Il listino del mose: in 37 anni il prezzo moltiplicato per 17

Il Mose non costerà 5 miliardi 492 milioni 714 mila euro, come ha detto il ministro Paola De Micheli una settimana fa al Comitatone riunito a Roma. Il conto finale sarà invece di 5 miliardi 905 milioni di euro ovvero 413 milioni in più, pari al 7,5% dell’ammontare generale dell’opera. Servono per far fronte alle criticità emerse, vuoi per errori progettuali, vuoi per malfunzionamenti o per agenti naturali. La rivelazione è contenuta in un documento che i commissari del Consorzio Venezia Nuova hanno redatto nelle scorse settimane per tenere aggiornata la situazione e per raccapezzarsi dopo gli annunci del finanziamento da 325 milioni di euro che il governo ha detto di voler inserire nella Finanziaria: non nuovi investimenti, ma soldi già nella disponibilità dello Stato.

Possibile che quel pozzo senza fondo costituito dal “MOdulo Sperimentale Elettromeccanico”, la più grande incompiuta italiana a cui spetta il compito di salvare Venezia dalle acque alte, non finisca mai di ingoiare risorse, a 16 anni dall’apertura dei cantieri? Parte da questa domanda, in buona parte retorica, il viaggio nelle contraddizioni del Mose, che dopo le esperienze delle scorse settimane tutti invocano come l’ultimo baluardo contro le maree.

C’è un documento di patetica ingenuità nei meandri della storia burocratica del Mose. È il verbale dell’assemblea generale del Consiglio superiore dei Lavori pubblici che si tenne il 3 aprile 1982. Diede parere favorevole al “Progetto per la difesa della laguna di Venezia dalle acque alte”, approvando una previsione di spesa di 550 miliardi di lire per le opere progettate e di altri 160 miliardi per le opere “a lungo termine”. In totale, 710 miliardi di lire: equivalenti più o meno a 355 milioni di euro. Briciole. Una cifra che impallidisce di fronte alla realtà. È vero che sono trascorsi 37 anni, ma la spesa è lievitata di 17 volte. E ancora non siamo arrivati al collaudo. Il conteggio di allora fa sorridere: 300 miliardi di lire per opere fisse, 175 miliardi per opere mobili e apparecchiature. Si aggiungevano 50 miliardi per imprevisti e 25 per spese generali e tecniche. Ma c’era una seconda fase, a lungo termine, del costo di 160 miliardi di lire: 86 miliardi per la diga e la conca di navigazione alla bocca del Lido, 53 miliardi per opere alla bocca di Malamocco, 14 miliardi per imprevisti e altri 7 per spese generali.

Facciamo i conti al Mose attuale. Lo spartiacque è al 30 giugno 2019, due anni e mezzo prima della consegna, prevista per il dicembre 2021. È lì che si fissa quel 92% di realizzazione indicato nei giorni di alta marea. L’ultimo miglio è pari al 7-8%. Ma quanto è lungo e, soprattutto, quanto costa?

Totale generale. Il sistema Mose completo avrà un costo effettivo di 5,493 miliardi, come ha confermato il ministro De Micheli, che però ha messo le mani in avanti, demandando al commissario straordinario, Elisabetta Spitz, appena nominata, il compito di verificare i costi reali. È la cifra per interventi finanziati, secondo atti contrattuali già formalizzati dal Provveditorato alle opere pubbliche del Triveneto e il Consorzio Venezia Nuova (un tempo formato dalle imprese finite sotto inchiesta, ora amministrato dai commissari nominati nel 2015). Gli interventi già eseguiti sono pari a 5,031 miliardi di euro (92 per cento dell’opera). Ne restano da eseguire (luglio 2019-dicembre 2021) altri, per un totale di 461 milioni di euro.

Incompiute alle bocche di porto. A ben guardare, il costo del solo Mose, considerati i lavori alle bocche di porto dove sono installate le paratoie da alzare in caso di acqua alta, sarà di 4,577 miliardi di euro, un miliardo in meno della cifra ufficiale: di cui 4,2 miliardi già spesi (93%) e altri 303 milioni da spendere. In quest’ultima spesa, ci sono inserimenti architettonici degli edifici tecnici, scogliere, ripristino delle aree dove sono stati realizzati i manufatti alle bocche di porto di Malamocco, Chioggia e Lido (canali di San Nicolò e Treporti). In questo capitolo ci sono però 139 milioni di euro cruciali: riguardano gli impianti da ultimare nelle strutture delle bocche di porto che consentono di far alzare le paratoie. Finora la spesa è stata di 328 milioni, si deve arrivare a 467 milioni. Si tratta di impianti elettrici, di condizionamento (per togliere umidità nei locali in fondo al mare), sistemi antincendio, ascensori e montacarichi. È soprattutto la loro mancanza che ha impedito di alzare le dighe il 12 novembre scorso, quando c’è stata la seconda marea più alta di sempre (187 cm). Se le paratoie sono praticamente finite – il collaudo di alcune sere fa lo ha dimostrato – si dovranno spendere una quarantina di milioni per la soluzione di criticità, ad esempio le realizzazioni alla nuova porta di Malamocco (per far passare le navi a barriere alzate) che risulta inadeguata per errori di progettazione.

