Alla Scala Ritorno al 1900 con la “Tosca” originale. Attese contestazioni e Sardine

Gentile redazione, non sono milanese, ma non perderò la prima della Scala in tv: ho letto che quest’anno il botteghino è stato letteralmente preso d’assalto, eppure la Tosca mi sembra un classico straconosciuto e già visto. Sapranno stupirci il direttore Chailly, il regista Livermore e la soprano Netrebko? E fuori dal teatro ci si aspetta qualche contestazione o manifestazione? Il clima politico è surriscaldato, le piazze pure: vedremo Sardine anche fuori dalla Scala?

Ester Rubini

 

Cara Ester, è vero: la “Tosca” è un’opera molto conosciuta (compie 119 anni!) e sarà diretta da Riccardo Chailly con la regia di Davide Livermore che l’anno scorso ha già firmato un successo con l’“Attila”. Un classico, ma un classico molto moderno, pieno di sangue e sesso e triangoli amorosi. A cui Puccini stesso non era estraneo: sposò Elvira, già moglie di un suo compagno di scuola, quando rimase vedova del primo marito. La donna poi accusò una cameriera di avere una relazione con Giacomo. Lei si suicidò con il veleno e la famiglia della cameriera arrivò a denunciare la signora Puccini. La versione che ascolteremo oggi è però quella del debutto, avvenuto il 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma: nessuno da allora l’ha più eseguita così, perché Puccini riaggiustava continuamente il suo capolavoro. Questo recupero della “Tosca” originaria è stato voluto proprio da Riccardo Chailly. Grazie all’iniziativa “Prima diffusa” per l’intera Milano sarà una giornata eccezionale con più di 50 eventi tra proiezioni, concerti, performance, reading, incontri e conferenze, coinvolgendo oltre 40 luoghi della cultura milanese e spazi cittadini. Botteghino sbancato, come di consueto: la vendita dei biglietti per la gran serata inaugurale è stata aperta il 4 ottobre e in un solo giorno i biglietti sono andati tutti esauriti. E dire che non sono proprio a buon mercato: si parte da 50 euro per un posto in galleria per arrivare a 2.500 euro per una poltrona in platea. Fuori dal teatro non pare siano attese contestazioni particolarmente violente, anche se ci saranno i lavoratori del gruppo Conad Auchan e come ogni anno dovrebbero arrivare anche i centri sociali (e forse qualche pacifica Sardina). Al Piermarini è atteso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, assieme alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, e alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Fra gli ospiti che certamente saranno applauditissimi anche la milanesissima senatrice a vita Liliana Segre.

Silvia Truzzi

Quando le notizie false e tendenziose diventano reato

“Il nuovo ‘dispotismo democratico’ è riuscito a imporsi nel nostro Paese collocandosi oltre l’orizzonte politico in senso stretto, avviando una dissoluzione della politica e delle sue istituzioni; e ha ottenuto, proprio per questa via, il consenso di larga parte del Paese”

(da La democrazia dispotica di Michele Ciliberto – Laterza, 2011 – pag. XII)

È un paradosso, un’ironia o una nemesi della storia, il fatto che oggi i leader della destra sovranista italiana, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, si ritrovino spesso a violare una norma del Codice Rocco, introdotto nel 1930 dal Guardasigilli del governo Mussolini. E cioè l’articolo 656 del Codice penale, tuttora in vigore, che punisce il reato di “pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico”, con l’arresto fino a tre mesi o un’ammenda fino a 309 euro. Delle due, l’una: o Salvini e Meloni rinnegano l’appartenenza politica a cui direttamente o indirettamente si richiamano oppure fanno affidamento sull’immunità parlamentare per sottrarsi alla giustizia nell’eventualità che vengano denunciati.

Di fronte al profluvio quotidiano di fake news, alimentate a scopo di propaganda politica dai dioscuri della destra, e purtroppo non solo da loro, non ci sarebbe da meravigliarsi se in forza della notitia criminis un pubblico ministero o un quidam de populo prendesse prima o poi l’iniziativa. Non lo diciamo per spirito giustizialista, ma in nome di quel principio dello Stato di diritto che si chiama garantismo, imperniato sulle garanzie costituzionali che tutelano le libertà fondamentali dei cittadini. Fra le quali c’è, appunto, il diritto di essere informati correttamente che può essere considerato – secondo molti studiosi, a cominciare da Costantino Mortati – “un risvolto passivo della libertà di manifestare il proprio pensiero”, sancito dall’articolo 21 della stessa Carta.

