Scuole superiori, l’orientamento che può farti perdere la bussola

“Mamma, voglio fare l’istituto aeronautico”. Il mio centro di gravità permanente si sbriciola in un giorno feriale di fine autunno. Non certo per l’istituto aeronautico in sé, ovviamente. Ma perché ci mancava solo questa ad alimentare la confusione che a casa nostra regna sovrana dall’inizio dell’anno scolastico.

La confusione ha le sembianze di una ragazzina di terza media, mia figlia, che già vive nel caos adolescenziale, tra un “che palle, ci stanno massacrando di compiti e di verifiche” e un “ora devo pensare agli esami, non posso pure scegliere cosa fare dopo”. Ai nostri tempi – non troppo vicini, ma neppure nel Dopoguerra – a decidere cosa avremmo dovuto studiare erano soprattutto i genitori, coadiuvati dai docenti che decretavano con rigore la destinazione finale: classico, scientifico o professionale. Molte possibilità di errore, ma sicuramente anche (molte) meno ansie. Adesso no. Adesso lo chiamano “orientamento” perché la scelta della scuola superiore è determinante e perché, per esempio, esiste lo scientifico tradizionale, quello delle scienze applicate, con curvatura biomedica, a indirizzo sportivo o informatico. Per esempio. Il rischio è finire “disorientati”. “Amore, sei una lettrice accanita, ami la matematica, ti piace studiare e vuoi fare l’astronauta. Opta per lo scientifico, o se vuoi bene a mamma per il classico”, ho esordito a settembre, con il candore di una laureata in Lettere. A Roma ci sono 48 licei classici e 77 scientifici, e già è una giungla. Vale dunque il criterio di vicinanza, o meglio di logistica: quanti e quali mezzi pubblici dovrà prendere per non arrivare a scuola sempre tardi. Il raggio d’azione si riduce. Secondo step, la qualità del liceo, e allora vai con le classifiche, le offerte formative, gli scambi culturali, la sezione Cambridge, il potenziamento di alcune materie. A questo step avevo già il mal di testa, se ci penso adesso mi viene da ridere. Già, perché poi si apre il capitolo Open Day: come nelle giornate di promozione degli aspirapolveri, ogni istituto lucida l’argenteria, mette in proscenio gli studenti migliori e organizza tour per conquistare nuovi clienti, pardon studenti. Sui siti delle scuole sono indicate almeno due o tre date. Poi però, il sabato che ti sei preso libero dal lavoro, scopri che bisognava prenotare. Oppure c’è talmente tanta gente che non riesci a capire se la professoressa che annunciava “porteremo i ragazzi in India” si riferiva al Paese oppure al viale capitolino. Ma ancora non è nulla. In classe i ragazzi vengono affiancati da tutor che sottopongono loro alcuni test attitudinali, in base ai quali li “orientano”: che scientifico sia, la nostra sentenza (la stranezza è che nelle domande il classico manco era citato, ma qui potrebbe esserci la “manina” di mia figlia). L’insegnante di matematica conferma, “purché non si tratti del Liceo X”, cioè giusto quello che avevamo in mente. Ma pazienza, mancano ancora due mesi alle iscrizioni. E un’ultima, fatidica giornata, quella in cui le superiori vanno alle medie: opuscoli, spiegazioni, annunci per mostrarsi. E proprio quando pensavi di essere giunto al traguardo, scopri che è una figata prendere il brevetto di volo all’istituto aeronautico. Capitano, voglio scendere.

Ecco “Etica pubblica”: la goccia nell’oceano dell’indifferenza

Sulle palazzine senza grazia della cittadella universitaria di via Pascoli batte una pioggia impietosa. Perugia sembra svuotarsi della propria storia mentre una ventina di intellettuali ne progetta una nuova per la nazione. “Etica pubblica”: così si chiama la rivista che il gruppo ha fondato e di cui discute missione e contenuti in questo umidissimo week end. Il vero fondatore è il signore assiso in fondo al quadrilatero di tavoli bianchi. Si chiama Paolo Mancini, è un professore universitario appena andato (formalmente) in pensione. Capelli candidi, elegante, inglese fluente a uso dei redattori stranieri, studi tra mass media e politica, amministra il dibattito sulle cose di cui occorrerà occuparsi e sulle forme in cui farlo. La rivista avrà un sottotitolo: “Studi su legalità e partecipazione”. Avrà cadenza semestrale, sarà pubblicata da Rubbettino, uno dei migliori editori del nostro Meridione.

