Il Patto dei 2 Matteo: la Toscana a Renzi in cambio delle urne

In principio fu il “patto delle sardine” tra Bossi, D’Alema e Buttiglione – siamo nel dicembre 1994 – per far cadere il primo governo Berlusconi. Poi vennero tutti gli altri accordi gastronomici della storia politica italiana: dal “patto della crostata” a casa di Gianni Letta in cui il leader maximo, Berlusconi e Fini salvarono la Bicamerale passando per il “patto dell’arancino” di Palermo con cui i leader del centrodestra si riunirono in vista delle Politiche del 2018, fino a quello di pochi giorni fa tra i due Mattei, Renzi e Salvini: il “patto del Chianti” è stato ribattezzato.

I bene informati dicono che alla tavola imbandita nella villa di Denis Verdini sulle colline fiorentine, Pian dei Giullari per la precisione, i due acerrimi nemici abbiano stretto un accordo in grado di cambiare le sorti politiche del Paese nei prossimi mesi: Renzi avrebbe chiesto a Salvini l’appoggio su una legge elettorale che gli permetta di restare in Parlamento (basso sbarramento) e una sorta di “desistenza” alle Regionali toscane di maggio; in cambio lui farebbe cadere il governo Conte dopo Natale o, al più tardi, dopo le elezioni in Emilia e Calabria.

I protagonisti e i loro sherpa, dopo la pubblicazione del retroscena sulla Stampa, hanno passato tutta la giornata di venerdì a provare a smentire la notizia, ma che l’incontro ci sia stato viene confermato al Fatto Quotidiano da due fonti che conoscono bene sia Renzi che Salvini e hanno avuto modo di leggere le loro conversazioni quasi quotidiane. “Domenica scorsa tutti e due erano in Toscana, Salvini dopo la cena di sabato sera a Firenze con gli amministratori leghisti, Renzi a Pistoia per il lancio di Italia Viva – la butta lì un parlamentare di lunga data – chissà che non si siano visti proprio nel pomeriggio…”.

Le mosse degli ultimi giorni dei due leader fanno pensare che il “patto” sia molto più realistico di un banale retroscena fantapolitico. Da una parte, in Toscana, il Pd si è dovuto piegare al nome di Eugenio Giani imposto proprio da Italia Viva, ma le altre forze della coalizione – Verdi, Sì Toscana a Sinistra e Articolo 1 – vedono il presidente del consiglio regionale come fumo negli occhi e alla fine potrebbero decidere di andare da soli, forti del 6% raccolto alle regionali del 2015.

Lo stesso vale per il M5S che un dinosauro della politica come Giani, per giunta proveniente dal Psi, non lo appoggeranno mai, neanche al ballottaggio. Ed è per questo che Renzi ha una paura tremenda del secondo turno che, per il Toscanellum benedetto proprio da Verdini, viene evitato se un candidato ottiene almeno il 40% dei voti. Solo che a quella soglia Giani ci deve arrivare e, senza il sostegno della sinistra e dei 5 Stelle, l’ipotesi di un ballottaggio “tutti contro Renzi” si fa più realistica. A patto che, dall’altra parte, il centrodestra non scelga di opporre a Giani un candidato molto debole regalando la vittoria al centrosinistra già al primo turno: una “desistenza” già sperimentata alle amministrative di Firenze nel 2009 con Giovanni Galli e nel 2019 con Ubaldo Bocci. Nell’incontro di Arcore di venerdì, Salvini avrebbe ottenuto da Berlusconi e Meloni di poter scegliere il candidato e in pole position ci sono due sindaci: quello di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna e quello di Pistoia Alessandro Tomasi, che hanno voti solo nel loro territorio e fuori sono poco o nulla conosciuti.

L’idea di Salvini è sempre stata quella di candidare la “zarina” di Cascina Susanna Ceccardi, che alle scorse elezioni di maggio è stata eletta al Parlamento Europeo facendo il pieno di preferenze nella circoscrizione Centro – 48 mila di cui 32 mila solo in Toscana – ma le sue quotazioni sono scese di molto nelle ultime settimane (“Non posso candidarla a tutto, lavorerà bene in Europa” aveva detto Salvini a Firenze a inizio novembre) e nessuno ha mai capito il motivo. Adesso potrà preferirle un candidato molto più debole. In cambio Renzi, che ogni giorni attacca il governo su qualcosa, gli regalerebbe la gioia di far cadere il suo acerrimo nemico, Giuseppe Conte.

“Io, magistrato e whistleblower a Bruxelles, vi dico che l’Europa non tutela chi denuncia”

Catania

Carmen Giuffrida è una whistleblower, una di quelle figure che segnalano irregolarità nella Pubblica amministrazione mettendo tutto nero su bianco e spesso cacciandosi nei guai. Di mestiere fa il magistrato: prima pm, poi giudice in Corte d’appello a Catania, adesso è esperto nazionale presso il Consiglio dell’Unione europea, dopo aver partecipato a un bando del ministero della Giustizia. Dieci anni fa venne distaccata a Sarajevo come capo dell’ufficio legale della missione di polizia dell’Ue. Era lì perché credeva nella pace, ma vi trovò l’inferno.

Che accadde?

Insieme a una collega spagnola, il 17 marzo 2009, segnalai una serie di irregolarità nei contratti del personale, nelle procedure disciplinari e nella gestione di fondi europei.

Ebbero un seguito le denunce?

Solo contro di noi. La mia collega fu licenziata e io, dopo soli 21 giorni, con un provvedimento privo di motivazione, fui declassata e trasferita a Banja Luka, città a più di quattro ore di montagne e di tornanti da Sarajevo. Lì cominciai a subìre un mobbing pesantissimo: prima esclusa dal comitato di coordinamento delle pari opportunità, senza neanche essere informata, poi rimossa dall’incarico di presidente del collegio arbitrale Nato. Un giorno il colonnello Walter Greco della Nato, mi riferisce che il collega Domenico Paterna, colonnello dei Carabinieri e vice capo missione, gli aveva chiesto di redigere un parere con false informazioni sulla mia persona. Greco però si rifiutò e mi raccontò tutto. Fui costretta a chiedere al ministro di Giustizia italiano di essere rimpatriata.