Altri lavori. Tutto qui? Macché. Quasi un altro miliardo di euro riguarda studi e progetti (347 milioni in totale), interventi di mitigazione ambientale voluti dalla Commissione europea (“Piano Europa” da 166 milioni di euro) e il centro comando operativo. Per le infrastrutture di quest’ultimo, la spesa a regime supera i 200 milioni di euro (realizzazione all’83 per cento), mentre è solo al 64% la parte gestionale (banche dati, strumenti, controllo del sistema) per cui è prevista una spesa di circa 136 milioni di euro già stanziati. Tutto per poter far funzionare il Mose, che altrimenti rimane un mucchio costosissimo di ferro e cemento inutilizzabile sotto acqua.

I costi extra. I 413 milioni di euro ancora da finanziare, invece – ovvero la spesa per interventi che vanno a risolvere le criticità – serviranno per i lavori alla diga Malamocco (29 milioni) e quelli per il pontone necessario per la rimozione dei sedimenti (21 milioni). I milioni salgono a 69 per sistemare gli “ammaloramenti” degli impianti meccanici, le corrosioni delle cerniere e il ripristino di opere civili, un’anticipazione di quali saranno i costi per mantenere l’opera in grado di funzionare. Come Roberto Linetti, ex provveditore interregionale alle opere pubbliche, disse: “Si è in presenza di un’opera interamente sommersa in acqua salata, la cui continua manutenzione e la cui periodica movimentazione, sono necessarie al fine della conservazione stessa”.

Arriva Greta e oscura anche il clima

“Sono entrata di soppiatto a Madrid, credo non mi abbia visto nessuno”. Usa l’ironia Greta Thunberg per raccontare il suo arrivo nella capitale spagnola, teatro, fino al 13 dicembre, della 25esima Conferenza sul clima (Cop25) delle Nazioni Unite. E infatti ad accoglierla, quando alle 9 di ieri è scesa dal treno alla stazione di Chamartin, c’era una ressa di flash, telecamere e smartphone degna di un capo di Stato o di una star di Hollywood. Ma anche una puntigliosa polemica: se la traversata notturna da Lisbona doveva essere, come tutte le altre, a emissioni zero, un tratto della linea ferroviaria tra Portogallo e Spagna – fanno notare i media iberici – non è ancora elettrificato. Così, per i 118 chilometri tra Vilar Formoso e Salamanca, l’attivista svedese simbolo della lotta per il clima ha viaggiato grazie a una locomotiva alimentata a diesel. Poco male, devono aver pensato i suoi fan, che l’hanno travolta di richieste di selfie alla fiera di Madrid. Qui, dove si svolgono i lavori della Cop, Greta è arrivata a sorpresa verso le 11: era attesa soltanto lunedì, quando è previsto il suo intervento al summit. Si è unita agli attivisti di Fridays for Future, seduti per terra a manifestare con cori e slogan, e ha incontrato una giovanissima attivista indiana che chiede una legge per il clima al governo di Narendra Modi. Poi, nel pomeriggio, la conferenza stampa alla Casa Encendida, storico centro sociale madrileno, con 420 giornalisti accreditati. Dietro ai microfoni, la 16enne ha portato con sè tre compagni, due spagnoli e una ragazza dell’Uganda, incoraggiando la stampa a fare domande anche a loro.

“Non dovete ascoltare me prima di altri. Io sono solo una piccola parte di un movimento grande. Abbiamo bisogno di più eco-attivisti”, ha detto, insistendo sul fatto che, nonostante gli scioperi in corso ormai da un anno, non sia “successo ancora nulla”. “È molto importante includere la giustizia ambientale quando parliamo di giustizia sociale”, ha aggiunto. “È un elemento chiave, la base di altri tipi di ingiustizia”. Ieri, però, era anche il quinto venerdì di sciopero globale. Alle 18 dalla stazione di Atocha a Madrid è partita la marcia dei giovani per il clima, in contemporanea con Santiago del Cile, dove avrebbe dovuto tenersi la Cop (ma le proteste di piazza hanno spinto il governo a rinunciare). Dopo meno di un’ora Greta è stata convinta dalla polizia ad abbandonare la manifestazione ed è salita in macchina (rigorosamente elettrica): troppa folla e telecamere intorno a lei, impossibile garantire l’ordine pubblico. Era previsto che leggesse un manifesto al termine del corteo. In piazza migliaia di manifestanti di tutte le età, tra cui l’attore Javier Bardem, convinto attivista per l’ambiente.

Di Maio a Lavrov: “In Libia ci vuole la de-escalation”

“Se c’è un’escalation in Libia, noi promuoviamo una de-escalation”. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha ribadito l’intenzione del governo italiano di spegnere qualsiasi reazione sul campo a Tripoli, ancora prima di “verificare le informazioni che arrivano dal terreno”. Il riferimento del titolare della Farnesina è alle notizie sull’avanzata degli ultimi giorni del generale Khalifa Haftar sulla Capitale libica con il sostegno di mercenari russi, argomento discusso dai media proprio nel giorno dell’incontro tra Di Maio e l’omologo russo, Sergej Lavrov in occasione dei Med Dialogue 2019, la conferenza dei Paesi del Mediterraneo organizzata dalla Farnesina e dall’Ispi.