Il primo numero uscirà il prossimo marzo e avrà per tema “Le lobbies in trasparenza”, nel senso che si occuperà del rapporto tra etica pubblica e gruppi di pressione. Insomma, ecco a voi una nuova rivista, con i suoi segni di riconoscimento. Ma, a pensarci meglio, quel che sta accadendo nei seriali locali dell’università perugina ha qualcosa di speciale, perfino di assurdo. Il mondo sa sempre meno che cosa sia una dimensione etica. Mentre si affanna a darsela creando solennemente nuovi diritti, un numero crescente di Stati va a letto con gli interessi criminali, grazie a una geopolitica indifferente ai sacri principi delle democrazie. Quanto all’Italia, l’etica pubblica vi appare un materasso da battere con gratuita e impunita tracotanza. Diciamolo pure: fa tenerezza questo gruppo di intellettuali. Stringe il cuore la loro utopia, l’idea che un soffio di cultura affidato a una rivista cartacea nel mondo di Google possa invertire la corrente impetuosa della storia. Che utilità avranno mai quei tavoli bianchi, quelle luci accese nella serata di tregenda, quelle voci che discutono sul che cosa e sul come? A che servirà mai un fascicolo in uscita ogni sei mesi (ogni sei mesi!) per mille-duemila lettori? È dura a morire la convinzione che un pugno di donne e uomini possa comunque influenzare il corso degli eventi con un barlume di cultura. L’idea delle gocce che fanno l’oceano. Ecco che cosa anima il professor Mancini o la professoressa Alessandra Pioggia o i loro colleghi di Scienze politiche di Perugia. Uno spirito a metà tra quello dei lumi e quello dei benedettini. Ma la sensazione di tenerezza si fa ancora più acuta quando nel mezzo del dibattito piomba d’improvviso e con assoluta naturalezza la domanda delle domande. Che cos’è l’etica? E soprattutto: che cos’è la legalità? Perché inseguire questo feticcio che prende spesso le sembianze di un mostro? Legalità era quella in nome della quale cinquant’anni fa un potere cieco e che tuttavia ci vedeva benissimo sbatté in prima pagina il ballerino anarchico Pietro Valpreda, incolpandolo della strage di piazza Fontana. Ma legalità era anche il valore per il quale si batté un giudice come Emilio Alessandrini, affinché quella stessa strage avesse giustizia vera in un tribunale della Repubblica. Legge e ordine sociale, il binomio che spesso procede insieme e che altrettanto spesso, almeno nella realtà italiana, si spezza: di qua l’ordine sociale di là la legge, l’un contro l’altra armati. Così, nella discussione irrompe senza che nessuno l’abbia deciso il fantasma della madre di tutte le stragi. O l’immagine dell’esercito, il potere repressivo per antonomasia, che aiuta Palermo a trovare libertà dopo le stragi, con la celebre operazione dei “Vespri siciliani”.

Temi eterni, temi vibranti, che possono imbozzolarsi senza fastidio per nessuno nei merletti ovattati dell’accademia. O che all’opposto possono esplodere nel vivo delle vicende sociali grazie a parole dotate d’anima. Quel gruppo di intellettuali con la loro utopia della goccia che fa l’oceano, con il loro inerme semestrale cartaceo, potrebbe alla fine anche interpretare tensioni profonde. Come quelle che dall’altra parte del mondo portano le donne messicane a chiedere, ormai anche con manifestazioni violente, la fine del femminicidio maledetto. L’arrivo, finalmente, di una legalità di pace. Etica pubblica, legalità, partecipazione. La sfida che non parte dall’alto muove piccolissimi passi nella stanza universitaria di un professore in pensione, ma che in pensione non manda i propri ideali. E chissà che non ne nasca qualcosa. Magari non l’oceano. Basterebbe un lago.

Co2, navi peggio delle auto. Per Msc il record europeo

L’italo–svizzera Mediterranean Shipping Company (Msc) è la campionessa marittima del cambiamento climatico nell’Ue. Le sue 362 più grandi navi–cargo emettono 11 milioni di tonnellate di CO2 (il più diffuso gas a effetto serra), più di qualsiasi altra società navale europea. La 2ª più grande compagnia porta–container al mondo si aggiudica l’8º posto nella top 10 dei maggiori inquinatori d’Europa. L’azienda, fondata nel ’70 a Napoli dall’imprenditore Gianluigi Aponte e oggi basata a Ginevra, gareggia con le peggiori centrali termo–elettriche a carbone e sovrasta Ryanair che si colloca al decimo posto. Contrariamente a quanto previsto per gli impianti di produzione energetica, l’Ue non obbliga tuttavia Msc e le altre compagnie navali (neppure quelle aeree) a ridurre le loro emissioni, indebolendo di fatto i propri sforzi per contrastare il riscaldamento globale.

Il record della MSC è sancito dal rapporto della Ong Transport & Environment, ottenuto in anteprima dal Fatto. L’analisi si basa sui dati che, a partire dal 2019, le società di navigazione devono comunicare all’Ue. Il regolamento adottato nel 2015 impone loro di monitorare e pubblicare ogni anno i consumi di carburante e i volumi di CO2 per l’insieme delle tratte effettuate sia all’interno dello Spazio Economico Europeo (Ue più Norvegia, Islanda e Norvegia) sia tra questo e i porti dei Paesi d’oltreoceano. Tale obbligo copre tutte le imbarcazioni con una stazza lorda superiore alle 5.000 tonnellate. Nel 2018 (primo anno di riferimento) il settore marittimo europeo, merci e passeggeri insieme, ha riversato nell’atmosfera circa 139 milioni di tonnellate di CO2 (più del trasporto automobilistico, secondo il report della Ong). Quasi il 10% proviene dalle navi in entrata e uscita in Italia, una percentuale equivalente a tutto il gas a effetto serra del traffico urbano di Roma, Milano, Torino e Bologna. Rispetto alla media dei passeggeri stradali, quelli che s’imbarcano sulle navi da viaggio (come Msc Crociere, 4º gruppo mondiale nel settore turistico) sporcano l’aria fino a 5 volte in più. E addirittura 6 volte in più se si considerano i più stringenti standard ambientali che si applicheranno alle vetture dal 2021 in poi.

