Nel silenzio generale il Carroccio va in soffitta

Lui non ci sarà perché fa parte della nuova guardia. Ma il 21 dicembre a Milano al congresso della Lega nord per l’Indipendenza della Padania a tenere banco sarà proprio il senatore William de Vecchis, eletto nel collegio di Fiumicino, sul litorale laziale. Folgorato sulla strada di Matteo Salvini, ha sfidato la tradizione nordista per regalare al partito un Alberto da Giussano nuovo di pacca: sotto al comandante della battaglia di Legnano del 1176 non c’è l’effigie della Repubblica di San Marco ma l’SPQR di Roma, un tempo ladrona. Sotto il segno – ovviamente ironico – del nuovo Alberto da Giussano in salsa capitolina, si svolgerà dunque tra due sabati il congresso in cui deputati e senatori, delegati regionali e membri del consiglio federale delle 13 “nazioni” del nord saranno chiamati ad aderire al progetto della nuova Lega per Salvini premier.

Tutto avviene in sordina: gli interessati sono stati convocati con un messaggio scarno a fine novembre, l’attenzione dell’opinione pubblica (e degli stessi leghisti) in quei giorni sarà concentrata sulla sessione di bilancio. Un atto solenne che si compie nel silenzio: la transizione verso il nuovo soggetto politico che ha già eletto 180 parlamentari da ogni parte d’Italia, centro, sud e isole comprese e nel cui statuto non compaiono solo le nazioni padane, ma 22 associazioni regionali, da Nord a Sud; dalla Valle d’Aosta alla Sardegna.

Senza per questo sciogliere il Carroccio che è il soggetto politico debitore verso lo Stato dei contributi percepiti e non dovuti per 49 milioni di euro su cui è stato raggiunto un accordo di rateizzazione con la Procura di Genova. Proprio per questo la Lega dei padri fondatori almeno per ora non dovrà morire. Anche se nulla è più un tabù, nemmeno la possibile cancellazione di ogni riferimento dallo statuto alla figura di Umberto Bossi presidente federale a vita.

Da tempo, non è un mistero, la vecchia classe dirigente è stata rottamata e si è proceduto al rinnovamento della struttura organizzativa territoriale. Persino con i simboli di sempre si è usata la spugna: nel fortino di via Bellerio a Milano da tempo la scritta Padania è stata cancellata, mentre sono sempre meno quanti ricordano il verde, colore simbolo delle valli, sostituito dal blu dei sovranisti salviniani.

All’ultimo consiglio federale della Lega Nord che ha convocato il congresso del 21 è stata decisa anche la modifica dello statuto che vietava la possibilità per i militanti di iscriversi ad altre formazioni o partiti. E così formalizzare ciò che è già nei fatti, la possibilità per i militanti del Carroccio di tenere in tasca anche la tessera della Lega per Salvini premier, senza che nessuno della vecchia guardia vicina a Bossi o a Maroni possa eccepire alcunché. Per ora viene mantenuto anche il doppio binario per le contribuzioni dei parlamentari alle casse del partito (o meglio dei due partiti). Ma a differenza del bilancio del Carroccio (che ha chiuso l’anno con una perdita di circa 16 milioni, causa debito con lo Stato), la nuova creatura salviniana prospera, anche grazie al 2 per mille, che alla Lega per Salvini premier ha fruttato nel 2018 il doppio rispetto alla “vecchia” Lega. La quale oltretutto ha pure alle calcagna la Commissione per la trasparenza dei partiti politici che controlla la regolarità dei resoconti.

Ebbene il tesoriere Giulio Centemero è ancora alle prese con le richieste di chiarimento arrivate dagli uffici della Commissione di Palazzo San Macuto rispetto al resoconto 2017. Richieste che non sono state ancora soddisfatte.

La Commissione da ultimo, il 14 novembre scorso, è infatti tornata alla carica per chiedere “l’esibizione dei verbali relativi ai finanziamenti alla Editoriale Nord e a Media Padania”. Che però Centemero non trova. In entrambi i casi infatti – ha scritto il tesoriere –“il verbale in oggetto non è stato possibile reperirlo” perché forse “oggetto di sequestro da procure che ad oggi hanno in mano tutta la nostra documentazione in originale”. Ha fatto mettere invece da subito agli atti che “non sono state costituite fondazioni o associazioni i cui organi direttivi siano stati anche parzialmente determinati dal partito”. Insomma nessun rapporto tra la Lega e la onlus Più Voci di cui Centemero è presidente (e indagato per finanziamento illecito per le donazioni dell’imprenditore romano Parnasi).

Nel frattempo il partito di Salvini continua la flessione nei sondaggi: secondo l’ultimo, targato Demos-Repubblica, scende per la prima volta da mesi sotto il 30%.

Ma mi faccia il piacere

Bei tempi. “Un tempo i magistrati della Procura di Firenze cercavano il mostro di Scandicci, non vorrei che avessero adesso fatto confusione con il senatore di Scandicci” (Matteo Renzi, senatore e segretario Italia Viva, 27.11). Non ci sono più i criminali di una volta. Bisogna accontentarsi.

Suicidio assistito. “Questi ragazzi delle Sardine credono nella politica. Se me lo chiedono darò il mio contributo” (Giuliano Pisapia, Repubblica, 2.12). Casomai meditassero di farla finita.

Calippato di Calabria. “Calippo può innescare la rivoluzione dolce” (Nicola Zingaretti, segretario Pd, parlando del suo candidato in Calabria, il “re del tonno” Giuseppe Callipo, 30.11). Il famoso gelato al tonno.

Family Day. “Al comma 2 dell’art. 8, le parole ‘famiglia’ sono sostituite dalle seguenti: ‘rete formale e informale della persona’” (emendamento a una legge regionale presentato dal gruppo del Pd alla Regione Friuli Venezia Giulia, riportato da Libero, 7.12). Urge una visita del medico di rete formale e informale della persona.

Tutti latitanti. “Su papà Bettino basta meline ridicole. Ora ad Hammamet tutti i leader politici. Anche la Lega, perchè no” (Stefania Craxi, figlia d’arte, Corriere della sera, 1.12). Con tanti saluti alla presunzione di innocenza.