Il ministero era stato informato di quello che succedeva?

Avevo avvisato già da tempo diverse autorità italiane. Ne erano a conoscenza il capo di Gabinetto del ministero, Settembrino Nebbioso, Fabrizio Di Michele, della Rappresentanza permanente italiana e l’ambasciatore italiano in Bosnia Raimondo De Cardona. Tuttavia ero solo un magistrato italiano, donna, e per di più non appartenente ad alcuna corrente né appoggiata politicamente.

Cosa risposero?

Che nelle missioni europee non si applica la Carta dei diritti umani, che evidentemente la mia presenza non era gradita al capo missione e infine che avrei fatto meglio a lasciare la missione.

Quanto è stato penalizzante l’essere donna?

Parliamo di due donne che denunciano in una missione di polizia in cui la maggior parte del personale, in particolare le posizioni di vertice, era composto da uomini. Dopo il mio trasferimento anche il mio posto di capo dell’ufficio legale fu assegnato a un poliziotto uomo. Eppure si tratta di una posizione assai più connaturale a un magistrato che a un poliziotto.

Ha fatto ricorso?

Il 16 giugno 2010 presentai un ricorso contro il Consiglio dell’Unione europea. Dopo otto lunghi anni è arrivata la sentenza che mi vede soccombente. Ma è la stessa Corte europea a sostenere che il mio trasferimento possa una punizione per aver segnalato. Tuttavia, paradossalmente, secondo i giudici non c’è prova che il trasferimento sia avvenuto “principalmente” per via del whistleblowing. Ora la causa è stata rinviata al primo giudice per violazione del contradditorio.

In attesa della decisione ha aperto la pagina Facebook “An Italian whistleblower”…

Voglio sensibilizzare la gente sul tema: da un lato l’Ue chiede agli Stati di elevare il livello di protezione dei whistleblower, ma dall’altro non lo garantisce al suo interno.

Il brindisi di Casellati con l’amica stilista e il figlio condannato

Sempre al fianco delle donne, ci mancherebbe. Come l’amica del cuore Rosy Garbo, sua stilista di fiducia. È tutto bello, per carità: i sorrisi, i brindisi, il lusso, i gioielli e soprattutto gli abiti di gran moda esposti a favore di telecamere e obiettivi attratti come mosche dalla presenza di Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’amica delle italiane. Peccato per quell’uomo di troppo: Mauro Belcaro, figlio dell’amica del cuore, che la Presidente conosce da quando lui aveva i pantaloni corti, ma con il vizio intollerabile – e non solo per via del #metoo – di palpeggiare aspiranti modelle.

Un brindisi che Belcaro ha colto al volo per rifarsi il look su Facebook accanto all’amata madre stilista e alla presidentessa del Senato Casellati, simbolo del riscatto delle donne, quelle che ce l’hanno fatta, che il 30 novembre ha aperto ufficialmente i festeggiamenti per il santo Natale proprio nella sua Padova, nell’atelier di moda che frequenta da trent’anni in Passaggio San Gaudenzio. Dove, ogni settimana, va a scegliere un capo nuovo, come quello che ha sfoggiato all’atto dell’investitura a Palazzo Madama e prima ancora, quando Sergio Mattarella le ha affidato l’incarico esplorativo per formare il nuovo governo dopo le elezioni del 4 marzo 2018. O quando, indimenticabile, per l’ultima Festa delle donne, ha voluto trasformare l’emiciclo in un giardino fiorito. Talmente tanto che la camionata di mimose piazzate sui banchi dell’aula per l’occasione, è stata alla fine rimossa dai commessi sfiniti dalle proteste dei senatori disturbati dall’olezzo esagerato.

Un piccolo incidente che le è stato perdonato. Insieme agli altri scivoloni d’etichetta che hanno in questi mesi infarcito le cronache.

Sino al brindisi natalizio padovano dell’altro giorno, dove le cronache hanno registrato anche l’ultimo capolavoro sartoriale della casa, il doppio petto con reverse di seta verde con cui Casellati si è fatta immortalare in foto in compagnia dell’amica stilista e del bel Mauro, che ha pensato bene di farne la propria immagine del profilo Facebook.

Un omaggio alla madre? Una forma di esibizione per così illustre presenza? O un messaggio della serie, vedete con chi sono io? Fatto sta che la fotografia campeggia dalle 12:41 del 5 dicembre sulla pagina del suo diario.

Mauro Belcaro, oltre ad aiutare nell’attività materna, è noto per le disavventure giudiziarie a sfondo sessuale nella piccola Padova dove anche i muri hanno orecchie. Non sono passate inosservate le denunce fioccate sul giovane che ora pensa di impegnarsi alla cura della linea moda dedicata agli uomini. Lui dice di aver le mani pulite, ma sono già costati cari i provini con un paio di ragazze che avevano fatto casting per diventare modelle e che poi avevano presentato denuncia a suo carico.

Un primo caso nel 2014, con una 22enne vicentina che denunciò di essere stata attenzionata nelle parti intime e di cui spuntò anche un video. Finì davanti al giudice dove Belcaro, assistito dall’avvocatessa Paola Rubini dello studio straberlusconiano del senatore Nicolò Ghedini, grande amico della Casellati, si dichiarò innocente. Alla fine aveva versato in via stragiudiziale un risarcimento di 30 mila euro per evitare la costituzione di parte civile. Cosa che non gli ha evitato la condanna a un anno e quattro mesi, con il riconoscimento della lieve entità del fatto. Lui ha fatto ricorso in appello.

