Camere esautorate: la manovra la scrive soltanto il governo

“Sulla manovra, il governo deve capire che va mandata alle Camere nei tempi previsti, questa situazione non è tollerabile. Con la presidente del Senato Casellati vogliamo far rispettare le prerogative dei parlamentari”. La ramanzina del presidente della Camera Fico arriva nel pomeriggio di ieri, quando la Commissione Bilancio del Senato doveva ancora riunirsi per esaminare il secondo pacchetto degli emendamenti dei relatori (depositato all’ora dell’aperitivo) di una manovra i cui tempi diventano sempre più stretti. “Sarebbe stato meglio fare le due letture parlamentari, non sono contento”, ha ammesso il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, spiegando che “il governo s’è insediato tardi (il 5 settembre, ndr)”.

Quest’anno la manovra approderà per la prima volta all’esame di un’aula parlamentare, il Senato, solo il 12 dicembre; il primo voto in Aula è fissato per venerdì 13. A quel punto resteranno 19 giorni, Natale e Santo Stefano compresi, per portare la legge di Bilancio blindata a Montecitorio per approvarla con una doppia fiducia, evitando l’esercizio provvisorio con l’assenza pressoché totale della fase parlamentare. Con gli attacchi delle opposizioni, capeggiate dalle Lega, che minacciano di ricorrere alla Consulta. La legge di Bilancio del governo giallorosa diventerà così la quarta nella storia repubblicana a essere approvata con la doppia fiducia, dopo sole due letture. Ma i precedenti sono tutti per casi eccezionali: la caduta di un governo. Il caso più recente è del 2016: il premier Renzi si dimette dopo la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre. Il testo viene modificato dalla sola Camera, blindandolo al Senato che lo licenzia il 7 dicembre. Nel 2011 a causare l’iter abbreviato è la caduta del governo Berlusconi. Il testo viene approvato dalla Camera il 12 novembre dopo il disco verde del Senato. Mentre nel 2010 è la rottura tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi a far approvare la manovra prima dalla Camera e poi (blindata) al Senato che la licenzia il 7 dicembre.

Insomma, una corsa contro il tempo per l’approvazione della manovra la cui timeline è segnata: oggi, entro l’ora di pranzo, verranno presentati altri sub emendamenti alla manovra, che si andranno ad aggiungere ai circa 250 presentati dai relatori nella tarda serata di ieri. Ma si tratta di norme micro-settoriali e che, comunque, non sono espressione di un dibattito parlamentare con la mancanza di revisione dell’Aula che ha portato gli emendamenti ad essere riscritti da parte del governo per garantirne la blindatura in fase di voto di fiducia.

Tra emendamenti e subemendamenti del governo con le correzioni decise nel tavolo di Palazzo Chigi della scorsa settimana, sono arrivate, tra le altre cose, le modifiche alla plastic e sugar tax, l’aumento della tassa sulla fortuna, maggiori risorse al fondo per la non autosufficienza (30 milioni), il Documento unico di circolazione Aci, l’aumento delle accise sui carburanti, le assunzioni degli insegnanti di sostegno e il ripristino della totale detrazione delle spese sanitarie senza limiti di reddito. Ma ci sono anche 1 milione per il prossimo triennio per le Olimpiadi invernali Milano-Cortina e 400 mila euro per festeggiare il centenario del Partito comunista nel 2021.

Per gli assalti alla diligenza, intanto, toccherà aspettare ancora: il Milleproroghe, presentato dal governo come emendamento alla manovra, non è stato più inserito . Ci sarà qualche giorno di più per discuterne e per riscriverlo.

Legge elettorale e voto: ecco il ricatto dei 2 Matteo

“Renzi e Salvini sono d’accordo in generale. Cioè, sono d’accordo di essere d’accordo”. La situazione la riassume così un alto dirigente della Lega.

Il “patto” tra i due Matteo da giorni è sulla bocca di tutti. Per una legge elettorale proporzionale, per dare un aiutino al suo candidato in Toscana, nelle richieste di Renzi. Per far cadere il governo, in quella di Salvini.

Ma si tratta davvero di un patto scritto con il sangue? Seguendo il ragionamento del dirigente leghista, quel che appare certo è che i due sono alleati per tenere sotto ricatto tutti gli altri. Ma poi, procedono divisi: entrambi per alzare il proprio prezzo, per portare meglio a casa i propri obiettivi. Un gioco di poker, in cui ciascuno cerca di strumentalizzare l’altro.

Il primo oggetto del dialogo, in questo momento, è la legge elettorale.

Nella maggioranza (Pd, M5S, Italia Viva e Leu) si sta arrivando a un accordo per un sistema sul modello di quello spagnolo, un proporzionale corretto, perché avendo collegi molto piccoli, è di fatto un maggioritario. Che penalizza i partiti piccoli.