La parola all’esperto. “I fondi pubblici ai partiti sostengono la democrazia. La corruzione si previene con la democrazia all’interno dei partiti. I partiti dovrebbero tornare a essere una scuola civica e comportamentale” (Primo Greganti, tre condanne definitive per corruzione e finanziamento illecito, La Stampa, 1.12). Quando c’era lui, caro lei.

Dolce stil novo. “Sei un coglione, te e tutta la tua famiglia. Vieni qua, ti aspetto fuori, ti faccio un culo così… Ai terroni non devi toccargli la famiglia: impazziscono” (Gian Marco Centinaio, senatore Lega, a Vincenzo Santangelo, senatore 5Stelle, nell’aula del Senato, sotto gli occhi esterrefatti di alcune scolaresche in visita a Palazzo Madama, 3.12). É il prossimo ministro della Cultura.

Lo spirito guida. “I due Mattei grandi politici. Voterei Renzi o Salvini. Il primo è intelligente e il secondo sa parlare alla gente. Un governo insieme? Bella combinazione” (Flavio Briatore, La Stampa, 26.11). Sono soddisfazioni.

Miracolo a Bibbiano. “…la scarcerazione del sindaco di Bibbiano…” (il Foglio sulla revoca dell’obbligo di dimora, 7.11). Primo caso al mondo di un tizio scarcerato senza mai essere stato incarcerato.

Polli del Balcone. “Conte è venuto dal nulla e nel nulla tornerà” (Ernesto Galli della Loggia, 5.12). Raggiungendo Ernesto Galli della Loggia.

Esodo biblico. “5S in rivolta: golpe anti Di Maio con lo zampino di Conte”, “Salvini in campagna acquisti va per saldi tra i 5stelle” (il Giornale, 26.11). “I grillini si scannano sul salva Stati. Pronta la scissione dell’ala pro Conte. In 86 sarebbero sul punto di mollare Di Maio” (La Verità, 6.12). “Di Maio fonda Forza Sud per salvare la sua leadership: una rete di fedelissimi pronti a seguirlo in caso di scissione” (il Giornale, 6.12). “’Sfiducia al capo politico’: il documento dei grillini contrari alla linea Di Maio” (Repubblica, 6.12). “Di Maio perde 12 filodem: ‘Pronti a lasciare il M5S’. 10 deputati e 2 senatori contro la crisi e pro Pd” (Il Dubbio, pag. 1, 7.12). “Di Maio perde pezzi: 10 grillini filo-dem pronti a lasciare i 5S” (Il Dubbio, pag. 7, 7.12). “I 14 che sfidano Di Maio” (Corriere della sera, 7.12). Quindi se ne vanno in 86, anzi in 12, anzi in 10, anzi in 14. Anzi, nessuno.

Ah Sudamerica! “Sui rapporti tra giustizia e politica non possiamo diventare un Paese sudamericano” (Renzi, 1.12). Tipo le repubbliche delle banane dove i politici prendono soldi senza far sapere da chi e poi danno ordini ai giudici.

Dare i numeri. “Quella lettera del 2002 che inguaia ‘Giuseppi’ sulla sua nomina a prof nel 2002” (il Giornale, 3.12). Ah sì, la lettera del 2009.

Giornalismo investigativo. “C’è poco da fare… la Meloni ha sempre ragione” (Alessandro Giuli, Libero, 4.12). Slurp.

Il titolo della settimana/1. “Bonafede cancella 2 mila anni di civiltà giuridica” (Renato Farina, Libero, 3.12). Quella che ci ha regalato 2 milioni di processi prescritti negli ultimi 15 anni.

Il titolo della settimana/2. “Una grande coalizione blocca i rifiuti della Raggi” (Libero, 3.12). Li porta tutti lei da casa.

Il titolo della settimana/3. “Disastro lettura: un ragazzo su 20 sa distinguere fatti e opinioni” (Repubblica, 4.12). Gli altri 19 leggono Repubblica.

La Commedia umana di Régis, ultimo enfant terrible di Francia

Teatranti prestati alla narrativa, però breve: dopo Cechov, Pirandello, Bennett, si affaccia all’alta arte del racconto Régis Jauffret, Premio Goncourt nel 2018 con Microfictions (Gallimard) nella sezione “novelle”.

La raccolta arriva ora “a bomba” nelle librerie italiane grazie ai tipi di Clichy, dopo che i lettori e la critica francesi hanno speso parole infuocate: Libération ha parlato appunto del libro come di “materiale incendiario”, mentre Le Monde ha paragonato lo scrittore a Raymond Carver, anzi meglio. Eppure il muriatico, cinico, beffardo Jauffret si considera solo un uomo – alla stregua di uno dei suoi loschi figurini – “che invece di tirarsi su le maniche cerca di vivere alle spalle della lingua francese”.

Tradotto in dodici lingue, Microfictions è un’opera-mondo di cinquecento operette immorali, racconti neri ordinati alfabeticamente, da Aglaé, nome di una bambina down che sogna di diventare la première dame, a Zero scopate, truce affresco dell’ordinario stupro di una moglie. I componimenti non superano le due pagine, ovvero le tremila battute: sono tutti fulminanti, corrosivi, esplosivi, di una prosa precisa come la poesia e feconda come la scienza, ma “del resto da tempo tutto è stato detto sulla vita, la morte e l’usura dei sentimenti”, come si legge ne La mano tiepida dell’infermiera, anticipato in questa pagina.

Protagonisti di questa feroce Comédie humaine sono quei mostri chiamati persone, che vivono in un presente eterno dal sapore di un oscuro “Alto Medioevo”: parricidi, pazzi, erotomani, tossici, perdigiorno, gente che “ama svogliatamente” e perciò preferisce l’onanismo, pornografi, depressi, delinquenti, pederasti, bambini terribili, parenti serpenti e persino un Leonardo DiCaprio, per età affine ai quasi cinquantenni che devono “urgentemente sposarsi, procreare, trovare un hobby, una qualunque distrazione, qualcosa che possa arredare la loro vita”.

Più chirurgico del medico Céline ma meno sboccato dello sdentato Houellebecq, Jauffret è l’ultimo enfant terrible di Francia: marsigliese, classe 1955, esordisce come autore di monologhi per la radio e collaboratore di riviste letterarie à la gauche, come la marxista Tel Quel. Debutta nella narrativa a 30 anni col romanzo Seule au milieu d’elle, ma il successo arriva tardi, a oltre 40 anni, con Histoire d’amour; dopodiché i premi non si fanno attendere: nel 2003 il Prix Décembre per Univers, univers e nel 2005 il Fémina con Asiles de fous, che lo consacra nel pantheon degli autori francesi contemporanei.