La stragrande maggioranza della CO2 (oltre l’80%), infatti, è riversata dal trasporto marittimo di container merci. Questo, sviluppatosi nei primi anni ’50, è più che triplicato dal 2000, incrementando le sue emissioni nell’Ue di 26 milioni di tonnellate (il 19% in più) dal 1990 a oggi. A primeggiare nel mercato mondiale dei container, nonché nell’inquinamento atmosferico nel Vecchio Continente, sono appunto le società europee. Le prime quattro (oltre a Msc, ci sono Maersk, Cma Cgm, Hapag-Lloyd) totalizzano la metà delle emissioni complessive del settore cargo, il cui 42% è imputabile al trasporto di beni di consumo. Per farci recapitare via mare smartphone e tv, automobili, vestiti, frutta e cibi surgelati, medicine, mobili, e altri articoli di uso quotidiano, contribuiamo annualmente a un rilascio di quasi 60 milioni di tonnellate di CO2. Un volume pari alle emissioni di tutte le 38 milioni di autovetture italiane. Il trasporto di carburanti (petrolio, carbone, gas) e di materie prime per l’industria contribuiscono invece al 20% della CO2 marittima dell’Ue. La metà delle flotte cargo europee ha messo 22 milioni di tonnellate in più a causa del divario di prestazione ambientale tra le operazioni in mare e gli standard di progettazione delle imbarcazioni. Una serie di asimmetrie legislative fanno si che il trasporto navale remi contro la lotta al cambiamento climatico.

Da una parte, l’Ue accorda al settore 24 miliardi di euro all’anno in agevolazioni fiscali per i combustibili fossili. Dall’altra non lo ha ancora inserito nel sistema di scambio di quote di emissioni (Eu Ets), in base al quale le aziende altamente inquinanti devono rispettare determinati tetti di CO2. Ciascun operatore ha due modi per rimanere entro la soglia massima: o taglia le proprie emissioni in eccesso investendo in tecnologie ed energie più pulite oppure le compensa comprando crediti (o permessi di inquinare) corrispondenti ai quantitativi di CO2 tagliati da altri operatori. Le compagnie navali europee, attualmente, non devono adottare né l’una né l’altra opzione, potendo quindi continuare a costo zero e non avendo alcun incentivo a passare a carburanti e motori ecologici. Per oltre 20 anni, l’Ue ha tentato inutilmente di assoggettarle all’Eu Ets, negoziando in seno all’Organizzazione Marittima Internazionale l’estensione di un sistema simile a tutto il mondo per evitare di penalizzare le proprie flotte rispetto alla concorrenza estera. Lo stesso Protocollo di Kyoto sul cambiamento climatico, firmato nel ’97, chiedeva di trovare una soluzione per il trasporto marittimo. Nel 2018 si è giunti a un accordo su un piano d’azione globale che, però, non si è ancora tradotto in azioni concrete. Il neo–presidente eletto della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato di voler rimediare. Tutto da vedere.

 

Scuola, presepe & cotechino: la banalità del razzismo

“Illustrissimo dirigente scolastico, considerato l’avvicinarsi del Santo Natale le chiedo la disponibilità a valorizzare all’interno del Suo istituto, ogni iniziativa legata a questa importante festività come l’allestimento di presepi e lo svolgimento di recite o canti legati al tema della Natività. Ritengo che la ricorrenza natalizia e le conseguenti tradizioni come il Presepe, l’Albero di Natale e le recite scolastiche ispirate al tema della Natività siano parte fondante della nostra identità culturale e delle nostre tradizioni che la Regione Piemonte intende tutelare e mantenere vive. Allo stesso tempo, è evidente che la conoscenza delle nostre tradizioni scevra da qualsivoglia connotazione ideologica sia un supporto alla piena integrazione per chi proviene da altre realtà”. Così Elena Chiorino di Fratelli d’Italia, assessora all’Istruzione, Lavoro, Formazione professionale diritto allo studio universitario della Regione Piemonte, si è rivolta a tutti i dirigenti scolastici piemontesi. La banalità del razzismo, verrebbe da commentare. Perché queste parole così grigie, usurate, burocratiche e dozzinali, con le loro maiuscole retoriche, contengono ed esprimono una violenza inaudita. Una quadruplice violenza.

La prima è quella usata contro le comunità scolastiche di insegnanti, alunni e genitori, che si trovano a subire questa pressione politica e ideologica dall’alto: alla faccia di ogni autonomia, e nel sovrano disprezzo del percorso di ogni istituto. La seconda è quella usata contro la laicità dello Stato, contro la Costituzione, contro quella religione civile della cittadinanza, fondata sul rispetto di ogni diversità, per cui in Italia si combatte almeno dai tempi di Mazzini.