Ma poi c’è stato anche un secondo episodio risalente a ottobre 2016: un’altra ragazza rispose all’annuncio di ricerca di modelle e poi dopo il casting eccola presentarsi pure lei ai carabinieri. Di Prato della Valle a Padova per fare denuncia, sempre contro il bel Mauro, figlio della stilista amica della presidente. Anche quella volta lui negò ogni responsabilità. Ma poi lo scorso gennaio ha patteggiato un anno e 4 mesi, sempre con risarcimento. Prosciolto, invece, in un’indagine relativa alla detenzione di materiale pedopornografico trovato nel suo computer dopo l’avvio delle altre due inchieste. Denunciato per competenza a Venezia, fu provato che le immagini provenivano dagli Stati Uniti, ma assolutamente a sua insaputa.

Bavaglio Orlando: un altro rinvio, poi modifiche (e liti)

Èla settimana che comincia domani quella che costringerà il governo a mettere mano a un’altra spina nel fianco finora evitata come la peste: la riforma “bavaglio” delle intercettazioni targata Orlando, mai entrata in vigore. Accadrà a gennaio.

Sul tavolo del ministro Alfonso Bonafede, infatti, ci sarà la lettera dei principali procuratori che esprimono preoccupazione per l’avvio del nuovo regime senza una norma transitoria. Un vero guaio per le indagini in corso, altro che “disastro” per la nuova prescrizione.

Finora, la riforma delle intercettazioni è stata bloccata da tre proroghe, sempre per volere di Bonafede. L’ultima, ad agosto, scade tra pochissimo, il 31 dicembre. Ma non si può certo ignorare l’allarme dei procuratori di Milano Francesco Greco, di Firenze Giuseppe Creazzo, di Napoli Giovanni Melillo, di Palermo Franco Lo Voi e del facente funzioni a Roma, Michele Prestipino. Il governo, dunque, dovrà affrontare una delle mine vaganti per la maggioranza giallorosa.

I procuratori, nella lettera destinata al ministro chiedono di sapere quale norma si debba applicare da gennaio per le intercettazioni già in corso e per quelle nuove ma che saranno effettuate in indagini già avviate. In merito alle preoccupazioni dei procuratori, anticipate dal Fatto, ambienti del Pd vicini ad Andrea Orlando ribattono che bisogna chiedersi perché il ministro Bonafede finora non abbia fatto nulla. Domanda retorica, dato che anche per il Pd è chiaro che Bonafede non ha fatto nulla perché quella riforma non l’ha mai digerita. D’altronde, il suo primo atto da ministro della Giustizia del Conte 1, a luglio 2018, fu quello di bloccare la riforma intercettazioni. E non è un mistero che volesse riscrivere la normativa. Prima, però, aveva la zavorra della Lega, che la legge bavaglio l’ha sempre voluta e ora deve vedersela con il Pd e il suo vicesegretario, padre di quella riforma che, in assenza di una quarta proroga, andrà in vigore dal primo gennaio. Anche se Bonafede potrebbe trovarsi faccia a faccia non più con Orlando ma con il futuro responsabile Giustizia del Pd, che potrebbe essere Walter Verini.

La lettera dei procuratori, che porrà anche il problema dell’assenza di strumenti necessari col nuovo regime, sarà per Bonafede una carta da giocare, al di là delle intenzioni dei magistrati, per proporre ai dem un altro differimento prima di fine anno. Il Pd non vuole alzare un muro, assicurano esponenti democratici, ma a patto che ci sia “un riconoscimento di inadempienza” di Bonafede: una sorta di mea culpa per non aver fatto che semplici differimenti. Quindi un’eventuale altra proroga dovrà essere accompagnata da una dichiarazione di intenti. Cioè Bonafede, filtra dal Pd, dovrà dire chiaramente cosa vuole buttare e cosa tenere.

E allora, con l’anno nuovo, lo scontro è assicurato perché in via Arenula si pensa di neutralizzare due punti cruciali. Il primo è quello che dà alla polizia giudiziaria, cioè a uomini legati gerarchicamente all’esecutivo, anziché al pubblico ministero, indipendente dal governo, il potere di giudicare la rilevanza penale delle intercettazioni da riassumere nel brogliaccio (il riassunto per il magistrato) e l’irrilevanza delle altre , di cui potrà indicare soltanto la data e l’ora, e non più la sintesi del contenuto. Le intercettazioni irrilevanti finirebbero chiuse in archivi segreti sotto responsabilità dei pm. Gli avvocati difensori, alla ricerca di prove a discolpa di un cliente indagato o imputato, potranno solo ascoltarle, senza farne copia e neppure prendere appunti. Un lavoro immane, costoso, che solo gli abbienti sotto inchiesta potranno garantirsi. Altro punto, questo della compressione del diritto alla difesa, che Bonafede vorrebbe cancellare.

Poco prima che la riforma fosse approvata, accadde quello che non era mai successo: i pubblici ministeri e gli avvocati penalisti si ritrovarono fianco a fianco contro quella riforma. Gli uni soprattutto preoccupati per la sorte delle indagini, in particolare di mafia e corruzione, per le quali le intercettazioni sono fondamentali, gli altri, per il diritto negato alla difesa. Per non parlare dei giornalisti, da sempre contrari a tutti i tentativi di vari governi di mettere il bavaglio col pretesto della privacy. In realtà, le intercettazioni che finirebbero in una cassaforte potrebbero essere irrilevanti penalmente ma socialmente, politicamente, assai rilevanti per il diritto all’informazione. E, dal punto di vista dei pm e degli avvocati, quelle che all’inizio appaiono ininfluenti possono rivelarsi in seguito fondamentali per provare la colpevolezza o l’innocenza degli indagati.