Per la Lega a trattare è Giancarlo Giorgetti, che interloquisce anche con Zingaretti. Il Carroccio, dunque, è d’accordo, almeno a grandi linee. Fare una legge elettorale permette di arrivare più rapidamente alle elezioni. L’importante per il partito di Salvini sono i collegi piccoli (proprio perché garantiscono un alto tasso di bipolarismo). E poi il leader leghista non vuole presentarsi alle urne insieme a Giorgia Meloni, ma casomai trovare un accordo dopo il voto. Dunque, i più penalizzati sarebbero Italia Viva e Leu.

Vanno lette alla luce di questi dati le due interviste al Corriere della Sera di ieri di Salvini e di Renzi. “Un sistema proporzionale? Io sono laico. L’importante è che chi vince possa governare”, dice il primo. E il secondo: “Con il proporzionale sarebbe più facile andare alle elezioni, e dopo ci sarebbe un’altissima possibilità di non eleggere un Presidente della Repubblica sovranista, perché la Lega non avrebbe il 70% del Parlamento”. Apparentemente, si tratta di dichiarazioni sovrapponibili. Ma in realtà non lo sono. Se per Salvini “proporzionale” può voler dire pure sistema spagnolo, per Renzi è esattamente quello da scongiurare a tutti i costi, perché lo farebbe fuori definitivamente.

Ecco dunque, allora, rientrare il tema della caduta del governo. Per Salvini interesse numero uno, per Renzi disgrazia assoluta. Seconda solo al varo di una legge elettorale che lo esclude. E dunque, l’ex premier sarebbe addirittura disposto a far saltare il banco per tenersi il Rosatellum. Che qualche posto in più glielo garantirebbe, costringerebbe i dem ad allearsi con lui. Senza contare che evitare il taglio dei parlamentari di per sé permette di arrivare in Parlamento con una truppa più sostanziosa.

Ecco la “trattativa” tra i due Matteo. Che si sentono più o meno tutte le settimane dall’inizio della legislatura. Un asse fortissimo contro gli altri, che però funziona soprattutto come arma di pressione. Quello che fa dire a una fonte leghista: “Sono i due migliori alleati, perché sono pronti ad andare al voto a febbraio”. Ma Renzi è pronto fino a un certo punto e la Lega di Salvini sulla legge elettorale ha un canale aperto con il Pd. Peraltro, non a caso Zingaretti (un altro che le elezioni continua a volerle) ha convocato la direzione del partito per venerdì: un modo per velocizzare tutte le pratiche e per spingere Renzi sempre più fuori dai giochi.

E poi, in fondo, c’è anche un precedente. Quest’estate, nel far cadere il governo, il leader della Lega si basava anche sul fatto che Renzi non avrebbe consentito il governo Pd-Cinque Stelle. I segnali che le cose andavano in un’altra direzione, per la verità, c’erano tutti già allora. Ma i due sono uomini di mondo e nessuno porta rancore. Però, sbagliare una volta va bene, sbagliare ancora per Salvini sarebbe imperdonabile. Quindi, va bene parlarsi, l’importante è condurre il gioco. Senza troppi riguardi per il compagno di viaggio.

Tregua giallorosa: Conte e Pd vogliono il cronoprogramma

È scoppiata la pace, anzi la tregua. Anche se i diversi restano tali. Perché Pd e Cinque Stelle non hanno la stessa idea di futuro assieme. E il Mes rimane una grana, che ieri ha portato a un’infinita riunione di maggioranza da nervi scoperti. Eppure ora cercano un avvenire oltre Natale, i giallorossi. Ufficialmente perfino Italia Viva, la creatura del Matteo Renzi che si nutre di guerra. Così ecco il lunedì degli impegni incrociati in cui il Pd, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i Cinque Stelle convergono su una verifica di governo a gennaio. O meglio su un tavolo comune, dove fare il punto su programmi e direzione politica. Basta qualche ora, con Goffredo Bettini, gran visir del segretario dem Nicola Zingaretti, che apre la fila facendo il poliziotto cattivo a Mattino24: “A gennaio verifica di governo, o si approva o non si approva, non possiamo stare sospesi a Di Maio e Renzi”. Ovvero, o dentro o fuori.

Poco dopo, lo chiedono a Conte: a gennaio si fa la verifica? E lui, che un “raduno” per cercare la quadra lo aveva proposto a novembre in un’intervista al Fatto, precisa e rilancia: “Un attimo dopo la manovra e il decreto Fiscale, mi farò portatore di questa iniziativa. Non abbiamo scritto quali sono le priorità, il cronoprogramma, quindi chiederò alle forze politiche di condividere un percorso anche a livello di priorità che dovremo andare a perseguire e a realizzare”. Ossia, verifica no, è un termine troppo brutale. Ma cronoprogramma “da qui fino al 2023” sì, eccome. Cosa diversa dal nuovo contratto di governo invocato più volte da Di Maio: inaccettabile per il Pd, e irrealizzabile anche per Conte, che a precisa domanda dà precisa risposta: “Un nuovo contratto? No”.

