Momenti di intenso giornalismo in casa Adnkronos. L’agenzia di stampa diretta da Gianmarco Chiocci segue e racconta con ammirevole zelo le giornate di Matteo Salvini. E ne descrive anche i momenti più significativi. Come ieri, quando alle 18 e 45 è stato lanciato questo dispaccio: “Lega: Salvini romantico, posta tramonto e dedica alle ‘amiche’, boom di scatti in risposta”. La notizia è in effetti incandescente: l’ex ministro dell’Interno ha pubblicato sui social uno scatto del tramonto milanese, con un tatto e una sensibilità che hanno colpito molto Adnkronos: “Una foto con un cielo rosso, un albero spoglio in primo piano, un panorama romantico e la dedica a ‘voi amiche’”. Ancora più straordinaria è l’incontenibile reazione delle “amiche” di Matteo: “Sono tantissime che nel giro di pochi minuti gli rispondono, ‘ricambiandolo’ con decine di foto di tramonti italiani. Più di mille le repliche in un’ora, mentre si fa sera”. Un dato entusiasmante. E poi vogliamo parlare del tenore dei messaggi? Sì, Adnkronos ne vuole parlare: “’Buona serata Capitano, ti aspettiamo al più presto’, dice Cinzia. Cristina si limita a un ‘Grazie Maestro’. Franci: ‘Milano ore 17,15 abbiamo avuto lo stesso pensiero, anche io ho guardato il bellissimo tramonto’. Iole ringrazia pure lei: ‘grazie per questo spettacolo della natura che ci regali, felicissima serata a te grande Matteo’”.
Prima sottotono: applausi a Segre, Mattarella e Puccini
La più titolata nel parterre di supposti vip – ogni anno che passa sempre più circo Barnum – è certamente Vittoria Puccini, ancorché non parente del Giacomo papà di Tosca, che per la prima volta inaugura la stagione della Scala. È un Sant’Ambrogio dimesso quanto gelido: nei pressi del Piermarini ci sono più agenti delle forze dell’ordine (600) che curiosi. Mai viste transenne così deserte e contestazioni così educate (in piazza il centro sociale il Cantiere con i lavoratori del gruppo Auchan). Sarà forse merito della Prima diffusa, che porta l’opera in 36 luoghi della città, oltre che al Terminal 1 di Malpensa e anche, meritoriamente, all’Ospedale Niguarda, con una serata di gala per i degenti. Ma, si sa, è dentro il foyer che accade tutto, nell’ora prima della Prima. Per la serie strano ma vero, spiccano la donna-albero-di-natale, con l’abito d’organza adorno di led accesi e un arabo in divisa da sceicco (è il console degli Emirati Arabi, alla Prima per sponsorizzare una stilista); diverse signore in là con gli anni sfoggiano tiare di finti diamanti nelle acconciature laccate e una quantità di plastica consuetamente scandalosa, nonostante la minacciata tassa. Roba da far venire un coccolone a Greta.
La politica, in quest’anno pieno di incognite (l’anno scorso la Prima era sovranista), è rappresentata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, amatissimo alla Scala, che infatti incassa cinque minuti di applausi tutti per lui, prima dell’Inno di Mameli. Accoglienza super calorosa anche per la senatrice a vita Liliana Segre. Più tiepida per gli altri rappresentanti del governo: ci sono il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Nel Palco reale siede anche la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, più compunta di quanto non fosse qualche giorno fa a Palazzo Madama durante l’indimenticabile esibizione di Amedeo Minghi con il trottolino amoroso.
A volte ritornano: con il compagno di partito Ivan Scalfarotto, c’è l’ex ministra renziana Maria Elena Boschi, molto in ri-forma e stranamente elegante in abito di velluto firmato Armani (dimostrazione che stare al governo fa male); ma – udite udite – si rivede financo, forse in cerca di quid, Angelino Alfano, passato dalla politica alla presidenza del gruppo Rotelli (cliniche private, finanziamenti pubblici). In platea si accomodano i poteri forti (o quel che ne rimane). In prima fila, come ogni anno, Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo. Sua figlia Chiara è nel Palco reale a fianco del compagno Giuseppe Sala, sindaco di Milano. Ci sono Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa; Victor Massiah, ad di Ubi Banca forse in cerca di un buon partito per il suo istituto; Gabriele Galateri di Genola, in compagnia della moglie Evelina Christillin, presidente del Museo egizio di Torino e consigliere Uefa; Corrado Passera con signora in Valentino. Si vedono Diana Bracco, presidente del suo gruppo farmaceutico, Fabrizio Palenzona, eterno lobbista delle autostrade e molto altro, Emma Marcegaglia presidente Eni, il neopresidente Tim Salvatore Rossi. Assente invece Jean Pierre Mustier, numero uno di Unicredit, forse a causa degli ottomila esuberi annunciati. Il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco, con la moglie Laura Laera magistrato pure lei, dà il cambio a Francesco Saverio Borrelli, a capo della Procura ai tempi di Mani pulite scomparso lo scorso luglio, che non perdeva mai una Prima.