La terza è quella probabilmente più inconsapevole: ed è quella contro i cattolici che ci credono davvero. E che non pensano che la loro fede si riassuma in un rosario brandito da un predicatore di odio, intinto nel mojito e incorniciato da cubiste. Perché è fin troppo evidente la strumentalità di questo maldestro marketing dei simboli cristiani: usati e abusati perché ritenuti soprattutto simbolo etnico, nazionale e nazionalista. La “nostra identità culturale” è l’espressione chiave di questa direttiva degna di una teocrazia orientale. Ora, chiunque abbia sfogliato anche solo un po’ il Nuovo Testamento dovrebbe aver colto la costante separazione del messaggio cristiano da ogni identificazione etnica: per chi segue Gesù, scrive san Paolo, non “c’è più uomo o donna, schiavo o libero, giudeo o greco”. Perché l’unica appartenenza “identitaria” per un cristiano è quella umana. Sappiamo bene che millenni di storia, dall’editto del 380 in cui Teodosio faceva del cristianesimo la religione di Stato, si sono incaricati di contraddire questa incontrovertibile verità: benedicendo cannoni, ungendo col crisma immani macellai, e invariabilmente urlando da ogni lato del campo di battaglia: “Dio con noi!”. Ma almeno dal Concilio Vaticano II è acquisito che si trattava di mostruose bestemmie del nome di Dio. Ma, si dirà, qua mica facciamo le crociate: vogliamo solo fare il presepe nelle scuole. Il presepe vale l’albero, dice l’assessora: e questa sì che è un’offesa ai cristiani, che vedono ridotti i loro simboli rivoluzionari ad innocuo arredo natalizio: con le immagini della Sacra Famiglia considerate alla stregua del cotechino.

La quarta violenza è l’unica voluta, deliberata. Ed è la più odiosa, perché è quella contro i più i deboli: “Chi proviene da altre realtà”, come dice pudicamente l’assessora del partito della cristianissima Giorgia. Cioè i migranti, gli ‘islamici’, i ne(g)ri. E pure gli ebrei, eh. L’assessora non è sfiorata dal dubbio che esistano cittadini italiani da generazioni, e che dunque non provengono affatto da altre realtà, ma non sono cristiani. E che hanno il diritto di non vedere i loro figli fare il presepe cristiano in una scuola laica della Repubblica mantenuta con le loro tasse. (A proposito, la Regione Lombardia quest’anno stanzia 50.000 euro per fare presepi ovunque…).

Quanto ai nuovi italiani, o a coloro cui neghiamo la nostra cittadinanza pur usandone le braccia e la fatica: loro si devono ‘integrare’. “Pienamente”, dice la pia fratella d’Italia. Ti vuoi integrare? Devi fare il presepe. Che farebbe parte “delle nostre tradizioni che la Regione Piemonte intende tutelare e mantenere vive”. Chissà se l’assessora sa di star parafrasando l’articolo 9 della Costituzione – quello che parla del rapporto tra le pietre e il popolo cui è intitolata questa rubrica. Lo sta parafrasando, ma senza capirlo. Lì c’è scritto che la Repubblica “promuove lo sviluppo della cultura” e “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. È l’unico dei principi fondamentali in cui si usi la parola ‘nazione’: e proprio per delinearne l’”identità culturale”, come direbbe la nostra simpatica crociata piemontese. Ebbene, lì non si parla di tradizioni, di fede, di razza, di etnia, di terra o tradizioni. Si parla di “sviluppo della cultura”. Cioè non di una cultura statica, ma di un progresso infinito di cambiamento e contaminazione. Già: perché se esiste una “identità culturale italiana” il suo nome è “meticciato”. E poi quell’articolo parla del dovere di tutelare il territorio, la storia e l’arte: cioè un palinsesto che rappresenta tutta la varietà e la meraviglia di un paese in cui cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e tanti altri ancora si sono incontrati e hanno lasciato una traccia. A scuola non si fa il presepe: si fa l’Italia. O si muore: di razzismo, e ignoranza.

Stragi, la regola italiana: “Nessuno sappia la verità”

Tempo fa un giornalista americano da anni in Italia mi ha chiesto come mai negli Stati Uniti tutti sanno che gli autori dell’attentato suprematista di Oklahoma City (1995: 168 morti, 672 feriti) sono stati rapidamente scovati e condannati (il capo Timothy McVeigh, giustiziato), mentre qui da voi se domandi chi ha messo la bomba a piazza Fontana, roba di mezzo secolo fa, nessuno ti sa rispondere. Sbagli non si tratta soltanto di Milano, ho replicato: prova a chiedere in giro se qualcuno sa chi sono stati gli autori dell’attentato di Brescia a piazza della Loggia, o della strage alla stazione di Bologna. E le bombe sui treni? E il Dc9 di Ustica? Misteri dolorosi (costati nell’arco di quindici anni, dal ’69 all’84, 227 morti e 819 feriti) e destinati a restare tali per sempre. Poiché, a differenza del resto del mondo civile dove tutti devono conoscere la verità, qui da noi vale la regola opposta: nessuno deve sapere. Un indegno scordiamoci il passato che vorrebbe farci dimenticare i funerali con le folle che chiedevano giustizia. Quei vagoni calcinati dalle fiamme. Quei bimbi dilaniati che stringevano tra le manine i pacchetti di Natale. I corpi martoriati, le urla disperate, lo smarrimento di una nazione. Come è stata possibile questa rimozione collettiva, la perdita completa della memoria illuminata solo dalla cadenza degli anniversari?

Tre sono le cause profonde del triangolo delle Bermude della menzogna, chiamata strategia della tensione: lo Stato deviato, la giustizia discordante, l’informazione intossicata. Dei primi due fattori si è detto (quasi) tutto. Conosciamo l’attività della struttura paramilitare clandestina Gladio (creata durante la guerra fredda in funzione anticomunista), con elementi reclutati nell’eversione di destra più scatenata che si servivano per gli attentati del materiale esplosivo dei depositi Nasco. Sappiamo dell’azione capillare di copertura dell’attività stragista orchestrata dalle strutture dei servizi segreti, servi di due padroni. La Cia, con le sue articolazioni, interessata a destabilizzare presenza e ruolo del partito comunista più forte dell’Occidente nel Paese cerniera della guerra fredda tra Est e Ovest. E la P2, che a queste finalità aggiungeva il tentativo (riuscito) di scalare i pubblici poteri a cominciare dagli apparati della sicurezza interna.

