Nuova Volkswagen Golf. Un classico verso il futuro

Quarantacinque anni sono tanti. Non una vita intera, ma un bel pezzo. Per un’auto, poi, campare così a lungo e avere davanti ancora del cammino è quasi un miracolo. In più, l’ottava generazione di Golf eredita numeri pesanti: best seller europea con 35 milioni di esemplari di cui 2,5 solo in Italia, dove ne circolano ancora 700 mila. “Una venduta ogni 40 secondi”, fanno sapere dal quartier generale di Wolfsburg. “Due proprietari su tre, soddisfatti, ne ricomprano un’altra”, l’eco della filiale italiana, nella persona del direttore generale Andea Alessi.

Un successo intergenerazionale, insomma. Anche se il peso commerciale di “das auto” (il claim Vw non può che essere ispirato a lei) non è più lo stesso: un tempo valeva da sola un quinto dei profitti Vw, oggi siamo intorno all’8%. Le insidie vengono da fuori, con una concorrenza divenuta feroce nel tempo, ma anche dall’interno, come dimostra il successo del modello che strizzando l’occhio alla moda delle ruote alte la sta sostituendo nei volumi, ovvero la T–Roc. Senza dimenticare il futuro a elettroni, che si chiama ID.3: ma prima che si trasformi in una minaccia, c’è ancora da aspettare.

Il presente invece ruba l’attenzione. E racconta di un modello quasi rassicurante da guidare, nella sua impostazione classica. Nata sulla piattaforma modulare MQB, arriva a lambire i 4,3 metri di lunghezza mantenendo più o meno le stesse dimensioni della precedente. Una costante, quella di non mettere troppo mano a ciò che ha funzionato e funziona, se è vero che per la sua produzione è stato utilizzato l’80% di macchinari e attrezzature già esistenti. E se l’estetica è tutto sommato conservativa, arricchendosi di dettagli comunque importanti come i fari a led anteriori e posteriori di serie (che nelle versioni più ricche diventano “intelligenti” con il Matrix IQ Light), la vera rivoluzione è nell’abitacolo. La questione spazio/abitabilità, gli ingegneri tedeschi ormai la sbrigano con la mano sinistra, dunque meglio virare sulla rivoluzione high–tech. Perché di questo si tratta, quando da una plancia spariscono pulsanti e manopole e tutto funziona col tocco di un dito: oltre al cruscotto digitale, la chiave di volta è il touch screen centrale, da cui gestire funzionalità di bordo e infotainment, usufruire dei servizi online (come webradio) grazie a una eSim integrata, dialogare con altri mezzi e infrastrutture in un raggio di 800 metri grazie alla tecnologia Car2X, per la prima volta di serie. Le informazioni ottenute consentono di gestire al meglio anche i sistemi di sicurezza e assistenza di bordo tra cui il Travel Assist, che regola velocità di marcia e distanze con gli altri veicoli, leggendo pure la segnaletica stradale.

Sul fronte motori serviva una svolta, con unità “sensibili” alla questione ambientale. In soccorso c’è la parolina magica tanto di moda di questi tempi: elettrificazione, un must per la berlina tedesca. Che si presenta al lancio nel nostro Paese (a marzo 2020, ma i preordini già sono iniziati) forte dei 1.0 e 1.5 TSI benzina da 110 e 130 Cv, e del 1.5 eTSI con tecnologia Mild–Hybrid da 150 cavalli. Per quanto riguarda il gasolio, invece, disponibile il 2.0 TDI nelle due varianti di potenza da 115 e 150 cavalli. Più in là, arriveranno altre varianti benzina, diesel e metano, così come l’attesa ibrida plug-in GTE, con potenze di 204 e 245 Cv.

Su strada, buon sangue non mente. Lo stile Golf, inconfondibile, ormai è familiare: sospensioni ben tarate sull’eterno compromesso tra prestazioni e comfort, telaio con una tenuta sicura in ogni frangente. Sottosterzo quasi inesistente, volante più preciso e diretto rispetto al passato, motori ben dimensionati. Insomma, voti non massimi ma media alta: la tedesca che non delude mai, e che costa almeno 25.750 euro. Salvo sconti al lancio, di cui ancora non è dato sapere.

Salto in alto, Tamberi: “Nessuno mi fermerà”

A uno come Gianmarco Tamberi non bisogna ricordare quanto è bello. Non bisogna dire quanto gli donino i capelli lunghi e ribelli alla Brad Pitt in Vento di passioni, o ancora le labbra tumide dal cesello perfetto e gli occhi color cioccolato grandi e vivissimi. Perché s’intimidisce: le gote gli si imporporano e smette di discorrere. E colpisce che questo ragazzone dinoccolato di 1,92 (pluri–medagliato altista italiano) che cammina spavaldo con l’allure di un modello streeetwear, d’un tratto si blocchi e perda le parole. Ma “Gimbo” – questo è solo uno dei nomi con cui è conosciuto – è così: autentico fino a essere trasparente.

L’autenticità l’aveva già dimostrata il 15 luglio nel 2016, quando s’infortunò venti giorni prima delle Olimpiadi di Rio de Janeiro al meeting internazionale del Principato di Monaco: dopo aver saltato 2,39 m e definito il nuovo record azzurro, si fa male alla caviglia tentando di saltare 2,41 m. Quando compie l’ultimo passo e stacca il salto inizia a gridare dal dolore. “Ho capito subito che non era una sciocchezza quando non sono riuscito a rimettermi in piedi. Poi, ho pianto per una settimana. Non avrei potuto gareggiare alle Olimpiadi di Rio. Mi avevano tolto la cosa più importante della mia vita”.