Nel pomeriggio, il presidente della Camera Roberto Fico: “Abbiamo visto che una forma cosiddetta di contratto non funziona, perché non è la costruzione di una visione del Paese”. Invece quello vuole Fico, “un’alleanza con una visione”. Cioè l’obiettivo di molti dem (Dario Franceschini), in fondo di Conte, ma non di Di Maio, che teme anche un accenno di fusione. Però legge il gioco, il capo politico del M5S, che si prende ore prima di dire la sua. Poi alle sette di sera batte un colpo: “La condivisione di un’agenda con precise priorità, come chiesto settimane fa dal M5S, dimostra che ci sono le basi per fare ancora meglio”. Di Maio rivendica di averlo proposto per primo, il pit stop per aggiustare la macchina. Anche se lo aveva chiamato contratto di governo, tramite cui spartirsi obiettivi con il Pd senza contaminarsi. Invece i dem vogliono la discussione politica in cui tutti dovranno rimettersi in gioco. Però ora la priorità è andare avanti. Scelta obbligata anche per lo Zingaretti che in serata esulta: “Ha fatto bene il premier Conte a rilanciare questa sfida per costruire un’agenda del 2020”. E non cita la parola verifica. Ma non è affare solo di buoni sentimenti.

Perché i suoi lo hanno fatto capire al segretario, che non era il caso di forzare. E segnali chiari contro il voto anticipato sono arrivati anche a Di Maio. Non solo dai ministri, ma anche dai parlamentari. Racconta un big: “Luigi è stato chiamato da diversi eletti che gli hanno rimproverato la rigidità su Mes e prescrizione. ‘Così cade il governo, e poi serve calma per lavorare’. Ma lui difendeva dei principi…”. Però il ministro in colloqui riservati lo ha ripetuto: “Arriveremo al 2020 e poi si vedrà, non voglio mica l’esercizio provvisorio”. Certo, qualcosa nel caos a 5Stelle si muove. Qualche sera fa il capo ha portato a cena gli aspiranti capigruppo della Camera per cercare un’intesa. Serata tranquilla, ma niente accordo.

Però, ieri sera i deputati hanno ricevuto una email con la candidatura di un’unica squadra per il Direttivo. L’aspirante capigruppo è l’ex sottosegretario Davide Crippa, mentre l’attuale vicario Francesco Silvestri si propone da tesoriere, per sbloccare l’impasse. Si vedrà nella votazione di domani, se Crippa e i suoi otterranno il quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto. Proprio nel giorno in cui il Parlamento si esprimerà sul Mes. Ieri sono circolate bozze della risoluzione di maggioranza, a cui lavorano il ministro degli Affari europei, il dem Enzo Amendola e il sottosegretario del M5S Laura Agea. E nel testo spiccano la logica del pacchetto (il trattato va approvato tutto assieme) e il no a restrizioni ai titoli di debito, punti per convincere i 5Stelle. Ma non è facile chiudere. Lo conferma la riunione di maggioranza, che si protrae sino a notte tra forti tensioni. E in serata arrivano proteste dal M5S. “Così com’è la riforma del trattato è invotabile” ringhia Alvise Maniero, uno dei deputati che voleva presentare una mozione contro il vecchio fondo salva-Stati. E il senatore Gianluigi Paragone condivide: “La bozza circolata è una presa in giro”. Perché la voglia di tregua è forte. Ma la distanza, quella c’era e c’è.

Bavaglio e intercettazioni: i dem verso una nuova resa

Disinnescata, per ora, una delle mine per il governo giallo-rosa. Ci sarà la proroga, la quarta, della riforma Orlando sulle intercettazioni mai digerita da M5S e in particolare da Alfonso Bonafede. Da parlamentare prima e da ministro della Giustizia poi. Il caso vuole, successore proprio di Andrea Orlando.

La proroga della riforma, ancora in corso, scade il 31 dicembre, la prossima scadrà a fine giugno 2020. Quest’ultima è stata inclusa nel milleproroghe, ma se, come sembra, non verrà inserito nella legge di Bilancio, lo slittamento della riforma intercettazioni ci sarà comunque. Il piano b è un decreto legge.