Quanto alla magistratura nessuno può affermare che le toghe non abbiamo fatto il loro dovere. Alcuni magistrati, più testardi di altri, sono arrivati a un passo dalla verità dei fatti. Ma, appunto, la rete delle deviazioni, dei depistaggi, delle coperture organizzata dagli apparati paralleli dello Stato hanno quasi sempre impedito che le montagne di indizi diventassero prove indiscutibili. Cosicché le Corti non potevano dire: “Questa è la verità e questi sono i colpevoli”; bensì: “Essendo impossibile accertare verità e colpevoli, dobbiamo assolvere”.

Ma cosa c’entra l’informazione? O meglio, la disinformazione? Anni fa mi capitò di parlarne con un magistrato che univa all’esperienza delle indagini sul terrorismo la conoscenza delle tecniche di intossicazione dei media messe in atto dai servizi paralleli. Mi spiegò che una tecnica raffinata, e molto usata, era quella dei finti scoop. Quegli agenti, infatti, conoscevano bene quanto la normale competizione tra le testate giornalistiche potesse assumere caratteri e modalità ossessive in presenza dello stragismo. Si agiva facendo arrivare a questo o a quel giornalista, in contatto con le fonti investigative, una qualche “clamorosa novità” in grado di sovvertire di colpo la gerarchia delle notizie pubblicate sulla vicenda. A quel punto, come sempre, le altre testate partivano alla caccia di documenti segreti, informazioni riservate, verbali secretati ecc. in grado di smentire la concorrenza e di imporre una nuova “verità” all’opinione pubblica affamata di certezze. Così di seguito finché attraverso l’accumulo progressivo di verità e controverità, di “misteri svelati” a loro volta contenitori di misteri successivi, come nelle scatole cinesi, non si alzasse un denso polverone che nascondeva tutto. Cosicché, nella pubblica opinione disorientata e confusa non si facesse strada la resa psicologica di chi preferiva rassegnarsi nella dimenticanza.

Piazza Fontana rappresenta l’archetipo di questa piramide dell’oblio programmato. Da Pietro Valpreda, ballerino anarchico, mostro sbattuto in prima pagina poi prosciolto. Al ferroviere Giuseppe Pinelli, innocente, “caduto” dalla finestra della Questura di Milano. Ai neofascisti Freda, Ventura e Giannettini, condannati e assolti. Ai vertici dei Servizi, Maletti e Labruna, condannati per depistaggio. Ai camerati Delle Chiaie e Fachini, processati e assolti. E quindi Delfo Zorzi, condannato all’ergastolo ma nel frattempo fuggito in Giappone. Fino alla parola fine pronunciata nel 2005 dalla Cassazione: stabilisce che la strage fu opera del gruppo eversivo padovano capitanato da Freda e Ventura. Purtroppo non più perseguibili perché già assolti con giudizio definitivo. Ignoti gli esecutori materiali. Il cerchio si chiude. Ma allora la bomba chi l’ha messa? Nessuno.

“La tentazione di soldi o potere non mi seduce”

Scambiare due parole con Mattia Santori è impresa ardua, e non per un suo atteggiamento di sufficienza, proprio non ha tempo: “In alcune giornate sono arrivato a una settantina di telefonate, più messaggi e ancora messaggi. Dalle otto del mattino alle undici di sera. Un continuo”.

E il lavoro?

Oramai è ridotto al minimo indispensabile.

Minimo, minimo.

Però adesso la mia vita va un po’ meglio, mentre all’inizio questa storia mi ha stravolto. Ora è più governabile.

Cioé?

È stato scioccante, i primi giorni sono stati devastanti.

Travolti.

Non eravamo pronti, senza struttura, adesso ci siamo organizzati, abbiamo ampliato il numero di chi dà una mano.

Vi siete trovati al centro del Circo.

Però non sono mai stato incline a soldi o potere, capisco che ci sono dentro ma senza farmi sedurre da certe sirene.

E cosa sente?

Una responsabilità, ed è un onore, perché le persone ti riconoscono uno strumento.

E…

La fatica è ripagata.

(Nel piccolo mistero di chi sono, da dove vengono, cosa amano, perché lo amano, segue una serie di domande brevi con risposta altrettanto breve).

Film preferito.

Roma di Cuaron. Ma ce ne sono tanti.

Quanto sta sui social?

In questo momento zero, e non ho neanche Instagram.

Cosa legge?

Romanzi e biografie.

Voto di maturità?

98.

Peccato.

Avevo i capelli rasta, non piacevano a un professore.

Laurea.

110 e lode in Economia e Diritto.

Nanni Moretti.

Non mi fa impazzire.

Lucio Dalla.

Vabbè, per forza. Disperato erotico stomp è la mia preferita.

Vasco o Ligabue?

Vasco senza dubbio.

Massoneria.

Non sono abbastanza informato.

Vizio.

Mi mangio le unghie.

Fobia.

Purtroppo soffro di vertigini, e amo la montagna.

Tra odio e indifferenza.

Indifferenza.

Play station.

È stato il mio primo acquisto e la mia prima trattativa economica, ed avevo 13 anni: 70 mila lire ed è stata mia.

A cena con Grillo o Berlusconi?