Da quella gara, Gianmarco va via in barella. È un’immagine che colpì tutti: “Ho sentito il sostegno della gente. Persone che mi non mi conoscevano mi mandavano messaggi, mi chiamavano, mi davano la forza per crederci. Così ho iniziato a condividere con foto, messaggi, storie il mio avanzamento. Senza nascondere niente: le paure, lo sconforto, la fisioterapia, i primi allenamenti. Anche per aiutare chi – per i motivi più svariati – magari aveva una propria battaglia da affrontare”. Il rapporto speciale con il pubblico, Gianmarco lo ha serbato: “In ogni mia vittoria ci sono tutti i miei sostenitori, che hanno creduto nel mio sogno aiutandomi ad arrivare dove sono. Prima di ogni salto mi vedi gridare verso il pubblico. Caricarli, incitarli a battere le mani con me, e tutta l’energia che io do a loro mi torna indietro raddoppiata. So che si aspettano il meglio e ciò mi motiva”.

Da quell’infortunio, Gimbo si è totalmente ripreso e agli Europei indoor di Glasgow nel marzo di quest’anno ha vinto la medaglia d’oro con la misura di 2,32 stabilendo anche un primato nazionale: è il primo italiano a trionfare nel salto in alto in una rassegna europea al coperto. Ai Mondiali ottobrini di Doha, dopo un ennesimo fastidio a fine agosto, si prepara in un mese scarso e centra comunque la finale.

Pensare che questo “giovane favoloso” aveva iniziato con la pallacanestro: “Ho giocato a basket fino a 17 anni. Poi, ho provato altri sport, tra cui il salto in alto e nel 2008, dopo soli 4 mesi di allenamento, sono diventato campione italiano”. Ma le ali, Gianmarco, le ha nel DNA: il padre, Marco (che è anche il suo allenatore), è stato altista, primatista azzurro e ha partecipato alle Olimpiadi del 1980 a Mosca.

A vederlo saltare, lieve e vigoroso, c’è qualcosa di speciale in Gimbo: vuoi per la barba che, dal 2011, rade solo per metà – è chiamato halfshave –, vuoi per il suo ottimo “arco dorsale” (l’arco che disegna nel momento in cui supera l’asta) o per il dinamico “stacco” (quando trasforma la velocità in forza verticale) come si sente dire ai commentatori. Sembra davvero che quel corpo nervoso e lesto sfiori per un attimo il miracolo del volo.

Ghiotto di salato (“le lasagne di mia nonna su tutto”) con l’ossessione per i cannoli siciliani, confessa ridendo: “Passo gli undici mesi di allenamento a perdere quella decina di chili che prendo in vacanza, dove mi lascio andare”. La dieta è rigida e gli allenamenti quotidiani. E per saltare in alto bisogna essere leggeri, ma Gimbo è un saltatore che all’altezza e a un fisico affusolato come scolpito da Giacometti fonde molta tecnica. “In allenamento, ascolto molto rap che mi carica. Durante la giornata, invece, mi piace il rock anni ’70, e moltissimo De André.” Ma soprattutto, Gianmarco è dotato di una mente indomita: “Non c’è sport come il salto in alto che ti insegna come il limite deve essere qualcosa di provvisorio, che puoi e devi superare, proprio come l’asticella che di salto in salto viene posta sempre qualche centimetro più in alto”. (Adesso il tempo a nostra disposizione è finito, Gimbo deve tornare ad allenarsi per le Olimpiadi di Tokyo. “Mi vengono i brividi solo a parlarne, le aspetto da una vita”, e aggiunge: “Niente mi fermerà a Tokyo, niente”).

C’erano una volta Sarri e Ancelotti

Magari Juventus e Napoli si ritroveranno, sabato 30 maggio a Istanbul, una davanti all’altra nella finale di Champions League 2020: nel calcio, si sa, tutto è possibile. Magari Juve e Napoli opereranno fin da domani un cambio di passo epocale; ma quel che è certo, guardando qual è l’andazzo nell’orticello della serie A italica, è che i loro condottieri Sarri e Ancelotti stanno mostrandosi anni luce lontani dai propri standard; e certo il loro valore non è in discussione, ma anche se la classifica dice Inter 38, Juventus 36, Lazio 33, Roma 29, Atalanta 28 e Napoli 21, la classifica degli allenatori dice cose ben diverse: dice che Conte, Inzaghi, Fonseca e Gasperini stanno lottando per il titolo di miglior allenatore e che Sarri e Ancelotti annaspano a metà classifica. Tristemente. Anonimamente.

Il vate Sarri che del culto del Gioco aveva fatto un postulato, sulla panchina della Juventus sembra un Allegri venuto male. Schiavo di tutto e di tutti, si limita a obbedire agli ordini societari mettendo in campo il totem di Buffon, che per contratto deve giocare alcune partite per strappare a 42 anni un record a Maldini e che come già a Parigi incorre in topiche colossali che costano punti in classifica; si permette una volta di togliere dal campo quel che fu di CR7, dopodichè non è in grado di tenere a bada la baraonda che si scatena e cala le brache; e anche se pensa, com’è evidente a tutti, che la coppia d’attacco ideale sia oggi la coppia Dybala-Higuain, in campo spedisce sempre l’avvilito portoghese interessato solo a premi che nessuno gli dà più, spesso inutile, sempre indisponente. E poi quel De Ligt costato 86 milioni (11 solo al procuratore) e che è peggio delle dieci piaghe d’Egitto, obbligatoriamente in campo a dispetto delle cappelle che allegramente inanella manco fossimo al torneo dei bar; il tutto condito dalla sensazione che se Sarri smette di essere Sarri, allora chiudere l’era-Allegri è stato insensato. Meglio un brutto quadro originale che la crosta di un capolavoro.