Mentre il sovrintendente Alexander Pereira fa gli onori di casa per l’ultima volta (dal 16 dicembre guiderà il Maggio fiorentino, sarà sostituito da Dominique Meyer) il foyer si affolla in un miscuglio di chic & kitsch che si vede solo qui: arrivano Patti Smith con la figlia, Carla Fracci, Dolce e Gabbana, la coppia Elodie-Marracash, i meno cool Barra-Santamaria, Roberto D’Agostino in tunica longuette. Adesso comincia lo spettacolo, o almeno dovrebbe.
Basta una buca e il paese è isolato. Da tre anni
I recenti disastri e tragedie hanno acceso i riflettori sullo stato di viadotti, ponti e strade in Italia, producendo polemiche, piani di intervento straordinario e, di nuovo, duri scontri sulle grandi opere. Ma il degrado del territorio è anche un antico, diffuso problema di piccole storie e di omessa manutenzione.
Via Carolano, per esempio. A 30 minuti dal Colosseo, non è una qualsiasi stradina di campagna. Dal centro storico di Montelibretti scende verso la vecchia Salaria. È una delle sole due arterie che collegano una comunità di cinquemila persone, alla nuova Salaria da un canto e alla Palombarese dall’altra. È anche la strada che porta al cimitero del paese. È, anzi era lì l’importante capolinea Cotral per Monterotondo, per la stazione di Passo Corese e, dal centro storico, per la città nuova, distante un chilometro circa.
Ma, da 22 mesi, via Carolano non è più praticabile. A causa di una frana, è stata interrotta e transennata. La natura si è rimpossessata degli spazi. E, se tutto va bene, l’isolamento di questa comunità non terminerà prima del luglio 2020. Con i disagi e le difficoltà di collegamento causati all’intero sistema di comunicazione stradale e di commerci fra la Salaria e la zona di Palombara e Tivoli.
L’autobus, essenziale per i numerosi pendolari montelibrettesi che lavorano a Roma, per i ragazzi che vanno a scuola e per anziani, malati e disabili, non può più arrivare in via Carolano per farvi la necessaria inversione di marcia. Il capolinea è stato spostato e l’inversione deve essere effettuata un po’ prima, a un crocevia stretto e pericoloso. Ma la Cotral, a cui pure capita di chiudere i bilanci in attivo, sostiene di non avere personale a sufficienza per supportare nella manovra gli autisti. Così, ogni mattina fra le 6 e le 8, e poi fra le 13:30 e le 15, alcuni volontari, compresi quattro amministratori comunali, devono essere lì per far compiere la manovra in sicurezza.
Tutto è cominciato la sera del 7 giugno 2016. Un’auto con due ragazzi sprofondò di muso in una buca, improvvisamente apertasi. Forse per la pioggia, si pensò. La buca fu coperta. Ma otto mesi dopo, nel febbraio 2018, la cavità si riaprì, rivelando un grottone sotterraneo o forse più grotte formate nel tempo, sotto la strada, da piccole sorgenti d’acqua. Per cui si transennò l’arteria. C’era da intervenire con urgenza. E invece no. Via Carolano non è di competenza comunale: è una provinciale. Ma la Provincia, la vecchia, bistrattata Provincia a elezione diretta, con consiglieri e assessori votati sul territorio, attenti ai disagi dei cittadini, pronti e interessati a intervenire, non c’è più. Ora c’è la Città Metropolitana di Roma Capitale e, malauguratamente, nel Consiglio Metropolitano a elezione di secondo grado, non c’è nessuno che rappresenti questo Comune confinante con il Reatino. Per cui: sì, vabbè, stiamo vedendo… E così, fra contatti istituzionali, pigri sopralluoghi, forse qualche carotaggio e ritardi motivati formalmente dal triplice vincolo sulla zona (idrogeologico, archeologico e paesaggistico), sono trascorsi già 22 mesi.
I soldi necessari all’intervento, circa 300 milioni, sarebbero stati già stanziati. Ora è alle viste la gara d’appalto: il termine per le offerte è il 17 dicembre. I lavori dovrebbero iniziare in gennaio ed essere conclusi in sei mesi.
Sperando che tutto ora proceda celermente, l’evanescenza del nuovo sistema amministrativo provinciale avrà costretto a disagi molto seri per ben tre anni un insieme di comunità a causa di una buca o un grottone. E a conferma della necessità – acclarata da mezzo secolo (più o meno dall’istituzione delle Regioni nel 1970) – di dare finalmente consistenza alla capacità di intervento pubblico per le esigenze e le problematiche di livello intermedio fra quello comunale e quello regionale.
“Sul Tav umiliazione nazionale. Mattarella ci spieghi il perché”
Il Tav deve essere fermato non solo perché inutile, ma anche perché i primi cantieri ledono già i trattati fra Italia e Francia. Lo sostiene il professor Avernino Di Croce, sindaco di Venaus (Torino) – uno dei Comuni della Val di Susa interessati dall’opera – che in queste ore ha inviato una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al quale compete la ratifica dei trattati internazionali previa autorizzazione del Parlamento, per chiedere lo stop.