La notizia della proroga arriva dopo che nei giorni scorsi Il Fatto ha anticipato la seria preoccupazione dei capi delle maggiori Procure per una normativa che, in assenza del nuovo slittamento annunciato, sarebbe entrata in vigore il mese prossimo senza un regime transitorio e senza apparecchiature elettroniche e altri mezzi di cui gli uffici giudiziari non sono stati dotati. Infatti, anche la nuova proroga ha la stessa motivazione delle tre precedenti di luglio 2018, aprile e agosto 2019: il rinvio “consente di adeguare al meglio le attività e le misure organizzative rispetto alle necessità degli uffici”. I procuratori di Milano Francesco Greco, di Firenze Giuseppe Creazzo, di Napoli Giovanni Melillo e il facente funzioni a Roma, Michele Prestipino sono in attesa di capire cosa succederà. La loro lettera, che era pronta per essere spedita al ministro Bonafede, per ora resta sulle loro scrivanie. “Intanto – ci dice uno di loro –, abbiamo incassato il rinvio a giugno”. Per i magistrati, in vista di una entrata in vigore tra poche settimane, era fondamentale sapere come avrebbero dovuto porsi rispetto a indagini già in corso di cui hanno già disposto le intercettazioni. Problema rinviato con la proroga, si continua con il vecchio regime. Bonafede, intanto, prova a tranquillizzare il Pd, soprattutto diversi parlamentari che ieri si sono lamentati di aver saputo della proroga a cose fatte. “È stata effettuata – filtra dalla sede del ministero della Giustizia – in via meramente cautelativa, considerate le difficoltà tecniche che avrebbe comportato per le Procure un’entrata in vigore dal 1º gennaio”. D’altronde, come ci avevano detto sabato scorso esponenti vicinissimi ad Andrea Orlando, sulla proroga non ci sarebbe stato alcun muro del Pd “ma questa volta non può esserci un semplice rinvio. Vogliamo capire cosa vuole tenere il ministro della riforma e cosa vuole modificare”. Bonafede – fanno sapere dal ministero – ha confermato al Pd “l’ampia disponibilità a trovare un accordo, eventualmente anche con un decreto legge”. Con il nuovo anno quindi si aprirà un nuovo tavolo con tanto di filo spinato, dato l’oggetto del contendere, anche se fonti ministeriali sostengono che “in base alle interlocuzioni già in atto (con il Pd, ndr) sembrerebbero esserci margini di convergenza”.

Difficile credere a una intesa su un argomento che è sempre stato per tutti i governi e le maggioranze una vera croce. C’è poi da considerare che il ministro Bonafede non ha mai condiviso l’essenza della riforma: il potere attribuito alla polizia giudiziaria, gerarchicamente legata all’esecutivo, di scegliere quali siano le intercettazioni rilevanti da trascrivere per i pm, che, invece, sono indipendenti dal governo. Sempre la pg stabilirebbe quali siano le intercettazioni irrilevanti, segnando solo data e ora. Destinazione di quest’ultime: una cassaforte sotto responsabilità dei pm. E se un avvocato vuole cercare prove a discolpa del suo assistito le può ascoltare ma non può né farne copia né prendere appunti. In un solo colpo si pregiudicherebbero le indagini dei pm e quelle difensive. Ecco perché un compromesso M5s-Pd sulla riforma resta tutto in salita.

Renziani mettono casa di Formigli su Fb. “Squadrismo per le domande sulla villa”

Come agisce la “rete” renziana sui social network?

Lo racconta Corrado Formigli, conduttore di Piazza Pulita. E lo fa per esperienza diretta: “Ho fatto un’intervista a Renzi e il giorno dopo ho visto la fotografia di casa mia pubblicata sui social“. Il giornalista giovedì scorso ha ospitato l’ex premier nella sua trasmissione e gli ha fatto una domanda sulla sua villa di Firenze, su cui indaga la procura, comprata grazie a un prestito di 700 mila euro da parte di un finanziatore della Fondazione Open. Appena finita la trasmissione, sui social network gli account di alcuni sostenitori di Italia Viva hanno iniziato a diffondere le fotografie dell’abitazione privata del giornalista, con indirizzo e descrizione dell’immobile, e con il solito hashtag #colposucolpo, quello utilizzato da Renzi per rispondere alla accuse della stampa. “Squadrismo social”, ha detto Formigli. Alimentato da Renzi in persona, visto che il senatore di Iv ha pure pubblicato senza consenso alcuni messaggi inviati in privato da Formigli via whatsapp. Il giornalista ieri si è rivolto all’ex premier: “Gli ho scritto quello che era successo, segnalandogli anche i link dove c’era la foto della mia casa, per invitarlo a controllare le pagine del suo partito”. E Renzi? Ha espresso solidarietà, ma a modo suo: l’ex premier ha paragonato quanto accaduto a lui con la villa di Firenze con la vicenda della casa di Formigli. Secondo l’ex premier quello che è successo al conduttore di Piazza Pulita è una “porcheria”, che però è tale “sia quando si fa ai giornalisti, sia quando si fa ai politici”. Come se i due fatti fossero paragonabili.

Ogni anno 9 mila querele e richieste milionarie

Ogni anno, in Italia piovono sui giornalisti più di 9 mila querele. Di queste, oltre 6 mila sono subito archiviate. Poco più di 200 sono invece le condanne. Sono i dati dell’associazione “Ossigeno per l’informazione”.

“C’è una tendenza crescente alla querela facile”, dicono a “Ossigeno”. Facile perché non costa nulla, ma può ottenere subito quell’effetto intimidatorio che chi querela (di solito un potente: politico o imprenditore) spera di ottenere per mettere a tacere il cronista fastidioso.