Se a Torino ha messo radici la controfigura di Sarri, a Napoli c’è un signore che dice di essere Carlo Ancelotti, ma non è mica così. Il sospetto era venuto quando il sedicente Ancelotti, ai tempi della polemica sul ritiro punitivo imposto dal club ai giocatori (poi ammutinati), aveva dichiarato: “Non ero d’accordo con la società, ma era giusto obbedire”; e nessuno aveva capito perchè il tecnico non dovesse avere voce in capitolo, se non l’ultima parola, in una questione così di sua pertinenza.

Poi si è scoperto: il sedicente Ancelotti aveva firmato un contratto col Napoli accettando clausole medioevali, tra cui quella di starsene zitto e buono in tema di ritiri: la sua parola non sarebbe contata nulla. Immaginatevi la contentezza dei giocatori quando alla fine la verità è venuta a galla. E il crollo di stima. E di classifica. Magari, lo ripetiamo, il 30 maggio Sarri e Ancelotti si ritroveranno uno di fronte all’altro, a Istanbul, nella finale di Champions. Di certo, nel teatrino sempre più sgangherato della serie A made in Italy stanno rimediando figure barbine al cospetto di colleghi come Conte, Inzaghi, Fonseca e Gasperini che nel condurre le rispettive squadre, fatte con la ricetta della nonna, usano un ingrediente che i due vecchi monumenti paiono aver del tutto dimenticato: la credibilità.

le Piazze piene: piano macron, un fallimento

È evidente che la strategia messa a punto da Emmanuel Macron dopo la crisi dei Gilet gialli è stata un fallimento. Non è bastato fare belle promesse, annunciare e poi tagliare le tasse e far balenare prospettive di crescita. L’importante mobilitazione contro la riforma delle pensioni difesa dal governo ne è un chiaro esempio (essa prevede l’introduzione di un “sistema universale a punti” e la soppressione dei regimi pensionistici “speciali”, che in Francia sono 42, ndt). La prima giornata di sciopero generale, giovedì scorso, è stato un enorme successo che ha portato nelle strade di Francia centinaia di migliaia di manifestanti. Essa ha ottenuto anche il sostegno tattico della grande maggioranza dei francesi. Questa coesione nazionale è l’espressione di un generalizzato rigetto della politica del governo e dei suoi obiettivi. Sanziona anche la strategia di elusione che il governo sta mettendo in pratica da un anno a questa parte per pervenire al suo scopo.

Uno è in effetti l’obiettivo, mai abbandonato, del governo: raggiungere quella che chiama la “trasformazione” del paese. Ovvero l’introduzione di quelle riforme neoliberali a cui la Francia, in contrasto con il gusto del governo, ha posto sempre troppa resistenza e troppo a lungo. Era questo il programma del candidato Macron ed è questo, sin dall’inizio del suo mandato, l’unico motore di tutto il suo operato politico. La crisi dei Gilet gialli, iniziata appena più di un anno fa, lo ha obbligato a cambiare tattica, ma non strategia. Quando è arrivato all’Eliseo, il capo dello Stato ha cominciato col dare la priorità alle riforme del mercato del lavoro e della fiscalità del capitale, sopprimendo parzialmente, per i più ricchi, l’imposta sul patrimonio (l’Isf, Impôt de solidaridarité sur la fortune) e introducendo una flat tax sui redditi del capitale (il Pfu, Prélèvement forfaitaire unique). Poi, quando la rabbia è esplosa con violenza nelle strade, il governo si è trovato costretto a adottare un’altra tattica. È allora andato a cercare il consenso delle famiglie, tagliando le loro tasse e garantendo benefici rapidi e consistenti.