Alle ragioni dei No Tav, che peraltro protesteranno oggi in un corteo da Susa a Venaus, si aggiunge dunque una questione tecnica, come sottolinea il sindaco nella lettera: “L’articolo 16 del Trattato 2012 (uno degli accordi Italia-Francia, ndr) prevede che ‘La disponibilità del finanziamento sarà una condizione preliminare per l’avvio dei lavori delle varie fasi della parte comune italo-francese della sezione internazionale’”. Prima il denaro, dunque, e poi i cantieri. Ma solo in teoria. Come spiega Di Croce, la parte comune italo-francese da Montmelian a Chiusa San Michele comprende anche i 58 chilometri della cosiddetta sezione transfrontaliera, quella da Saint-Jean-de- Maurienne a Susa-Bussoleno, per la quale dunque dovrebbe valere lo stesso principio. E invece Telt, la società responsabile della sezione transfrontaliera, “ha iniziato a spedire raccomandate ai cittadini” della Valle “in vista di espropri di terreni che sarebbero utilizzati per impiantare o allargare cantieri”. Il tutto senza che siano arrivati i soldi né dall’Italia né dalla Francia: “L’avvio dei lavori della sola sezione transfrontaliera – scrive il sindaco – risulta essere sospensivamente condizionata alla provvista certa di risorse finanziaria tali da coprirne interamente il costo della parte comune italo-francese, ma al momento non risulta che tale provvista sia disponibile”.
Né, appunto, per quanto riguarda gli obblighi francesi, “in quanto non sono stati approvati atti formali che disciplinino l’entità e la modalità di copertura della quota di competenza”, stimata in 4,13 miliardi “di cui non c’è traccia nel bilancio dello Stato”; né per la parte italiana, “in quanto la spesa autorizzata dal Cipe con la delibera 67/2017, pari a 2,56 miliardi, non copre la nostra quota”, che corrisponde a 5,49 miliardi. Per questo, scrive il sindaco a Mattarella, “non sussistono le condizioni giuridiche ed economiche perché i lavori definitivi possano iniziare”.
E invece Telt per il momento tira dritto, causando non pochi imbarazzi ai sindaci della Valle, che devono giustificare ai propri cittadini danni ambientali e finanziari che per giunta violerebbero gli stessi accordi di costruzione dell’opera. “Il mio disagio nei confronti dei nostri concittadini e dello Stato – confessa Di Croce – si acuisce osservando che una società di diritto francese possa avviare sul suolo nazionale italiano procedure di esproprio di abitazioni, terreni ed edifici storici senza un coinvolgimento delle nostre istituzioni. Non so cosa rispondere quando mi chiedono di spiegare il senso e il perché di una tal delega di sovranità, che pare una sorta di umiliazione volontaria dell’Italia”.
L’imbarazzo del sindaco sulla questione degli espropri si unisce alle già note battaglie sull’impatto ambientale e sullo spreco di denaro. La lettera a Mattarella è però nuova occasione per ribadire l’assurdità degli accordi: “Per completare il quadro del mio e nostro disagio – si legge – evidenziamo ancora una volta la ripartizione ineguale dei costi dell’opera a svantaggio dell’Italia: 42,1% a carico della Francia, 57,9% a carico del nostro Paese, pur trovandosi l’opera per quattro quinti in territorio francese”. Senza dimenticare che “lo Stato francese ha previsto di valutare la realizzazione dei lavori di propria competenza non prima del 2038”. Alla faccia della sbandierata urgenza dell’opera.
Ben 143 collaudatori sono dipendenti pubblici
Che bella confusione tra controllati e controllori. A verificare i lavori del Mose ci ha pensato, per il lavoro alle bocche di porto degli ultimi anni, una pletora di dirigenti pubblici. Per la cronaca: 43 del ministero delle Infrastrutture, 30 del Provveditorato alle Opere Pubbliche del Triveneto, 27 dirigenti di altri Provveditorati interregionali, 8 alti dirigenti dell’Anas… Anche quelli di Venezia che verificano ciò che hanno fatto alcuni loro colleghi d’ufficio, visto che il Consorzio Venezia Nuova ha sempre lavorato in stretto contatto con il Magistrato alle Acque, fino allo scandalo del 2014, e poi con il Provveditorato. Ecco l’elenco, in base al ruolo dichiarato nel momento di accettare il primo incarico.
Dirigenti Mit: Marcello Arredi (direttore generale), Pietro Baratono (Provveditore Lombardia), Antonio Umberto Battisti (Roma), Alessandro Calchetti, Loredana Cappelloni, Lorenzo Ceraulo (poi provveditore OOPP a Palermo), Vincenzo Cinelli (direttore generale), Giuseppe Conti, Giuseppe D’Addato, Roberto Daniele (poi provveditore interregionale a Torino e Venezia), Angela Maria Maddalena De Giorgio, Maurizio De Rugeriis, Pietro Destro Bisol, Francesco Dolce (poi provveditore interregionale Toscana), Nicola Duni, Antonio Erario, Andrea Ferrante (Consiglio Superiore Lavori Pubblici), Roberto Ferrazza (Provveditore), Susanna Gara, Giovanni Grimaldi, Carlo Guglielmi, Giovanni Guglielmi, Stefano Hsia, Domenico Iannaccone, Gianluca Ievolella, Riccardo Jorio (distaccato dal comune di Arcugnano, provincia di Vicenza), Corrado Lo Schiavo, Antonio Lucchese, Walter Lupi, Paola Marini (Gabinetto del ministro), Angelo Mautone, Benedetto Mercuri, Luigi Minenza, Maria Pia Pallavicini, Gaetano Antonio Pellegrino, Emanuele Renzi, Ruggero Renzi, Fabio Riva, Francesco Sabato, Francesco Santini, Lorenzo Sbraccia, Massimo Sessa, Bernadette Veca (direttore).