Memorabile la richiesta di danni – 20 milioni di euro – da parte della Fiat al giornalista Corrado Formigli, allora in Rai, colpevole di aver confrontato, in un servizio per Annozero del 2 dicembre 2010, l’Alfa Romeo Mito con una Mini Cooper e una Citroën Ds. Ci sono voluti otto anni di processo per arrivare all’assoluzione. In primo grado, Formigli era stato condannato dal Tribunale di Torino a pagare 5 milioni, non solo per danni d’immagine, ma anche per il danno patrimoniale che sarebbe stato causato dal calo delle vendite della Mito, imputato al servizio di Annozero. In appello, la Corte aveva stabilito che “il comportamento tenuto dal giornalista Formigli è del tutto lecito”, che la Fiat “deve sopportare il giudizio non solo del consumatore, ma di chi intende informarlo”. Dunque la causa era “totalmente infondata”. L’assoluzione definitiva della Cassazione era arrivata nel 2018, insieme alla disposizione che fosse Fca a pagare le spese legali: “La critica di un prodotto commerciale rientra nel diritto all’informazione”.

Delle innumerevoli azioni civili e penali contro i giornalisti del Fatto Quotidiano (compreso chi firma questo articolo) vale la pena di ricordare l’accusa di diffamazione che Giuseppe Perre ha rivolto a Davide Milosa per averlo definito sul Fatto “boss”.

Perre, detto “’u maistru” è – secondo decine di atti giudiziari delle Procure milanesi e calabresi – il capo di una delle ’ndrine di Platì. Rinviato a giudizio, Milosa è stato assolto soltanto dopo un procedimento durato un paio d’anni. Ci ha messo addirittura 13 anni, invece, un altro giornalista del Fatto, Enrico Fierro, a veder riconosciuta la sua innocenza. Era stato querelato da un europarlamentare che sosteneva di essere stato diffamato in un articolo del 2006 pubblicato sull’Unità: il quotidiano ha chiuso nel 2017 e l’editore ha lasciato senza tutela tutti i suoi giornalisti. Sostenuto da “Ossigeno per l’informazione”, Fierro è stato assolto definitivamente nell’ottobre 2019. Senza tutela dell’editore e con cause da sostenere sono rimasti anche altri giornalisti ex Unità, come Sandra Amurri (oggi al Fatto Quotidiano) e la direttrice Concita De Gregorio.

Nello Trocchia, che per i suoi articoli e servizi televisivi ha subito minacce e intimidazioni, ha ricevuto una richiesta di risarcimento di 39 milioni di euro: non dai Casamonica ma dall’Università telematica Pegaso per un’inchiesta pubblicata sull’Espresso.

“Almeno un milione di euro” la richiesta di Gianni Zonin, ex presidente della naufragata Banca popolare di Vicenza: rivolta a Giovanni Coviello, direttore della testata web VicenzaPiu.com, che aveva passato ai raggi X la gestione della Fondazione Roi, di cui Zonin era presidente. Vicenda finita con il ritiro della richiesta. Ma seguita da altre due cause di Zonin contro Coviello. Per l’ultima, il giornalista è stato condannato a 8 mesi di detenzione e a pagare 5 mila euro a Zonin e a Giuseppe Zigliotto (ex presidente di Confindustria Vicenza ed ex consigliere della Popolare di Vicenza).

Un milione di euro è stato chiesto anche al giornale online La voce delle voci dalla Alliance Healthcare, azienda di distribuzione farmaceutica del gruppo di Stefano Pessina. La voce ha pubblicato nel luglio 2019 le dichiarazioni di un farmacista di Napoli in causa con il gruppo Pessina. I giornalisti denunciano lo “scopo intimidatorio, una bastonata fortissima – dicono – per evitare La voce torni su queste vicende”.

Chi fa causa senza motivo pagherà il 25% del valore

Il presidente della Commissione Giustizia del Senato, Andrea Ostellari della Lega, allarga le braccia. “Siamo in sessione di Bilancio e quindi i nostri lavori sono fermi. Forse potrebbe esserci una finestrella per discuterne la prossima settimana. Se no se ne riparlerà a gennaio”. Manca l’ultimo miglio per il disegno di legge sulle liti temerarie che punta a scoraggiare chi agisca in giudizio contro i giornalisti con domande risarcitorie pretestuose o intimidatorie. Ma la cautela non è mai troppa perché, sebbene il testo presentato da Primo Di Nicola (M5S) contenga un solo articolo, fin dalla sua presentazione ha dovuto subire una serie di ostacoli quasi insormontabili. Tanto da far credere che nella maggioranza ci fosse qualcuno che volesse disimpegnarsi con diligenti palleggi così insistiti da rasentare la melina, per usare un’espressione alla Gianni Brera. E si è pure rischiato più volte l’incidente.

Oltre all’opposizione, parte del Pd e i senatori che nel frattempo sono passati con Renzi in Italia Viva, avrebbero voluto cambiare i connotati al testo. Proprio nella parte più significativa, quella che prevede la condanna di chi fa causa senza alcun fondamento a pagare una somma non inferiore alla metà del risarcimento richiesto al giornalista. Sarebbe stato così eliminato qualsiasi elemento di certezza nella determinazione della sanzione, come accade oggi con la norma generale del codice di procedura civile (articolo 96) che prevede solo il generico obbligo del risarcimento, determinato in via equitativa dal giudice, a carico della parte che abbia agito con malafede o colpa grave. Il che ha fatto temere alla Federazione nazionale della Stampa che anche questo tentativo di riforma finisse nel nulla come avviene da 20 anni a questa parte.