La norma del Codice Rocco si applica solitamente ai giornalisti, professionisti dell’informazione, chiamati a rispondere in tribunale delle notizie false, esagerate e tendenziose che pubblicano. E per analogia, potrebbe essere estesa ai professionisti della disinformazione che ormai proliferano sui social network, quando diffondono autentiche “bufale” che corrodono la credulità popolare, turbando – se non proprio l’ordine pubblico – sicuramente quello sociale. Ma a maggior ragione l’articolo 656 del Codice penale, configurando un “reato di pericolo”, potrebbe essere ipotizzato a carico dei politici, di destra o di sinistra, che propalano notizie infondate o falsità costruite ad arte per screditare l’avversario, destabilizzare il governo e acquisire consensi. In questo caso, anzi, ricorrerebbero le aggravanti della funzione e della responsabilità pubblica che loro competono.

Abbiamo assistito negli ultimi tempi a un’escalation di esternazioni, dichiarazioni, interventi, che hanno turbato l’ordine pubblico dentro e fuori le aule parlamentari: dalla rissa alla Camera sul Mes, il controverso meccanismo europeo di stabilità denominato “salva-Stati”, fino alle polemiche retrospettive sulle fatture professionali del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, quando faceva l’avvocato. Una sarabanda di voci chiassose e scomposte, in cui si confondono il vero e il falso, soffiando sul fuoco dell’allarmismo, alzando un polverone che altera la realtà e disorienta l’opinione pubblica. È chiaro che il problema non si risolve con il ricorso al Codice penale. Ma non sarebbe fuori luogo un richiamo generale al costume civile, per evitare il pericolo di un’involuzione della nostra vita democratica.

La malapolitica ha generato malaeconomia

Vedo un rischio nella continua lamentazione sulla “morte della politica” che sarebbe provocata – a detta di molti osservatori costernati della sinistra – dallo strapotere delle forze economiche. Secondo questa tesi, la centralità delle istituzioni democratiche sarebbe venuta meno a causa del potere di ricatto delle élite ai posti di comando dell’economia. Ma non è certo una novità che siano quelli che possiedono le ricchezze a decidere la politica in un sistema capitalistico, come ci spiegava già Adam Smith a proposito di “mercanti e industriali”.

È certo vero che oggi poche banche mondiali tengono le corde delle borse degli Stati e meno di 200 società transnazionali controllano la metà dell’intero commercio internazionale. Opporsi ai loro business può essere fatale per le popolazioni di una singola nazione, come si è visto in Grecia o in Argentina o in Venezuela. Ma questo potere non è di origine soprannaturale. I mercati non si trovano in natura. Sono costruzioni sociali, giuridiche, politiche. Per funzionare hanno bisogno di norme di legge, regolamenti, trattati e istituzioni internazionali, infrastrutture, accesso a materie prime e a lavoro umano. Il “libero mercato” senza il “pugno di ferro” delle istituzioni pubbliche non sopravvivrebbe un giorno. Mario Draghi, Christine Lagarde, Jerome Powell non sono frutti spontanei della società civile. Per intenderci; non sono sardine.

L’economia “pura” non esiste: è sempre politica. E la politica è esattamente lo spazio dentro cui avviene la contesa per il controllo della ricchezza sociale. Le istituzioni politiche non sono entità estere e sovraordinate. Non sono luoghi super partes, che guardano dall’alto, giudicano e mediano tra gli interessi delle forze sociali in lotta secondo un mitico “interesse generale” o “bene comune”. Fanno parte esse stesse della tensione permanente tra demos e kratos, tra dominati e dominanti.