“Per noi, Mosca è un importante partner commerciale”, ha sottolineato il titolare della Farnesina. Tanto che anche il premier Giuseppe Conte ha incontrato Lavrov ieri nella pausa del vertice a Palazzo Chigi sulla manovra. Al centro di entrambi i colloqui, soprattutto la questione libica e le sanzioni europee contro la Russia con il ministro italiano che ha sottolineato l’importanza di evitare la “fuga in avanti” da parte degli alleati europei e “altre interferenze” in attesa della Conferenza di Berlino sulla Libia, rinviata già due volte e prevista all’inizio del 2020 nella capitale tedesca e che, dopo il fallimento di quella di Palermo e la ripresa dell’offensiva da parte di Haftar, deve avere come primo obiettivo “quello del cessate il fuoco” secondo Di Maio.

Per questo il ministro degli Esteri avrebbe ribadito al suo omologo la necessità di “una soluzione non militare” del conflitto. A preoccupare, soprattutto per le conseguenze sull’immigrazione, è l’intensificarsi di quella che il titolare della Farnesina ha definito “una guerra civile”. Ma per Lavrov, figlio della Guerra fredda, già viceministro degli Esteri della Federazione russa sotto la presidenza di Boris Eltsin, la Conferenza di Berlino è solo “un’altra occasione persa” vista “l’assenza delle parti libiche e dei paesi vicini come l’Unione africana”. In futuro – ha avvertito – spero in un approccio più inclusivo. D’altra parte secondo Lavrov, “la situazione in Libia è estremamente complessa perché i giocatori sono troppi e si sollevano troppe domande su chi è più legittimo”. Una sorta di compendio di teorie che però, a detta del ministro russo, “non tiene conto della fragilità della situazione. La Russia sembra sia coinvolta in tutto ciò che accade, ma bisogna essere onesti: tutti quelli che sanno leggere e scrivere sanno chi sostiene le parti in guerra in Libia”. Ogni riferimento agli Stati Uniti di Donald Trump è casuale. “Nel Mediterraneo ci sono molti militari americani. E sono lì senza diritto. Perché tutte le volte che accade qualcosa viene subito accusata la Russia?”, si è difeso il ministro che ha sparato anche sulla Nato, colpevole a suo dire di aver “svolto una avventura pericolosa che ha portato risultati negativi sull’economia e sulla sicurezza del Paese. La mancanza di dialogo e la decisione di spodestare Gheddafi – ha fatto notare – ha portato a conseguenze che la Libia sta pagando ancora adesso”. A proposito dei diversi attori, il ministro Di Maio ha fatto capire di non credere all’accordo sui confini marittimi siglato a Istanbul tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il premier del governo di Accordo Nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez al-Sarraj in seguito al quale la Grecia ha richiamato l’ambasciatore. “È tutto da dimostrare”, ha tagliato corto il titolare della Farnesina per il quale il dialogo con la Turchia va “affrontato nonostante possa aver messo in atto azioni che a noi non stanno bene”. Quanto ai partner Ue, Di Maio ha ribadito di voler chiedere una “riflessione sulle sanzioni comminate da Bruxelles dopo la crisi Ucraina”. “L’Italia si muove nel solco dell’Ue ma non possiamo non mettere in conto gli effetti sulle nostre aziende delle sanzioni russe. Per questo promuoviamo passi avanti sull’accordo di Minsk, necessario per risolvere la situazione”. Prima su tutte, la sanzione sul Parmigiano Reggiano “che non rientra nei parametri delle altre”.

La trovata di Corbyn: sbugiardare l’avversario

A sei giorni dalle elezioni politiche del 12 dicembre la strategia del Labour sembra essere quella di sbugiardare il rivale Boris Johnson. La scorsa settimana il leader laburista Jeremy Corbyn ha diffuso un dossier riservato che proverebbe l’intenzione di Johnson di mettere il Servizio sanitario nazionale sul piatto di un accordo commerciale con gli Stati Uniti post Brexit. Ieri a dargli manforte le clamorose dimissioni di Alexandra Hall Hall, consigliere per Brexit all’Ambasciata Usa a Washington, che ha dichiarato di non poter più “diffondere mezze verità in rappresentanza di un governo di cui non mi fido”. E sempre ieri Corbyn ha accusato il primo ministro di mentire sul reale impatto del suo accordo con l’Ue sull’economia nord-irlandese, mostrando un documento del Tesoro che prevede crescita dei prezzi e aumento dei costi dei controlli doganali per i business locali.

Una strategia aggressiva. Nelle ultime settimane, il Labour ha accorciato lo svantaggio: ora lo scarto con i Conservatori sarebbe intorno ai 10 punti. Rischia però una sconfitta epocale nelle regioni post-industriali del Nord tradizionalmente laburiste ma che hanno votato Leave al referendum su Brexit. E il problema è proprio Corbyn, percepito come debole e ambiguo.

