno tutte le chiese”. Sono passati più di settant’anni da quando lo scrittore libertario Ezio Taddei raccontava in un suo libro la campagna elettorale del 1948, condotta dalla Chiesa, dalla Democrazia Cristiana e dalle destre estreme all’insegna di un feroce anticomunismo.

Nell’anno 2019, però, quelle Madonne pellegrine, quegli anatemi, quei rosari sgranati contro i “rossi”, sono ancora il sale della propaganda politica e mediatica dell’Italia retriva, ignorante e bigotta. Oltre mezzo secolo fa, Taddei ricordava come la Chiesa sostenesse che i comunisti “rapiscono le bambine, anche quelle di cinque anni (…). Anche i maschi, li mandano in Russia”. Allora, in ogni caso, c’era la guerra fredda, Stalin era vivo e vegeto, e l’anticomunismo, pure quello più becero, aveva un senso.

Oggi, nell’anno 2019, una tale Angela Ciconte, che oggi 10 dicembre a Torino reciterà il rosario per Matteo Salvini processato per vilipendio della magistratura, può pubblicare su Facebook quanto segue: “Bambine stuprate da decine di immigrati e poi uccise: sacrificio al politicamente corretto”. Si tratta della medesima signora, già esponente del cosiddetto Popolo della Famiglia, che adesso si reca a pregare a Milano, come spiega: “Oggi pregare il Rosario in piazza del Duomo a Milano è stato bellissimo. Ogni primo sabato del mese pregheremo in tutte le piazze d’Italia… Chi vuole impegnarsi per far pregare nella Piazza della propria città può contattarmi… Facciamo rete”.

Quella della Ciconte è la stessa rete in cui, oltre alle Madonne pellegrine, si agita un certo don Carlo Prima, sacerdote italiano a Bruxelles, che a Salvini, idolo con rosario degli idolatri pseudo-cattolici, ha detto: “Spero che la Madonna ti protegga da tutti gli attacchi che stai subendo”. Il nostro don Carlo gli ha dato quindi un santino della Vergine. Questa è anche la rete in cui sguazza il giornalista Mediaset Mario Giordano, che, come rammentava Gad Lerner sul Venerdì di Repubblica , si è messo a “spaccare con un’ascia tricolore le zucche di Halloween, in difesa della cristianità minacciata”.

A invocare Sante & santini, Famiglia & famiglie, in questa Italia di fake news e di intolleranza, poi, c’è l’Italia delle mafie, da Cosa Nostra alla ’ndrangheta. Quest’ultima organizzazione criminale, scrive il magistrato antimafia Nicola Gratteri nel libro (scritto con Antonio Nicaso) La malapianta , “raccoglie in sé questa religione della famiglia”, per la quale lo “Stato è un padre nemico e castrato”. Ora, è chiaro, non si può di certo affermare che siano la stessa cosa i rosari della Angela Ciconte e i santini bruciati dei mafiosi nei loro riti. Eppure, a ben vedere, esiste una analogia: è quella del familismo anti-Stato. La Ciconte prega per Salvini, accusato di avere vilipeso un corpo dello Stato; i mafiosi hanno nello Stato, e soprattutto nei suoi servitori onesti e coraggiosi, il nemico numero uno. Entrambi, quelli dei rosari e quelli del santuario di Polsi, luogo di summit della ’ndrangheta, tengono viva, anzi drammaticamente vivissima, l’Italia nera e incivile dei secoli bui, dal rogo di Giordano Bruno alle stragi mafiose, fino alle preghiere per Salvini e alle “balle” sugli immigrati.

Milano ospiterà il Museo nazionale della Resistenza

L’annuncio lo fanno insieme il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e il sindaco Beppe Sala: il Museo nazionale della Resistenza si farà e si farà a Milano, città medaglia d’oro della Resistenza. Ma non è tutto. Dopo un avvio difficoltoso (in un primo tempo si era pensato di realizzarlo nei locali della Casa della memoria, zona Isola, che però è piccola e già ospita diverse attività) e grazie alle sollecitazioni di Anpi e altre associazioni (nei mesi scorsi avevano inviato una lettera al ministero dei Beni culturali, con la senatrice a vita Liliana Segre come prima firmataria) il governo e la città di Milano rilanciano con un progetto più ambizioso, che avrà a disposizione molti più fondi rispetto agli iniziali 2,5 milioni.