Grillo!

Con la Pascale o la Boschi?

(La risata è sonora) Domanda molesta.

D’istinto.

Non le conosco bene.

Primo voto?

Boh, forse il 2006.

Al Pd?

Perché nel 2006 c’era? (esatto, il Pd è 2007)

Il 4 dicembre 2016 cosa ha scelto?

Non ricordo la divisione.

Pro o contro la riforma costituzionale…

A favore.

Il 25 aprile.

Festa nazionale.

Eutanasia.

Ognuno è libero.

Draghi al Quirinale.

Sì.

Scaramantico.

Per niente.

Moro o Berlinguer.

Non voglio scegliere, di entrambi mi ha sempre affascinato il desiderio di dialogo.

Gioca al Superenalotto?

Mai.

Dove si informa?

Su Facebook.

Su Facebook?

Dopo vado in cerca delle fonti.

Dove?

Dipende, nel caso della Segre ho cercato il video integrale del discorso in Parlamento.

Minacce?

Non apro Facebook.

Quindi arrivano?

Ma non di morte, solo insulti.

Marco Biagi.

Una vicenda che ha sconvolto Bologna e fa parte della città.

Però…

Sono troppo giovane per conoscere la sua riforma.

Lambrusco o Sangiovese?

Sangiovese.

Feste de l’Unità?

A volte, non mi hanno mai esaltato, sono simili alle sagre.

Oltre alle Sardine?

In queste settimane solo Sardine.

Nient’altro.

Pensiero fisso.

Neanche una festa.

Forse ci riesco ad andare questa sera (ieri).

Le chiederanno delle Sardine.

Spero di no, spero si parli solo del mio amico festeggiato.

(Alle nove e 45 del mattino sta per entrare nella stazione di Milano, la giornata da Sardina è ancora lunga).

@A_Ferrucci

Vita da sardina: così si fa la piazza

“Le cose non saranno mai perfette ma voi dovete continuare a combattere, people have the power, ciao sardine”. Persino Patti Smith, la sacerdotessa del rock, ha voluto omaggiare il movimento delle sardine. Nato per contrastare la campagna elettorale di Matteo Salvini in Emilia Romagna e presto allargatosi a fenomeno culturale-sociale e, forse, politico. Quattro ragazzi, cresciuti in una casa insieme a Bologna, divisi tra l’Università e i lavoretti precari, decidono di combattere la propaganda leghista organizzando un flash-mob dal successo imprevedibile. Sembra la trama di un film eppure è la cronaca delle ultime settimane. Il nome, depositato come un vero e proprio brand, nasce dall’idea di stare tutti stretti proprio come i pesci in una scatola. Vicini e muti, in branco, contro la “retorica populista” del Carroccio. “Nessuna bandiera, nessun partito, nessun insulto. Crea la tua sardina e partecipa alla prima rivoluzione ittica della storia”, recitava l’invito lanciato su Facebook. Mentre il Paladozza di Bologna si riempiva di 5.570 leghisti per Lucia Borgonzoni e Matteo Salvini, in piazza Maggiore, a pochi chilometri, si animava sulle note di “Come è profondo il mare” di Lucio Dalla.

Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori, Giulia Trappoloni sono gli ideatori del fish-mob: Garreffa si è laureato con una tesi in comunicazione ambientale, ora è guida turistica, accompagnatore in ciclopercorsi in tutta Europa; Morotti ingegnere e nel tempo libero tiene laboratori creativi sul riciclo della plastica; Santori educatore, ha creato un torneo di basket, in memoria di un amico morto di leucemia, per finanziare il rifacimento di campetti di periferia; Trappoloni, da San Sepolcro, fa la fisioterapista e l’insegnante di ballo. Un tempo i politici li avrebbero definiti choosy, bamboccioni, forse anche sfigati, oggi invece li acclamano, pendono dalle loro labbra. Decine e decine gli endorsement da parte del Pd e del Movimento Cinque Stelle, senza contare la stampa. “Non Una di Meno”, la piattaforma che riunisce numerose sigle e attiviste femministe, ha portato in piazza 100mila donne per quattro anni di seguito ma non ha avuto un briciolo della visibilità dedicata ai manifestanti pesci. Lontani dai girotondi che annoveravano esponenti illustri, uno su tutti il regista Nanni Moretti, ancora di più dai primi grillini, con cui non condividono la rabbia, le sardine sembrano sfuggire alle analisi più classiche. A partire dalla rivendicazione, mai espressa a memoria d’uomo prima da un movimento, “che la Politica con la P maiuscola significa delegare qualcuno che è competente e affronta temi complessi, senza slogan e senza sensazionalismi”. Quasi un’eresia in terra emiliano-romagnola dove l’impegno, la partecipazione e il rimboccarsi le maniche è uno status quo. Eppure le sardine riempiono le piazze mentre si fa fatica a ricordare l’ultima volta che il Partito Democratico l’abbia convocata. Sabato scorso Stefano Bonaccini, attuale governatore dem in corsa per il bis, ha avuto il coraggio di provarci. Piazza Maggiore era piena, ma l’effetto e il calore non erano gli stessi.

Dopo Bologna, le sardine hanno replicato con successo dal nord al sud, senza dimenticare le tappe internazionali di New York e Amsterdam.

