Donne: il pregiudizio nasce in Grecia, per via dei medici

Molti lettori conoscono Eva Cantarella, docente universitaria (in Italia e negli Stati Uniti) popolare narratrice della letteratura classica e del mito greco, il cui pregio più grande, oltre la scrittura, è la capacità di collegare le ansie e paure sociali del presente ai grandi riferimenti del passato. In questo suo libro appena uscito (Gli inganni di Pandora, Feltrinelli editore) Cantarella si pone due obiettivi che sono tipici della sua esplorazione del passato.

Uno è narrare Pandora, che, proprio per essere (il nome) un frammento notissimo e senza contesto della mitologia greca potrebbe essere citato (“Il vaso di Pandora”) persino da Salvini in qualunque momento. E l’altro è usare la narrazione di un mitico passato remoto per spiegare il presente, ovvero le radici profonde, tuttora vivissime, del pregiudizio che continua a pesare sulle donne indipendentemente dal valore e dalla qualità di vita e opere di ciascuna. Infatti il sottotitolo della nuova opera di Cantarella è “L’origine delle discriminazioni di genere nella Grecia antica”.

Cantarella invita i lettori a seguirla nel tempo storico, nell’ambientazione culturale e nel contesto quotidiano della vita della Grecia classica, su cui vuole la nostra attenzione, per rendere più facile, per chi la segue, l’insolito progetto che sviluppa nel libro. L’autrice ci dice (e dice soprattutto alle lettrici donne) che, in questo caso così radicato e antico, la spiegazione non è politica e non è filosofica. La spiegazione è medica. E così diventano co-protagonisti importanti Ippocrate, Esiodo e scuole e nomi che di solito vengono usati e citati nella conversazione scientifica e filosofica. Il punto originale e del tutto nuovo di questo percorso è nell’avere montato, come scene da film, tre passaggi per arrivare al punto.

Il primo è la mitologia, un mondo di potenti e stravaganti figure in cui il maschio (molto più di Adamo nei primi giorni dell’Eden) è l’unico dominatore. Il secondo è il mettere in luce, molto più di quanto sia stato fatto dalle narrazioni maschili del mito greco, la stravaganza, prepotente e imbarazzata, dei maschi dell’Olimpo verso le femmine. Cantarella ci racconta collezioni di episodi e di storie che ci dimostrano una sorta di invidia rovesciata, non quella femminile verso il pene, proposta da Freud, ma quella maschile del parto, ovvero del fatto che solo una donna può dare vita. Al punto che Zeus si dà da fare per partorire Atena dalla sua testa. La terza è il non sapere e il non poter “vedere” il corpo delle donne.

In una fase storica in cui l’autopsia non è concepibile, e il corpo può essere esplorato solo da vivo, il chirurgo conosce, curando le ferite (spesso profonde) almeno una parte del corpo del maschio. Ma della femmina non sa nulla. Nulla dei suoi organi riproduttivi. Qui si situa il mistero e il fastidio (che dura nei secoli e attraverso le religioni) del sangue mestruale delle donne e del tipico “mettere ordine” maschile nell’universo femminile conosciuto poco e male: di qua le mogli e madri, sempre in casa, dedite al dovere e solo per questo protette. Di la le donne che potranno servire al piacere, sempre al servizio di uomini che usano e gettano persone “diverse” e (in casa o fuori) quasi sconosciute. Ecco perché il libro di Cantarella, che pure sono solo 85 pagine, diventerà una strenna di Natale.

Natale, pecorai e mandriani sulla culla di Gesù: “Il giusto si nutre di biada”

Gesù, figlio di Maria vergine, nasce a Betlemme al riparo di una grotta. La cometa vi fa sosta e il prodigio chiama alla mangiatoia che gli fa da culla i Magi di Zoroastro venuti dalla Persia e i pastori in transito che se ne stanno tutti intorno e tutti sbalorditi dell’infinitamente piccolo che si invera nell’infinitamente eterno della parola il cui fiato è un vagito.