“Il Museo sorgerà in piazzale Baiamonti, nella futura seconda piramide disegnata dall’architetto Herzog di fronte a quella che ospita la Fondazione Feltrinelli”, ha detto il sindaco, reduce da giorni molto intensi e difficili sia per la Prima della Scala sia per il tragico incidente che ha coinvolto un mezzo Atm passato con il rosso e in cui è morta una donna. “Ci chiedevano di trovare un luogo adatto e abbiamo cambiato la natura dell’intervento da parte dello Stato”, spiega Franceschini. Si aggiungeranno 15 milioni di euro, per arrivare a un totale di 17,5. Il risultato sarà un Museo Nazionale della Resistenza, una cosa di cui il Paese ha assoluto bisogno”, spiega il ministro che saggiamente non vuole inquinare l’annuncio con polemiche sui presunti rigurgiti fascisti. È ancora presto per capire quando potremo vedere il progetto terminato, ma sappiamo che la forma giuridica sarà quella della fondazione con il coinvolgimento dell’Istituto Parri e dell’Anpi.

L’idea di un Museo nazionale, che affianca le moltissime realtà sparse sul territorio, incontra l’approvazione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha inviato un messaggio di auguri nella convinzione che si tratterà di un centro propulsore “per la promozione dello studio e per la divulgazione di un periodo fondamentale della nostra Storia”.

Un tempio della memoria, perché nulla sia dimenticato: né le radici della nostra giovane democrazia, né il sangue versato per garantire i principi di libertà e uguaglianza scritti nella Costituzione. “La memoria di chi ha combattuto per restituire all’Italia la libertà va conservata e trasmessa, non per riprodurre divisioni, ma per consolidare e diffondere, specialmente tra le giovani generazioni, la consapevolezza del valore inestimabile della democrazia e della libertà”, conclude il Capo dello Stato. Che tocca una corda molto personale nella biografia di Franceschini: “Sono figlio di un partigiano bianco, membro del Cln di Ferrara, e mi sono sempre portato dietro la paura che quel ricordo si smarrisca. Andai a giurare sulla sua copia della Costituzione, quando divenni segretario del mio partito, perché volevo che avvenisse un passaggio di testimone. È importante avere un luogo che ricorderà ai giovani cosa hanno fatto i nostri padri, sacrificando tutta la loro giovinezza per la libertà e per la democrazia”. Aspettando il Museo di domani, oggi a Milano quasi 600 sindaci da tutta Italia sfileranno in segno di solidarietà alla senatrice Segre, nella marcia promossa dall’Anci che eloquentemente s’intitola “L’odio non ha futuro”.

Nella Bassa che canta e che vota . I Nomadi: “Salvini spara cazzate”

Matteo fortissimamente volle. “La sigla della sua trasmissione a Radio Padania era una nostra canzone: Il vento del nord. Non ci azzeccava nulla con la secessione, l’indipendenza, le cose leghiste. Parlavamo di fiori. Ma a lui bastava il titolo, la sola suggestione. È il suo animo così. Non va al fondo delle cose, non spiega, non ragiona. Io chiedo ai miei amici della Lega: ditemi perché bisogna votarla. Ditemi cosa non va, e ditemi cosa fareste voi. Qui casca l’asino: quando devono proporre restano con la bocca cucita”.

Senza i Nomadi, buona parte degli anni Sessanta e Settanta sarebbero orfani di una grande voce e di una melodia che coniugava il sentimento e popolo, carezze e socialismo. Senza Augusto Daolio, Beppe Carletti, che oggi ha 73 anni, non avrebbe mai potuto fondare la band più longeva e familiare della canzone italiana che ha resistito alla morte prematura del suo frontman. “Non ci siamo mai mossi da Novellara, dalla Bassa, dalla nostra nebbia e dal lambrusco. I manager a dirci: dovete venire a Milano per avere successo. Invece non è mai passato per la testa di spostarci. Noi emiliani siamo fatti così. Adesso ti faccio vedere dove abita Ligabue, a due passi da qui”.