Provveditorato Interregionale alle Opere Pubbliche di Venezia: Giovanni Assalone, Giorgio Barbato, Giuseppa Battaglia, Iessica Bisso, Alfredo Caielli, Sandro Casellato, Silvio Chiarin, Mario D’Alba, Deborah Di Lascio, Paola Gentile, Ernesto Luca Jovino, Paola Juris, Francesco Libonati, Roberto Linetti (Provveditore), Giuseppe Maccario, Chiara Manganotti, Luigi Maniero, Francesco Mengardo, Giorgio Moretto, Valter Pescosolido, Claudia Pisani, Maurizio Pozzato, Franco Proia, Alfredo Riondino, Ivano Santin, Michela Scarpa, Mauro Serafini, Andrea Siega, Cinzia Zincone, Maria Adelaide Zito.
Altri Provveditorati OOPP: Ciro Autiero(Roma), Roberto Battistini (Rovigo), Enrico Bentivoglio (Roma), Moreno Canton (Belluno), Donato Carlea (all’epoca provveditore del Lazio, attuale Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici), Antonio Cassarino(Roma), Maria Lucia Conti (Firenze), Gianni Della Mora (Roma), Francesco Errichiello (Lazio), Pietro Falco (Belluno), Moreno Ferrari (Firenze), Giovanni Fiore (Roma), Antonella Greco (Milano), Pierluigi La Carpia (Trieste), Giorgio Lillini (Trieste), Fabio Maffei (Trento), Savino Maiello (Trieste), Natale Emanuele Maria Maione (Roma), Luciano Meneghel (Roma), Francesco Musci (Puglia), Miriam Nardelli (Roma), Mario Nobile (Roma), Marco Passarino (Roma), Alfio Prestianni (Trento), Renzo Renai (Firenze), Franca Vampo (Calabria), Valerio Volpe (Roma).
Anas: Massimo Averardi (direttore generale programmazione), Alfredo Bajo (condirettore generale), Piero Buoncristiano (capo del personale, ad Cav), Pietro Ciucci (presidente). Mauro Coletta, Eutimio Mucilli (capo compartimento Veneto e Friuli, ad Cav), Ruggiero Pinto, Vincenzo Pozzi (presidente).
Altri Enti Pubblici: Mario Basili (Agenzia Italiana del Farmaco), Mariano Carraro (dirigente Regione Veneto), Gualtiero Cesarali (Salt Autostrade), Fernando Cifelli (Inail), Vincenzo Fortunato (ministero Economia e Finanza), Marco Lupo (Regione Siciliana), Eric Marcone (Autorità Portuale Trieste), Calogero Mauceri (consigliere Presidenza del Consiglio dei ministri), Angelo Spena (professore Tor Vergata), Nicola Torricella (Autorità Portuale Venezia), Silvano Vernizzi (dirigente Regione Veneto).
Ruolo non comunicato: Arturo Accolla, Alessandro Alfi, Alessandra Borzomati, Antonio Bossola, Mario Cangiano, Ciriaco D’Alessio, Giorgio Dall’Aglio, Gianni Di Gregorio, Guido Geminiani, Enea Giuliani, Manlio Guadagnuolo, Massimo Lombardi, Manuela Manenti, Emilio Maraini, Francesco Molinini, Gabriele Novembri, Valeria Olivieri, Maria Costanza Pierdominici, Sergio Ragozzino, Carlo Villatico Campbell, Flavio Zanchettin.
Mose, il nuovo affare è la spesa di manutenzione (già triplicata)
“Uno degli emendamenti che depositeremo alla manovra prevede i 100 milioni di euro che sono i costi di gestione annua di manutenzione delle barriere anti-alluvione per i prossimi tre anni”. Poche ore dopo la notte di paura del 12 novembre, quando a Venezia fu raggiunta la seconda alta marea di sempre con 187 centimetri, il segretario leghista Matteo Salvini diede l’annuncio in conferenza stampa. Un po’ enfatico, sull’onda dell’emozione, ma significativo. Per la prima volta un uomo di governo, seppur non più in sella, ha formalizzato la cifra che servirà per far funzionare le dighe mobili. E nessuno lo ha smentito, anche perché in realtà la cifra vera non la conosce nessuno. Nello stesso giorno, il 13 novembre, nella sede della Protezione civile a Mestre, sia il governatore Luca Zaia sia il sindaco Luigi Brugnaro hanno accusato il Consorzio Venezia Nuova di aver tenuto le amministrazioni locali all’oscuro dell’iter dell’opera. E hanno chiesto: “Vogliamo un ruolo nella fase di manutenzione, che non può prescindere dal territorio”.