Tutti i profeti sono stati pastori. Belano le greggi, infatti, muggiscono le mandrie, l’afrore della notte s’impasta nello stallatico: “Lo spirito del giusto si nutre di biada” – sentenzia Mohammed Iqbal, poeta indiano – ma le leggi del tempo additano i pastori tra gli indegni. Gli incamminati verso i pascoli faticano anche il sabato, sono in contatto con le bestie, dovrebbero pagare un conto salato ai sacerdoti per essere ammessi alle purificazioni e così entrare nel tempio e accostarsi a Dio. La Natività, invece, sfascia la legge e chiama proprio loro, i pecorai e i mandriani. Chi, come il pastore, è trattato indegnamente dalla sua stessa gente, non può che imparare la pazienza. Incorpora in sé un tratto divino. Padre Giulio Albanese, missionario, me l’ha ben spiegato questo concetto e di certo Il primo Natale, il film di Ficarra e Picone prossimamente nei cinema, va incontro al destino degli ultimi visto che ogni Christmas Carol fino a oggi è stato fatto coi Babbo Natale e mai, come hanno dichiarato i nostri beniamini, “dal punto di vista del Bambino”.

Francesco d’Assisi inventa il presepe proprio per un impulso bambino. Per contemplare l’Eterno nella fugacità della cartapesta, della povera creta, delle lucine e dei fiocchi di cotone a neve, giusto a immaginare freddo e gelo in Palestina: “È sempre alla sommità del cielo, la stella”, scrive Francesco D’Arelli, autore de Vie di terra, Mongoli e missionari francescani. E quel vagito, quella voce, segna col Poverello il confine estremo: “Un uomo oltre il tempo, dedito alla contemplazione o visione del bello, animato” – si legge in D’Arelli – “da un impulso volto al sublime o a un altro uomo, rinnovato, aperto all’alterità, povero perché ricco di beni immateriali, quelli che non dividono e non contrappongono”.

L’innocenza – la disposizione prima dello stupore – si nutre di capovolgimenti. Siano essi di senso, che di necessità o peregrinatio che sia. A un certo punto del suo Happy Next, Simone Cristicchi, nel monologo finale dello spettacolo (oggi in scena al Superga di Nichelino, domani al Teatro dei Servi di Massa), racconta di quando col terremoto lui corre a L’Aquila. L’artista vi arriva e offre, alla gente ricoverata nella tendopoli della Protezione civile, un po’ della sua musica e qualcuna delle sue parole. Fa il lavoro suo di “scavalcamontagna” e lì, in mezzo all’infelicità – travolti dalle macerie, dai lutti, dallo spavento – in mezzo alla folla Cristicchi trova dei felici: uomini e donne, giovani e vecchi, tutti allegrissimi, proprio contenti e chiassosi di gioia. Cristicchi s’incuriosisce e scopre l’inverarsi dell’infinitamente.

Erano i ricoverati del Centro d’igiene mentale sfollati e perciò – per necessità, senso e peregrinatio – costretti a stare insieme a tutti gli altri e dunque felicissimi nell’infelicità del sisma. E quindi testimoni negli occhi, nell’ascolto e nel cuore di un impulso, un’epica amorevole, un permanere della poesia dove la stella è sommità e il cielo si riavvolge nel “noi”. Tutto di sbalordita bambina innocenza.

L’alternativa alla liquidità: il buono per i 170 anni della Cassa depositi

Molti risparmiatori tengono soldi fermi su conti e libretti. Sono ammirevoli, perché devono sopportare i continui insulti di giornalisti e sedicenti esperti che li accusano di insufficiente educazione finanziaria, perché rifiutano fondi, polizze e altra roba simile. Tenere risparmi liquidi, magari anche in contanti, è invece una scelta ragionevole. Coi tassi di mercato intorno allo zero, la prima precauzione è evitare le trappole dell’industria parassitaria del risparmio gestito.

Tuttavia qualche alternativa da non scartare c’è. A volte sono richieste competenze specifiche, come per individuare certificati interessanti fra le centinaia in circolazione. Ma almeno una non richiede tanti conteggi. Si tratta di un nuovo buono fruttifero postale, passato sotto silenzio dagli stessi giornali sempre così prodighi nel consigliare prodotti ai risparmiatori.

Si chiama Buono 170° Cdp per i 170 anni dell’emittente, la Cassa Depositi e Prestiti. Dura quattro anni e rende l’1% annuo, purché tenuto fino alla scadenza. In assoluto è poco. In relativo no. I Btp di durata simile fruttano sullo 0,45% annuo, sempre lordo.