Senza l’Emilia il nostro giradischi sarebbe morto di fame. Col suo pulmino ancora in attività, “perché noi facciamo almeno 70 serate all’anno, e viviamo sazi e anche felici”, Beppe Carletti, 73 anni e nonno, spiega cos’è la contentezza. “Quel che si guadagna si divide in parti uguali perché con Augusto, al tempo di mettere su il gruppo, ci dicemmo: un gruppo si può chiamare tale solo se tutti ricavano la stessa moneta dal lavoro. Io dico lavoro, ma è passione, è una fortuna sfacciata di andare ovunque ed essere sempre accolti bene. Siamo fortissimi nell’Italia rurale, nei paesini che hanno cuore, che addobbano con le luminarie le loro giornate di festa. Ecco, scusa, dietro questi vigneti di lambrusco vive Ligabue. Lui è il top, ma neanche si muove dalla nebbia della Bassa che pure porta umidità d’inverno e un esercito di zanzare d’estate. Se ti allunghi un po’, viri sulla via Emilia e trovi Cavriago, dove abita Orietta Berti. Di Roncocesi, un piccolo paesino, è Zucchero, l’unico che è andato via. Ma non ha scelto Miami, è andato a Pontremoli, tanto per capirci”.

Vota l’Emilia, e canta, canta sempre. Io vagabondo, Noi non ci saremo, Canzone per un’amica. “Guccini ci dava i testi prima che iniziasse lui a cantarli, e noi abbiamo costruito il successo grazie anche alle sue strofe. Ancora oggi non c’è posto che visitiamo nel quale non si chieda il bis di queste canzoni. Noi voliamo basso, sia chiaro. La televisione non ci chiama, le radio non si occupano di noi, ma noi comunque ci siamo”.

Novellara, 13 mila abitanti. Piana come un tavolo da biliardo, è tra i bastioni ex comunisti ancora difesi. “C’è mia figlia Elena che fa il sindaco. Una brava donna, coraggiosa e tenace. Lavora da mattina a sera e non tocca nulla. Una brava amministratrice”. La figlia dei Nomadi perché “di base qua siamo tutti riformisti. Di sinistra, ma riformisti”.

Come ha spiegato bene lo storico Alberto Melloni, l’Emilia è rossa solo nell’immagine esterna: “Il socialismo fa da scudo all’amministrazione più liberal che ci sia. Dietro la falce e martello si è sviluppata la più ricca energia creativa del riformismo. Tutto il liberal possibile, altro che socialismo”. Che secondo Graziano Delrio risponde al principio della curvatura permanente: “Significa che la tua azione politica deve sempre curvare, piegarsi a qualcosa di nuovo, imboccare nuove strade. Abbiamo la capacità di cambiare senza pregiudizi o ideologismi”.

Sulla via Emilia, all’ultimo semaforo prima di svoltare verso Modena, Carletti illustra: “Si sta tutti qua perché qua si vive bene. Al mio paese i nonni in difficoltà vengono aiutati ogni giorno. I ragazzi del comune li vanno a trovare in casa, li portano al laboratorio d’analisi. Se serve gli portano il cibo. Gli asili nido sono uno spettacolo, la rete pubblica è efficiente e solidale. Poi, certo, puoi sempre migliorare. Anzi devi sempre chiedere di più. Adesso c’è questa moda del cambiamento. Si vota Lega, ma non si sa perché. Io lo chiedo ai miei amici e loro zitti e mosca. Non sanno che pesci prendere”.

A Modena un altro gruppo della canzone pop dell’Italia disimpegnata, l’Equipe 84, e Modena è invece partigiana come pochi. Sotto la torre della Ghirlandina i volti dei combattenti, nome, cognome: “Eroi”, c’è scritto nella targa di marmo che li ricorda.