Adesso che tutti dicono di volerlo finire, in Laguna è partito l’assalto alla diligenza del Mose. Perché mantenerlo in funzione costerà un sacco di soldi e la partita che si giocherà, ora che il governo ha nominato il super commissario Elisabetta Spitz, sarà molto impegnativa. Prima dell’arresto, l’ingegnere Giovanni Mazzacurati, il padre del Mose, aveva confidato che quella sarebbe stata la fonte di nuovi guadagni. La “cricca” pensava di non dover mai andare in pensione. Lui è morto prima.
Ma quanto costerà davvero? La risposta non è facile perché il progetto generale da quasi 6 miliardi non ha ancora un piano di manutenzione. “Il progetto è stato scomposto e codificato secondo una Work Breakdown Structure (WBS) e ogni WBS risulta suddivisa in diverse Work Breakdown Element (WBE), ovvero più unità elementari di struttura”. Esistono singoli piani di manutenzione per ogni unità, ma solo “dalla conclusione dei lavori al completamento dell’intera WBS”. E questi piani prevedono un costo dello 0,2 per cento, ma limitato all’analisi finale demandata al Piano generale di manutenzione a fine lavori. Che è un libro tutto da scrivere. Così hanno comunicato Francesco Ossola e Giuseppe Fiengo, amministratori straordinari del Consorzio Venezia Nuova, all’onorevole Giuseppe L’Abbate del Movimento 5 Stelle che prima di diventare sottosegretario aveva chiesto un accesso agli atti. “È una grave anomalia poiché ogni opera pubblica viene realizzata sulla base di un progetto accompagnato da un Piano di Manutenzione”, commenta.
Il progetto di massima di manutenzione delle opere mobili, nel 1992, aveva paragonato i costi (05-0,6 per cento) a quelli della diga sulla Schelda in Olanda, ma realizzata senza permanenza delle paratoie nell’acqua, se non quando era necessario. Il Mose è sempre sott’acqua e la conseguenza è l’erosione feroce dei materiali. Lo 0,6 per cento, sulla base dei primi progetti del Mose (costo ipotizzato: 710 miliardi di lire nel 1982), avrebbe portato a un costo annuo di neppure 5 miliardi di lire. Niente, rispetto alla realtà, visto che il costo è stato moltiplicato di 17 volte. Ma anche nella peggiore delle ipotesi si sarebbe arrivati a qualche decina di milioni di euro l’anno. Invece siamo, stando a Salvini, a quota 100 milioni. L’Abbate: “In questo caso l’incidenza percentuale del costo di manutenzione dell’1,66 per cento è quasi tripla dell’iniziale 0,6”.
Lo schema del piano complessivo di manutenzione non è mai stato contestato. Tantomeno dai collaudatori recenti del Mose, uno stuolo di 140 dirigenti del ministero delle Infrastrutture, del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche di Venezia e di altri Provveditorati. Tecnici esperti, tra cui l’attuale presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Donato Carlea, o gli ex presidenti dell’Anas Pietro Ciucci e Vincenzo Pozzi. “Negli anni di collaudo tecnico amministrativo prodotti e relativi alle varie parti del Mose, non si riscontrano (con l’eccezione della Commissione cerniere) particolari osservazioni dell’organo di collaudo in merito all’esistenza del Piano di Manutenzione, alla sua coerenza con la realtà e alla sua corretta attuazione” scrivono Ossola e Fiengo. Una semplice presa d’atto di quanto dichiarato dai direttori lavori. Profumatamente pagata.
“Italia nei guai con l’acciaio? Arcelor è europea. L’India non si intromette”
“Qual è la mia opinione su ArcelorMittal in Italia?”, riflette sornione l’indiano Subrahmanyam Jaishankar, ministro degli Esteri. E poi risponde perentorio: “ArcelorMittal e la fabbrica italiana (l’ex Ilva, ndr) sono un problema europeo”. ArcelorMittal è franco-indiana e ha sede in Europa, ma la Jindal dell’acciaieria di Piombino è indiana: “Il nostro governo non s’intromette in faccende che riguardano aziende private. Noi ci comportiamo così. L’Italia non ci ha mai coinvolto sull’argomento”.
Jaishankar è un diplomatico di rango, già ambasciatore in Cina e negli Usa nonché segretario generali agli Esteri per tre anni, prima di guidare la diplomazia indiana è stato presidente dell’azienda che controlla il gruppo Tata, fatturato di oltre 100 miliardi di dollari, comunicazioni, automobili, ingegneria, finanza e anche acciaio. Jaishankar conosce l’industria pesante perché ha seguito da vicino il progetto di fusione – bloccato dalla commissione europea – tra ThyssenKrupp e Tata Steel.