C’è solo qualche limitazione per le due serie in cui viene emesso, denominate TF204A191107 e TF304A191118, ma strutturalmente identiche. Nella sostanza non si possono sottoscrivere riscattando anticipatamente un altro buono posseduto. Bisogna aggiungere nuova liquidità sul conto o utilizzare il rimborso di un buono (non per minori) scaduto in novembre o dicembre. Ai nuovi clienti è permesso anche versare contanti, agli altri no; e questa è proprio una bizzarria.

Allo scadere dei quattro anni si otterranno interessi complessivi del 2,75%, cioè quasi lo 0,7% annuo al netto di ogni imposta. E lo 0,9% annuo, avendo meno di 5.000 euro in buoni fruttiferi. Sono rendimenti attualmente superiori all’inflazione tendenziale, ma solo a fine 2023 si vedrà davvero come sarà andata in potere d’acquisto. Visto poi il taglio minimo di 50 euro, parlare di risparmio popolare non è fuori luogo.

Bene sapere però che la Cdp può sospendere l’emissione dei titoli in ogni momento. Quindi, se uno è interessato, farà bene a sottoscriverli senza indugio. Tanto in caso di ripensamenti può chiederne sempre il rimborso, anche dopo un solo giorno, senza rimetterci neppure un centesimo per spese o altro. Riscattandoli prima della scadenza non si va in negativo neppure per motivi fiscali, come capita invece regolarmente con conti e libretti a interessi nulli o irrisori. Infatti in tali casi le Poste reintegrano il bollo eventualmente addebitato.

 

Donne, violenza continua. “Il patriarcato tramonta, ma il nuovo modello arranca”

Gentile Selvaggia, non so se ha letto le ultime mail spedite alla vostra redazione, ma per riassumerne brevemente il contenuto ho scritto quel che penso sulla responsabilità delle ragazze che vengono stuprate mentre sono sotto effetto di alcool e droghe. Io continuo a credere nel principio di precauzione: una donna che beve è libera di farlo, ma mi auguro sempre che lo faccia con un minimo di testa, esattamente come bisogna guardare a destra e sinistra quando si attraversa la strada. Tuttavia non va dimenticato che viviamo in un Paese che ha abolito il delitto d’onore soltanto nel 1981 e lo stupro rimane stupro, ed è assurdo che lo si debba anche solo ribadire. Io credo che il problema giaccia nei tempi che cambiano e nella nostra incapacità di adattarci ad essi. Fino a pochi anni fa esisteva (e tuttora esiste, dove l’emancipazione femminile non ha ancora raggiunto un livello dignitoso) un ben preciso codice di comportamento tra l’uomo e la donna. Questo codice, che si può definire conservatore, prevedeva la donna subordinata all’uomo, reclusa nel proprio ruolo di moglie e madre come unica possibile espressione. In un mondo del genere, lo stupro è funzionale perché, se si esce dal recinto imposto alla donna, è quello il rischio che si corre. Per usare delle parole ignobili: se l’è cercato lei, se fosse rimasta a casa, invece… Per fortuna, questo codice di comportamento sta inevitabilmente tramontando. Al suo posto, logica e necessità imporrebbero che ne nascesse uno nuovo, ma purtroppo qui giace il problema: a chi vuole ripristinare il codice di comportamento conservatore non si contrappone un modo di vivere il rapporto tra uomo e donna progressista, ma ci si ostina soltanto a sostenere che non si può tornare al passato. E, dal momento che il vulnus non viene riempito con nuovi valori, quelli vecchi non sembrano poi tanto male. Mentre attendiamo pazienti qualcuno che abbia la forza di forgiare un nuovo codice di comportamento progressista, che spinga a fare il vuoto intorno a coloro che io chiamo non uomini ma “ommi” (dal noto motto: “L’omm è omm, adda puzzà”; che a me non fa ridere, perché abbiamo smesso di essere trogloditi molti secoli or sono), non possiamo fare altro che scusarci a testa china e fare del nostro meglio con e per le donne. Dal momento che adoro flirtare impunemente, io ho il mio codice personale: la donna non si paga, mai e in nessuna forma o modo; non la si tocca finché non è lei la prima a toccare; se dice no, è no; falla ridere sempre e in ogni modo, perché le donne hanno bisogno di farlo molto più degli uomini. Amore non è un anello al dito, ma voltare le spalle alla ragazza più giovane e bella della propria perché in cambio di questo (immane!) sacrificio si è scelto di mettere insieme una squadra, qualcosa che porta tantissimi vantaggi che poco hanno a che fare con il sesso, e la squadra non si tradisce. Non so perché le racconto questo, forse voglio solo farle capire che quei due delinquenti di Viterbo non sono la normalità per un millennial come me (se tale posso ancora definirmi a 33 anni), ma una distorsione di quello che dovremmo essere.
G.