“Io ti dico che Salvini spara cazzate. Gli voglio bene, ma dice cazzate. L’ultima sulla Nutella. Nemmeno sapeva che le nocciole italiane non bastano alle necessità. La penultima sugli ospedali che nei weekend sarebbero chiusi, che la nostra gente va a farsi curare in Veneto. Ma cosa dice? Chiedesse a Berlusconi, che quando ha avuto i suoi problemi con la prostata è corso a Reggio Emilia”.

Carletti, nonno felice e una figlia sindaco del Pd, è tastierista indomito e autista impenitente: “Ci facciamo le nostre serate e prendiamo di ferie solo novembre”. Non come Francesco Guccini che ha scelto il silenzio di Pavana. Il crostone di montagna che separa Pistoia da Bologna, sul confine della Toscana. Milva, un’altra grande, vive a Ferrara e non si muove. E Vasco è il re di Zocca, dietro Bologna. Anche Iva Zanicchi, l’unica che abbia tentato la fortuna politica arruolandosi nel centrodestra, resta legata a Ligonchio. Solo la Pausini ha deciso di dire ciao a Solarolo, il paese della Romagna che l’ha fatta crescere e conoscere.

La canzone, impegnata o solo melodiosa, è intruppata in ordine sparso nel centrosinistra, oggi nel moto ondoso delle Sardine, nell’area vasta dei simpatizzanti silenti, degli osservatori interessati. “La musica è sempre quella, e non cambierà”, annuncia l’oste di Cognento, frazione di Campagnola, il triangolo d’oro di quel che fu il comunismo italiano: falce, martello e lambrusco.

“La nostra piazza aperta a tutti, pure a CasaPound”

“Per me, almeno per ora, chiunque vuol scendere in piazza è il benvenuto. Che sia di sinistra, di Forza Italia o di CasaPound. Ai paletti penseremo dopo”. Stephen Ogongo ha 45 anni, viene dal Kenya e vive in Italia da quando ne aveva 20. Fa il giornalista e nel 2018 ha fondato un movimento, Cara Italia, per dar voce agli italiani senza cittadinanza, che prima o poi vorrebbe trasformare in una forza politica. Negli ultimi mesi ha ingaggiato vari duelli a distanza contro Matteo Salvini, come quando annunciò di aver fatto rimuovere vari post dalle pagine social del leader leghista per “istigazione all’odio”. Oggi è il plenipotenziario delle Sardine di Roma, che su Facebook contano quasi 140 mila iscritti.

Ogongo, qual è il futuro delle Sardine?

È presto per dirlo e non c’è bisogno di saperlo ora. A noi basta aver unito centinaia di migliaia di persone, che si sono ritrovate in modo spontaneo a dire no a un linguaggio politico pieno di odio e discriminazione. E poi le cose prendono pieghe che nessuno può immaginare: chi l’avrebbe detto che dalla piazza di Bologna sarebbe venuto fuori questo?

Vi contestano di non avere proposte. Da Roma, il 14 dicembre, arriverà un messaggio al governo?

Probabilmente no. Gliel’ho detto, è presto, bisogna far sfogare questa energia spontanea, lasciare che trovi da sola la propria identità. Per quanto mi riguarda le Sardine possono anche finire qui. L’importante è aver dimostrato che l’Italia ha gli anticorpi.

Lei si è battuto per lo Ius soli e contro la Bossi-Fini. Se fossero le prime proposte delle Sardine?

Sicuramente sono punti che mettono d’accordo tante persone che scendono in piazza. A me piacerebbe che le Sardine diventassero un movimento per l’inclusione, per una società multiculturale, come il mio Cara Italia. Ma per avere un programma bisogna essere un interlocutore politico e noi al momento non lo siamo. Non so nemmeno se lo diventeremo mai.

Non c’è il rischio che la sovraesposizione di alcuni leader, come Mattia Santori, confonda le loro idee con quelle del movimento?

Io non lo vedo. Quello che ho sentito dire in tv da Mattia e da altri rispecchia più o meno quello che diciamo tutti insieme in piazza. E poi loro non parlano a nome di nessuno. Non siamo un soggetto politico, per l’appunto.

Negli ultimi giorni vi è arrivato l’endorsement di Mario Monti e di Francesca Pascale. Non è il caso di mettere dei paletti?