Mattia Santori, portavoce delegato, spopola in ogni trasmissione tv. Nessuna tessera di partito per lui e gli altri. Santori ha ammesso una “cotta” per Matteo Renzi, poi svanita una volta ascoltato dal vivo. Solo attività civiche come il volontariato e la parrocchia, rara e sporadica la presenza dei quattro nei numerosi centri sociali cittadini. Anche poco social. Almeno prima di creare le sardine. La domanda è se abbiano anche un peso elettorale. Per Marco Valbruzzi dell’istituto di Ricerche Carlo Cattaneo “le sardine per il candidato dem sono un balsamo che sta scaldando una campagna che era rimasta finora fredda, incolore”. Il professore però, su Radio Città del Capo, vede anche dei rischi: “Dal momento che la campagna si polarizza però si guarda all’identità, la Lega ne ha una ben definita e potrebbe essere più attrezzata a convincere, a motivare i propri elettori a uscire di casa e votare”. Finora nessun politico di destra si è azzardato ad avvicinarsi alle piazze dei pesci, solo Salvini in una delle prime tappe emiliano-romagnole promise che sarebbe andato ma poi non lo fece. Qualche giorno fa però Francesca Pascale, compagna di Silvio Berlusconi leader di Forza Italia, ha dichiarato di “guardare con attenzione al movimento, sto valutando di scendere in piazza con loro il 14 dicembre a Roma, vi ritrovo elementi e quella libertà che furono propri della rivoluzione liberale di Berlusconi”. Chissà. Santori le ha già dato il benvenuto nonostante “in Emilia-Romagna, e non solo, Forza Italia sia alleata proprio con i principali artefici della retorica sovranista, ma se viene con una sardina bella colorata, chiuderemo un occhio”. Francesca Verdini, fidanzata di Salvini, è avvertita.

“Camorra e mazzette negli appalti di Autostrade”

Infiltrazioni della camorra negli appalti di Autostrade. La puntata di Report in onda stasera su Rai 3 racconta un ulteriore capitolo del sequel che dal crollo del Ponte Morandi a Genova ha acceso i fari sulla società Aspi. In prima serata ci sarà la testimonianza di un testimone di giustizia, Gennaro Ciliberto, 45 anni, di origini napoletane, che da quando ha denunciato vive sotto protezione.

È lo stesso che a maggio scorso manifestò sotto il Viminale annunciando lo sciopero della fame per richiamare l’attenzione sulla sua situazione e più in generale su quella dei testimoni di giustizia. “Sono un morto che cammina, ho denunciato colletti bianchi e camorristi – disse – Ho chiesto i permessi e sto dormendo in auto”.

Ciliberto lavorava per un’azienda “dell’indotto vicina al clan D’Alessandro”. “L’impresa faceva parte del gruppo della famiglia Vuolo, erano più aziende nate da aziende già interdette per mafia”, spiega ai microfoni di Report. Il gruppo Vuolo per Aspi ha lavorato parecchio. “Parliamo di una quarantina di cavalcavia – continua il testimone di giustizia –: 20 uscite autostradali, migliaia di chilometri di barriere fonoassorbenti. Il modus operandi era questo: lavoro fatto male, certificazioni false, collaudi inesistenti e crolli”.

E poi c’erano le mazzette: “Il capostipite, avendo precedenti penali, non poteva salire a via Bergamini (sede di Aspi a Roma, ndr)… gli fu dato un badge e lui tramite questo badge non faceva i controlli di sicurezza che sono controlli serrati”. Ciliberto dice di aver assistito ad alcuni incontri: “Questa persona riusciva a corrompere funzionari di autostrade, quasi tutti nei punti nevralgici. Ma la cosa grave è che a un certo punto non era più lui a chiedere i lavori ma erano i funzionari di autostrade ad andare a cercare lui, consapevoli che lui avrebbe dato la cosiddetta mazzetta”. Parliamo di “funzionari importantissimi”. “Ho visto la consegna di Rolex – continua il testimone di giustizia –, un’autovettura l’ho portata proprio io a Roma e l’ho depositata in un garage, una mercedes classe C di 50 mila euro”.

Sulle infiltrazioni camorristiche negli appalti autostrade ha indagato la Procura di Roma. Il processo inizierà a dicembre, Aspi si è costituita parte lesa.

In Calabria anche la destra è a pezzi

Se il centrosinistra è frantumato in Calabria, il centrodestra soffre della stessa sindrome. La Lega, infatti, è riuscita nell’impresa di decidere il candidato calabrese anche se questo sarebbe toccato a Forza Italia.

Nel partito di Berlusconi ha pesato il veto di Salvini su Mario Occhiuto, coinvolto in alcune inchieste giudiziarie. Lo stallo che si era creato attorno al nome del sindaco di Cosenza ha aperto una crepa diventata ora una voragine: Forza Italia e FdI hanno dovuto piegare la testa davanti al diktat di Salvini. Così dal cilindro di Arcore è uscita l’ex sottosegretario Jole Santelli, pupilla di Cesare Previti. Manca ancora l’ufficialità, ma il dato ormai sembra tratto. Occhiuto pare rassegnato: si definisce “tradito da chi ho gratificato”, parla di “manovre di palazzo” animate da “un unico obiettivo: tutti, tranne Mario Occhiuto”. Il riferimento è proprio a Santelli, sua fedelissima, da lui nominata assessore a Cosenza. Per il sindaco, è “un atto di grande arroganza e prepotenza nei miei confronti”. Al suo fianco c’è il deputato Roberto Occhiuto, suo fratello, che annuncia guai per Forza Italia: “Sia chiaro che se dovessi scegliere tra il cognome e l’appartenenza politica, ovviamente sceglierei il cognome. Aspetto di vedere il candidato che ancora non c’è, poi deciderò il da farsi”.