Se oggi siamo giunti al punto in cui gli interessi dei detentori di capitali (finanziari e patrimoniali) sono diventati tanto potenti da potersi impadronire, oltreché di tutti i mezzi di produzione, delle Banche centrali, dei beni demaniali, delle infrastrutture, dei servizi alle persone… non è a causa di un deficit di politica, ma esattamente al contrario di una volontà di (onni)potenza dei decisori pubblici che hanno sfidato ogni comune buon senso. Non è mai stata necessaria tanta volitiva capacità decisionale politica come negli ultimi trent’anni di fondamentalismo neoliberista per riuscire a privatizzare ogni bene e ogni servizio di interesse collettivo. Dall’etere alle autostrade, dalle agenzie del lavoro al gioco d’azzardo, dai servizi idrici alle poste e alle ferrovie…

Non è svanita la politica in genere. Al contrario ha trionfato una determinata politica ed è evaporata un’altra, quella della sinistra storica che è stata “sussunta” dal sistema in ruoli ancellari, di bassa amministrazione. Banalmente i conti sono presto fatti dagli istituti statistici dell’Ocse e dalle agenzie Onu: aumenta la forbice delle ineguaglianze e delle ingiustizie, aumentano le migrazioni (20 milioni all’anno solo di profughi ambientali), si aggrava la crisi climatica.

Ben vengano allora Jeremy Corbin, Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez, Antonio da Costa e quant’altri nel mondo stanno facendo resuscitare l’amore della politica nei giovani in nome di un’idea politica (l’ecosocialismo) e di un programma politico (il green new deal) alternativi.

Ad alitalia ora serve un vivisezionista

Il nuovo decreto legge per Alitalia del 2 dicembre ha confermato l’ulteriore prestito statale di 400 milioni, già incluso nel Decreto fiscale, ma lo ha svincolato dalla condizione dell’offerta d’acquisto che avrebbe dovuto presentare l’eterogenea cordata, ormai dissolta, assemblata dalle Ferrovie e da Mediobanca. In cambio del finanziamento, il decreto chiede all’organo commissariale di elaborare “un piano avente a oggetto le iniziative e gli interventi di riorganizzazione ed efficientamento aziendali” funzionali tuttavia al tempestivo “trasferimento dei complessi aziendali”.

Cosa vuol dire tutto questo e cosa cambia rispetto al percorso seguito nei due anni e mezzo trascorsi senza conseguire risultato alcuno? Nella realtà non cambia assolutamente nulla rispetto alla rotta sbagliata dettata a maggio 2017 dal ministro Calenda e sinora mai corretta da chi gli è succeduto. Il mandato di allora era quello di vendere al più presto, senza neppure metter mano ai conti, peraltro del tutto sconosciuti all’epoca e anche dopo, né provvedere al riordino della gestione aziendale, per il quale sarebbero stati peraltro necessari manager aeronautici e non commercialisti o manager telefonici. Una mission impossible, dato che in quelle condizioni, rimaste sinora invariate, Alitalia era invendibile. Al più si poteva pensare a una donazione d’organi del paziente in stato terminale.

A maggio 2017 vi erano tre strade apparenti per le scelte pubbliche: vendere Alitalia, chiudere Alitalia o risanare Alitalia. La prima era impraticabile, la seconda molto costosa, dato che già il drastico ridimensionamento aziendale del 2008 aveva comportato secondo un noto studio di Mediobanca ben 4 miliardi di oneri pubblici, in pratica il valore di un’intera nuova flotta di lungo raggio. Dunque l’unica scelta razionale era risanare, ma essa non è stata chiesta né fatta in oltre 30 mesi di amministrazione straordinaria. E ciò che è non è stato fatto in 30 mesi si può ora fare in soli sei, come chiede in apparenza il nuovo decreto? Bisognerebbe nominare Mago Merlino come nuovo commissario unico. Escludendo che egli sia disponibile, restano due sole ipotesi ulteriori: o il nuovo decreto rappresenta un clamoroso caso d’ingenuità oppure il termine ‘riorganizzazione’ deve essere letto come ‘spezzatino’ e il termine ‘trasferimento dei complessi aziendali’ come ‘donazione d’organi’, in favore ovviamente di qualche soggetto sul quale essi possano essere innestati con beneficio per il medesimo. In questa ipotesi ad Alitalia non servono più né manager aeronautici né soggetti dotati di magici poteri, basta un chirurgo vivisezionista.