Le roccaforti rosse stavolta potrebbero preferire i Conservatori, che sotto la leadership di Johnson, con il suo slogan semplice ed efficace Get Brexit done, stanno intercettando anche il voto del Brexit Party di Nigel Farage.

La favola di Ali il Povero: spodestare il “principe” Boris

Sulla mappa di Londra, Uxbridge e South Ruislip sono sobborghi in fondo alla linea della metro, 17 chilometri a ovest di Westminster. Ma oggi, a sei giorni da elezioni politiche decisive per il futuro del paese, questa circoscrizione elettorale è il teatro di una favola tutta britannica. Il Principe è Alexander Boris de Pfeffel Johnson, il predestinato. Famiglia eccentrica e cosmopolita, studi a Eton e Oxford, vita in discesa, primo ministro per acclamazione. Per le elezioni del 2015 viene calato qui, seggio sicuro, conservatore da decenni, che al referendum sulla Brexit sceglie il Leave con una maggioranza del 56%. Ma alle elezioni del 2017 Boris viene rieletto con uno scarto di soli 5.034 voti.

Si può battere, ragiona il Labour, e candida l’anti-Boris. Il Povero. Ali Milani, 25 anni. A 5 anni, più o meno l’età in cui Boris annunciava che sarebbe diventato imperatore del mondo, Ali fuggiva da Teheran a Londra con madre e sorella, padre non pervenuto. Non una parola d’inglese e la vita in salita: gli inizi durissimi, la casa popolare, la scuola di periferia, la scelta, certi giorni, fra mangiare o pagare il biglietto della metro, amici ammazzati nelle faide fra gang, gli attacchi islamofobici a lui musulmano praticante.

Ma Ali è ambizioso: studia Relazioni Internazionali alla Brunei University, l’ateneo della zona, e si impegna in politica. Quando era a scuola i Tories hanno tagliato i fondi allo studio che lo tenevano a galla: la scelta naturale è il Labour, quello di Momentum, il movimento a sinistra della sinistra che nel 2015 ha consegnato a Corbyn la leadership del partito. Dal 2017 al 2019 è uno dei vicepresidenti della National Union of Students, si schiera contro la Brexit, nel quartiere diventa tanto popolare quanto Boris ne è distante, con la sua casa da milioni di sterline dall’altra parte della città.

“Questa è una battaglia per l’anima del Paese”, dice mentre fa campagna palmo a palmo e porta a porta, sostenuto dalla formidabile macchina elettorale degli attivisti del Labour. È una suggestione che emoziona, quella della sfida fra il Principe, lontano nella fortezza di Downing Street, e il Povero che ha capito davvero di esserlo solo il primo giorno di Università, perché prima tutti i suoi amici erano poveri come lui. “Ero con il mio nuovo coinquilino e quello si mette a parlare del suo cavallo”, ha raccontato a Vice. “Come sarebbe “un cavallo”? Cioè, dove lo metti un cavallo? Non puoi mica parcheggiarlo in strada come un’auto”.

Ce la può fare? Secondo Yougov il collegio di Uxbridge e South Ruislip finirà “probabilmente conservatore”, ma i tories non sembrano così tranquilli: per settimane si è speculato sulla possibilità che Boris venisse pilotato su un seggio più sicuro; ha scelto di restare, ma sulla campagna locale sono piovuti finanziamenti straordinari. Ali è convinto di poter vincere perché, dice, lo spartiacque qui non è tanto la Brexit, ma i problemi locali, quelli di cui Johnson non sa niente e lui tutto. Gli basta che per lui voti il 5% in più che nel 2017, e confida in due segnali.

Il primo: il consenso su Brexit nel collegio si è spostato su Remain, che ora è al 51%. Secondo: se a fare la differenza dovessero essere gli studenti universitari non c’è storia: nel quartiere ce ne sono 10 mila, iscritti alla sua Alma Mater, e non voteranno né per i Conservatori né per i Lib-Dem che nel 2010 hanno aumentato le tasse universitarie a oltre 9mila sterline l’anno, mentre il Labour promette il diritto allo studio gratuito.

Le conseguenze di una sconfitta di Boris? Non ci sono precedenti, ma la consuetudine vuole che il primo ministro sia il capo del suo partito, e che il capo di un partito debba essere un deputato eletto. Se perde il seggio, Johnson potrebbe essere costretto a dimettersi da leader conservatore e mettersi in fila, correre un’elezione suppletiva o prendere il posto di qualche altro deputato pronto a sacrificarsi per il partito. Caos totale.

Se vince Ali, il Povero fa la storia: diventa la prima persona a spodestare un primo ministro in carica. Finale della favola: il 12 dicembre. Poco dopo la mezzanotte.