Ulteriore tempo, nelle scorse settimane, è stato perso attorno a un’altra proposta di modifica che pure rischiava di trasfigurare il testo prevedendo che la somma spettante al giornalista potesse essere al massimo la metà di quanto richiesto nell’azione temeraria. E quindi la possibilità per il giudice di liquidare anche nulla o una sciocchezza. Come oggi.

Fatto sta che dopo l’ennesima bagarre nella maggioranza, è stato necessario convocare il 30 ottobre un vertice chiarificatore alla presenza del Guardasigilli, Alfonso Bonafede. E alla fine pare si sia trovato un accordo, anche se al ribasso: la cifra da liquidare al giornalista non potrà essere inferiore a un quarto della pretesa di chi lo trascina pretestuosamente davanti al giudice. Ora si attende solo il via libera della Commissione Giustizia del Senato prima di poter votare in aula. “L’accordo raggiunto tra tutte le forze di maggioranza è un buon compromesso: abbiamo fatto un serio passo in avanti. Possiamo considerarla una buona pratica, magari venisse usata più spesso: il governo avrebbe davvero un altro sprint. Immagino che le opposizioni saranno agguerrite, ma è il loro lavoro. Se la maggioranza resta compatta però si può chiudere prima di Natale”, commenta Pietro Grasso di LeU che è soddisfatto per l’accordo, ma ha fatto la voce grossa per convincere tutti gli alleati della maggioranza, anche quelli più recalcitranti.

La riforma ora deve fare i conti, almeno sulla carta, solo con l’opposizione che è compatta in Commissione Giustizia: per il forzista Giacomo Caliendo (che vorrebbe veder approvato il suo disegno di legge che contiene una stretta sui giornalisti in materia di diffamazione), il testo a prima firma Di Nicola si distingue per “l’assenza di equilibrio tra gli interessi giuridici in gioco”. Per Simone Pillon della Lega “mancano i requisiti per applicare l’istituto dei danni punitivi”. Per Alberto Balboni di Fratelli d’Italia “il vigente primo comma dell’articolo 96 del codice di procedura civile è sufficiente”. Insomma sarà guerra.

Casellati, lettere a casa dei giornalisti del “Fatto”

C’è posta per noi. Ieri abbiamo ricevuto tre letterine da un mittente molto istituzionale, nientemeno che la seconda carica dello Stato, la Presidente del Senato della Repubblica, Maria Elisabetta Alberti Casellati, per il tramite del suo avvocato, Gian Paolo Belloni Peressutti di Padova. Il quale ci avvisa che la presidente gli ha conferito l’incarico “di avviare la procedura di mediazione obbligatoria” nei confronti di due colleghi, Carlo Tecce e Ilaria Proietti, e di Marco Travaglio, in qualità di direttore responsabile del Fatto Quotidiano. “Si tratta della condizione di procedibilità per la successiva azione civile che il senatore Casellati intende intraprendere con riguardo a vostre pubblicazioni ritenute lesive dei suoi diritti”. Fine. Tutto quel che sappiamo è questo, perché nella lettera non sono indicati gli articoli ritenuti lesivi dalla senatrice Casellati, dunque non sappiamo da cosa si ritenga lesa. C’è di più. Lo scarno messaggio è stato recapitato, come accade sempre, alla sede del giornale soltanto a Marco Travaglio. Carlo Tecce e Ilaria Proietti sono stati raggiunti dalla raccomandata, datata 3 dicembre, a casa loro. Una scelta assolutamente inusuale, e di cui non si capisce la ragione. Forse la si può supporre, perché è certamente più invasivo e – aggiungiamo sfidando il pericolo di incorrere a nostra volta in un’altra letterina – intimidatorio ricevere un avviso di questo tipo a casa che non al giornale. E comunque lo sforzo di trovare gli indirizzi di casa resta incomprensibile: bastava, come detto, scrivere al giornale come fatto con il direttore del Fatto.

C’è poi la questione mediazione, che in caso di diffamazione a mezzo stampa è effettivamente condizione obbligatoria di procedibilità. Quel che non è affatto obbligatorio è il preavviso di mediazione, in cui sembra risolversi la bizzarra epistola mandata ai colleghi. Un annuncio che suona più o meno così: vi stiamo per chiedere i danni. La procedura si avvia tramite il deposito dell’istanza di mediazione, non tramite una raccomandata, che non espone le ragioni della pretesa e non circostanzia nulla, limitandosi a citare “pubblicazioni ritenute lesive”. Quali articoli? Usciti quando? E lesivi perché?