Tutta questa operazione comporta peraltro costi monetari per le casse pubbliche, e dunque per il contribuente, elevatissimi. Infatti i nuovi 400 milioni vanno ad aggiungersi ai 600 concessi a maggio del 2017 e ai 300 milioni aggiunti nell’autunno dello stesso anno, per un totale di 1,3 miliardi. A essi dovremmo tuttavia correttamente aggiungere ulteriori 200 milioni abbondanti di interessi sinora maturati sui prestiti e mai pagati dai commissari e almeno 160 milioni oneri di cassa integrazione, per un impegno finanziario pubblico complessivo che sfiora ormai 1,7 miliardi. Cosa è stato ottenuto in cambio di tutti questi soldi? Assolutamente nulla dato che Alitalia nei due anni e mezzo di gestione commissariale non è stata venduta, non è stata risanata e neppure chiusa.

Accanto al danno non possiamo dimenticare la beffa, il fatto che sia stato fatto credere all’opinione pubblica che vi potesse essere una cordata di salvatori della compagnia patria, i quali con un impegno finanziario pari a solo la metà di quello pubblico prima ricordato avrebbero compiuto il miracolo del rilancio, quasi fossero dei novelli ‘capitani coraggiosi’. Così ci hanno raccontato per lunghi mesi dei sei personaggi in cerca di vettore: le FS, il Mef, Delta, l’advisor Mediobanca, il socio principale Atlantia da essa individuato e la prudente Lufthansa. Ma erano davvero in cerca di vettore oppure Alitalia era solo un comodo taxi verso altri obiettivi? FS è stata incaricata dal precedente governo di coordinare l’iniziativa e il fine ovvio sembra essere quello di uscirne nel modo migliore possibile e con l’impatto minore possibile sui suoi conti; il Mef può solo puntare a recuperare una parte limitata dei soldi erogati; Delta mette un epsilon di capitali e un abbondante set di vincoli e paletti a difesa della sua posizione dominante sulle rotte nordatlantiche; Lufthansa ha interesse a portare più passeggeri italiani nei suoi hub poco più a nord delle Alpi; Atlantia con Alitalia paga semplicemente un pedaggio per essere riammessa nella buona società dei titolari di ricche concessioni pubbliche. A chi è potuto venire in mente di aprirle le porte per un simile impresentabile scopo?

Addio al giudice Sossi, “processato” dalle Br

Quella foto, lo sguardo stralunato, il maglione sformato, un’ecchimosi all’occhio per via di un tamponamento in macchina durante le fasi del rapimento e – soprattutto – il drappo rosso con la stella a cinque punte issato alle spalle, non fu la prima di un “prigioniero” diffusa dalle Brigate Rosse: ma lo scatto dell’aprile 1974 di Mario Sossi – morto ieri a Genova all’età di 87 anni – è quello che più assomiglia alla celebre foto di Aldo Moro, che sarà scattata quattro anni dopo.

Il suo rapimento fu il primo vero “attacco al cuore dello Stato” da parte delle Brigate rosse. Il magistrato fu rapito a Genova il 18 aprile 1974 e tenuto prigioniero per 33 giorni, fino alla liberazione avvenuta il 23 maggio. Sossi aveva la fama di “duro”, non era certo un giudice progressista (come i colleghi Emilio Alessandrini e Guido Galli, uccisi a Milano da Prima linea nel 1979 e nel 1980 proprio per questa loro caratteristica) ed era allora il pm del processo alla banda “XXII ottobre”, sgangherato gruppo guerrigliero soprannominato “i tupamaros della Val Bisagno”, responsabile di quello che è passato alla storia come il primo omicidio degli “anni di piombo”, la morte del portavalori dell’Istituto autonomo case popolari Alessandro Floris, ucciso durante un maldestro tentativo di rapina il 26 marzo 1971 a Genova.