“Liberate Assange”: in gioco c’è il diritto a essere informati

Julian Assange, fondatore ed editore di WikiLeaks, è attualmente detenuto nel carcere di alta sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito, in attesa di essere estradato e poi processato negli Stati Uniti in base all’Espionage Act. Assange rischia una condanna a 175 anni di prigione per avere contribuito a rendere pubblici documenti militari statunitensi relativi alle guerre in Afghanistan e Iraq e una raccolta di cablogrammi del Dipartimento di Stato Usa. I War Diaries hanno provato che il governo statunitense ha ingannato l’opinione pubblica sulle proprie attività in Afghanistan e Iraq e lì vi ha commesso crimini di guerra. WikiLeaks ha collaborato con un grande numero di media in tutto il mondo, media che hanno pubblicato a loro volta i War Diaries e i cablogrammi del Dipartimento di Stato Usa. L’azione legale promossa contro Assange, dunque, rappresenta un precedente estremamente pericoloso per i giornalisti, per i mezzi di informazione e per la libertà di stampa.

Noi, giornalisti e associazioni giornalistiche di tutto il mondo, esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per la sorte di Assange, per la sua detenzione e le pesantissime accuse di spionaggio che gli vengono mosse. Il suo caso è centrale per la difesa del principio della libertà di espressione. Se il governo statunitense può perseguire Assange per avere pubblicato documenti segreti, in futuro i governi potranno perseguire ogni giornalista: si tratta di un precedente pericoloso per la libertà di stampa a livello planetario. Inoltre, l’accusa di spionaggio contro chi pubblichi documenti forniti da whistleblower è una prima assoluta che dovrebbe inquietare ogni giornalista e ogni editore.

In una democrazia, i giornalisti devono poter rivelare crimini di guerra e casi di tortura senza il rischio di finire in prigione. Questo è il ruolo dei mass media in una democrazia. L’utilizzo da parte di governi contro giornalisti ed editori di leggi che perseguono lo spionaggio, li privano del loro più importante argomento di difesa – l’avere agito nel pubblico interesse – un argomento non previsto dalle leggi contro lo spionaggio.

Prima di essere imprigionato nel carcere di Belmarsh, Assange ha trascorso due anni agli arresti domiciliari e sette anni all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove gli era stato riconosciuto l’asilo politico. In questo tempo, sono stati violati i suoi più essenziali diritti: basti pensare che è stato spiato durante conversazioni confidenziali con i suoi legali da organizzazioni alle dirette dipendenze dei servizi Usa. I giornalisti che, in questi anni, si sono recati a visitarlo sono stati sottoposti a una sorveglianza invasiva. Assange ha subito restrizioni nell’accesso all’assistenza legale e alle cure mediche, è stato privato dell’esercizio fisico e dell’esposizione alla luce del sole. Nell’aprile 2019, il governo Moreno ha permesso alla polizia britannica di entrare nell’ambasciata per arrestarlo. Da allora, Assange è detenuto in regime di isolamento per 23 ore al giorno e, secondo la testimonianza di chi lo ha potuto incontrare, è “fortemente sedato”. Le sue condizioni fisiche e psichiche nel tempo sono nettamente peggiorate.

Già nel 2015 il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite (Glda) ha stabilito che Assange era detenuto e privato della libertà in modo arbitrario, ha chiesto che fosse liberato e gli fosse versato un risarcimento. Nel maggio del 2019 il Glda ha ribadito le sue preoccupazioni e la richiesta che Assange sia rimesso in libertà. Riteniamo i governi di Usa, Regno Unito, Ecuador e Svezia responsabili delle violazioni dei diritti umani di cui Julian Assange è vittima.

Assange ha dato un contributo straordinario al giornalismo, alla trasparenza e ha permesso di richiamare i governi alle loro responsabilità. È stato preso di mira e perseguitato per avere diffuso informazioni che non avrebbero mai dovuto essere celate all’opinione pubblica. (…)

Le informazioni fornite da Assange sulle violazioni dei diritti umani e sui crimini di guerra sono di importanza storica, al pari delle rivelazioni dei whistleblower Edward Snowden, Chelsea Manning e Reality Winner, che oggi sono in esilio o in prigione. Contro tutti loro sono state lanciate campagne diffamatorie che spesso si sono tradotte sui media in informazioni errate e in un’attenzione insufficiente alle difficili condizioni in cui si trovano. L’abuso sistematico dei diritti di Julian Assange negli ultimi nove anni è stato sottolineato dal Committee to Protect Journalists, dalla Federazione Internazionale dei giornalisti e dalle più importanti organizzazioni di difesa dei diritti umani. Eppure nei media c’è stata una pericolosa tendenza a considerare normale il modo in cui è stato trattato.

L’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, dopo avere indagato il caso ha scritto: “Per finire, mi sono reso conto che ero stato accecato dalla propaganda e che Assange è stato sistematicamente denigrato per distogliere l’attenzione dai crimini che ha denunciato. Una volta spogliato della sua umanità tramite l’isolamento, la diffamazione e la derisione, come si faceva con le streghe bruciate sui roghi, è stato facile privarlo dei suoi diritti più fondamentali senza suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale. In questo modo, grazie alla nostra stessa compiacenza, si sta stabilendo un precedente che in futuro potrà e sarà applicato anche dinanzi a rivelazioni pubblicate dal Guardian, dal New York Times e da ABC News. (..) In vent’anni di attività a contatto con vittime di guerra, violenza e persecuzione politica, non ho mai visto un gruppo di Paesi democratici in combutta per deliberatamente isolare, demonizzare e violare i diritti di un singolo individuo così a lungo e con così poca considerazione per la dignità umana e lo Stato di diritto”. Nel novembre del 2019, Melzer ha raccomandato di impedire l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti e di rimetterlo al più presto in libertà. (…)