Il diplomatico distacco con cui il ministro si sofferma sulla famiglia Mittal, che ha origini indiane e risiede a Londra, spiega il ruolo che l’India vuole interpretare nel mondo fin troppo compresso dalla rivalità fra Washington e Pechino: “Noi non saremo una seconda Cina, non puntiamo sulla manifattura. Esporteremo fuori quello che siamo dentro: il nostro approccio è molto diverso dai cinesi”. Nell’abecedario della geopolitica, oggi l’India viene considerata l’alternativa prediletta degli americani per contrastare l’egemonia cinese in Asia, ma Jaishankar fa capire che l’India ha l’ambizione di partecipare al tavolo dei grandi, non di supportare l’uno o l’altro che già vi siedono: “Entro dieci anni saremo la terza economia del mondo, entro cinque la nazione più popolosa”.
Il governo di Nuova Delhi non cerca rapporti esclusivi con l’Italia e Jaishankar è prudente a non commentare l’adesione di Roma al memorandum di Pechino per la nuova Via della Seta, un accordo che l’India non ha sottoscritto perché una rotta passa per il Pakistan e che gli americani contestano. Washington suggerisce agli alleati – anche all’Italia – di rafforzare le sinergie commerciali e infrastrutturali proprio con gli indiani per contenere i cinesi. Il ministro ha dedicato due giorni all’Italia per la conferenza sul Mediterraneo e per incontri con parlamentari, per esempio con la senatrice Roberta Pinotti, ex ministro della Difesa; con l’ex premier Paolo Gentiloni, appena nominato Commissario europeo all’Economia e poi ha parlato in privato col premier Giuseppe Conte e il suo omologo Luigi Di Maio, neanche un accenno – dicono da canali ufficiali di Palazzo Chigi – alle vicende di Taranto.
Jaishankar sostiene che l’India collaborerà con l’Italia per “pulire l’industria energetica” indiana: “Roma ha grosse capacità nei settori della tecnologia e delle rinnovabili”. E rivendica la firma del patto di Parigi sul clima: “Per colmare il divario di fiducia tra i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo”. Non può mancare una domanda sui due marò: “È in corso l’arbitrato internazionale, rispetteremo l’esito”.
Ilva, ora Mittal è fuori: si tratta sul risarcimento per lo Stato
Il futuro dell’ex Ilva di Taranto sembra già scritto. Nonostante la presunta trattativa in corso, ArcelorMittal non ha intenzione di restare. Due giorni dopo l’incontro che ha fatto infuriare i sindacati, i vertici del gruppo avrebbero consegnato al ministero dello Sviluppo un documento contenente una proposta per lasciare l’Ilva pagando una penale e riconsegnandola entro aprile prossimo all’amministrazione straordinaria. Il tavolo della trattativa, insomma, è cambiato: non più su esuberi e investimenti, ma sul prezzo da pagare per stracciare il contratto firmato nel 2018.
A marzo 2017 il colosso si era aggiudicato l’Ilva per 1,8 miliardi (da pagare nel 2021, decurtati del canone di affitto), ma oggi “offre” 1 miliardo per poter andar via. Nella somma sarebbero contemplati 500 milioni come penale per ricostruire i magazzini dei materiali svuotati in questi mesi, 90 milioni di fideiussione depositati al momento della firma e la rinuncia a qualsiasi pretesa sui circa 400 milioni di investimenti ambientali già fatti.
Al governo, però, non basta. L’esecutivo vorrebbe che siano aggiunti altri 350 milioni a copertura delle mancate manutenzioni e 500 milioni a titolo di penale per aver violato il contratto. L’accordo ancora non c’è, ma nei palazzi romani non si esclude che una somma tra gli 1,3 e 1,5 miliardi possa accontentare tutti consentendo di sciogliere il contratto e chiudere il procedimento civile aperto a Milano.
Trattare l’uscita di Mittal è sempre stato il “Piano B”, ma l’atteggiamento del colosso ora non sembra lasciare molta scelta al governo. Anche il Tesoro, principale sponsor della trattativa a ogni costo coi franco-indiani, sembra averne preso atto. Al vertice di martedì scorso, l’ad della multinazionale Lucia Morselli si è presentata con la richiesta di 4.700 esuberi (oltre 6 mila contando i dipendenti rimasti in capo all’amministrazione straordinaria) in cambio di un contentino in ottica “decarbonizzazione” del siderurgico e della promessa di alzare la produzione da 4,5 a 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Impostazione considerata offensiva dal ministro Stefano Patuanelli, tanto più che sul comportamento del gruppo e sulle extra-perdite macinate nel 2019 pendono le indagini di Milano e Taranto da cui si attendono novità a breve.
Nel “dopo Arcelor” serve comunque un piano per salvare l’ex siderurgico pubblico e uno – a grandi linee – ne esiste già. Il governo punta a mantenere in vita l’area a caldo con due altiforni: il numero 4 (capace di produrre 2,5 milioni di tonnellate l’anno) e il gigantesco 5, che va rifatto (costo: 230 milioni) e può produrre fino a 4 milioni di tonnellate.
L’avvio della decarbonizzazione passerà attraverso l’uso del cosiddetto “preridotto”, un minerale di ferro prodotto col gas che può alimentare in parte gli altiforni tradizionali e totalmente uno o due forni elettrici: l’impatto ambientale del preridotto è sensibilmente inferiore. Questi nuovi impianti consentirebbero di tornare a produrre circa 8 milioni di tonnellate annue di acciaio, soglia essenziale per tenere in vita Ilva senza licenziare.