L’annuncio a sorpresa, il 25 aprile scorso, di un calo sostanziale della tassa sul reddito per alcune categorie, dopo la prima batteria di misure annunciate il 10 dicembre 2018, aveva esattamente questa funzione: intervenire sulla pressione fiscale per aumentare subito il potere d’acquisto delle famiglie. Questa tattica ha avuto i suoi vantaggi: da un lato ha permesso di rispondere alle prime rivendicazioni dei Gilet gialli, incentrate su un potenziamento del reddito familiare, dall’altro ha ridotto le entrate dello Stato e quindi reso necessarie le future riforme strutturali. Anche durante il “grande dibattito” che ne è seguito, la tattica del governo era palese: i ministri e il presidente non hanno fatto altro che ripetere che non era possibile abbassare le tasse e mantenere al tempo stesso l’attuale sistema sociale. Il voto dell’articolo 3 della legge di bilancio della Sécurité sociale, la previdenza sociale, con in quale il governo ha deciso di non compensare la spesa delle misure d’urgenza prese per i Gilet gialli, è stata un’ulteriore mossa in questa direzione: il grosso delle nuove misure sul “potere d’acquisto” si è cioè tradotto in deficit. E l’aumento del deficit dello Stato giustifica l’introduzione di riforme strutturali ulteriori, compresa quella delle pensioni. La politica del governo di fatto non è mai cambiata. E del resto non è mai stato annunciato nessun cambio di rotta. L’esecutivo ora si ritrova però a correre contro il tempo. Attuare il cambiamento strutturale del paese implica la decostruzione dei sistemi di solidarietà: se Emmanuel Macron vince la sua sfida delle riforme, la spesa pubblica risulterà ridotta a medio termine. Ogni volta che il governo è sembrato “cedere” alle richieste dei francesi di fatto non ha mai ceduto nulla. La decisione di stabilizzare il disavanzo pubblico per compensare in parte gli effetti del calo delle tasse era solo una mossa temporanea, un modo per far accettare le nuove riforme e far ingogliare quelle passate (tra cui l’allegerimento della fiscalità del capitale). Fingendo di fare concessioni, in realtà il governo non ha fatto altro che seguire la propria logica e sperare, al tempo stesso, di calmare le tensioni sociali, concedendo miliardi di euro di potere d’acquisto. Il governo ha guadagnato tempo raccogliendo i frutti della lotta contro l’evasione fiscale e promettendo a tempo debito un bilancio della soppressione dell’Isf. Le circostanze gli sembravano favorevoli: la cattiva congiuntura mondiale e la crisi del commercio internazionale capitavano a pennello. Come sempre in queste circostanze, la Francia, che può contare sul suo sistema-cuscinetto di protezione anticiclico, si è trovata in una posizione di forza rispetto alla Germania. Il governo, il cui scopo è limitare le prestazioni sociali privilegiando un’illusoria competitività, poteva cantare vittoria vantando che “la politica portata avanti sta dando i suoi frutti”, soprattutto in materia di occupazione. I discorsi al ministero dell’Economia di Bercy sono uguali da mesi. Si parla solo di “rafforzamento della crescita”, di “creazione di posti di lavoro” e di “aumento del potere d’acquisto”: come se questa “santa trinità economica” dovesse assicurareal governo la vittoria anche nella battaglia delle pensioni. Come se l’aumento del potere d’acquisto e dei consumi potesse bastare a anestetizzare i francesi e a far accettare la riforma delle pensioni senza batter ciglio. E del resto la violenta riforma dell’assicurazione malattia, annunciata a giugno, è passata senza fare scalpore. In tutta questa vicenda, il governo è stato anche particolarmente abile a dilungare il dibattito per mesi, fingendo persino di interrogarsi sull’opportunità stessa della riforma ed evocando la possibilità di rinviarne alle calende greche gli effetti. Dettagli secondari troppo noiosi e tecnici perché potessero interessare l’opinione pubblica. La strategia insomma sembrava funzionare a perfezione: nulla avrebbe potuto bloccare una delle riforme chiave del progetto presidenziale. E invece in poco tempo è cresciuta la fronda e la contestazione ha conquistato l’opinione pubblica: ormai la grande maggioranza dei francesi sostiene la mobilitazione ed è contraria alla riforma. Il governo ha perso una battaglia, quella dell’opinione, che pensava di vincere agilmente.

Da qualche giorno Édouard Philippe si ritrova a vestire i panni del duca di Brunswick: come il generale prussiano, che era persuaso di vincere la battaglia di Valmy ma fu battuto a sua sorpresa dalla Francia rivoluzionaria, così il premier, che già assaporava la vittoria e costruiva castelli in aria, ha invece subito una clamorosa disfatta.

(traduzione Luana De Micco)

“Ancora non si sa come e perchè papà è morto”

“Per fortuna sì, qualche volta mi è capitato”. Sorride Claudia Pinelli, 58 anni, alla domanda se mai sia accaduto che qualcuno non conoscesse la sua storia, che la fama di “figlia di” in qualche modo non la precedesse: “È successo – continua – e mi ha permesso di avere rapporti e una vita al di là di questo ruolo. Però io sono Claudia, anche la figlia, orgogliosa, di Pino Pinelli e di Licia”.

Sono giornate convulse per la famiglia Pinelli. In preparazione, la catena umana musicale che il 15 dicembre unirà piazza Fontana e la questura. I giorni di dicembre lo sono sempre stati, da mezzo secolo a questa parte, ma ormai da dieci c’è qualcosa in più: lo Stato considera Pino Pinelli la diciottesima vittima della strage: ciò che per mezza Italia fu chiaro fin da allora ha dovuto aspettare 40 anni per essere riconosciuto. Accadde nel 2009, grazie soprattutto all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Putroppo però – commenta Claudia – nei dieci anni trascorsi dal suo essere considerato vittima innocente nessun ulteriore passo avanti è stato fatto. Dopo 50 anni ancora non sappiamo che cosa davvero sia avvenuto in questura e come e perché Pino sia morto”.

Nessuno sa davvero come sia morto, ma tutti – senza eccezioni – sanno che Pino Pinelli era una brava persona: “È vero – sospira Claudia – è ormai unanimemente riconosciuta la figura di Pino nella sua complessità, nella sua positività di persona impegnata, con i suoi valori e i suoi ideali. Il che non mi fa volgere il bilancio totalmente in negativo, ma la sua morte rimane ancora un argomento non affrontabile ufficialmente. In questi 50 anni abbiamo avuto speranze e delusioni, solidarietà e ostracismo. Silvia e io, bambine di 8 anni e 9 anni, ci trovammo orfane in una storia troppo più grande di noi. Tutti si frantumò come un vaso di cui poi faticosamente abbiamo cercato di rimettere insieme i cocci. Avevamo Licia, questa mamma fiera e coraggiosa che si è fatta carico non solo del suo dolore e che ci ha mostrato con la sua dignità come non ci si deve rassegnare alle ingiustizie, alle archiviazioni ripetute, a quel continuo scontrarsi contro un muro di gomma. Non si è mai arresa. E se adesso – conclude Claudia – dopo 50 anni parliamo ancora di Pino Pinelli è anche grazie al suo essere stata tenace e determinata”.

“In Questura capirono che volevamo la verità”

Non è facile parlare di piazza Fontana con Corrado Stajano, 89 anni, storica firma del Corriere della Sera. O almeno non lo è al di fuori delle occasioni pubbliche in cui è chiamato a dare la sua testimonianza: “Sì, fui forse il primo a entrare nella banca – racconta – ma fu solo, giornalisticamente parlando, un colpo di fortuna”.