Gentile G., io non credo che vada riscritto chissà quale codice comportamentale, su questo tema. “Se una donna dice no è no” e “se una donna non è in grado di dire sì o no, non si approfitta di lei”, credo siano due principi sufficienti. Mi accontento che gli uomini abbiano chiaro il reato, intanto. All’evoluzione culturale possiamo lavorare con più calma.

 

Parenti serpenti: “Mio fratello, plagiato da lei, si è preso casa”

Cara Selvaggia, il mio adorato fratello si è fidanzato dopo tanti anni da single e in famiglia eravamo felicissimi. È sempre stato un ragazzo introverso, pochi amici, pochi interessi, pareva destinato a diventare uno di quei signori un po’ strani, solitari, che non salutano nessuno nel palazzo. Premetto che siamo una famiglia molto benestante perché mio padre è stato un imprenditore di successo e ha venduto la sua azienda anni fa, garantendo benessere a lui e a noi due figli. Mio fratello lavora comunque nel settore immobiliare. Dunque, tornando al fidanzamento, mio fratello Luca un giorno ci invita a pranzo e si presenta con questa ragazza – o meglio, donna – visto che ha 18 anni più di lui (30 e 48). Ci dice che si sono conosciuti un mese prima e si amano. Lei sorride molto e parla poco, specifica che ha due figli “già innamorati di Luca” e che la differenza di età non è un problema per nessuno dei due. Luca sembra un ebete. Giuro. Sorriso stampato, la sua mano in quella di lei, sguardo adorante. Noi ce ne andiamo un po’ perplessi per la differenza di età ma poi ci diciamo che finalmente Luca si è innamorato, finalmente sorride, finalmente esce di casa. Due mesi dopo scopriamo che Luca vive con lei, in una nostra casa di famiglia, una casa storica, all’interno di un parco, una casa che mio padre intestó a Luca col patto non scritto che sarebbe sempre stata di tutti noi. Nessuno l’aveva mai usata perché è troppo grande e io sono single, i miei vivono nella loro casa di sempre in centro. Gli chiediamo il perché di questa scelta visto che viveva in un appartamento di 200 mq molto bello e lui risponde che a lei l’idea di stare nel verde, con i bambini, piaceva di più. Te la faccio breve: dopo neppure un anno lei è già incinta, lui non parla più con noi, quella casa ormai resterà a lei e ai suoi figli, qualsiasi cosa accada. Come si fa a recuperare un fratello e a fargli capire che è manipolato?
Lucia

Cara Lucia, rispondo a una domanda con una domanda: ti interessa di più recuperare il fratello o la casa?

 

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Il consumismo deve morire: “Lo sfarzo fa male come il low cost”