Nel 2016 Régis strappa anche una nomination al Goncourt con Cannibali, edito nel 2017 in Italia da Clichy, che ha ora in cantiere la pubblicazione di Giochi di spiaggia (un’opera invero del 2002), dopo Il banchiere (2010), Dark Paris Blues (2015) e, appunto, Microfictions, spiluccabile a piccole dosi o da trangugiare tutto d’un fiato come un cocktail particolarmente alcolico: “È uno sport, l’esistenza. Uno sport estremo quando non se ne può più di correre, di pedalare, di salire le pareti arrampicandosi”.

“Ci amiamo meno, ci consoliamo con il pollo fritto e i film porno”

Anticipiamo due racconti di Régis Jauffret dalla raccolta “Microfictions”, da poco in libreria con Clichy.

Alle sei infilo la chiave nella serratura della porta di casa nostra. Preferiamo occupare un semplice monolocale in centro piuttosto che una villetta con giardinetto in periferia. Ci piace vivere in un quartiere ricco di cinema, ristoranti, locali, tutti quei luoghi di distrazione che non abbiamo i mezzi per frequentare ma la cui prossimità ci rallegra.

La mia compagna non torna mai prima delle sette e mezzo. Ho il tempo di rifare il letto, passare l’aspirapolvere e apparecchiare il banco che separa la cucinetta dalla nostra camera-salotto. Oriento lo schermo del computer in modo che cenando si possa vedere qualche video. Seleziono programmi di scherzi, reportage sul lavoro, serie. Ci intendiamo talmente bene che non abbiamo bisogno di parlare. Del resto da tempo tutto è stato detto sulla vita, la morte e l’usura dei sentimenti.

“Ogni anno ci amiamo un po’ meno”.

Come se in partenza possedessimo una riserva d’amore di cui divoriamo un po’ per volta delle porzioni. Una riserva che ci basterà a sopravvivere fino alla fine. Non prenderemo animali ma siamo tentati dal concepimento di un figlio. Ormai tutti i nostri amici sono genitori. È umiliante non avere carrozzine da spingere né bambini da far rotolare nelle sabbiere, la vecchiaia ci distruggerà. Chi sopravvivrà all’altro morirà cercando di afferrare la mano tiepida dell’infermiera affamata che si dileguerà per andare alla mensa a finire il suo cartoccio di hachis parmentier.

Ecco la mia compagna che rientra. “Hai comprato il pollo fritto?”. L’odore del pollo la mette di buon umore. La informo che ci sono anche delle patate fritte da scaldare nel microonde e due fette di torta al rabarbaro. Ci mettiamo a tavola e quando boccone dopo boccone abbiamo finito di mettere tutta la cena nello stomaco guardiamo un porno. Ci piacciono i film con scene spinte di cui non avremmo mai il coraggio di essere protagonisti. Non avremmo l’audacia di diventare omosessuali, scambisti, di rischiare la prigione per mordere il frutto proibito della pedofilia.

“Il sadomasochismo ci spaventa”.

Ci piace avere paura, tremare per quei corpi martirizzati e tenerci per mano versando lacrime di coccodrillo quando il sangue scorre sotto i colpi.

“Anche il suo sesso è tumefatto”. “Mio Dio”. Ci stringiamo l’uno all’altra. Siamo felici di vivere lontano dalle fruste di quelle donne inguainate da cui ci proteggiamo sprofondando sotto il piumino come due bambinetti.

***

Sono contento di rivederla. Sono sicuro che all’epoca ci davamo del tu. Facevamo parte di una solida squadra di rugby, di calcio, di un qualunque gioco con una palla. Forse non praticavamo nessuno sport ma eravamo giovani e pieni di energia.

“È vero che non eravamo belli”.

Nemmeno le ragazze del nostro gruppo. Una manica di bruttoni dei due sessi celebre in tutta Montpellier.

“Ce ne fregavamo”.

Non ci facevano entrare nei locali, nei ristoranti, addirittura a volte i controllori ci facevano scendere dal treno con la scusa che spaventavamo i bambini e i malati di Alzheimer. Noi correvamo ad accoppiarci nelle macchie. Quando i pastori ci lanciavano addosso i loro cani noi ci lasciavamo mordere il culo sorridendo alla vita.

“Ricordi meravigliosi”.

Eravamo così ributtanti che la stampa locale si interessò a noi. Ho ancora da qualche parte la copertina del supplemento domenicale con le nostre abiette facce e i nostri corpi ripugnanti. Poi ci furono trasmissioni radiofoniche, televisive, interviste collettive su France-Soir e la nostra trionfale tournée negli Stati Uniti.

“Si ricorda la Carnegie Hall?”.

Ci bastò apparire per scatenare le urla, le risate, i fischi. Due ore ininterrotte di isteria, senza contare i bis.

“San Francisco, Mosca, Berlino, Gibilterra”.

Ci accusarono di provocare improvvise morti e venimmo interdetti in tutti i paesi del Commonwealth. Comunque il pubblico si stava stancando.

“Ci separammo lo stesso anno dei Beatles”.

Poi ho seguito il mio percorso. Dopo qualche anno di depressione non grave che mi è valsa la derisione degli psichiatri e dei farmacisti, ho architettato un tentativo di suicidio che ha molto impressionato i soccorritori che sono venuti a prendermi gravemente bruciato dopo che mi ero immolato con il fuoco sulla riva del canale Saint-Martin.

“La mia schizofrenia è stata ufficialmente riconosciuta il 23 gennaio”.

Ci tenevo a festeggiare con lei questa promozione. Il tempo nasconde la mia bruttezza sotto un tappeto di rughe sempre più spesso ma munito di un nuovo status non dispero di risalire presto sui palcoscenici per diventare la star dei pazzi.

“Vendevo frutta al mercato, poi è arrivata la danza: nella mia vita ho avuto culo”

Sudore, tenacia, capacità, un pizzico di faccia tosta e incoscienza, e improvvisamente, a trent’anni, Stefano De Martino non fa più di cognome BelenRodriguez (tutto attaccato).