Non fu fortuna, invece, quello a cui pensò “il potere” la notte che Pinelli morì: “Ero a casa mia con Pansa – racconta Stajano – a tarda sera Giampaolo fu avvertito da La Stampa per cui lavorava che un uomo era caduto da una finestra della questura. Passammo a prendere la Camilla (Cederna, ndr) e ci precipitammo in via Fatebenefratelli. Inizialmente fummo cacciati via, allora andammo a casa Pinelli e toccò a noi, com’è noto, dare la notizia a Licia. Era notte fonda quando tornammo in questura e fummo ricevuti dal questore Guida, dal capo della Digos Allegra e dal commissario Calabresi. Ebbene – prosegue Stajano – Guida e Allegra erano esterrefatti nel trovarsi di fronte tre giornalisti che volevano fare il loro mestiere. Capirono che da allora non sarebbe più stato lo stesso. Noi volevamo sapere e per farlo mettemmo in campo tutta la nostra passione”.

La malcelata noia di chi – giustamente – si trova a dover raccontare una storia ripetuta per 50 anni si stempera al ricordo di quella passione: “Nel dramma fu una cosa importantissima per la nostra vita. La notte che Pinelli morì, Pansa e io stavamo già ragionando su chi potesse contribuire a un libro su piazza Fontana. Avevamo ben chiaro che fosse accaduto qualcosa che non aveva precedenti. Forse non immaginavamo che dopo 50 anni ci saremmo ancora fatti delle domande, ma di certo ci siamo rotti l’anima per avvicinarci alla verità. Se ci siamo riusciti non spetta a me dirlo. Di certo, allora, Milano diede una prova eccezionale. La città fu un attore appassionato”.

Alla domanda: come si comporterebbe oggi il mondo dei media di fronte a un caso di tale portata, Stajano non trattiene un sospiro rauco che assomiglia a una specie di risata: “Come si comporterebbe? Non lo so. So però che un tempo c’erano i giornalisti bravi. E per bravi intendo bravi davvero. Noi in questura o altrove ci passavamo le notti”.

“Chi piazzò la bomba pensava di cambiare il corso degli eventi”

Virginio Rognoni divenne ministro dell’Interno nel 1978, sostituendo al Viminale Francesco Cossiga, azzoppato dalla gestione del sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse.

Qual è il suo ricordo del giorno della strage di piazza Fontana?

Nel 1969, quando scoppia la bomba, ero deputato solo da un anno. La notizia l’appresi a casa, a Pavia; provai rabbia, un indicibile sgomento e orrore per la crudeltà contro persone innocenti, cittadini intenti alle incombenze della propria giornata.

Fu subito imboccata la pista “rossa” e arrestato l’anarchico Pietro Valpreda. Lei che cosa pensava della matrice politica della bomba?

Le informazioni sull’origine della bomba erano all’inizio confuse anche per la poca credibilità della pista anarchica. La bomba dell’anarchico era troppo fuori dal tempo; no, quella non poteva essere la pista corretta. Il Paese viveva un momento difficile. Eravamo ancora dentro il ’68 con tutta la sua ricchezza e le sue ambiguità. Il centrosinistra, con l’ingresso dei socialisti al governo, era stato avviato da qualche anno e i problemi non mancavano. C’era gente che frenava il cambiamento e gente che lo spingeva: moderatismo contro riformismo. Tuttavia, nella Dc il progressivo allargamento della base democratica del potere era un obiettivo sostanzialmente condiviso anche dai centristi subentrati a Moro nella direzione del partito. Ferma la pregiudiziale antifascista della Costituzione, in gioco c’era la legittimazione al governo di tutte le forze della rappresentanza politica del paese. Già allora si poteva pensare che presto o tardi ci sarebbe stato, nel pieno rispetto del voto popolare, il superamento della famosa “conventio ad escludendum” che teneva il Pci fuori dall’area governativa. La storia del Paese andava in questa direzione; con la strage si è voluto fermare e invertire questo percorso: si mette la bomba per determinare una svolta autoritaria e così stabilizzare gli equilibri politici su basi regressive. Piazza Fontana è l’inizio della lunga stagione dello stragismo, e intanto il processo per la strage alla Banca dell’agricoltura si fa torbido, anni durissimi di disordine istituzionale, di indagini contraddittorie e mai concluse.

La Democrazia cristiana era un partito con molte anime. Come ha vissuto quel momento, nei suoi ricordi?

Ero della Base, la corrente di sinistra e quella politicamente più laica del partito, molto vicina a Moro e alla sua politica, quasi pedagogica, per la democrazia compiuta dell’alternanza. La matrice neofascista della strage di Milano era stata subito la congettura più persuasiva.

Il presidente del Consiglio dell’epoca, Mariano Rumor, dopo piazza Fontana si rifiutò di dichiarare lo stato d’emergenza. E per questo i fascisti di Ordine nuovo tentarono di ucciderlo, nella strage della questura di Milano del 1973.

Se avesse dichiarato lo stato d’emergenza, avrebbe riconosciuto e legittimato la svolta autoritaria che la strage di Milano voleva provocare. Così non è stato; il presidente Rumor, e con lui la Dc, ha preservato il Paese da una probabile guerra civile, garantendo il corso virtuoso della democrazia, pur in mezzo a mille difficoltà.

Ma era la Dc degli “opposti estremismi”, della democrazia ugualmente minacciata da destra e da sinistra, mentre le bombe erano tutte di destra.

Gli opposti estremismi erano una realtà di fatto; il confronto fra moderatismo e riformismo era facile che diventasse, in quel clima infuocato, lo scontro fra una destra estrema e una sinistra del “qui e ora”.