Quelli li metteremo se, e quando, ci daremo un’identità politica. Per ora è ammesso chiunque, pure uno di CasaPound va benissimo. Basta che in piazza scenda come Sardina.

“Basta nomine (e grane) politiche in sanità”

Sono ore calde per le nomine in Sanità, soprattutto ai vertici delle agenzie vigilate. Il ministro Speranza ha cambiato quello dell’Agenzia del farmaco (Aifa), mettendoci un uomo di Zaia, nei giorni scorsi ha ricevuto il parere (tendenzialmente negativo) del Consiglio di Stato sull’applicazione dello spoils system anche all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) ed è aperta la ricerca per il direttore generale dell’Aifa.

Viceministro Pierpaolo Sileri, le regioni sono nervose per Agenas. È una buona mossa cercare la nomina politica?

Non in questo caso. Serve un nome condiviso con le Regioni, soprattutto ora con il regionalismo differenziato e il patto per la salute. È sempre più importante che le nomine non rispondano a logiche politiche. A tutti i livelli devono essere trasparenti e basate su criteri di merito: dalle direzioni generali degli ospedali agli enti vigilati come l’Aifa o l’Agenas. Gran parte dei danni nei decenni passati nasce proprio dalla politicizzazione. Poco importa per chi voti un dirigente o un direttore generale, interessa che lavori bene e che porti risultati.

Come evitarlo?

Il M5S ha un disegno di legge depositato al Senato a firma Castellone che prevede la creazione di un albo di commissari sorteggiati, una graduatoria di merito da cui può attingere il governatore della Regione. Per gli enti vigilati è prevista una valutazione collegiale dei curricula, con criteri iniziali chiari per stabilire chi ha preparazione, tecnica e di mediazione, più adatta all’ente.

È lontano da quanto accaduto in queste settimane…

Lo spoils system è una prerogativa del ministro ed è giusto che si applichi quando può essere applicato. Ma per Agenas o per gli enti in cui va presa una decisione di concerto, serve dialogo con le Regioni.

Anche perché alcune sono ancora commissariate.

Sono contrario ai commissariamenti perché bloccano tutto, dalle assunzioni all’innovazione. Bloccano la crescita. Nei territori ci sono ospedali che funzionano bene, altri no. E il piano di rientro, per definizione, taglia. Sarebbe quindi importante un commissariamento chirurgico, fatto sul singolo ospedale e per ciò per cui va male. Poi, al termine, fare in modo che le risorse liberate vengano reinvestite in modo corretto. Ecco perché le nomine devono essere tecniche: con le regioni si deve lavorare su questo.

Legge di Bilancio: cosa c’è?

C’è l’eliminazione del superticket da settembre 2020. È una battaglia portata avanti da tutte le forze al governo, ma spinta fin dall’anno scorso dall’ex ministra Grillo e dal M5s. Come per i 2 miliardi al fondo sanitario nazionale previsti dalla manovra dell’anno scorso e ora confermati. Ci sono poi 2 miliardi su edilizia e innovazione, intesa anche come innovazione dei processi: se ben introdotti nelle strutture porterebbero un gran risparmio.

In che senso?

Negli ultimi 10 anni la sanità è stata pesantemente definanziata. Quelle che sono riuscite ad affrontarli migliorando i processi sono oggi le più virtuose.

Non basta certo l’efficienza a risolvere i problemi della sanità.

Servono più borse di studio, mancano i medici. E mancano perché non c’è stata programmazione. Per questo – e l’Agenas potrebbe farlo benissimo – va calcolato il reale fabbisogno delle Regioni. Inoltre, c’è un emendamento voluto dal ministro per estendere la legge Madia: il M5S ha presentato un subemendamento per estendere il periodo di maturazione dei requisiti per l’assunzione al 31 dicembre e non a giugno.

C’è accordo su questo?

Noi lo portiamo avanti e il buon senso dice che dovrebbe essere approvato. Mancano i medici anche perché sono precari e preferiscono andare dai privati .

Altri emendamenti?

Un bonus per il latte artificiale per chi, causa patologia, non può allattare, un fondo per l’endometriosi, un intensificazione della lotta all’Hiv e all’epatite C.