Lanciato su Rai2 da Carlo Freccero, ha prima condotto Made in Sud e poi Stasera tutto è possibile al posto di Amadeus (“Ho passato l’estate a studiarlo, poi ho lasciato perdere, altrimenti sarei stato la sua brutta copia”).

E così il bello, il chiacchierato, il gossippato, l’invidiato (per la moglie), il deriso (sempre per la moglie), il predestinato al ruolo di meteora, ha stupito molti, in particolare i risultati dell’Auditel, ed è diventato una delle poche novità della stagione televisiva (“ho una fortuna: mi basta il minimo sforzo per sorprendere”).

Non male come fortuna.

Il punto è uno: magari mi sottovalutano per l’apparenza o l’idea preconcetta, quindi basta un po’ di studio, di approfondimento per ribaltare i canoni del giudizio altrui.

Lo sapeva.

Cosa?

Del successo in arrivo.

Dentro di me sì, ci speravo. (Ci pensa). Se uno non è convinto, ha già perso.

Ci vuole disciplina.

Quello sempre: il talento, senza disciplina, è un Eden riservato a pochissimi, e io non sono in quella cerchia.

Saggio.

La disciplina alleggerisce le paure, relativizza le deficienze artistiche, ti obbliga a ripetere all’infinito fino a quando uno non ci si avvicina allo standard opportuno.

Così serio anche a scuola?

Ci andavo pochissimo, talmente poco da non avere grandi ricordi; il problema è che non riesco a focalizzarmi contemporaneamente su troppe situazioni, e gli studi mi distraevano.

In teoria doveva essere il contrario.

Me lo diceva anche mio padre.

Suo padre era ballerino.

E non voleva proseguissi con la danza, temeva delusioni e porte in faccia, temeva facili illusioni: da noi il posto fisso era, e forse è, il “cerchio magico” di un’esistenza tranquilla.

Era un leader.

Io? Non ci penso proprio, non voglio queste responsabilità e poi frequentavo troppo poco la scuola per avere un ruolo.

Come passava la giornata?

Sono di Torre Annunziata e lì c’è il sole quasi tutto l’anno, quindi andavo al mare, non restavo chiuso in casa intrappolato dai social.

Per carità.

Il mio primo cellulare l’ho ottenuto a 17 anni: rientro ancora nella generazione del “cosa facciamo?”.

Traduzione.

Da quando le persone hanno i cellulari e sono perennemente connesse ai social, i momenti di pausa, di dubbio e confronto sono ridotti a meno del minimo; da ragazzo era normale riflettere sul prossimo domani, quindi “cosa facciamo?”.

Ha recuperato: è molto social.

Per forza, poi sono curioso, ed è pure una questione di lavoro; resta che i social un po’ li temo: uno deve imparare a gestirli senza subire.

Mica facile.

Lo dice a me? (E scoppia a ridere, la sua vita privata e sentimentale è spesso argomento di dibattito). Mio figlio già smanetta con il cellulare e non mi piace: l’unica difesa è la selezione delle informazioni, altrimenti siamo come perennemente seduti alla tavola di un fast food.

E il gossip?

Ora riesco a dormirci sopra, prima erano cavoli.

Cioè?

Lo subivo, le vicende personali inglobavano il resto: mi ritrovavo ovunque e la situazione è peggiorata dopo il matrimonio e la nascita di mio figlio, ma se basi la tua carriera solo sul gossip rischi di venir cancellato quando ancora ti stai guardando allo specchio.

Filosofo.

No, esperienza di mercato.

Che mercato?

Prima della televisione, vendevo frutta e verdura al mercato, e tutti i personaggi famosi li vedevo ogni giorno sulle riviste patinate, e ogni giorno ci incartavo la lattuga, le fragole, gli spinaci. E sa perché utilizzavo le riviste e i quotidiani?

No.

Per tenerle fresche, quella carta rilascia la giusta umidità, non si rovina il prodotto.

Qual è la morale?

Che quando esce una bella foto, una bella notizia, o qualcosa di brutto, penso sempre di restare calmo, che tutto passa, e magari quella foto finisce per contenere un bel cavolo al mercato.

Di quei personaggi sulle riviste, chi voleva conoscere?

Pippo Baudo, Mara Venier e Renzo Arbore.

Grandi classici.

Sono cresciuto con quella televisione, con Domenica In e gli altri varietà della Rai.

Sarà contenta Mediaset, lei è nato lì.

Infatti Maria De Filippi e Amici racchiudono il massimo della tradizione televisiva italiana, e dirò loro sempre grazie.

Non passioni da trentenne.

In alcune situazioni mi rendo conto di risultare atipico, e oggi a trent’anni sei in un limbo, troppo vecchio per i diciottenni, troppo piccolo per i cinquantenni: in mezzo tra una tradizione nazionalpopolare e un’altra che arriva dai social.

Per tornare al mercato, non è né carne né pesce.

Ascolto jazz e classici italiani, e magari subito dopo canto la trap (variazione del rap); l’altra mattina, mentre accompagnavo mio figlio a scuola ho messo la trap, ho iniziato a sbattere la testa a tempo, al semaforo uno mi ha guardato preoccupato, così ho abbassato il volume e mi sono vergognato.

Cosa ascolta di italiano?

Lucio Dalla; Futura è la mia preferita, poi Cara: se questi testi fossero stati scritti in inglese, Dalla sarebbe al livello di Springsteen.

Come mai questi gusti?

Dipende da cosa ascoltano i tuoi genitori in macchina, per questo quando accompagno mio figlio a scuola, e impiego mezz’ora, scelgo brani ad hoc per regalargli un po’ del mio bagaglio emotivo.

Da cosa parte il suo bagaglio emotivo?

Dalla danza, perché mi ha salvato in tempo, ha evitato le fasi inutili, mi ha obbligato a impegnarmi tutti i giorni per un obiettivo.

Niente strada.

No, quella fase non si tocca, era il luogo di ritrovo con gli amici.

A 18 anni è stato ingaggiato da una compagnia di New York.

E anche di allora ricordo poco.

Impossibile.

Da giovanissimo uno vive a una velocità eccessiva, uno non si rende conto quasi di nulla, e io ero esattamente così, e non parlavo in inglese.

Sensazioni?