La Dc ha però creduto alla “pista rossa” e ha dato fiducia ad apparati dello Stato che depistavano le indagini e proteggevano gli stragisti. Come ricorda i rapporti tra i leader democristiani e i capi dei servizi, del Sid e dell’Ufficio affari riservati?

Non è così e lo prova la condotta di Rumor e della Dc. Certo che l’esperienza che ho fatto, appena eletto, quale componente della commissione d’inchiesta parlamentare sul Sifar e sul “piano Solo” del generale Giovanni Di Lorenzo mi ha fatto vedere da vicino quanto nel “corpaccione” del Paese fosse presente il pericolo del golpe e dell’intrigo, quanto gli apparati di sicurezza dello Stato fossero portati ad avere uno spazio autonomo, quasi strumenti di un governo invisibile. A questa esperienza si riconduce anche il ricordo di quando, dopo molti anni, con ostinata volontà, le forze di polizia – e non i servizi inguaiati dalla P2 – si fossero adoperati per la cattura di Freda e Ventura, a suo tempo fuggiti uno dopo l’altro dal soggiorno obbligato. Come ministro dell’Interno dell’epoca è giusto che ricordi quell’esemplare azione nei confronti dei responsabili della strage di piazza Fontana.

I servizi segreti italiani, quelli dei depistaggi e dei collegamenti con i gruppi degli stragisti, avevano rapporti diretti con gli Stati Uniti.

Certamente, non è affatto da escludere. In ogni caso, credo che sia merito storico della Dc di avere collocato e mantenuto l’Italia nel campo occidentale.

Quel volo di Pinelli che cambiò la storia

“L’ultima persona a cui pensavo potesse accadere una cosa simile era lui”. Bruno Manghi, storico sindacalista della Cisl, Giuseppe Pinelli lo conosceva bene. Fu lui a recuperare il motorino con cui Pino seguì la macchina del commissario Luigi Calabresi per andare in questura in via Fatebenefratelli, a Milano, la sera del 12 dicembre 1969, poche ore dopo la bomba di piazza Fontana. Seguì la macchina perché Pinelli e Calabresi si conoscevano, ma in quel momento non potevano immaginare che i loro nomi si sarebbero legati indissolubilmente per i decenni a venire.

Pinelli parcheggiò il motorino, salì in questura entrando dalla porta e ne uscì tre giorni dopo (nella notte tra il 15 e il 16 dicembre) volando dalla finestra della stanza del commissario Calabresi durante un interrogatorio. Una storia maledettamente nota, ma mai del tutto chiarita. Giuseppe Pinelli, ferroviere, ex partigiano, fiero anarchico animatore del circolo milanese “Ponte della Ghisolfa”, fu fermato la notte del 12 dicembre insieme a decine di altri anarchici.

La macchina del depistaggio – oggi si può dirlo senza timore di essere smentiti – si era già messa in moto per addossare ad altri le colpe di una strage fascista. Pinelli – figura carismatica dell’anarchismo milanese, noto anche per il suo credo non violento – era forse la vittima predestinata di quella prima grande macchinazione. Sappiamo che nella stanza dalla cui finestra precipitò Pinelli erano presenti (almeno) quattro agenti di polizia e un ufficiale dei carabinieri (non il commissario Calabresi, che risulta uscito dalla stanza per informare dell’interrogatorio i suoi superiori).

Furono tutti assolti nei due processi che seguirono alla morte di Pinelli. Il primo, istruito nel 1970 dal giudice Antonio Amati, si concluse con un archiviazione: suicidio. Il secondo – a seguito di una denuncia per omicidio volontario da parte di Licia Pinelli e dell’avvocato Carlo Smuraglia – istruito dal giudice Gerardo D’Ambrosio nel 1975, finì con una nuova archiviazione e con la formula, che tanto avrebbe fatto discutere nei decenni successivi, del “malore attivo”. In mezzo ci fu anche il processo per diffamazione contro il giornale Lotta Continua intentato da Luigi Calabresi, che sarà ucciso a Milano il 17 maggio 1972 per mano – sostiene una sentenza definitiva – di Antonio Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, ai vertici dell’organizzazione Lotta Continua.

In tutti e tre i procedimenti furono chiamati a testimoniare i cinque agenti ufficialmente presenti quella notte in quella stanza. Cambiarono più volte versione, talvolta in modo grottesco. Mai si seppe che cosa davvero accadde. Si saprà mai?

Testimoni in vita non esistono più, ma la recente possibilità di accedere con meno restrizioni agli archivi e la desecretazione di molti atti ha consentito di dare nuovo impulso a storici e giornalisti. Pinelli, l’innocente che cadde giù di Paolo Brogi (Castelvecchi editore) è l’ultimo libro uscito sul tema. Approfondisce e sviluppa gli elementi scoperti da Enrico Maltini e Gabriele Fuga, autori di Pinelli. La finestra è ancora aperta (Colibrì edizioni, 2016), che grazie gli atti digitalizzati dalla Casa della Memoria di Brescia hanno potuto appurare la presenza all’interno della questura di Milano, la notte in cui morì Pinelli, di elementi di spicco dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, di cui all’epoca non si parlò.

L’unica certezza è che Giuseppe Pinelli fu una vittima. E non solo. Come dice Bruno Manghi fu “l’ultima persona cui poteva accadere una cosa simile”. Anche per questo a pagare le conseguenze di questa tragedia criminale è stata l’Italia intera negli anni seguenti.