Per completare i nuovi forni elettrici servirebbero circa 28 mesi, per rifare l’altoforno 5 ci vuole circa un anno: nel frattempo Ilva a Taranto andrà avanti con gli altiforni 1, 4 e 2. Su quest’ultimo, però, pende un sequestro con facoltà d’uso per un incidente sul lavoro del 2015 e, siccome non tutte le prescrizioni della Procura sono state eseguite, è arrivato l’ordine di spegnimento entro venerdì prossimo: i commissari Ilva hanno chiesto una proroga di 9 mesi avendo attuato nuove prescrizioni e presentato un programma per quelle mancanti; la custode Barbara Valenzano non pare contraria; ora deciderà il giudice Francesco Maccagnano.
Se si guarda il piano industriale del governo si ha come un déjà vu: è all’ingrosso quello della cordata di Cassa depositi e prestiti coi soci industriali Arvedi (Italia) e Jindal (India), cordata sconfitta proprio da ArcelorMittal e Marcegaglia a marzo 2017 grazie alla più alta offerta economica.
I soldi per i nuovi investimenti del piano arriveranno dalla “penale” pagata da Mittal, mentre il governo dovrà intervenire subito con un prestito ponte (intorno ai 400 milioni) per consentire la gestione ordinaria. Il piano potrebbe passare anche dalla costituzione di una nuova società con soggetti pubblici come Invitalia, controllata del Tesoro che da Statuto interviene anche nelle crisi industriali. Nei piani c’è poi il coinvolgimento delle grandi partecipate come Snam (il gas appunto), mentre Cdp fornirà solo supporto. Alla finestra restano soggetti privati italiani, interessati a intese commerciali sul preridotto, ma solo coi Mittal fuori.
Quel che davvero manca è l’uomo a cui affidare il rilancio: per il ritorno dell’Ilva dopo 25 anni alla gestione pubblica servirebbe una figura di grande esperienza nel settore, che il governo, al momento, non ha trovato. Francesco Caio, presidente di Snam e consulente dell’esecutivo su indicazione di Cdp, non s’è mai occupato di siderurgia.
“L’hanno fatto con me e pure contro Nardella”
“Che ci fosse un accordo tra Renzi e Verdini l’ho capito un po’ dopo, sono stato ingenuo ma trasparente: a me la politica fatta pensando solo ai propri interessi non piace proprio”. Giovanni Galli, ex portiere della Fiorentina e campione del mondo nel 1982 con la Nazionale di calcio, nella sua breve carriera politica ha avuto a che fare con le trame, spesso occulte, tra i due toscani Matteo Renzi e Denis Verdini. Nel 2009 fu proprio lo sherpa berlusconiano a sceglierlo contro il rampante “rottamatore” per diventare il sindaco di Firenze, ma poi lo lasciò solo durante la campagna elettorale facendo pensare a un accordo per non ostacolare Renzi. Adesso, ai due se n’è aggiunto un altro che ormai nella villa fiorentina di Denis bazzica spesso, per via della relazione con la figlia Francesca: Matteo Salvini.
Si parla di un patto tra Renzi e Salvini a casa di Verdini sulla tenuta del governo e le elezioni regionali in Toscana: le sembra possibile?
Può darsi di sì, le vie della politica sono infinite e i personaggi sono quello che sono.
Si spieghi meglio.
La politica fatta in quella maniera lì non mi riguarda: fanno tutto tranne gli interessi dei cittadini. Pensano solo ai propri.
Renzi avrebbe chiesto al leader del Carroccio un candidato debole in Toscana in cambio della caduta del governo. Ricorda molto quando il Pdl scelse lei, senza alcuna esperienza politica, per non disturbare il “rottamatore”.
Sì, e pensare che, nonostante tutto, ho messo in difficoltà Renzi portandolo al ballottaggio. Io ho sempre fatto tutto in maniera onesta, candidandomi a testa bassa per i fiorentini: col senno di poi è andata meglio così. È stata una bellissima esperienza e devo ringraziare poche persone, ma certo non Verdini.
Vi sentite più?
No, ma quello che mi ha dato fastidio è stato che Verdini dopo il voto si vantava di avermi candidato, pur non essendosi quasi mai fatto vedere nei 15 giorni del ballottaggio. Furono 20 mila fiorentini a scrivere Giovanni Galli sulla scheda, non il Pdl: il risultato non era il suo, tant’è che nelle tornate successive hanno preso sempre scoppole. L’unico del centrodestra che è andato al ballottaggio a Firenze sono stato io. Verdini invece probabilmente dava già per persa la mia sfida: sembra che a Firenze e in Toscana non ci sia l’interesse a ottenere una vittoria del centrodestra.
Dice che il suo non è stato un caso unico?
Pensi a Ubaldo Bocci, candidato solo un mese prima del voto alle Amministrative di maggio, contro un candidato molto forte come Dario Nardella, che a Firenze aveva già governato per dieci anni, prima come vice di Renzi e poi come sindaco vero e proprio. Mi è sembrato un po’ strano.
Ora potrebbe succedere lo stesso alle Regionali.