Carta di discredito

Avevano scritto che il governo giallo-rosa stava cadendo; invece non è caduto manco stavolta. Avevano scritto che Conte non dormiva la notte perché stava per essere smentito dal mitico “rapporto Barr” sulle fondamentali informazioni top secret sul Russiagate spifferate sottobanco dai nostri 007 a Trump in cambio del tweet pro “Giuseppi”; invece al momento non risultano smentite, semmai conferme alla sua versione (zero notizie a Barr). Avevano scritto che il premier, in una delle notti insonni di cui sopra, aveva firmato il Mes di nascosto dal Parlamento e da Salvini; invece si è scoperto che non aveva firmato nulla e tutto ciò che aveva fatto l’aveva comunicato a Salvini tra gli applausi e i silenzi dei leghisti. Avevano scritto che Di Maio era pronto a rovesciare il governo per tornare con Salvini; invece non l’ha fatto. Avevano scritto che nei 5Stelle era pronta una scissione, uno scisma, un esodo, una fuga di massa di 70, anzi 50, anzi 17, anzi 12, anzi 10, anzi 5 parlamentari contrari alla linea troppo filo-Pd, anzi troppo filo-Lega di Di Maio; invece per ora non se n’è andato nessuno. Avevano scritto che Conte stava per essere incastrato dalle carte delle Iene sulle sue parcelle a mezzadria col suo esaminatore Guido Alpa; invece Conte ha incastrato le Iene sulle loro stesse carte. Avevano scritto che il premier stava per cadere sul parere legale fornito a Fiber 4.0 poco prima di diventare premier e di decidere su Fiber 4.0 in pieno conflitto d’interessi; invece si è scoperto che decise tutto Salvini (a sua insaputa).

Avevano scritto che il governo non sarebbe mai sopravvissuto alla legge di Bilancio, per via dei 5 mila emendamenti, di cui 1700 presentati dalla maggioranza; invece ogni anno gli emendamenti sono altrettanti e tutti i governi vi sopravvivono, incluso l’attuale. Avevano scritto di una finanziaria “tutta tasse”; invece non solo ha sventato l’aumento da 23 miliardi dell’Iva e ridotto un po’ le imposte sui lavoratori, ma ha pure eliminato o rinviato le microtasse sulla plastica (male), gli zuccheri (male) e le auto aziendali (bene). Avevano scritto che l’emergenza rifiuti a Roma è colpa della sindaca Raggi che non ha trovato nuovi impianti di smaltimento; invece la Commissione europea ha messo in mora la giunta Zingaretti minacciando nuove procedure d’infrazione perché gl’impianti sono competenza delle Regioni, non dei Comuni, e la giunta Zingaretti ha poltrito dal 2013, quando fu chiusa Malagrotta (la discarica più grande d’Europa), riuscendo a non varare mai il Piano rifiuti con i nuovi impianti per ben sette anni, fino a tre giorni fa.

Avevano scritto che mai la blocca-prescrizione sarebbe scattata il 1° gennaio 2020, sennò l’Italia sarebbe precipitata dalla civiltà alla barbarie; invece si è scoperto che nella barbarie abbiamo vissuto finora, con 120 mila processi prescritti all’anno (un decimo della media Ue) e – salvo sorprese – la blocca-prescrizione andrà regolarmente a regime a Capodanno, per la gioia delle vittime e dei migliori magistrati e per la rabbia dei delinquenti e dei loro difensori. Avevano scritto che mai il governo giallo-rosa avrebbe osato varare le manette agli evasori, perché – signora mia – in trent’anni non c’è riuscito nessuno; invece le manette agli evasori (pene più alte, soglie di impunità più basse, intercettazioni e confische più facili, responsabilità penale anche per le imprese) sono nel decreto Fiscale del governo giallo-rosa. Avevano scritto che il Conte2 è “senz’anima” e non sta cambiando nulla, quindi era molto meglio votare; invece qualcosa sta cambiando, come dimostrano i dati Inps sulla povertà assoluta ridotta del 59-60% dal Reddito di cittadinanza, quelli del Viminale sull’aumento dei clandestini espulsi (ora abbiamo persino un ministro dell’Interno), gli elogi del “Greco” (l’Anticorruzione del Consiglio d’Europa) alla legge Spazzacorrotti e il fatto che un anno fa parlavamo di navi di migranti, spread alle stelle, infrazione Ue, Flat Tax, condoni fiscali, e ora non più.

Avevano scritto che il governo giallo-rosa fa il gioco dei due Matteo; invece Renzi boccheggia attorno al 3-4% nei sondaggi e si contende la maglia nera col neonato partito di Calenda, abbaia ma non morde, minaccia ma non rompe (a parte le palle), inseguito dalla Guardia di Finanza e spaventato dall’idea di votare e non superare neppure la soglia di sbarramento; e Salvini è talmente tonico che cala nei sondaggi (a giugno era sul 40%, ora sul 31, malgrado gli sforzi di destra, centro e sinistra per gonfiargli le vele), regala punti alla Meloni, millanta messaggi dalla Madonna di Medjugorije (non si sa se via Whatsapp o nella posta privata di Facebook), mangia Nutella a favore di telecamera poi la scomunica poi la ridivora in poche ore, combatte il Mes senza sapere cosa sia, debutta su TikTok con imbarazzanti piegamenti a suon di musica collezionando commenti spernacchianti, prende sberle da Conte ogni volta che si affaccia in Senato, appena sbarca in una città trova piazze piene, ma di Sardine, non di leghisti, ed è così terrorizzato dalla prospettiva di altri tre anni di opposizione da chiedere aiuto a Renzi e Verdini, noti portafortuna. Avevano scritto (gli opposti cazzari leghisti e antileghisti) che la legge Salvini sulla legittima difesa avrebbe trasformato l’Italia in un Far West fascista, dando licenza di uccidere i ladri e legando le mani ai pm; invece il custode di una villa del Bolognese è stato appena indagato per omicidio preterintenzionale per avere sparato alle spalle a un ladro, proprio come avveniva prima della strombazzatissima e inutilissima schiforma. Avevano scritto che il primo problema d’Italia è la politica; invece si scopre che è il secondo: il primo è l’informazione.