Quei luoghi dei “neri” che nessuno perquisì

La facciata bianca sotto i portici di via Patriarcato a Padova è come un colpo di calce su un passato buio, inconfessabile e lontano, che la città ha rimosso. Perfino il civico 34 non c’è più, il palazzo è stato ristrutturato. E così si passa dal 32 al 36, soltanto una finestra senza cornice è il segno che lì qualcosa è scomparso. Un tempo una saracinesca chiudeva l’ingresso di un garage trasformato in negozio-libreria, sede delle edizioni AR di Franco Freda. L’acciottolato è lo stesso di allora, a due passi dal Liviano, sede di Lettere, fucina di tutt’altre idee politiche. Perchè la libreria Ezzelino era un covo. Vi si leggevano i saggi di Evola, si programmava la guerra civile per favorire la restaurazione. E si pensava che le bombe avrebbero cambiato la storia. Non può che partire da qui, nella città universitaria che già allora incubava contrapposizioni ideologiche feroci, la ricerca degli orrori e degli errori di Piazza Fontana: qui è stato concepito il progetto e qui lo Stato ha manipolato la verità. Furono una ventina gli attentati di Ordine Nuovo e dei camerati diretti da Freda e Giovanni Ventura, dal 13 aprile al 12 dicembre 1969. Solo per gli episodi precedenti la strage vi fu (per entrambi) la condanna per associazione sovversiva. Poi le verità storiche hanno sostituito, per mancanza di prove, quelle giudiziarie.

Eppure sapevano già tutto, Conoscevano quello che mancava a Pasolini, quando scrisse: “Io so. Ma non ho prove”. Avevano in mano un filo che portava al procuratore legale nazi-maoista. Sarebbe bastato seguirlo. “Era pomeriggio, entrò quell’uomo distinto, comperò quattro valigette con l’apertura a scatto. Due giorni dopo piazza Fontana ne vidi una foto in tv. E la riconobbi”. Loretta Galeazzo Beggiato, neo-mamma di 24 anni, faceva la commessa. La valigeria di Fausto Giuriati è ancora lì, sotto i portici, di fronte al Duomo. Freda aveva comperato le “diplomatiche” della tedesca Mosbach-Gruber per imbottirle di esplosivo, ma quella della Banca Commerciale non scoppiò. Era la prova principe. Loretta raccontò tutto al titolare del negozio, che andò in questura. Ed ecco il buco nero che inghiotte: “Non è successo nulla. Per tre anni nessuno ci ha chiesto più nulla, finchè, un giorno, arriva in negozio Pietro Calogero, il magistrato”. Ma è già il 1972, tre anni dalla bomba. Il riconoscimento di Freda a San Vittore ebbe esito negativo. “Avevo visto un uomo dai capelli lunghi e neri, mi mostrarono 5 brizzolati. Non ci riuscii ad essere utile”.

Avevano disinnescato l’inchiesta. Come era stato fatto con il commissario Pasquale Juliano che a Padova indagava ostinato, dal giugno 1969, dopo l’arresto di un camerata con esplosivo che usciva dal condominio di piazza Insurrezione, residenza del missino Massimiliano Fachini. Il custode dello stabile, Alberto Muraro, teste a carico dei neofascisti, morì cadendo dalle scale. Il silenzio, l’oblio. La strategia delle indagini sulla strategia della tensione. Delle valigette sappiamo ora che dalla Questura di Padova (3 febbraio 1970) fu inviata una segnalazione a quella di Milano e al famigerato Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, un pozzo senza fondo che ingoiò una ricevuta della fornitura di “diplomatiche” al negozio padovano. Avevano indagato per nascondere.

Quella fu la proto-inchiesta, la madre di processi senza verità. Poi sono venute le indagini degli anni Novanta. Ergastolo agli ordinovisti veneti Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi in primo grado. Assoluzioni in appello, perchè il pentito “Zio Otto”,aliasCarlo Digilio, fu ritenuto inattendibile. Aveva detto che gli ordigni furono preparati in un casolare, nel Trevigiano, e che li vide nel portabagagli della Fiat 1100 di Maggi, lungo il Canal Salso, a Mestre. Il casolare esiste, in via della Libertà 1, a Paese. Ma solo nel 2008 è stato individuato, per quella che per il giudice Guido Salvini fu una colossale “dimenticanza”. Per 40 anni l’agenda di Ventura fu lasciata a Catanzaro, con annotati i nomi di Digilio e di un avvocato che si occupò del contratto d’affitto. Il proprietario ricordò la sua paura per aver scoperto che gli inquilini custodivano armi. Mezzo secolo fa era aperta campagna. Oggi il rustico, restaurato, è circondato da case a schiera. L’avessero scoperto prima, forse la storia avrebbe avuto un’altra fine.

Piazza Fontana, 50 anni di prove occultate

La lettera segreta e compromettente viene rubata dall’astuto ministro D. sotto gli occhi del destinatario, che però non può opporsi, perché è presente un terzo interlocutore, un personaggio altolocato a cui quella lettera doveva assolutamente restare celata. Il ministro senza scrupoli poi la nasconde e a nulla valgono le perquisizioni minuziose del prefetto G. che non riesce a trovarla. Scomparsa? Era sul caminetto dello studio del ministro, così in vista che nessuno era riuscito a vederla. È questa la storia che Edgar Allan Poe sviluppa nel racconto La lettera rubata, su cui si sono esercitati Charles Baudelaire e Sigmund Freud, Jacques Lacan e Jacques Derrida.