C’è un episodio, in Sex and the City, in cui la super single Carrie Bradshaw perde una delle sue esosissime décolleté Manolo Blahnik a casa di un’amica, madre di più figli. La sua disperazione è totale, tanto che quando viene a sapere che la scarpa è a casa dell’amica arriva trafelata quasi avesse smarrito un animale o un figlio e l’amica pluripara la guarda sdegnata, come se fosse una da compatire, dai valori morali del tutto sballati. L’episodio è divertente, alla fine lì per lì si simpatizza per la single amante del lussuoso tacco dodici. Ma a pensarci meglio, che esistano scarpe da mille dollari acquistate da donne reali, magari in centinaia di paia, non ha poi tanto di divertente. L’essere umano ha bisogno di un paio di scarpe normali, e basta, tutto il resto produce malessere in chi compra (ma non è mai felice lo stesso), così come porta a distruzione ambientale e povertà di chi quelle scarpe le cuce a due soldi, in Paesi sempre più inquinati. Insomma, che chiuda a New York il negozio simbolo delle scarpe di lusso farebbe quasi sperare che forse il settore tiri di meno: non è così, i dati dicono che è in crescita, economisti e politici applaudono. Come se quel lusso assurdo non raccontasse di un mondo schizofrenico dove una inesistente porzione di individui passa la vita a spendere mentre la grande maggioranza a sopravvivere, e neanche ci riesce. Come se il lusso non fosse l’altra faccia della moda da due soldi, delle catene che ti vendono decine di pezzi a pochi euro di tessuti misti irriciclabili prodotti in Bangladesh ma che ti fanno sentire tanto fashionist quanto chi si può permettere le Manolo Blahnik. E allora, per coerenza, dovrebbero chiudere pure i maxistore della moda cheap. Bisognerebbe tornare, non per moralismo, per felicità, ad avere due buoni vestiti, due paia di scarpe, un cappotto. Anzi quello, col caldo, neanche serve più.

Chiude lo store di Sex and the City: “Diffidate dei pauperisti”

La notizia è rimbalzata su questa sponda dell’Atlantico: il mitico store newyorchese di Manolo Blahnik celebrato da Sex and the City chiude i battenti. Sì, quello delle decolleté costosissime dai tacchi vertiginosi, da indossare rigorosamente senza calze, perché la donna di classe sopporta il freddo con lo stesso stoicismo con cui rinuncia ai carboidrati. Qualche anno fa ne sarei stata felice: evviva, la Grande Mela si converte alla neo-frugalità, voglio vedere Carrie Bradshaw in Birkenstock. E invece no. Il pauperismo mi ha rotto, ho imparato a diffidare di chi predica la morigeratezza. Nella storia, da Catone a Cromwell passando per Savonarola, nei falò delle vanità non finivano solo abiti e scarpe civettuole, ma anche libri «licenziosi» (in primis le poesie d’amore) e opere d’arte (molti quadri di Botticelli bruciarono nel rogo fiorentino). Le leggi contro il lusso erano in realtà contro le donne, che non potendo gestire denaro e terreni in proprio, la ricchezza la indossavano sotto forma di gioielli e tessuti. Lusso e lussuria sono parenti, indicano un surplus di piacere del corpo, che gode di altri corpi o della vista con begli oggetti. Odiare la luxury non significa combattere per la giustizia sociale, ma spesso crogiolarsi nell’invidia sociale. Per restare a NY, Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata del Bronx, speranza della sinistra, sfoggia completini da migliaia di dollari che abbina, udite udite, agli stilettos di Manolo. “Tutta roba prestata” ha ribattuto lei, che si dichiara fan dei mercatini dell’usato. Ma il messaggio è chiaro: l’abito non fa l’Ivanka Trump, contano la grinta e le idee. E allora quasi quasi mi rassicurano le voci secondo cui dietro la chiusura di Manolo a Manhattan c’è solo il progetto di trasferire lo store in un altro quartiere. Magari proprio nel Bronx, la culla di Ocasio-Cortez. Colei che porterà il tacco al cuore dello Stato.

Il Don Matteo di Bologna che spiega perché l’odio ha contagiato la Chiesa

La Chiesa misericordiosa di Francesco, non quella del clericalismo antibergogliano, da mesi si dedica allo studio e all’analisi approfondita di questi tempi di rabbia e rancore. Su tutto, l’interrogativo che più inquieta: per quale motivo il sovranismo che odia si è diffuso pure tra i credenti?

Ed è proprio l’odio che il neocardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, ha messo al centro di un volume scritto con il giornalista Lorenzo Fazzini. Sin dal titolo che ribalta il comandamento evangelico di Cristo: Odierai il prossimo tuo. Perché abbiamo dimenticato la fraternità. Riflessioni sulle paure del tempo presente (Piemme, 191 pagine, 16,50). Sua Eminenza Zuppi è noto come il don Matteo dei vescovi, non un protagonista di fiction ma un prete di strada, cresciuto nella comunità di Sant’Egidio, nel cuore di Trastevere a Roma.