Bene, ma non (ancora) benissimo: botteghino 2019 in timida ripresa

L’attesa del piacere è essa stessa Checco Zalone. Un comparto tutto attende il 1° gennaio 2020 per fare il botto. Tolo Tolo ha nome in codice – lo spettro di possibili significati va dal “Tacchino Tacchino” al più probabile “Stupido Stupido” – ma missione palese: ammazzare il box-office. E già nelle ultime ore se n’è avuto un assaggio con il video “Immigrato”. Compito misericordioso, invero. Forte e però ansiato dei 65 milioni rastrellati dal precedente Quo vado? (2016), riuscirà Luca Medici, per la prima volta anche regista dopo il divorzio da Gennaro Nunziante, a eguagliare o addirittura superare il suo migliore risultato? Non c’è alcuno che gufi, perché ne va, si capisce, delle sorti del sistema cinema tricolore. Checco Zalone è l’eccezione che invalida la regola, un suo film è promessa di sconvolgimento al botteghino. Se il mese di novembre appena concluso è il sesto migliore degli ultimi dieci anni e il primo degli ultimi cinque con 59 milioni 132mila e 854 euro, nondimeno Robert Bernocchi sul daily Cineguru lo giudica “un novembre così così”, e per scovarne uno davvero sorprendente tocca ritornare a Zalone, alla sua opera terza Sole a catinelle: distribuito il 31 ottobre del 2013, portò gli incassi del mese seguente a quasi 90 milioni di euro (89.580.561 euro). Cose da pazzi.

Insomma, non c’è scongiuro che tenga, il 2020 si candida già ad anno straordinario ossia ad Anno Z(alone), eppure quello corrente non è da buttare via: anche novembre ha fatto meglio dello stesso mese del 2018, e da gennaio fin qui è accaduto altre sette volte.

Non c’è però da esaltarsi troppo, se gli incassi tra gennaio e novembre – nota Cineguru – sono al quinto posto degli ultimi dieci anni. Forse aurea, comunque mediocritas, e per scalare almeno una posizione a discapito del 2015 toccherebbe mettere in cascina a dicembre più di 88 milioni: riusciranno Il primo Natale di Ficarra & Picone (uscita il 12 dicembre), il nono Star Wars L’ascesa di Skywalker (18), il Pinocchio di Matteo Garrone, con Roberto Benigni Geppetto (19), La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek (19) e il sequel Jumanji: The Next Level (25) a far cassa?

I nostri colori, dopo le attuali discrete prove de Il giorno più bello del mondo di Alessandro Siani e Cetto c’è, senza dubbiamente con Antonio Albanese, sono chiamati a un surplus di gusto e sostanza, perché a oggi c’è da piangere, e quasi a dirotto: nei primi undici mesi del 2019 la quota di mercato del cinema italiano è piantata al 17%, dunque chiudere al 31.12 sotto il 20% è una triste realtà.

Moviement reidratando l’estate al cinema, afflitta da endemica siccità, con titoli di richiamo finalmente programmati tra maggio e agosto, ha fatto da volano alla riscossa sull’annus horribilis 2018, tuttavia l’effetto sulla compagine italiana, per eccesso di “timidezza” degli stessi registi/produttori/distributori nazionali, è lungi dall’essere dirompente e dirimente. Che fare? Innanzitutto, certificare i vincenti della stagione cinematografica, quelli che secondo il campione Cinetel hanno venduto più biglietti da dicembre 2018 a novembre 2019. Sul podio delle distribuzioni Walt Disney, Warner Bros e 20th Century Fox, i tradizionali Biglietti d’Oro dell’Anec, consegnati nei giorni scorsi alle Giornate di Sorrento, premiano tra gli italiani 10 giorni senza mamma di Alessandro Genovesi, La befana vien di notte di Michele Soavi e Amici come prima di Christian De Sica, nonché Il Re Leone, Joker e Avengers: Endgame quali i più visti in assoluto.

Dunque, tre sfumature di commedia nostrana, la versione live action di un classico animato e due – per quanto uno eterodosso – superhero movies: c’è spazio per il cinema d’autore tout court? Non a questi livelli di preminenza, però, tra gli altri, Il traditore di Marco Bellocchio, Parasite di Bong Joon-ho e anche Dolor y gloria di Pedro Almodóvar hanno saputo conquistare parimenti critica e pubblico. Ora si sfideranno nell’award season: il 9 dicembre le cinquine dei Golden Globes, il 16 la shortlist per il Best International Feature Film degli Oscar, prima il 7 quelli europei degli EFA.

“Abbiamo una radio”: i rapper italiani fondano e dirigono Trx

Dopo un periodo di fisiologico rodaggio è ufficialmente partita Trx, una radio monotematica a base di rap fondata da alcuni numeri uno del genere: Salmo, Ensi, Guè Pequeno, Clementino, Marracash e Fabri Fibra. Fondatori, editori e direttori artistici riuniti allo stesso tavolo per dar vita – quali imprenditori – all’idea di Paola Zukar, figura di riferimento dell’hip hop italiano e storica manager di Fibra, Marra e Clementino.