Rimarrei deluso. Se fosse così, non capisco perché Salvini continui ad andare in giro a dire che vuole conquistare la Toscana vantandosi di aver vinto in tutte le province. In questo caso il centrodestra qui morirebbe sotto la dittatura dei giochetti politici. Cosa corriamo a fare allora?
Renzi in cambio gli promette la caduta del governo.
Io questo non lo so, però sarebbe un tradimento per gli elettori.
E dell’ex premier cosa ne pensa?
(Lungo silenzio, ndr) Renzi è una persona che conosco, ma mi è indifferente: se lo incontro lo saluto, se no sto bene uguale. Per il resto è astuto e molto bravo: se va a presiedere un’assemblea in cui metà sono musulmani e metà cristiani, all’uscita i cristiani penseranno di essere diventati musulmani e viceversa.
Bonaccini fa la “sardina” e spera nel voto disgiunto
“Era tanto tempo che non cominciavamo una campagna elettorale in piazza. Ci siamo accollati un rischio, ma ne valeva la pena”. Stefano Bonaccini vince la scommessa e a Bologna riempie piazza Maggiore con (almeno) 10mila persone per il lancio della sua corsa al bis come governatore dell’Emilia-Romagna. Il confronto con le Sardine, che qui sono nate proprio in contrapposizione alla Lega, non delude. È proprio a loro che Bonaccini dal palco si rivolge, in particolare a Mattia Santori il portavoce ufficiale mescolato tra la folla: “So che c’è Mattia in piazza, lo saluto e lo ringrazio. Aver conteso questi luoghi alla destra è il primo merito che va riconosciuto alle Sardine, il secondo aver mostrato quante gente non aspettasse altro di riempire le piazze con un linguaggio opposto a quello di questa destra, senza rabbia, rancore, maleducazione e astio”.
L’applauso più grande dal Crescentone è per loro. Ma sono piazze diverse, non si può negare, basta guardare le prime file riempite da molti anziani. La scelta musicale, affidata ai Casadei di Romagna mia confermerebbe l’impressione.
Il secondo riferimento di Bonaccini è al Movimento 5 Stelle: anche se non viene nominata, il pensiero corre alla consigliera regionale Raffaella Sensoli che ha aperto al voto disgiunto: “Chiederemo a tutti gli elettori di riflettere e scegliere con attenzione. C’è la possibilità del voto disgiunto e vedo già con sorpresa che in diversi dichiarano di volerlo praticare, si può scegliere senza rinunciare alla propria lista. Non era meglio confrontarsi sui programmi anziché arroccarsi in un isolamento che rischia di rendervi irrilevanti? Davvero noi e la destra siamo uguali?”.
Parole a cui fa eco Roberta Lombardi, capogruppo nel Lazio: “Vorrei che il Pd ci facesse una proposta netta, da mettere al voto su Rousseau”. Ipotesi immediatamente sconfessata dal senatore modenese Gabriele Lanzi – “Il tempo dei consoli romani è finito” –, ma Bonaccini sa bene che in Emilia-Romagna i grillini stanno facendo fatica a comporre le liste e non sono da escludere sorprese last minute. Unico big in piazza è l’ex premier Romano Prodi: “È stato un bell’inizio, l’Emilia-Romagna va bene e gli elettori lo capiranno, mi auguro di sì”. Numerosi invece gli endorsement a distanza, tra i primi, il segretario del Pd Nicola Zingaretti e il sindaco di Parma, ex M5S, Federico Pizzarotti: “Ora abbiamo tutti la possibilità di realizzare un sogno, fare dell’Emilia-Romagna la regione della cultura e dell’istruzione; la prima regione sostenibile; la terra per eccellenza dei diritti, delle libertà e dei doveri. Questo non è un voto contro qualcuno, ma un voto per l’Emilia-Romagna”.
Tante le bandiere presenti, quelle dei diversi partiti dell’arco di centrosinistra (Pd, Italia Viva, Europa Verde, Coraggiosa, Socialisti) e quelle rimaste nell’armadio per un po’, come quella arcobaleno per la pace e quella con l’edera dei repubblicani. A ruba la maglietta col logo ufficiale della campagna: il viso stilizzato del governatore nel suo nuovo look con occhiali a goccia e barba curata. Dietro al palco tra i consiglieri regionali con un posto sicuro in una delle sei liste di supporto, c’è entusiasmo e la sensazione di potercela fare. I sorrisi diventano più tirati quando lo scrittore Alessandro Bergonzoni, in video-messaggio, rivendica “porti aperti e ius soli, l’Emilia-Romagna non confina solo con il Trentino come ha detto qualcuno ma anche con Lampedusa, noi siamo per unisci e impara, non per il divide et impera”.
Temi da cui Bonaccini stesso si è svicolato in occasione della convention bolognese del Partito democratico dello scorso mese: “Ius soli? Le priorità in questo momento sono un grande piano di prevenzione contro il dissesto idrogeologico e cambiare la plastic tax. Quando si affermano diritti non c’è mai un momento giusto o non giusto, ma bisogna calibrare bene il tono sugli argomenti”. Il comizio in piazza a Bologna si chiude sulle note di Vasco Rossi, che canta “tutto è possibile, un mondo migliore”.