Il libro si apre con una riflessione che spinge più alla speranza che alla rassegnazione, nonostante i venti di paura che spirano: “L’odio che si respira nella nostra società (…) potrebbe rivelarsi (…) un’occasione preziosa per riscoprire con rinnovata energia il grande valore della fraternità”. E le occasioni non mancano, a partire dalla presunta Apocalisse maneggiata dalla destra clerical-sovranista. I migranti, ovviamente.

Attenzione: don Matteo Zuppi espone con pacata grazia le sue riflessioni e le sue parole non cedono mai all’invettiva. Il suo è un dialogo estremo. E con disarmante linearità l’arcivescovo di Bologna spiega ché la Chiesa di Francesco non è un’Ong buonista, come viene sbeffeggiata dai tradizionalisti. La radice di tutto è il Vangelo e l’amore predicato da Gesù. Uno dei mali che porta alla chiusura è l’individualismo. E l’amore solo per se stessi è il vero Inferno.

Indi il capitolo sulla Chiesa che odia. Qui si descrive la centralità del nucleo vero della fede, “Dio ama te”, rispetto al fariseismo veritativo che dà risalto solo all’opzione morale predicata dalla destra clericale: “Dio vuole che ti comporti in questo modo”. La differenza tra i due modi di credere è la misericordia. Da un lato Francesco, dall’altro i farisei che lo odiano.

“Dark Waters”: lotta civile contro l’azienda chimica

L’attivismo sociale, la militanza politica, l’impegno civile andrebbero riservato agli esteti, e solo a loro. L’ennesima riprova, che onorando la forma si dà credito alla sostanza, viene da Todd Haynes, hipster newyorkese all’apparenza, regista sopraffino alla prova: da Far from Heaven a Carol, da Velvet Goldmine a I’m Not There, ne abbiamo apprezzato l’empatia, il gusto, la cura, sopra tutto, la capacità di dire del mondo semplicemente guardandolo e trasfigurandolo per quel che è, senza didascalismi né lezioni. Per trovare qualcosa di simile al nuovo Dark Waters tocca però andare agli inizi del suo corpus, a Safe del 1995, in cui la casalinga californiana Julianne Moore accusava una sedicente e insinuante “malattia ambientale”. Problema, stavolta la “malattia ambientale” è certificata e su larga scala.
Scritto da Mario Correa e Matthew Michael Carnahan, Dark Waters è basato su un articolo del 2016 di Nathaniel Rich, pubblicato dal New York Times Magazine, “The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare”. A incarnare l’avvocato da incubo per il colosso chimico è Mark Ruffalo, che dà a Robert Bilott ordinarietà, ossessività e credibilità, senza scivolare nell’agiografia e nell’eroismo: non è Davide contro Golia, sebbene il film si muova su questo tracciato, ma un legale che prima per un senso del dovere da provinciale e poi per ostinazione professionale, e morale, si adopera perché le responsabilità vengano acclarate, le vittime monitorate e risarcite, la verità promossa.