Lì il professionismo è a livelli esagerati; loro sono esagerati in tutto, basta vedere in quali confezioni giganti vendono il succo d’arancia.

Comunque…

Pochi giorni dopo dal mio arrivo la compagnia organizza uno spettacolo a Central Park, e immaginavo una situazione quasi amatoriale. Macché. Folla clamorosa. E poi tournée in Australia, Nuova Zelanda e Hawaii: di quel periodo ricordo solo l’ultima serata sul palco.

Ride molto?

Troppo. E in questi anni qualcuno ci è rimasto male, si è sentito preso in giro, quindi ho imparato a tacere. O almeno spero (Resta zitto un secondo, si guarda le mani). A vent’anni non vedevo l’ora di scappare da casa, il paese è piccolo, la gente mormora, mentre oggi mi rendo conto di essere nato e cresciuto in un posto pieno di autenticità.

Non artefatto.

Ognuno in paese ha un ruolo sociale.

Il suo?

Mio nonno gestiva il bar, lì i vecchi giocavano a carte, fumavano, vedevano le partite, gli incontri di boxe come quelli di Tyson; ricordo l’evoluzione dei telefoni, dal gettone alla scheda, fino a quando è diventato inutile. E io ero suo nipote.

Secondo Biagio Izzo “Gomorra dà una brutta immagine di Napoli”.

Perché questo interrogativo non viene posto a De Niro e Scorsese per The Irishman?

Quindi?

Gomorra è una serie che è riuscita a far emergere a livello internazionale talenti campani, senza stupirsi troppo dei drammi narrati, già conosciuti; insomma, per me da una situazione pessima è uscito qualcosa di buono.

Il fisico l’ha salvata dai complessi?

Forse nel tempo, ma da ragazzo ero gracile e con le scapole alate, e anche dopo, quando ho iniziato a danzare, il fisico non era adatto, non rispettavo in pieno i canoni. E ne ero conscio.

Però un bello.

Stessa storia, l’ho capito dopo, all’inizio pensavo potesse intaccare la carriera da ballerino.

#MeToo al maschile?

Di concreto mai successo nulla, e un po’ mi dispiace, perché l’avrei raccontata con gusto. Giusto qualche messaggio bipartisan.

Comico preferito?

Nino Frassica: ha un umorismo surreale senza pari, una battuta frutto di un’idea, mentre spesso i ragazzi improvvisano con tempi figli delle piattaforme web.

Più brevi.

Sul web devi risultare immediato, non puoi cercare una risata a rilascio lento.

Soffre d’ansia?

Molta prima di debuttare al posto di Amadeus; oh, Amadeus è uno che ha scritto “presentatore” sopra la carta d’identità, io no. Lui è uno che non sbaglia nulla, uno che studia e riesce a inserire sempre un riferimento sull’attualità, per questo inizialmente l’ho studiato, poi ho capito che non era la strada opportuna.

Meglio evitare confronti…

Preferisco rovinarmi con le mie mani; questo lavoro non te lo insegna nessuno, non c’è un corso universitario, e oggi la gavetta è meno frequente, e gli spazi che trovi li devi ottimizzare per scovare la tua quadra.

Alla fine…

Avevo dei dubbi, invece mi sono stupito di me stesso.

Magari un giorno Sanremo.

Ora? Neanche per tutto l’oro del mondo: lì se sbagli sei morto, se fai bene hai la strada spianata. E per come sono ora dovrei affidarmi solo al culo, e di culo nella vita ne ho già avuto abbastanza.

Scaramanzie?

Infilo prima la scarpa sinistra e ho corni dappertutto, pure sul petto.

Vizio.

Mangerei pasta tutto il giorno, tutti i giorni; qualche ristorante di Milano ha sul menu “primo piatto light”, e per me è una bestemmia.

Virtù?

E che ne so?, sono molto autocritico, un cacacazzi e pignolo.

Belle virtù.

Sembro Furio di Carlo Verdone, però lo riconosco.

Gratta e vinci?

No, perché mio nonno al bar aveva la ricevitoria e non ho mai visto vincere nessuno.

Mai.

Quando qualcuno acquistava una lotteria istantanea, e non vinceva, mia nonna di nascosto prendeva una schedina e provava: era sempre convinta fosse arrivato il momento giusto. Nonno la rimproverava.

Cosa legge?

Sono radical chic e popolare.

Democratico.

Ho appena finito il libro di Paolo Bonolis e sono a metà de La fata carabina di Pennac. Amo il personaggio di Malaussène.

Ora è pronto?

Oddio, a cosa?

C’è la domanda.

Quale? (Agitato).

Su sua moglie.

Ah, vabbé (si rilassa il viso e ride a lungo), è normale, è un classico, almeno solo ora. Di solito è il punto di partenza e comunque è mia moglie e la madre di mio figlio e ognuno deve fare il suo sporco lavoro. Anche io.

Chi è Stefano De Martino.

Uno che oggi capisce con gioia cosa vuol dire essere nato negli anni Ottanta a Torre Annunziata.

(Canta Niccolò Fabi in “Una buona idea”: “Sono orfano di pomeriggi al sole, delle mattine senza giustificazione. Dell’era di lavagne e di vinile, di lenzuola sui balconi, di voci nel cortile”).

@A_Ferrucci

Lo champagne di Stalin per stare al passo col mondo

Nella storia dell’Unione Sovietica comunista, il 1936 è ricordato come l’anno in cui iniziò il primo dei processi voluti da Iosif Stalin per annientare gli oppositori e la vecchia guardia bolscevica. Si tenne a Mosca, nella Casa dei Sindacati, dal 19 al 28 agosto; tra i 16 imputati, tutti condannati a morte, c’erano Kamenev e Zinov’ev. Il 1936, tuttavia, non sancì solo l’inizio del Grande Terrore e la promulgazione della nuova Costituzione. Fu nell’estate del ’36 (l’anno che segnò la fine dalla carestia e l’azzerramento della disoccupazione nel Paese) che Stalin decise di produrre in massa lo champagne sovietico, il “Sovetskoe šampanskoe”. Secondo il sociologo finlandese Jukka Gronow, autore del saggio Caviar with Champagne: Common Luxury and the Ideas of Good Life in Stalins Russia, l’idea del dittatore georgiano era “di rendere cose come lo champagne, la cioccolata e il caviale disponibili a prezzi più bassi, per poter dire che il lavoratore sovietico viveva come gli aristocratici del vecchio mondo”.