“Tutto nasce nell’aprile dell’anno scorso”, racconta Paola, “all’inizio di questa avventura ho avuto il sostegno prezioso di Ferdinando Salzano: si è fidato di una mia idea. A oggi abbiamo 298.000 download (60 per cento su Android e 40 su Ios), una cifra considerevole per una radio verticale. Con le anteprime dei brani di Marra e Salmo Trx è andata in tilt: c’erano 45.000 persone collegate nello stesso momento; adesso stiamo facendo l’upgrade. Francesco Zerbinati e Francesco Prisco sono le persone che tecnicamente si sono spese per costruire questa radio, in otto-dieci mesi di duro lavoro, due ragazzi giovanissimi. Abbiamo inaugurato i nuovi studi messi a disposizione da Radio Italia: ci hanno dato la struttura e la totale autonomia. Alla presentazione ho riunito i sei fondatori su uno stesso palco solo per vederli insieme, cosa che hanno fatto senza problemi, è la forza del rap”.

Colpisce l’unione di sei personaggi leader in Italia, una “fratellanza” inimmaginabile nel rock o in altri ambiti musicali. Del resto basta dare uno sguardo ai feauturing dei primi 50 brani di Spotify per capire la differenza di mentalità. Proprio Spotify ha sancito lo sdoganamento dell’hip hop nel nostro Paese rendendolo mainstream, lo dimostrano i dati dei brani più ascoltati del 2019: È sempre bello di Coez, seguito da Charlie Chales & Dardust, Fred De Palma feat. Ana Mena, Salmo feat. Nstasia e, infine, Mahmood. E negli album il botto ottenuto lo scorso anno da Sfera Ebbasta (anche nelle vendite) è della crew di Salmo, Machete Mixtape 4, seguito ancora da Salmo con Playlist e con la novità – in quinta posizione – di Tha Supreme, il producer diciottenne di Fiumicino che ha spiazzato tutti con il suo rap swingato.

Proprio lui è l’attuale dominatore assoluto dello streaming e delle vendite, ospitato nell’ultima puntata di X-Factor si è esibito con il suo avatar, un mix di diavoletto e angelo a tinte porpora. Paola apre una polemica sul modo di raccontare il fenomeno del rap in Italia: “Le radio tradizionali, tranne alcune eccezioni, sono ancora conservatrici. I media all’estero sono avanti nel conoscere e nel divulgare la musica rap. Comunque non è una mia ambizione sbarcare in Fm. I ragazzi in auto usano app e bluetooth; sarebbe un costo proibitivo, preferisco dirottarlo sui contenuti”. E già sono parecchi a guardare il palinsesto: “Mensilmente i sei rapper ci danno la loro playlist e selezionano i brani, sono molto diversi tra loro”.

Si parla tanto di bad boys ma qui si combatte il nemico numero uno della nostra era: “La cosa della quale sono più orgogliosa è che da noi non esiste algoritmo. Niente è scelto da algoritmo ma tutto da esseri umani, artigianalmente”. Clementino vede soprattutto il lato sociale: “Noi con Trx possiamo dare spazio a tanti ragazzi che fanno musica rap e vogliono farsi ascoltare”.

Rinforza il concetto Ensi: “I social media ti permettono di arrivare ovunque, perché in tutta questa grandissima possibilità di reperire informazioni, di saperne qualcosa in più, sicuramente Trx può essere un po’ un faro”. “È un po’ come nel cinema, no?” chiosa Fibra, “quando guardi un film, ti piace ma non l’hai capito. E poi guardi le interviste del regista e degli attori e lì ti si aprono dei mondi, e dici ‘ah, volevano dire questo’”. “Diciamo che in questo momento con lo streaming si assiste a una democrazia totale”, sottolinea Guè, “Trx è importantissima perché c’è dietro un fattore culturale di knowledge, di conoscenza”. “Sono anni che ci chiediamo come mai non sia mai esistita una radio hip hop”, riflette Marracash, “malgrado il successo travolgente del genere, anche in Italia finalmente”. Il più entusiasta è Salmo: “È una figata, quando iniziamo? È già tardi. Subito”.

L’anno zero del Natale: ridere serve a salvare Gesù

Non hanno paura della concorrenza Ficarra & Picone, vuoi che si chiami Star Wars o Pinocchio, anzi “lo invitiamo al cinema poi se disturba il pubblico con il naso lungo lo facciamo spostare…” scherzano i due comici palermitani, pronti a festeggiare i primi 25 anni di “matrimonio artistico”. E forse un po’ di ragione ce l’hanno, perché il loro Il primo Natale ha tutte le carte in regola per assecondare i gusti del grande popolo delle famiglie italiane: divertimento garbato, intreccio narrativo accattivante, e soprattutto il recupero dell’iconografia natalizia tradizionale, riportata letteralmente ab origine e quasi in situ, essendo gran parte del film girato in Marocco, praticamente un immaginario da eterno presepe vivente.

La Medusa ha confermato di credere in loro, affidandogli alla sesta regia (la quarta “da soli”) la propria commedia di Natale, una responsabilità assoluta parlando in termini di aspettative al botteghino, con un’uscita extralarge in 600 copie dal 12 dicembre. “Questo film non poteva che stare sotto l’Albero” asseconda Giampaolo Letta, vicepresidente e amministratore delegato della società di proprietà Mediaset. Da parte loro, (Salvo) Ficarra & (Valentino) Picone hanno restituito la fiducia, giurando col sangue di rispettare le 10 settimane di riprese e un budget (non da poco) di 11 milioni di euro messo insieme dalla Tramp Ltd di Attilio De Razza. Un ricco production value che salta subito agli occhi alla visione del film, illuminato dalla fotografia di Daniele Ciprì sulle rigogliose scenografie di Francesco Frigeri, mentre in termini di cast spicca la presenza di un istrionico Massimo Popolizio nelle vesti di Re Erode. Ma al duo siculo, rivelatosi quanto mai perfezionista, interessava soprattutto colpire nel segno con una sceneggiatura che spaccasse. Ecco allora ad affiancarli le penne sia di Fabrizio Testini sia della richiestissima superstar Nicola Guaglianone, per una scrittura durata mesi, sintomo preparatorio di un’opera con tutti i crismi.