Da quando la senatrice Casellati è diventata presidente del Senato abbiamo diverse volte scritto di lei e dei suoi familiari, per quanto riguarda incarichi pubblici, per esempio a proposito della figlia Ludovica che fu nominata capo segreteria di un sottosegretario alla Salute, che segnatamente era sua madre. Una vicenda di cui si parlò all’epoca dei fatti, nel 2005, ma di cui si tornò a discutere quando la senatrice fu eletta presidente a Palazzo Madama. Ancora: abbiamo scritto dei suoi viaggi ufficiali, come quello negli Usa nel giugno 2018; visita che si è conclusa con un giorno senza appuntamenti ufficiali, che la senatrice ha trascorso da Eataly e al concerto dell’associazione del figlio a Central Park (sponsorizzata da Eataly): impegni taciuti finché il Fatto non ne ha chiesto conto. Abbiamo raccontato le novità introdotte dalla Presidente al secondo Colle, cioè Palazzo Giustiniani, dove si trovano gli uffici di senatori a vita, ex alte cariche della Repubblica e gli appartamenti privati del presidente: un ascensore con chiave e doppio ingresso riservato a lei. E pure dell’intenzione della Presidente di cambiare i vertici della macchina amministrativa del Senato, a cominciare dal segretario generale.

Crediamo che i cittadini abbiano diritto di sapere come si svolgono, con quali modus operandi, le attività dei propri rappresentanti. Ed è qui che rilevano, da ultimo, le ragioni di opportunità di questa formidabile trouvaille epistolare di Casellati e dei suoi avvocati, ben forniti di doppi nomi e doppi cognomi. È certamente diritto della senatrice far valere i suoi diritti, nel caso li ritenga lesi. Resta che la presidente del Senato ha un indiscutibile potere, e i modi in cui decide di esercitarlo (soprattutto nei confronti della stampa) non sono neutri ma sono un buon termometro della salute democratica, anche rispetto al fatto che non intende sporgere querela per tutelare la sua onorabilità, ma chiedere un risarcimento in denaro (magari molto denaro). Se lo scopo di questa discutibile scelta fosse, vedi mai, indurci a smettere di occuparci di lei, il postino ha sbagliato indirizzo.

Nota di servizio per i legali: in caso di necessità, scrivere al Fatto Quotidiano, noi non siamo domiciliati all’indirizzo di residenza.

La lettera minatoria

Domenica ci siamo occupati dell’ultima impresa, in ordine di tempo, di Maria Elisabetta Alberti Casellati, inopinatamente presidente del Senato: una photo opportunity con un’amica stilista e col di lei figlio, che malgrado la tenera età ha già collezionato due condanne per molestie sessuali su giovani modelle (16 mesi Tribunale e altri 16 mesi patteggiati). Da quando l’avvocatessa padovana devota a San Silvio è assurta alla seconda carica dello Stato, che ne fa una sorta di vicepresidente della Repubblica (se Mattarella ha un impedimento, subentra lei), non s’è fatta mancare nulla: dal vitalizio extralarge all inclusive (pure il periodo trascorso al Csm), al mega-staff che manco Sardanapalo, alle marchette per il figlio direttore d’orchestra e la figlia giornalista rampicante, ai voli Alitalia ritardati per i suoi capricci, all’ascensore senatoriale ad personam. Ma l’unica testata che osa occuparsi di lei è il Fatto. Senza di noi, nessuno saprebbe nulla delle gesta di Lady casta. Così ha pensato bene di minacciare personalmente i nostri cronisti che scrivono di lei: Ilaria Proietti e Carlo Tecce. Non con la consueta denuncia. Ma con una lettera minatoria in triplice copia, recapitata a domicilio a Proietti e Tecce (a proposito: come conosce i loro indirizzi di casa?) e in redazione a me (se madama vuole il mio indirizzo di casa per mandare qualcosa o qualcuno anche a me, sarà mia cura fornirglielo). La missiva è firmata dall’“avv. Gian Paolo Belloni Peressutti”, su carta intestata dello studio padovano che allinea ben 14 avvocati, quasi tutti della famiglia Belloni Peressutti (lei si muove solo coi portatori di doppio cognome, tipo la contessa Pia Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare).

Lo squisito legale ci avverte che “la Presidente del Senato, avvocato Maria Elisabetta Alberti Casellati, mi ha conferito l’incarico di avviare la procedura di mediazione obbligatoria nei Vostri confronti. Si tratta della condizione di procedibilità per la successiva azione civile risarcitoria che il Senatore Alberti Casellati intende intraprendere con riguardo a Vostre pubblicazioni ritenute lesive dei suoi diritti”. Quali, non è dato sapere. Segue, come in ogni avvertimento che si rispetti, un beffardo “Gradite distinti saluti”. Manca soltanto una carezza ai bei bambini dei destinatari. Ora, se uno si ritiene leso nell’onore o nei calli, avvia la mediazione e, se questa fallisce, l’azione civile, indicando chi, come e quando l’avrebbe offeso. Ma nessun codice o procedura o prassi prevede che uno preannunci l’intenzione di fare causa, tantomeno a domicilio, per giunta senza indicare un solo articolo, circostanza, sillaba falsi o diffamatori.