Le vittime delle purghe staliniste, però, avrebbero ricordato con orrore quel vino, dato che al momento del loro arresto, a quanto pare, venivano caricate su furgoni della polizia sulle cui fiancate era pubblicizzato lo “Sovetskoe šampanskoe”. Tre anni dopo, quando il 23 agosto del 1939 venne firmato il patto di non aggressione fra la Germania nazista e l’Urss, a Mosca si brindò con la vodka e con lo champagne dolce di Stalin. Era “un vino frizzante, sciropposo e a buon mercato” che, con ogni probabilità, non piacque a Joachim von Ribbentrop. Il ministro degli Esteri di Hitler, prima di aderire al nazismo si era occupato con successo di importazione di champagne, ma di quello vero, dalla Francia. Resta il fatto che Stalin, come scrisse Trotskij, anche con il suo champagne dolciastro “per completare l’abbandono della politica d’alleanza con le socialdemocrazie, striscia bassamente, in maniera umiliante, di fronte a Hitler e si appresta a pulirgli gli stivali con zelo”.

Lo champagne di Stalin, in prevalenza della Crimea, innaffiò i banchetti al consolato generale sovietico di Barcellona, durante la guerra civile 1936–39. Narra Alain Brossat nel libro Agenti di Mosca. Lo stalinismo e la sua ombra che Moritz Bressler, alias Hubert von Ranke, definito dagli storici “uno degli agenti più ignobili della Gpu” (la polizia segreta sovietica), nella primavera del ’37 venne invitato a un pranzo nella legazione dell’Urss, a base di “asparagi e champagme di Crimea”, In quella villa, dirà von Ranke, “ci si sentiva a leghe e leghe di distanza dalla guerra e dalla rivoluzione”. Bressler-von Ranke, in ogni caso, magari per avere bevuto troppo champagne sciropposo, decise, di lì a poco, di troncare i suoi rapporti con gli sgherri di Stalin e si rifugiò in Francia, vivendo in clandestinità e partecipando poi alla Resistenza.

Anche la nascita dello “Sovetskoe šampanskoe” è passata alla storia assieme alle fosche vicende sovietiche del ’36. Il 28 luglio di quell’anno, ha rievocato Lettera 43-Rivista Studio, “in una riunione del Pcus fu deliberata una risoluzione che impegnava il governo sulla produzione di uno champagne che fosse sovietico. L’idea venne appunto direttamente da Stalin, nato nella Repubblica democratica della Georgia, la culla più antica al mondo della cultura vinicola”. “Lo champagne”, affermò Baffone, “è un importante segno di benessere”. Perciò, “il governo sovietico avviò un piano per la realizzazione di nuovi vigneti, fabbriche e magazzini, nonché il reclutamento e la formazione di migliaia di nuovi lavoratori”. Dopo vari esperimenti, continua Lettera 43, “si optò per una miscela di uva Aligoté e Chardonnay, e per una tecnologia che prevedeva un processo di maturazione di appena 25 giorni, rispondendo così solo all’esigenza di dare uno spumante alle masse, ma non di produrre una bevanda di qualità”. Per nasconderne “l’acidità il sapore venne ulteriormente alterato, aggiungendovi lo zucchero”.

A lavorare alla nascita dello champagne comunista era Anton Frolov-Bagreev, ex produttore di vini che riceverà il Premio Stalin. La ricerca, rammenta il sito online CiaoItaliaRussia, lo portò “all’utilizzo di attrezzature del metodo Martinotti-Sharma, tecnologia di vini spumanti già adoperata in Italia”. Nel ’37, a ogni modo, “dalla catena di montaggio uscì la prima bottiglia di spumante sotto il nuovo marchio ‘Champagne sovietico’”. Scrive il sociologo Gronow: “Nonostante il gusto e il fatto che rimase troppo costoso per il consumo quotidiano, divenne simbolo di tutte le celebrazioni sovietiche. Era la ‘Coca-Cola dell’Unione’, lo bevevi ed era come fare la bella vita”.

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, rammenta ilpost.it, “il governo vendette i diritti dello spumante ad aziende private russe, bielorusse, moldave e ucraine, che continuano a produrlo per nostalgici, appassionati, curiosi o revanscisti”. Così, da emblema dello stalinismo, lo champagne “made in Urss” è diventato un frammento russo della Ostalgia, ossia di quel “rimpianto, ricordo nostalgico”, recita la Treccani, dei tempi in cui l’Est era separato dall’Ovest.

Trump, una telefonata ti accorcia la vita (politica)

Per essere quello che ha basato buona parte della sua campagna contro Hillary Clinton sul fatto che la sua rivale era una criminale perché, da Segretario di Stato, aveva continuato a usare la sua email privata, mettendo a repentaglio informazioni riservate, Donald Trump è stato punto sul vivo quando la Cnn ha affermato che il presidente usa ancora il telefonino personale. L’ira del magnate è sfociata – chi l’avrebbe mai detto – in un tweet: “La Fake News @CNN sta riferendo che io sto ancora usando il mio telefonino personale per le chiamate nonostante i moniti sulla sicurezza. È un’informazione totalmente falsa. Non ho un telefonino personale da anni. Uso solo quelli approvati e rilasciati dal governo. Ritrattate!”. Cosa che, ieri sera, la Cnn non aveva ancora fatto, scegliendo piuttosto, di dare rilievo a una vibrante denuncia di Trump: “Gli americani oggi devono tirare lo sciacquone 10/15 volte, mentre prima ne bastava una. C’è qualcosa che non va”, nei sanitari d’America. Ma non preoccupiamoci: Trump risolverà anche questo problema.

La questione dell’utilizzo di telefonini ed account email privati, da parte di responsabili pubblici, investe la sicurezza: sono più facili da intercettare e da hackerare di quelli “a prova d’intelligence” (straniera). Ne sa qualcosa Angela Merkel, che anni fa scoprì che le sue telefonate “private” erano tutte ascoltate da Barack Obama, o almeno da agenti Usa: per carità, Obama era un amico e Angela è meno impulsiva ed estemporanea nelle sue comunicazioni di Donald, ma la cancelliera s’irritò lo stesso e molto. A ricordare che la minaccia terroristica resta immanente e che la sicurezza è un’esigenza primaria, c’è stata, giovedì, la strage nella base di Pensacola ad opera di un sotto-tenente saudita che seguiva un corso d’addestramento al volo, Mohammed Said Alshamrani. Analizzando i suoi social, l’Fbi ha scoperto un tweet in cui l’ufficiale, senza rivendicare l’appartenenza ad alcun gruppo, riecheggia una frase di Osama bin Laden, il defunto capo di al Qaeda: “La sicurezza è un destino condiviso … Non saremo sicuri finché non la vivremo come realtà in Palestina e le truppe Usa non se ne saranno andate dalla nostra terra”.