Nel 1898 lo scrittore francese Emile Zola scrisse la lettera aperta J’accuse…! per denunciare l’ingiusta condanna all’ergastolo per spionaggio dell’ufficiale Alfred Dreyfus. La presa di posizione di Zola è entrata nella storia e ancora oggi simboleggia il dovere di battersi contro gli errori giudiziari e di mettere i potenti dinanzi alle loro responsabilità. Questo dovere vale ancora oggi, mentre Julian Assange è preso di mira dai governi e deve fare fronte a 17 capi di imputazione in base all’Espionage Act statunitense, una legge vecchia più di cento anni.

Come giornalisti e associazioni giornalistiche che credono nei diritti umani, nella libertà di informazione e nel diritto della pubblica opinione di conoscere la verità, chiediamo l’immediata liberazione di Julian Assange. Esortiamo i nostri governi, tutte le agenzie nazionali e internazionali e i nostri colleghi giornalisti a chiedere la fine della campagna scatenata contro di lui per avere rivelato dei crimini di guerra. Esortiamo i nostri colleghi giornalisti a informare il pubblico in modo accurato sugli abusi dei diritti umani da lui subìti. (…)

Tempi pericolosi richiedono un giornalismo senza paura.

“Su Uber 3 mila assalti sessuali, 58 incidenti fatali, 9 omicidi”

Più di tremila aggressioni sessuali, nove omicidi e 58 incidenti mortali. Soltanto negli Usa, nel 2018, e a bordo delle auto di Uber. I dati vengono da un report messo a punto dall’azienda di trasporto californiana per rispondere alle polemiche sulla sicurezza delle corse, sfociate in un buon numero di azioni legali. Rispetto al 2017 crescono sia gli episodi di violenza sessuale (da 2936 a 3045) sia gli omicidi (da 9 a 10) e gli incidenti mortali (da 49 a 58).

Il 92% di chi ha subito aggressioni sessuali sono passeggeri, mentre, tra le 19 vittime di omicidio registrate negli ultimi due anni, 7 erano autisti, 8 passeggeri e 4 soggetti terzi, ad esempio passanti. “Sono numeri scioccanti e difficili da digerire”, ammette Tony West, responsabile legale della compagnia, secondo cui, però, “Uber non è altro che un riflesso della società di cui è al servizio”. Tuttavia, puntualizza l’azienda, il numero degli incidenti rappresenta una frazione infinitesimale degli 1,3 miliardi di corse effettuate ogni anno negli Usa, appena lo 0,0002%.

Difficile fare paragoni con altri servizi di trasporto privato, visto che Uber è la prima società a scegliere di diffondere questo tipo di numeri. La polizia di New York, però, ha contato solo nello scorso anno 533 crimini sessuali consumati all’interno del sistema di trasporto pubblico cittadino. Appena qualche giorno fa, 19 donne hanno portato in giudizio Lyft, azienda rivale di Uber, per non aver prevenuto le aggressioni sessuali di alcuni suoi autisti o per aver ignorato le denunce sporte nei loro confronti.

“Giovani, eccitati, ubriachi”. Così è uno stupro da poco

Si aspettavano le motivazioni della sentenza per capire le ragioni delle condanne tutto sommato miti per quelli che sono stati definiti “i due stupratori di CasaPound”. E a leggerle, le motivazioni, si ha la sensazione, sgradevole, che il fatto sia stato sottodimensionato non tanto per una questione di pena, ma di valutazioni. Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci sono stati condannati a 3 anni il primo e a 2 anni e 10 mesi l’altro, per violenza di gruppo su una donna stordita e ubriaca. I fatti risalgono all’11 aprile di quest’anno. Chiricozzi aveva 19 anni, Licci 21. Lo stupro avviene nel pub “Old Manners” di proprietà di Chiricozzi, ritrovo dell’estrema destra viterbese.

Entrambi all’epoca sono già indagati per lesioni, minacce e danneggiamento. Insomma, alla loro tenera età, sono già cittadini modello. La sera dell’11 aprile conoscono A., 36 anni e disturbi della personalità per cui assume psicofarmaci, e la violentano ininterrottamente per un paio d’ore, approfittando del suo stato di ubriachezza e semi-incoscienza. Uno stupro feroce. A. viene sottoposta a pratiche sessuali anche anali e orali con mani e oggetti. I due le dicono “Zitta troia”, “Ti ammazzo”, bestemmiano. Lei si lamenta “Basta basta”. Licci prende il suo cellulare e filma la violenza. In una foto la ragazza è rannicchiata per terra, nuda, in una Chiricozzi le mette una mano sulla bocca.

Le foto e i video vengono inviati agli amici quella stessa notte su una chat di gruppo di cui fa parte anche il padre di Licci. Lo stesso padre che poi, quando scopre la denuncia, scriverà al figlio “Riccardo, butta il cellulare subito”.