Insomma, Il primo Natale di nome e di fatto (è la prima volta che F & P escono a Natale…) era destinato a diventare una commedia formato kolossal, e come tale doveva oltrepassare – senza bypassarla – la pura comicità. “È un soggetto che abbiamo in testa da anni, e in sintesi è il racconto rivisitato del compleanno di Gesù, quello vero, che noi due riportati all’anno zero, andiamo a salvare”. Al centro c’è l’espediente narrativo del viaggio nel tempo che conduce casualmente “i nostri” dalla Sicilia contemporanea alla Palestina del dicembre A.D. Se Ficarra è il cinico ladro Salvo, “specializzato” in oggettistica sacra, Picone è don Valentino, il parroco di Roccadimezzo Sicula, letteralmente ossessionato dai presepi viventi. Questi è infatti all’allestimento della nuova natività che sta infatti lavorando, fra preparativi millimetrici e un casting da far impallidire Hollywood, perfino dei poveri buoi delle campagne limitrofe. Quando il primo capita nella chiesetta dell’altro intenzionato ovviamente a rubarne i tesori, i due vengono spediti all’origine dei tempi con tutti i malintesi che ne conseguono. È chiaro che il viaggio temporale non sortisca originalità alcuna, da Ritorno al futuro a Non ci resta che piangere etc, ma l’effetto comico che ne deriva resta magicamente immutato, specie se dietro e davanti all’obiettivo ci sono le maschere degli eredi Ciccio & Franco, perché ormai così figurano Ficarra & Picone.

Attraverso la comicità, si diceva, si raggiungono temi alti, su cui svetta l’attenzione al diverso, soprattutto se arriva dal mare e da “lontano, molto lontano” come i migranti d’Africa che tentano di approdare – giustappunto – in Sicilia. “Non abbiamo mai voluto esplicitare questi argomenti: li abbiamo lasciati sullo sfondo senza calcarvi la mano”.

E a margine, ma fino a un certo punto, è anche la riflessione che i 48enni registi/attori fanno a proposito del massimo premio cinematografico italiano, il David di Donatello, alla cui iscrizione avevano tolto L’ora legale per protesta. “Il regolamento del premio è stato modificato grazie ai cambiamenti apportati da Piera Detassis, il nostro gesto del 2017 intendeva mettere l’accento su un’istituzione che seguiva meccanismi superati. Il problema è stato condiviso da molti, oggi siamo pronti a iscrivere Il primo Natale”.

“Vietato scrivere di Zanchetta: così ho rotto l’omertà”

Gustavo Zanchetta arrivò al vescovado di Orán, Salta, una provincia nel nord-ovest dell’Argentina, nel 2013. Si presentò come “l’amico di papa Francesco”, ed era così che ne parlavano i media locali. Qui la chiesa è un punto di riferimento importante, ha da sempre un ruolo centrale nella società, tanto che Salta è considerata la provincia più conservatrice e religiosa in Argentina. Secondo la “Encuesta Nacional sobre creencias y actitudes religiosas”, un’indagine nazionale sulla professione di fede, a Salta 8 su 10 sono cattolici (a livello nazionale, la media è 6 su 10). E tale è il peso della chiesa che, due anni fa, si è dovuti ricorrere alla Corte suprema di giustizia – il più alto organismo giudiziario del Paese – per interrompere l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Tutto inizia nel 2017. Il vescovo Zanchetta – all’improvviso – lascia prematuramente la guida della diocesi di Orán. La versione ufficiale riferisce di “problemi di salute”. In seguito, si avranno sue notizie in Spagna e, sempre nel 2017, arriverà la conferma della sua assegnazione all’Apsa in Vaticano. Questa notizia destò subito diversi sospetti: Zanchetta aveva lasciato il suo incarico senza salutare nessuno, lasciando addirittura le sue cose personali. Inoltre, se aveva abbandonato le sue funzioni a causa di problemi di salute, perché stava lavorando a Roma?

Scoprii che era riuscito a scappare dal vescovato di Orán, finendo addirittura nella residenza del papa, nonostante le accuse di “abuso di potere” e “molestie sessuali nei confronti di alcuni seminaristi” che cinque sacerdoti avevano sollevato in un vecchio documento interno alla diocesi. Di questi cinque sacerdoti, furono tre quelli trasferiti dall’allora nuovo vescovo che aveva preso il posto di Zanchetta: trasferimenti parsi a molti delle ritorsioni per aver parlato. “Zanchetta è a Santa Marta, vive col papa e i sacerdoti che lo hanno denunciato vengono invece spediti in luoghi sperduti”: questo era quello che la gente iniziava a dire. E la rabbia, e il risentimento, intanto crescevano. È stato proprio questo risentimento la breccia iniziale. Riuscì a rompere il silenzio che aveva sempre protetto la chiesa cattolica, e iniziarono a venire allo scoperto, anche a Salta, i primi testimoni di abusi del clero.

È così che siamo arrivati alla prima denuncia a carico di Zanchetta. Gli abusi denunciati erano avvenuti nel seminario di San Juan XXIII. “Perché i seminaristi denunciano solo adesso? Perché, visto che adulti, non hanno detto di no?”. Si chiedevano in tanti, nel tentativo di riporre nuovamente la responsabilitá sulle vittime. Ma qui non c’era solo una torbida storia di abusi sessuali. C’era anche l’abuso di potere, dovuto al ruolo di Zanchetta come ministro del culto e “amico del papa”. “Noi lo denunciamo e, in risposta, se lo sono portati a Roma”, dicevano alcuni dei seminaristi coinvolti. Tutti, peraltro, provenienti da contesti poveri: un altro elemento di vulnerabilità per le vittime. Salta è infatti una delle province più povere del Paese. Uno dei seminaristi che ha denunciato le violenze è orfano e, a causa degli abusi ricevuti e del processo che finalmente ora inizierà in tribunale, ha deciso di abbandonare il seminario e oggi, per vivere, fa il venditore ambulante.