Inoltre, Alshamrani aveva rilanciato il discorso di Trump a Gerusalemme nel 2017: un discorso urticante per tutti i filo-palestinesi; e riteneva gli Usa “la nazione del Male”. Secondo l’Fbi, l’uomo era un “lupo solitario”: avrebbe agito da solo, senza connessioni né complici. Le punture di spillo sulla sicurezza non avranno eco in Commissione Giustizia della Camera, dove, la prossima settimana, proseguiranno le audizioni nell’inchiesta sull’impeachment del presidente. Respingendo l’invito rivolto a Trump e ai suoi legali a essere presenti, l’avvocato della Casa Bianca, Pat Cipollone, ha scritto che l’indagine è “completamente senza fondamento” e che la speaker della Camera Nancy Pelosi ha ordinato di formalizzare l’impeachment “prima che la commissione avesse uno straccio di prov”. I democratici e la Camera hanno già sprecato a sufficienza tempo e denaro dei contribuenti americani with this charade, “con questa farsa”. In passato, i legali dei presidenti Nixon e Clinton, pure oggetto di procedure d’impeachment, furono presenti alle udienze e interagirono con le commissioni inquirenti.

Gas e confini: così Erdogan si allarga nel Mediterraneo

Se per il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio, l’accordo sui confini marittimi siglato a Istanbul lo scorso 27 novembre tra il presidente Recep Tayyip Erdogan e il premier del governo di Accordo nazionale libico (Gna), riconosciuto dall’Onu e principale interlocutore dell’Italia, Fayez al-Sarraj, “è tutto da dimostrare”, per i due contraenti è cosa ormai fatta. Tanto che la Grecia – il paese che vede la propria zona economica esclusiva di mare ridotta unilateralmente in seguito all’intesa tra Tripoli e Ankara – ha espulso l’ambasciatore libico e alzato al massimo il livello di allerta militare.

Ma il Sultano, anziché tentare di abbassare i toni nei confronti del vicino, peraltro alleato Nato, ha bollato la scelta di Atene in modo sprezzante. “È una decisione scandalosa… hanno deportato l’ambasciatore libico. E allora? Che ci guadagnano?”, si è polemicamente chiesto Erdogan, parlando ai membri del suo partito. Il salto a piè pari nelle acque territoriali greche e libiche garantisce a Erdogan la possibilità di diventare ancora più incisivo nel suo sostegno a Serraj, sia militarmente sia sotto l’aspetto geopolitico, nel momento in cui la Russia ha inviato centinaia di contractor e istruttori per aiutare il maresciallo Haftar – l’uomo forte della Cirenaica – a mettere in fuga Sarraj ed entrare a Tripoli vincitore. La tempistica dell’accordo non è dunque casuale. E lo si evince anche dal fatto che sia stato stipulato mentre la Turchia riprendeva a condurre le contestate attività di perforazione offshore al largo di Cipro, in contrasto con gli interessi italiani (leggasi Eni), europei e greco ciprioti. “Abbiamo dei diritti come paese garante. Faremo uso dei nostri diritti basati sulla legge internazionale”, ha detto in proposito Erdogan, aggiungendo che la Turchia intende continuare la sua attività di esplorazione dei giacimenti di gas con quattro unità navali di ricerca e prospezione. Ieri Ankara ha fatto un ulteriore passo per blindare l’accordo appena ratificato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale turca: il testo sui confini marittimi con la Libia è stato inviato all’Onu. Qualora il memorandum d’intesa dovesse essere accettato dalla comunità internazionale Ankara estenderà il proprio controllo su ampie porzioni del Mediterraneo orientale – comprese zone cruciali per possibili estrazioni di idrocarburi offshore – che sono rivendicate anche da Grecia e Cipro. Il patto è stato subito respinto oltre che dalla Grecia anche dall’Egitto e da Israele che da tempo ha istituito con Atene una collaborazione in ambito energetico proprio riguardo l’esplorazione e le perforazioni nelle acque nazionali greco-cipriote. “Il protocollo d’intesa con la Turchia è normale e tutela i nostri interessi”, ha respinto le accuse il ministro degli Esteri libico, Mohammed Syala. Intanto la situazione sul terreno libico è sempre più catastrofica. “Ci sono stati scontri nell’area di Tripoli con una mezza dozzina di raid aerei delle forze del generale Khalifa Haftar e colpi di artiglieria da parte delle milizie che appoggiano il premier Fayez al-Sarraj”, scrivono su Facebook gli uffici stampa delle due formazioni. Il primo ministro italiano, Giuseppe Conte, ha dichiarato a conclusione dei Med Dialogues di Roma: “Vorrei ribadire che non esiste una soluzione militare credibile alla crisi libica, ma che solo un processo politico inclusivo potrà condurre ad una stabilizzazione piena e duratura del Paese”. Secondo Conte “è necessario colmare l’ampio divario che separa la retorica pubblica e i comportamenti concludenti di tutti gli stakeholder locali e internazionali”.

Tu vuò fa’ l’ospedale americano

L’ospedale da campo è lì, appena oltre il Muro e gli stretti controlli di sicurezza israeliani. È in un campo abbandonato a ridosso della barriera di sicurezza, finora interdetto anche ai pastori con i loro greggi perché troppo vicino al valico, l’unico che consente ai palestinesi di Gaza – i pochi che hanno un permesso valido – di uscire dalla Striscia. Sono una decina le strutture mobili che i volontari di una potente Ong evangelica americana hanno montato, ma a progetto finito l’ospedale occuperà quasi cinque ettari per fornire una vasta gamma di servizi sanitari.