Insomma, una storia raccapricciante da cui emergono un totale disprezzo per la vittima e una ferocia sprezzante. La ragazza sporge denuncia il giorno dopo, Chiricozzi cancella whatsapp, le riprese della videosorveglianza del suo locale spariscono. Sul telefono di Licci invece viene ritrovato tutto. La polizia giudiziaria recupera tramite i tecnici le immagini del pub. Chiricozzi afferma che sia whatsapp che le immagini del locale “si sono cancellate da sole”. Non ricorda i “Zitta troia”, i “Basta basta”. Dice che i due erano “in imbarazzo” nel trovarsi a fare sesso con la stessa donna. Non ricorda a cosa alludesse l’amico quando gli diceva “Mettili nella f..”. Con imbarazzo, si intende. Licci riesce a fare quasi di meglio: nega di aver diffuso foto, afferma di averle realizzate perché aveva trovato GOLIARDICA la situazione. Dice che quel “basta basta” per lui era sintomo di appagamento sessuale, che il suo “Zitta troia” era eccitazione.

Entrambi mentono dicendo che la ragazza li ha denunciati per vendicarsi di quei video, visto che la ragazza, quando denuncia, non ne conosce neppure l’esistenza.

Come è possibile dunque che le condanne siano state così miti? Il giudizio abbreviato ha ridotto di un terzo la pena inflitta che era di 6 anni. Il giudice poi ha ridotto di un altro anno la pena per “l’attenuante del risarcimento del danno”. I due in effetti hanno risarcito la vittima con 30.000 euro a testa che il giudice ha ritenuto possano “consentire adeguate terapie e ristoro morale”, visto anche “il danno fisico di modestissima entità”. Certo. Considerato che, come ammesso dallo stesso giudice, la ragazza era semi-incosciente e in uno stato di minorata difesa, non poteva certo opporre resistenza e avere chissà quali lesioni. Rischia di pagare di più un giornalista condannato per diffamazione che due stupratori, apprendiamo oggi.

La pena è ridotta di un ulteriore anno per “attenuanti generiche”. Ricorda infatti il giudice che “la loro azione non fu determinata da dispregio della persona, ma da impulsi (negativi) sessuali”, che “la condotta processuale è stata corretta avendo fornito loro stessi la versione dei fatti dalla quale emerge la loro penale responsabilità” e poi “le particolari modalità del fatto vedono i due imputati – giovanissimi – coinvolti in una serata con una donna molto più grande di loro, preda anche loro dell’alcol… condizione di cui bisogna tener conto nel valutare lo stato psicologico”. Infine: “La ragazza è stata riaccompagnata a casa a ulteriore conferma della inconsapevolezza del rilievo penale della condotta”.

Non una parola sui video e i filmati dello stupro inviati agli amici, che secondo il giudice, dunque, non sono indicativi di “dispregio” della persona. La condotta processuale viene considerata corretta perché hanno ammesso le loro responsabilità, dimenticando che dopo aver provato a raccontare la favoletta “era consenziente”, entrambi non potevano negare nulla, visto che i video li inchiodavano.

Il fatto che la donna fosse più grande al limite avrebbe dovuto instillare soggezione anziché freddezza e sull’averla riaccompagnata a casa, il giudice stesso ricorda come dai video si evinca che lei non fosse neppure in grado di uscire dal pub di Chiricozzi senza cadere per terra. L’hanno riaccompagnata a casa perché non avevano alternative, oltre al marciapiede o la cunetta. Insomma, non sono tanto i 2 e 3 anni di pena a essere miti, in questa orribile vicenda, ma le parole di un giudice per cui le immagini di una donna nuda, ubriaca, stuprata inviate agli amici non sono neppure il segno più spregevole del disprezzo.

Adrian l’orologiaio e il tempo che passa

Ognuno ha il suo iceberg, anche se non tutti hanno il loro Titanic. Il varietà del sabato sera incontrò il suo iceberg alla fine del 1987, quando la Rai affidò Fantastico 8 all’orologiaio Adrian, meglio noto come Adriano Celentano. Gli orologi e la morte sono parenti stretti, aveva già notato Lawrence Sterne; infatti quel bilanciere titanico fu smontato in modo inesorabile e geniale pezzo per pezzo, vite dopo vite. Gli sguardi preoccupati di Maurizio Micheli, quelli atterriti di Massimo Boldi durante i sermoni a picco sul vuoto erano e restano indimenticabili. Già allora si capiva che nulla sarebbe stato più come prima, anche se avrebbe fatto finta di esserlo.

Ma la vita propone strane simmetrie. Esattamente 32 anni dopo, Celentano è tornato per fare un’altra sorpresa, invece la sorpresa l’ha ricevuta. Non c’è più nulla da smontare in video. Il varietà, i palinsesti, il sabato, l’evento sono pezzi sparsi, fluttuanti nell’etere. Passato lo stupore, l’orologiaio ha dovuto rassegnarsi a fare un postvarietà a tratti povero, a tratti surreale, a tratti commovente, come nei duetti generazionali con Morgan e Marco Mengoni. Non un programma di Celentano; un programma con Celentano. Il dio della Tv si è voluto vendicare? Non lo sapremo mai, ma non c’è dubbio, Adriano è stato colto alla sprovvista. “Gli ultimi dieci anni li ho passati a fare l’animazione di Adrian”, ha detto. Forse il guaio è tutto qui. Il tempo non passa mai così veloce come quando non guardiamo l’orologio.