Nel frattempo, i seminaristi che inizialmente si erano spinti a parlare, si zittirono. La “vittima zero” – il primo seminarista che aveva parlato delle violenze sessuali – ci raccontò in un’intervista come, davanti all’omertá del vescovo che aveva sostituito Zanchetta, decise di chiamare un avvocato. Fu grazie ai consigli del legale che riuscì a presentare una denuncia penale. Le vittime erano di più: ma a denunciare furono solo in due. Quelli che, non solo avevano avuto il coraggio, ma anche quelli che erano stati in grado di farlo. Quando arrivò la prima conferma sulle reali motivazioni dietro la fuga di Zanchetta – le denunce, e non i problemi di salute – il mio caporedattore Carlos Russo non ebbe dubbi sul pubblicare la notizia. “Un vescovo amico del papa denunciato e rifugiato a Roma, a Santa Marta”: per noi era la Storia delle storie degli abusi del clero pubblicate fino a quel momento in Argentina.

Una volta rotto il silenzio, riuscimmo a far venire alla luce altri casi: quello del prete Fernando Paez, per esempio, anche lui denunciato per abusi sessuali e segnalato come “complice” di Zanchetta. Mentre scrivevamo tutta la storia da un piccolo paese, ai piedi delle Ande, i media nazionali non facevano altro che parlare genericamente di “un sacerdote di Salta denunciato per abusi”. Solo dopo che i media internazionali ripresero la notizia, le cose cambiarono. Ma poco. Per capire l’atteggiamento che persiste nell’informazione in Argentina, il direttore del giornale nazionale più diffuso nel Paese, alla domanda sul “perché non avete raccontato prima il caso Zanchetta”, ha risposto: “Ma quello è il papa”. Il silenzio era difficile da rompere. Ma non impossibile, evidentemente.

Scrivevano “Cerniere inossidabili”. Ma ora ci vogliono 34 milioni contro la ruggine

“Il gruppo cerniera-connettore è stato progettato affinché le parti fisse del gruppo rispettino il requisito di vita utile di 100 anni senza che siano previsti interventi di manutenzione ordinaria per gli elementi esposti all’acqua di mare”. Indistruttibili, capaci di raggiungere il secolo di vita senza interventi di manutenzione. Così viene descritta, nei piani redatti dai tecnici, la componente più delicata del sistema Mose. Le paratoie, infatti, si possono alzare fino a formare una diga mobile solo se funzionano le cerniere: un meccanismo formato da una parte maschio, una parte femmina e un gruppo di aggancio.

Peccato che su quelle cerniere ci sia già la ruggine, visto che il Consorzio Venezia Nuova ha bandito la scorsa estate un appalto da 34 milioni di euro per cercare imprese in grado di ovviare a questa criticità, considerando che la durata delle cerniere, secondo alcune perizie, si sta riducendo per alcune sue componenti ad alcune decine di anni.

Finora ciò che si sapeva è che le cerniere avessero dei problemi. Non si conosceva però che, nella documentazione tecnica, ci fosse nero su bianco la rassicurazione dell’inossidabilità alla corrosione marina delle cerniere, salvo le guarnizioni in gomma e i cavi elettrici “per cui è prevista una vita utile inferiore dell’ordine di 30 anni”.

Le frasi sono desunte dal piano di manutenzione delle cerniere alla bocca di porto di Chioggia, ma vale per tutte le altre. Un secolo di vita. Questa è l’assicurazione – clamorosamente smentita dai fatti – contenuta nei documenti che il deputato Giuseppe L’Abbate del Movimento 5 Stelle (ora sottosegretario all’Agricoltura) ha ricevuto dal Provveditorato alle Opere Pubbliche del Triveneto, dopo aver avviato un accesso agli atti.

È una dizione che si trova anche nel manuale d’uso e manutenzione del gruppo di aggancio e tensionamento dell’elemento femmina e degli inghisaggi redatto nel 2014 da Fip Industriale di Selvazzano Dentro (Padova), la società progettatrice, del Gruppo Mantovani, uno dei soci principali del Consorzo Venezia Nuova, il cui amministratore delegato Piergiorgio Baita è stato arrestato per lo scandalo delle tangenti Mose nel 2014, poi ha collaborato e ha patteggiato due anni. In realtà, la scheda Fip è precedente ai documenti dei tecnici del Consorzio, da cui viene recepita integralmente. Con l’esclusione di un aggettivo. Secondo Fip, gli interventi di manutenzione non previsti per la durata di un secolo sono quelli “subacquei”. Ma stranamente l’aggettivo scompare nel documento successivo.

La ruggine è comunque spuntata nel 2016 su parti dei 156 gruppi di cerniere-connettori. Fenomeno grave, visto che le commissioni di collaudo hanno comunicato il 29 maggio 2018 di sospendere le operazioni fino a che non si fosse individuata una soluzione per ovviare alle ossidazioni e non fosse completo il sistema di climatizzazione degli ambienti ove sono collocate le strutture.

“La soluzione dei problemi di corrosione ed ossidazione appare condizione indispensabile per una corretta collaudazione delle opere”. Così avevano scritto Donato Carlea, presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici (bocca di porto Lido-Treporti), Marcello Arredi del ministero delle Infrastrutture (Lido-San Nicolò), Vincenzo Pozzi ex presidente Anas (Malamocco) e Maria Lucia Conti del Mit (Chioggia).

Un secolo senza manutenzione? Macché. Scrivono i collaudatori: “È necessaria l’adozione di nuovi piani di manutenzione, sia prima della messa in esercizio che a regime… condizione imprescindibile prima del collaudo onde fermare il degrado”.