Nel 1998 Bilott è appena stato promosso a socio, quando Wilbur Tennant (Bill Camp, super), un furioso allevatore di Parkersburg, West Virginia, si presenta allo studio Taft Stettinius & Hollister a Cincinnati con due scatoloni di vhs: documentano lo scempio dei suoi campi e la moria delle sue vacche, stroncate da un male oscuro, meglio, dalle acque scure del Dry Run Creek che DuPont ha usato per discarica. Scherzo del destino, Robert abitualmente difende proprio le compagnie chimiche, e proprio DuPont è uno dei clienti principali dello studio, ma il ribaltamento di campo è dietro l’angolo: accetta di rappresentare Wilbur, pensa sia affare da poco, mentre ci vorranno 15 anni per venirne a capo. Con gli effetti collaterali più indesiderabili: un rapporto di coppia – la moglie Sarah è Anne Hathaway, entrambe insopportabili – messo a dura prova, tre figli ignorati, salute precarie. Eppur si muove, il gigante scricchiola, e dalla mole di 50 anni di scartoffie trapela l’indiziato: l’acido perfluoroottanoico (Pfoa o C8), che così non vi dirà nulla, ma come Teflon dice tantissimo, dalle pentole in giù. Bilott indaga, incassa il sostegno del suo capo (Tim Robbins, perfetto) e compone il puzzle: la minaccia non è solo per campi e armenti, ma anche per gli umani, per Wilbur Tennant e gli altri abitanti falcidiati dal cancro. Take Me Home, Country Roads la sentiamo, eppure suona da De profundis: la posta in gioco si alza, la materia è di salute pubblica, Bilott barcolla ma non molla. Da pochi giorni nelle sale americane, dal 27 febbraio 2020 nelle nostre, Dark Waters è in cartellone al quarto International Film Festival & Awards di Macao, con un memento puntuale: se il climate change è tema globale, ciascun Paese non potrà non correlare questa storia alle proprie, e a noi basti l’Ilva, anche per il trade-off salute e disoccupazione debitamente tratteggiato da Todd Haynes. Da Tutti gli uomini del presidente a The Insider e Erin Brockovich, la tradizione cinematografica in cui innesta il proprio lavoro è solida e felice, ma il regista sa anche innovarla, abbassando la camera davvero ad altezza uomo qualunque, mettendo in sordina l’eroismo, calmierando la lotta contro il potere: scelta estetica, la fotografia trattenuta di Ed Lachman, e scelta etica, l’exemplum trattenuto di Robert Bilott. Se lui ha potuto, perché non anche noi?

 

Riscatto laurea: a chi conviene arrivare prima alla pensione

Dall’inizio dell’anno sono arrivate all’Inps quasi 44mila domande per riscattare la laurea, uno strumento utile ad accumulare anni di contributi per andare in pensione prima. Un indubbio successo per questa misura, fino ad oggi costosissima, che ha registrato uno sprint niente affatto inatteso, complice il nuovo sistema agevolato che – introdotto nel 2019 dal decretone che contiene Quota 100 e Reddito di cittadinanza – consente, in via sperimentale fino al 2021, il riscatto fino a 5 anni, anche non continuativi, dei contributi del periodo di studio pagando circa 5 mila euro all’anno senza limite di età. Tanto che, nel 2018, la media mensile di domande è stata rispettivamente di 580 nel settore pubblico e 1.740 in quello privato. I nuovi numeri sono stati diffusi da Pmi.it, il sito delle piccole e medie imprese, e risultano più alti di quelli ufficiali pubblicati dall’Inps che vanno da marzo a luglio 2019 segnando 32.497 domande arrivate tra gestione pubblica e privata, con un picco nel mese di maggio per i lavoratori privati (6.976 richieste) e a giugno (1.275) per i dipendenti statali. L’incremento è stato forte soprattutto nei primi mesi di applicazione della misura: si passa, infatti, da 5.920 istanze a marzo alle 7.020 di aprile fino alle 8.060 di maggio. A giugno si riscende a 6.267 e a luglio a 5.230.

La nuova formula light del riscatto è, in sostanza, un piccolo vantaggio riservato a chi avrà una pensione più magra rispetto alle generazioni precedenti e che, ovviamente, sta avendo più successo tra i dipendenti privati che hanno meno certezze sul proprio futuro lavorativo. E l’incremento registrato è stato anche spinto dalla necessità di qualche contribuente di raggiungere magari i 38 anni di contributi necessari per sfruttare Quota 100, lasciando così il lavoro in anticipo rispetto ai 67 anni necessari. Un consistente aumento delle domande che negli scorsi mesi ha portato il governo giallorosa a dichiarare che ci avrebbe rimesso mano nella prossima manovra per ampliare la platea. Poi, però, non se n’è fatto nulla.

Così, per quanti si chiedessero se il riscatto agevolato conviene davvero e chi ha le carte in regola per richiederlo, ecco una guida elaborata in collaborazione con Antonello Orlando della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.

I requisiti. Sono essenzialmente due: il lavoratore deve avere almeno un contributo versato nella gestione Inps dove intende riscattare ed è possibile seguire l’iter agevolato solo per gli anni di studio dal 1996 in poi riscattando la laurea a un importo bloccato di 5.239,74 euro per ogni anno del corso di studio. L’importo viene calcolato sul reddito minimo soggetto ad imposizione della gestione Inps artigiani e commercianti (pari a 15.878 euro per il 2019), a cui applicare l’aliquota di finanziamento della gestione previdenziale dei lavoratori dipendenti pari al 33%. Dal 2020 l’importo sarà leggermente più alto. Il riscatto, che può riguardare l’intero o i singoli periodi, è rivolto a tutti coloro che abbiano conseguito il diploma di laurea o titolo equiparato. Gli anni fuori corsi non danno possibilità di riscatto.