Sossi fu scelto anche per questa sua fama. Subì, come Moro nel ‘78, un “processo proletario” condotto dal fondatore delle Br Alberto Franceschini. Al termine del processo il prigioniero fu condannato a morte se non fosse stata accolta la richiesta di liberazione (ed estradizione in paesi “amici”) dei “tupamaros della Val Bisagno” e di altri “detenuti politici”. Il 20 maggio 1974 la Corte d’assise e d’appello di Genova diede parere favorevole alla libertà provvisoria. Cuba, Algeria e Corea del Nord rifiutarono di concedere l’asilo politico, ma a bloccare l’operazione fu il procuratore generale di Genova Francesco Coco che si rifiutò di controfirmare l’ordinanza di scarcerazione.

Le Br, tuttavia, decisero di liberare ugualmente Sossi perché – sostiene la memorialistica brigatista – aver obbligato lo Stato a trattare e, quindi, a riconoscere le Br come soggetto politico, fu considerato un successo. Coco, tuttavia, pagherà con la vita il suo gesto: fu ucciso a Genova, insieme agli uomini di scorta Giovanni Saponara e Antioco Deiana, l’8 giugno 1976, le prime persone deliberatamente uccise dalle Brigate Rosse. Il rapimento Sossi e l’omicidio Coco costituiranno poi il corpo centrale del processo ai capi storici delle Brigate Rosse che sarà istruito e celebrato a Torino tra il 1976 e il 1978.

A quel processo prese parte, come testimone, anche Mario Sossi e l’allora presidente della Corte d’assise di Torino Guido Barbaro – con una decisione che fece molto discutere – concesse ai brigatisti di controinterrogare il testimone.

Sossi era in pensione dal 2006. L’anno successivo si candidò con An al Comune di Genova e nel 2009 alle Europee con Forza Nuova.

Spot azzardo, i big del gioco aggirano il divieto di burro

Un anno e mezzo fa il governo, allora dai colori gialloverdi e su spinta dei gialli cioè i Cinque Stelle, s’è illuso di eliminare la pubblicità sulle scommesse con un articolo di poche righe e sette commi nel cosiddetto decreto legge “dignità”. Chi macina miliardi di euro con l’azzardo non s’è rassegnato dinanzi a una legge farcita di buone intenzioni e di fragilità giuridiche, ma s’è inventato trucchi per aggirare i divieti.

Le multinazionali Bwin e William Hill, per esempio, riescono a raggiungere gli italiani con un semplice stratagemma che non è sfuggito all’Autorità di garanzia per le Comunicazioni, più conosciuta con la sigla Agcom, delegata a controllare e poi a sanzionare. La coppia Bwin e William Hill ha lanciato una sezione di notizie – si dilettano con l’informazione – con lo stesso logo che richiama al marchio da sempre legato alle scommesse, così finiscono sui cartelloni ai bordi del campo, perfetti per gli spettatori allo stadio, ripresi dalle telecamere per i tifosi da casa e addirittura sono tornati in televisione durante l’intervallo delle partite di calcio. Chi digita nei motori di ricerca su Internet la scritta “Bwin sport”, che ha letto allo stadio o allo schermo, viene indirizzato al sito con le quote per scommettere. Come prima, più di prima: perché ora la legge lo impedisce.

Adesso l’Agcom ha avviato un preliminare di istruttoria che consiste in lettere di “richiamo” agli operatori Bwin e William Hill per ottenere una spiegazione e, semmai, una correzione degli spot. Il governo ha coinvolto l’Agcom nella feroce battaglia contro la promozione dell’azzardo, però l’Agcom non ha una struttura adatta a sorvegliare 50.000 tabaccai, centinaia di eventi sportivi, una quantità infinita di portali specializzati, decine di aziende, soprattutto straniere, che di certo non patiscono l’influenza politica italiana. Bwin fa parte del gruppo Gvc Holdings, quartiere generale all’Isola di Man, 3 miliardi di euro di fatturato, 5 miliardi di valore alla Borsa di Londra. Anche William Hill è inglese, più antica e più “piccina” con 1,6 miliardi di euro nel 2018. Quanto siano spaventate dalle lettere di “richiamo” dell’Agcom è irrilevante, non serve neanche scommetterci.