Lo ha già fatto suo fratello Mario: “Dobbiamo ribellarci a tanta violenza e miseria umana travestita di opportunità politica. Nessuno può tornare indietro, ma tutti possono andare avanti”. Che tradotto: corriamo da soli e ci vediamo il 27 gennaio.

Più o meno quello che, a sinistra, sta facendo il presidente uscente Mario Oliverio con il Pd che punta sul candidato civico Pippo Callipo. A due giorni dalla visita in Calabria del segretario Nicola Zingaretti, anche nei dem è iniziata la resa dei conti: sono state commissariate le federazioni “oliveriane” di Cosenza e Crotone.

Il terzo fronte, quello del M5S è ancora in balia delle onde. Sabato, infatti, il candidato Francesco Aiello ha aperto a Callipo per “impedire che vinca la Lega”. Domenica lo stesso professore ha ritrattato ed escluso “categoricamente ogni tipo di apertura ai partiti”. In sostanza, “sì a un’alleanza civica ma non al Pd”.

Una proposta che ha lo stesso sapore di quella fatta da Oliverio al Pd quando era già stato annunciato il candidato Callipo. “Facciamo tutti un passo indietro” aveva detto. Anche Aiello, quindi, ci ha provato sotto lo sguardo interdetto della parlamentare Dalila Nesci: “Aiello? Callipo? Aiello e Callipo? Cambiando l’ordine degli addendi e del M5S neanche l’ombra. Complimenti a tutti gli strateghi piccoli e grandi che hanno proseguito nella svendita elettorale”.

Rai, l’intervista ad Assad ora è un caso diplomatico

Un vero incidente diplomatico con la Siria. Per un clamoroso pasticcio tutto interno alla Rai. Che fa ben capire come (non) funzionano le cose nella tv pubblica. Parliamo dell’intervista di Monica Maggioni al controverso presidente siriano Bashar al-Assad. Maggioni, giornalista ed ex presidente della Rai, ora è ad di RaiCom, una delle consociate della tv pubblica. E già qui c’è una prima anomalia: con gli oltre 1.700 giornalisti della tv di Stato, perché a intervistare Assad ci va lei, che ora ricopre un ruolo manageriale? L’idea, però, è della stessa Maggioni, che è stata inviata di guerra e Assad lo aveva già intervistato in passato. Insomma, ha i contatti giusti e così chiede un’intervista al presidente siriano.

Verso la fine di novembre l’intervista viene accordata. A quel punto, secondo la ricostruzione con diverse fonti, Maggioni va da dall’ad Rai, Fabrizio Salini. “C’è l’opportunità di intervistare Assad. Che faccio, vado?”, gli chiede. “Vai. Poi vediamo dove mandarla in onda”, la risposta di Salini. Maggioni va a Damasco e fa l’intervista martedì 26 novembre, poi torna in Italia e avverte Salini. I due concordano che, per la durata, la cosa migliore è trasmetterla su Rainews24. Così la sera di sabato 30 novembre, Maggioni propone l’intervista al direttore Antonio Di Bella. Qui le versioni divergono. Secondo Maggioni, Di Bella dice subito sì e imbastisce uno speciale per il lunedì sera successivo, 2 dicembre. Nel frattempo, domenica 3, la giornalista avverte Damasco che l’intervista sarebbe andata in onda la sera dopo. Secondo Rainews, invece, prima di accettare, Di Bella chiede di vedere l’intervista. Che però gli viene inviata solo il lunedì nel tardo pomeriggio in un formato di 20 minuti già montato.

Nel frattempo la redazione è in subbuglio: perché prendiamo a scatola chiusa un’intervista di un’esterna senza dire niente? Alla fine Di Bella, dopo essersi consultato con Salini, decide di non mandarla in onda per due motivi: primo, non era uno scoop; secondo, perché l’Usigrai aveva fatto notare che si era di fronte a una procedura anomala che avrebbe creato problemi. Uno spezzone d’intervista poi viene offerto al direttore del Tg1 Giuseppe Carboni, che rifiuta per gli stessi motivi. Insomma, un gran casino soprattutto per Salini, che si trova sul groppone un’intervista che nessuno vuole.

Poi ci sono i siriani. Che vogliono sapere perché l’intervista non va in onda, visto che “secondo gli accordi presi, sarebbe dovuta andare su Rainews il 2 dicembre”.

Damasco, dove le beghe interne Rai non sono note, la butta in politica. “Questo è un ulteriore esempio dei tentativi occidentali di nascondere la verità sulla situazione in Siria. Se Rainews continuerà a rifiutarla, la tv siriana la trasmetterà integralmente lunedì 9 dicembre (questa sera, ndr)”. “L’intervista non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai. Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda”, la replica di Salini. Interviene anche il presidente, Marcello Foa: “Chi ha mandato Maggioni a Damasco? Con quali accordi?”. E il corto circuito con Damasco ieri ha scatenato anche le reazioni della politica italiana. Stasera, dunque, l’intervista finirà sulla tv siriana. L’accordo di Maggioni, infatti, prevedeva che la tv araba ne avesse una copia. E, vista l’insistenza siriana, l’intervista dev’essere molto piaciuta ad Assad.