La convenienza. Più si alza il reddito e più aumenta la convenienza del riscatto agevolato rispetto a quello tradizionale. Con risparmi che vanno dal 40% per un dipendente con uno stipendio di 1.500 euro netti al mese a quasi il 70% per chi arriva a 2.500 euro. L’importo che si paga per il riscatto low cost è rateizzabile in un massimo di 10 anni, senza l’applicazione di alcun interesse e consente di massimizzare il risparmio fiscale con una spesa effettiva abbattuta fino al 47%, in particolare per chi ha redditi superiori a 75.000 euro annui, considerando anche il risparmio sulle addizionali regionali e comunali all’Irpef. Sul sito Inps è, comunque, disponibile il simulatore del riscatto della laurea, attraverso il quale è possibile calcolare l’ammontare della somma da versare.

A chi non conviene. Anche se con la nuova opzione un anno di riscatto costa 5.239,74 euro invece di un terzo dell’ultima retribuzione annuale lorda percepita, questa non è la strada giusta per chi, con contributi solo dopo il 1995, al raggiungimento dei 64 anni di età (più speranza di vita) si trova ad avere almeno 20 anni di contributi e una pensione maturata pari o superiore al valore soglia (oggi di 1.285 euro ma cresce ogni anno). Questa platea può, infatti, accedere alla pensione anticipata maturando un’età anagrafica a oggi pari a 64 anni, con 20 anni di contributi effettivi e a condizione che la pensione sia pari, a oggi, appunto a circa 1.285 euro lordi al mese.

Come fare domanda. Si presenta online sul sito dell’Inps, mentre il pagamento dell’onere si effettua utilizzando gli appositi bollettini inviati dall’Istituto. È possibile effettuare il pagamento rateale anche mediante addebito diretto sul conto corrente.

Ford, via la plastica: i componenti si fanno col caffè

L’americana Ford ha annunciato di voler arricchire alcune componenti dei suoi prossimi modelli con materiali di scarto, in un’ottica di riduzione della plastica e quindi di sostenibilità ambientale: non è certo la prima a farlo, ma finora l’idea di utilizzare i chicchi di caffè pare non fosse venuta a nessuno. Il colpo di genio è arrivato insieme alla collaborazione con McDonald’s, che fornirà alla casa dell’Ovale Blu una buona parte della miscela di caffè per ricavarne un nuovo materiale da impiegare, ad esempio, nella costruzione dell’alloggiamento dei fari o in alcuni rivestimenti interni. Per la precisione, la parte del chicco di caffè che sarà riutilizzata è l’involucro esterno che si separa naturalmente durante il processo di lavorazione e che generalmente va a finire negli scarti: l’idea dei due big, invece, è di riconvertirlo sostanzialmente in pellet, a seguito di una lavorazione ad alte temperature e basso ossigeno, per poi essere rilavorato insieme alla plastica e ad altri additivi. “Questo è un esempio di economia circolare” ha dichiarato Debbie Mielewski, Senior Technical Leader del team di ricerca sulla sostenibilità di Ford, “in cui diverse industrie lavorano insieme, scambiandosi materiali che altrimenti sarebbero prodotti collaterali o di scarto”. La scelta di utilizzare gli scarti del caffè per soluzioni di allestimento dei veicoli consentirà non solo di avere dei prodotti del 20% più leggeri (oltre che con migliori proprietà termiche), ma anche di risparmiare circa il 25% di energia per la loro trasformazione. Quanto a McDonald’s, oltre a rifornire di materia prima Ford, si è posta l’impegno di impiegare per il packaging, entro il 2025, solo materiali riciclati o prodotti da fonte rinnovabile: iniziative, entrambe, parte del programma Scale for Good che prevede nuovi studi, con la casa dell’Ovale Blu, sulla produzione sostenibile.