Un’iniziativa sorprendente quella degli evangelici a Gaza ed è evidente che senza un accordo con Israele la struttura non potrà essere realizzata e allo stesso tempo anche Hamas – che controlla la Striscia dal 2007 – ha dato il suo via libera. Il field hospital sarebbe parte dell’intesa sul cessate-il-fuoco raggiunto con la mediazione egiziana lo scorso mese fra Israele e Hamas. Ma è anche l’ennesima pietra della discordia fra le due anime dei palestinesi, la dimostrazione che Cisgiordania e Gaza sono sempre più due entità separate: Fatahland e Hamastan. La paludosa leadership di Ramallah, i fedeli del presidente dell’Anp Abu Mazen, bollano l’iniziativa come pericolosa: “È un progetto guidato dai donatori pro-Israele, ed è una base per operazioni di intelligence americane e israeliane a Gaza”. Certo già la sua esistenza, il modo in cui è stata pubblicizzata l’iniziativa da parte dell’Ong americana evangelica che lo gestisce, alimenta sospetti fra i palestinesi. Gli evangelici, che ormai dominano l’area del protestantesimo mondiale, sono stretti alleati di Israele perché vedono nello Stato ebraico e nel suo dominio su tutta la Palestina il realizzarsi delle profezie bibliche per il trionfo finale del “regno di dio”. Subito soprannominato “l’ospedale americano” dai gazawi, questa struttura è finanziata dall’organizzazione evangelica “Friend Ships” con sede in Louisiana, negli Stati Uniti. I suoi fondatori Don e Sondra Tipton sono molto attivi nel sostegno a Israele. “Friend Ship” ha finanziato migliaia di “Alyah” di ebrei Usa aiutandoli economicamente ad acquistare una casa in Israele (meglio se in una zona araba). Gli interessati rifiutano ogni dichiarazione, ma nel website della Ong il progetto viene descritto come “una struttura medica che sarà dotata di telemedicina per una consultazione mondiale con specialisti, sale operatorie, chirurgiche, reparti per il trattamento del cancro e molti altri servizi sanitari come la terapia per il Ptsd e le cure dentistiche”. Il tutto funzionerà con medici volontari della Ong che presteranno servizio a rotazione. “Friend Ship” vanta una buona collaborazione con le strutture della Difesa di Israele. Parte del materiale trasferito a Gaza è già stato utilizzato per un progetto simile sulle alture del Golan nel 2017-2018 con il permesso di Israele, dove il personale medico ha curato circa 7000 siriani. Il Cogat – l’organismo israeliano che si occupa del coordinamento con i Territori occupati – non rilascia dichiarazioni sulla vicenda, no comment anche dei portavoce dell’Idf. Israele e Hamas dal 2008 hanno combattuto tre guerre, il gruppo islamista non riconosce l’esistenza di Israele e l’establishment dello Stato ebraico giudica la Striscia un fucina del terrorismo. Eppure l’ospedale è il segno più evidente di un disgelo dopo la tregua mediata da Qatar, Egitto e Onu. I due milioni di abitanti della Striscia soffrono di una paralizzante carenza di energia e c’è un’alta povertà, un milione di persone vive con gli aiuti umanitari dell’Onu. Il blocco israeliano dal 2007 – in reazione agli attacchi dalla Striscia – ha certamente favorito la deriva di questa sovrappopolata lingua di sabbia.

Il settore medico è sovraccarico, gli ospedali sono cronicamente a corto di medicine, kit chirurgici, materiale per lastre, sensori, defibrillatori. Spesso mancano persino bisturi monouso e filo sintetico per i punti. In caso di successo il “field hospital” potrebbe fornire un’alternativa ai bisognosi. Khalil al Hayya, vice-capo di Hamas a Gaza, dice che i palestinesi hanno bisogno di aiuto da chiunque arrivi e “il lavoro dell’ospedale sarà valutato e se non sarà come annunciato verrà subito chiuso” e insiste sul fatto che “Hamas supervisionerà la struttura”. L’emergenza nella Striscia non consente polemiche fra Ong, ma in molti sottolineano lo scarso coordinamento del progetto con le altre iniziative. Inoltre, fanno notare che la posizione dell’ospedale americano è a pochi minuti di auto da due strutture ospedaliere nell’enclave palestinese: “Ciò di cui Gaza ha bisogno è denaro per pagare il personale medico, l’ingresso di nuove strutture mediche e farmaci, non di un ospedale da campo”.

“Non riesco più a seguire i figli”: un genitore su 3 si licenzia

Più di un genitore su tre di quelli che abbandonano il posto di lavoro in Italia lo fa perché non riesce a conciliare professione e figli insieme. Lo denuncia Uecoop, l’Unione europea delle cooperative, citando l’ultima Relazione annuale sul tema pubblicata dall’Ispettorato del lavoro a dicembre 2018. Lo scorso anno, dei 49.451 lavoratori che si sono dimessi o hanno risolto consensualmente il rapporto di lavoro, 20.212 (il 40,8%) hanno indicato tra le motivazioni l’“incompatibilità tra l’occupazione e le esigenze di cura della prole”. Nello specifico, 15.385 (il 31,1%) dichiarano di non farcela per la mancanza di parenti a dare un supporto, 3.907 (il 7,9%) per i costi troppo alti di asilo nido e/o baby sitter, 920 (l’1,8%) per la mancata ammissione del figlio al nido.

Uno stato di cose che sempre più spesso porta il welfare privato a integrare quello pubblico: al primo posto tra i servizi aziendali più richiesti, secondo dati di Assolombarda, ci sono proprio quelli che riguardano la scuola e l’istruzione dei figli (79%). Negli asili nido italiani, infatti, c’è posto solo per un bambino su quattro, contro il 33% fissato dall’Ue come parametro minimo per conciliare vita familiare e professionale. Per rispondere a questa domanda di assistenza, sottolinea Uecoop, sono sempre più diffusi asili aziendali per i figli dei dipendenti, oppure iniziative di mini-nido con “tate” che seguono piccoli gruppi in locali attrezzati, servizi forniti in gran parte da cooperative specializzate. Una soluzione meno costosa dell’iscrizione alle strutture comunali

Per questo la legge di Bilancio in discussione prevede che gli asili nido diventino gratis per le famiglie a reddito medio-basso già a partire dal 1° gennaio stanziando 100 milioni di euro per la costruzione e ristrutturazione di edifici da adibire proprio ad asili nido.