Dunque prendiamo quest’irrituale letterina per quello che è: un amorevole consiglio a “stare accorti”, cioè tenerci a debita distanza dalla Presidentessa, che ha già “conferito l’incarico” di farci causa e, se non la smettiamo, sono guai. Ovviamente ci vuol altro per spaventare un quotidiano libero nel mirino di tutte le peggiori bande del Paese da quando è nato. Infatti abbiamo respinto al mittente sia la lettera sia gli sgraditi distinti saluti. E fin da domani continueremo a raccontare gli scandali di madama Alberti nonché Casellati. Che, detto per inciso, contattiamo ogni volta che ci occupiamo di lei per concederle il diritto di replica, ma lei non lo esercita mai, evidentemente sprovvista di argomenti. Segnaliamo la cosa all’Ordine dei giornalisti e alla Federazione della stampa, casomai volessero farsi sentire. Ma soprattutto agli eventuali parlamentari interessati alla libertà di stampa, perché l’arroganza del potere è ormai intollerabile per chi voglia informare i cittadini con serenità. I democristiani, consci del loro enorme potere, rispettavano la funzione critica della stampa ed evitavano di intimidirla trascinandola in tribunale ogni due per tre. Invece Craxi nei primi anni 80 querelò il direttore del Corriere Alberto Cavallari, reo di avere scritto ciò che tutti sapevano – i craxiani rubavano –, ma con troppo anticipo, quando non c’erano ancora le prove poi emerse con Mani Pulite: infatti fu condannato a 5 mesi di carcere e 100 milioni di lire di risarcimento. Persino D’Alema, non proprio un fan della categoria pennuta, da premier si spogliò di tutte le liti.
Poi venne B. con la sua banda e si dedicò con gran cura e impudenza a terrorizzare i pochi giornalisti che osavano descriverlo com’era: raffiche di querele e cause firmate da lui, Mediaset, Fininvest, Rti, Publitalia, Forza Italia, Previti, Dell’Utri, Confalonieri e il resto della combriccola; epurazioni nei giornali del gruppo (da Montanelli in giù), alla Rai e persino a Mediaset (i pochi esseri pensanti superstiti). Esempio prontamente seguito dai due Matteo, Renzi e Salvini, con ampio battage mediatico di annunci di querele e attacchi personali a questo o quel reprobo, per distrarre l’attenzione dai loro scandali e spaventare una categoria già pavida e asservita di suo. Il risultato lo vedono tutti: interviste in ginocchio senza domande, patetiche processioni sui social di giornalisti penitenti che si umiliano e si scusano con Renzi per aver nominato il nome di Open invano, ricambiati con lodi ai loro mea culpa e promesse di risparmiarli se fanno i bravi. L’unico che non denuncia i giornalisti è il premier Conte, ma in questo contesto fa la figura del fesso, calunniato ogni giorno da iene più o meno dattilografe specializzate nella fabbrica del falso. Intanto, in Parlamento, vaga da anni una legge sulle liti temerarie, che le proibisce in caso di rettifica o replica esaustiva e impone al denunciante di depositare una cauzione proporzionata alla richiesta-danni, destinata al denunciato se il giudice dà ragione a lui. Chissà se vedrà mai la luce, con tanti graditi saluti a B., ai due Matteo e alla Casellati Mazzanti Vien Dal Mare.

L’assassino senza volto che vita fa?

Avolte mi chiedo che vita possa essere la tua. L’hai fatta franca (o l’avete), innocenti sono stati indagati e infangati, se non annientati e suicidati. Quindi la vita che ti stai (o state) trascinando, è a discapito di tante vite interrotte e insanguinate. Magari ti sei andato a schiantare in qualche abisso solo tuo. Chissà se un barlume di coscienza ha reso insopportabile guardarti allo specchio, o magari, più probabilmente, vai avanti, sazio di sonniferi e tranquillanti, in famiglia, con tua moglie, forse anche con tua figlia. Non posso sapere. Nessuno lo sa. L’hai scampata. Li hai fregati tutti. Hai cancellato le prove, magari hai depistato, sei stato scaltro o solo maledettamente fortunato. Non ti beccheranno mai! Intanto Simonetta Cesaroni sbiadisce nella memoria dei più, come le foto che la ritraggono in calzoncini, distesa su una spiaggia, bella e vitale, come tante altre donne, ragazze, bambine, stuprate e uccise da ignoti. “A volte mi chiedo che vita, che vita sarebbe la mia, se quella signora vestita di nulla non fosse per via…”. Mi vengono in mente questi versi di Gozzano in cui la morte, signora vestita di nulla, è un pensiero che raddrizza il percorso degli uomini e fornisce strumenti e senso alla vita. Leggila questa poesia. S’intitola L’ipotesi. Magari l’hai studiata a scuola e non te la ricordi. Ma forse neanche riusciresti a capirla. Forse tu ti credi eterno e indistruttibile, sicuro al cospetto di qualsiasi giudizio, umano e non, altrimenti non riusciresti a continuare a esistere dopo il crimine di cui sei responsabile. Hai stuprato, l’hai scampata, hai ucciso e sei fuggito, hai distrutto e ti nascondi. Dovresti avere il coraggio di espiare, ma tu non ce l’hai il coraggio, anche se l’hai fatta franca, ovunque andrai “la signora per via” avrà il tuo sembiante, la tua faccia.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)