Mail Box

 

Telecom, per le dismissioni la soluzione è un’asta pubblica

Ho letto con molto interesse l’articolo di Giorgio Meletti sul caso Telecom Italia, compresa la replica del dottor Tronchetti Provera. Avendo studiato a fondo il caso degli immobili quando ero vicepresidente dell’Associazione piccoli azionisti, vorrei sottolineare alcuni elementi che emergono dallo studio dei bilanci.

La prima dismissione avvenne durante la gestione Colaninno, per un totale di 2,9 miliardi di euro per immobili ceduti a fondi partecipati da Lehman Brothers e riaffittati alla stessa Telecom ad un tasso medio del 9% (circa il doppio rispetto alla media del mercato). Gli stessi immobili furono rivenduti con plusvalenze del 70% in pochi mesi a fondi partecipati da Goldman Sachs. La seconda avvenne durante la gestione Pirelli, per un totale di 2,6 miliardi di euro per immobili ceduti ai fondi partecipati da Pirelli Re e Morgan Stanley e riaffittati a Telecom ad un tasso medio del 7,75% (quasi due terzi in più rispetto alla media del mercato). Per fare un esempio, come se un tassista indebitato vendesse il suo taxi e fosse poi costretto ad affittarlo a canoni maggiorati.

Nelle analisi dei vari bilanci ho trovato anche casi di palazzi venduti a 500 e 600 euro al metro quadro in zone centrali di Roma nel momento del picco immobiliare. Con riferimento ai tassi di rendimento delle somme derivanti dalla vendita degli immobili, che Pirelli indica nel 10,5-11 per cento, vi è da dire che si tratta di stime, oltretutto di difficile realizzazione, al contrario dei dati di bilancio che sono sempre certi e comprovati. È quasi impossibile realizzare stime su tassi di rendimento con un orizzonte temporale di 20-25 anni, quali sono invece i contratti di locazione immobiliare, trattandosi oltretutto di stime che non hanno a che vedere con l’efficienza nella fase di cessione e retrolocazione.

La soluzione migliore in tutti i casi di dismissione di immobili di grandi aziende privatizzate, politici permettendo, avrebbe dovuto essere un’asta pubblica, trattandosi a maggior ragione di beni ex pubblici, che nel caso delle centrali telefoniche vengono considerati come asset strategico di un Paese.

Maurizio Matteo Decina, ex vicepresidente azionisti Telecom

 

De Luca non c’entra nulla con i valori di chi va in piazza

La settimana scorsa a Vincenzo De Luca è stato chiesto se sosteneva la manifestazione delle Sardine di sabato 30 novembre a Napoli. Ha risposto: “Assolutamente sì, è un movimento fresco, nuovo e originale. Napoli ne ha bisogno”. Ma il movimento delle Sardine può riconoscersi in Vincenzo De Luca? Io penso di no.

È vero che esso è nato principalmente per combattere Matteo Salvini e i populisti, ma si ispira a dei valori che mi sembrano contraddittori rispetto al modo di far politica di Vincenzo De Luca.

Attraverso la pagina Facebook del gruppo “6000 Sardine” si è iniziata a definire un’organizzazione condivisa tra i vari gruppi, pubblicando anche il “manifesto delle Sardine”.

In questo manifesto c’è scritto, tra l’altro: “Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero.

Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto. Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri”.

Non mi sembra che il modo di far politica di Vincenzo De Luca sia ispirato alla non violenza, all’ascolto e al disinteresse personale. Sappiamo tutti:

1) che spesso egli fa uso della violenza verbale nei confronti degli avversari politici, dei giornalisti e di tutti coloro che lo contraddicono;

2) che la predisposizione all’ascolto degli altri non è il suo forte;

3) che sta dando un evidente sostegno alla carriera politica dei propri figli, dimostrazione che la sua attività non è disinteressata.

Cordiali saluti, Franco Pelella

 

Crisi aziendali, i sindacati trovino un linguaggio nuovo

Ormai è una strage: le crisi aziendali, con migliaia di licenziamenti annessi, non si contano più. I sindacati continuano a definire le cosiddette ristrutturazioni “inaccettabili” e a proclamare scioperi “a salve”.

Landini e company dovrebbero capire che continuare con la solita politica di retroguardia non porta da nessuna parte, ormai tecnologia e informatica sostituiscono sempre più lavoro umano, per un’azienda mantenere i livelli occupazionali non è conveniente.

Cgil, Cisl e Uil dovrebbero cominciare a lanciare nuove parole d’ordine, spendersi in campagne per la riduzione di orario a parità di salario, chiedere leggi che impongano alle aziende che beneficiano di sgravi fiscali di reinvestire una parte degli utili in aumenti salariali e servizi ai dipendenti, fare proposte che stimolino la mobilitazione dei lavoratori e non solo il trito e impotente “no” ai licenziamenti.

Mauro Chiostri