A 50 anni dalla strage di piazza Fontana, dopo cinque decenni di proteste contro la verità negata e il segreto di Stato, viene da pensare che la “verità” sulla guerra segreta che è stata combattuta in Italia in quegli anni sia scritta su una lettera rubata che, come quella di Poe, è sotto gli occhi di tutti ma nessuno riesce a vedere. Intendiamoci: ci sono atti ancora segreti o nascosti, in Italia e negli Stati Uniti e in altri Paesi del mondo, che dovrebbero essere desecretati per permettere di conoscere nuovi elementi della storia sotterranea del nostro Paese. Ma l’assassino non lascia scritta la sua confessione. In nessun documento segreto – credo – troveremo l’elenco completo, firmato e bollato, dei “neri” che entrarono in azione il 12 dicembre 1969, dei funzionari dello Stato che li coprirono, dei politici che avallarono quelle azioni e quelle scelte. Non sappiamo chi depositò la borsa nella Banca nazionale dell’agricoltura. Non sappiamo che cosa successe all’anarchico Giuseppe Pinelli nella stanza della questura di Milano. Non sappiamo che cosa i politici sapevano e avallarono della strategia delle stragi.

Ma molto sappiamo già. Sappiamo i nomi. Abbiamo indizi e anche prove che ci dicono chi mise le bombe e chi depistò. A entrare in azione in piazza Fontana sono stati certamente gli uomini di Ordine nuovo. Franco Freda e Giovanni Ventura sono responsabili – dice la sentenza della Cassazione del 2005 – ma non più processabili perché definitivamente assolti nel 1989. Certamente l’Ufficio affari riservati di Federico Umberto D’Amato e Silvano Russomanno aveva infiltrati e informatori nei gruppi stragisti. Sicuramente il Sid, il servizio di sicurezza militare, ha esfiltrato testimoni, sottratto prove, coperto i responsabili. C’è un libretto prezioso che ce lo racconta: L’Italia delle stragi, edito da Donzelli e scritto dai magistrati Pietro Calogero, Leonardo Grassi, Claudio Nunziata, Giovanni Tamburino, Giuliano Turone, Vito Zincani, Gianpaolo Zorzi.

Molto di più potremmo sapere se leggessimo la lettera rubata che non vediamo e che pure è sotto i nostri occhi. Ce lo spiega una donna che se ne intende, Piera Amendola, dal 1976 documentarista per la Camera dei deputati, dal 1982 anima della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2, oggi colonna, insieme a Ilaria Moroni, dell’Archivio Flamigni e della rete degli Archivi per non dimenticare. Ci sono – spiega – migliaia e migliaia di documenti, ormai pubblici. Ma sparpagliati e irraggiungibili. Il vero miracolo è metterli in rete, renderli fruibili, consultabili, confrontabili. La lettera rubata svelerebbe allora i suoi contenuti. Ci sono poi documenti che invece devono ancora essere resi pubblici. Come il fondo segreto della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del giugno-luglio 1964 (il Piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo) che Giulio Andreotti mantenne nell’ombra dopo aver declassificato nel dicembre 1990 solo una parte dei documenti sul piano golpista che era pronto a scattare nell’estate del 1994. Il grande accusatore di De Lorenzo fu il generale Giorgio Manes, vicecomandante dell’Arma, che, incaricato di scoprire chi aveva passato all’Espresso informazioni sul Piano Solo, stese un rapporto molto duro su quella pianificazione. Il giorno in cui avrebbe dovuto deporre dinanzi alla commissione d’inchiesta, il 25 giugno 1969, morì su un divanetto della Camera, colpito da infarto dopo aver bevuto una tazzina di caffè.

C’è un fondo segreto anche sul caso Sindona, presso l’Archivio storico della Camera. Tutto segreto il materiale della Commissione parlamentare inquirente, che è stata attiva dal 1972 al 1989, quando è stata sostituita dal Tribunale dei ministri: contiene la storia della corruzione politica della Prima Repubblica. Segreti anche il materiale e l’imponente archivio del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti.

Poi c’è un limbo degli archivi: materiali e documenti formalmente disponibili, ma di cui non esistono indici o non si sa come e cosa chiedere in consultazione. È la lettera rubata, bene in vista sul caminetto del potere ma sigillata e di fatto invisibile. In questo limbo c’è gran parte dei documenti della Commissione parlamentare antimafia, su cui non si può fare ricerca, di fatto possono essere richiesti solo i documenti di cui già si conosce l’esistenza. Idem per la Commissione su Ilaria Alpi. Non si conosce neppure l’entità dell’archivio della prima Commissione parlamentare sulle stragi (1986-1987) che contiene, per esempio, i documenti sul rientro in Italia dalla latitanza del neofascista Stefano Delle Chiaie. Di difficile consultazione quella della seguente Commissione stragi (1988-2001), di cui non si conosce l’attività di declassificazione degli atti segreti.

Se questa è la (sconsolante) situazione degli archivi del Parlamento, ancora peggio è il resto. La declassificazione promessa da Matteo Renzi nel 2014 sulle stragi di piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Brescia (1974), Italicus (1974), Ustica (1980), stazione di Bologna (1980) e Rapido 904 (1984) “rischia di essere l’ultimo dei depistaggi”, ha denunciato al Fatto il magistrato Leonardo Grassi: “A decidere che cosa declassificare sono i rappresentanti degli stessi organismi che hanno classificato. Insomma, chiediamo la verità a chi fino a oggi l’ha nascosta”. Continua Grassi: “Non sono stati desecretati i fascicoli sulle strutture di guerra non ortodossa, che sono il cuore segreto della strategia stragista: da Gladio ai Nuclei per la difesa dello Stato, dalla Rosa dei venti all’Anello, dal Mar di Carlo Fumagalli a Pace e libertà di Luigi Cavallo. Tutte strutture degli apparati dello Stato o con forti connessioni con apparati dello Stato”. E niente sui due principali gruppi dell’eversione italiana di quegli anni, Ordine nuovo di Pino Rauti e Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chiaie, “entrambi con consolidati rapporti con servizi e apparati”. La verità la sappiamo, ma la lettera rubata nasconde ancora molti segreti.