I commissari dell’Autorità possono pure multare le società furbette, che poi penalizzano l’intera categoria che invece si attiene alle regole, e fissare un prezzo da 50.000 euro in su, ma chi lo dice, e come lo dice, che Bwin non possa divulgare la sua nuova attività “giornalistica” se la legge tace sul punto in questione? E poi perché i commissari guidati da Angelo Cardani, con il mandato terminato a metà luglio e in oziosa proroga da mesi per colpa della politica, devono infilarsi in un contenzioso a tempo più che scaduto?

Neppure l’Agcom, però, è priva di responsabilità oggettive, le “linee guida” per illustrare le norme un po’ raffazzonate sono arrivate in aprile e non spiccano per severità, anzi. Dopo un incomprensibile periodo di maturazione in chissà quali cassetti, soltanto il 14 luglio 2019 l’Autorità si è decisa – con il voto contrario di Antonio Nicita e Francesco Posteraro e favorevole di Antonio Martusciello e Mario Morcellini – a inviare al governo una segnalazione per chiedere una riforma di una legge licenziata il 12 luglio 2018. Questo coacervo di strafalcioni, esitazioni e interessi non aiuta a contrastare la ludopatia, che poi era l’intenzione dei Cinque Stelle. Per anni il connubio tra sport (pallone), media e scommesse ha foraggiato un sistema che ha paura di implodere, come recita il paragrafo 4.3 del documento che Cardani, sostenuto da Morcellini e Martusciello, ha spedito a Palazzo Chigi. S’intitola “l’impatto del divieto” agli spot: 100 milioni di euro in meno per le televisioni; 100 per la Serie A; 40,8 per l’editoria. Un articolo di poche righe, sette commi e l’Agcom confusa non bastano.

La Germania può: la banca si salva con i soldi pubblici

Una certa preveggenza gli va riconosciuta. “È tutto in linea con le norme Ue”, diceva il governo regionale della Bassa Sassonia il 2 febbraio. “È tutto in linea con le norme Ue”, ha detto ieri la Commissione europea. E così la malmessa banca pubblica Norddeutsche Landesbank – Girozentrale (NordLb) verrà salvata con soldi altrettanto pubblici senza che la mitologica Dg Competition di Bruxelles abbia ravvisato tracce dei malefici “aiuti di stato”.

Tutto a posto e tanti saluti a Banca Etruria e alle altre cinque o sei banche italiane che, in un modo o nell’altro, sono andate a ramengo mentre la Commissione Ue bloccava qualunque aiuto pubblico e costringeva l’Italia alla spoliazione persino dei piccoli risparmiatori.

La decisione era talmente scontata che questo giornale – dopo l’annuncio “informale” del via libera sui giornali tedeschi – ne aveva dato notizia un mese fa. D’altra parte che le leggi – nel caso di scuola la direttiva Brrd nota agli amici come bail-in e il resto del diritto comunitario – si applichino ad alcuni (gli italiani, ad esempio) e si interpretino per altri (i tedeschi, per dire) è un fatto universalmente noto nel ring commerciale denominato Unione europea. Stavolta, va detto, la cosa è talmente scoperta che persino uno dei padri ideologici del kamasutra regolamentare Ue in materia bancaria – l’economista francese Nicolas Véron del Bruegel – ha attaccato Margrethe Vestager su Twitter: “C’è un solo esperto indipendente che trovi l’approvazione della Commissione Ue del salvataggio pubblico di NordLb altro che squisitamente politica?”.

Ricapitoliamo. NordLb è una banca con un bilancio da 150 miliardi (dieci e più volte Etruria, per capirci) di proprietà dei Land della Bassa Sassonia (59,1%) e Sassonia-Anhalt (5,5%) e per il resto di un gruppo di piccole casse di risparmio locali. Nel 2018 ha chiuso l’anno in rosso per oltre due miliardi e anche quest’anno dovrebbe finire in perdita: pesano in particolare sull’istituto le “sofferenze” (Npl) accumulate nel settore navale, che zavorrano i conti. Alla fine dello scorso anno era chiaro a tutti che, per far fronte alle perdite passate e future, alla banca serviva capitale fresco e un piano che la rimettesse in carreggiata. All’inizio del 2019 i fondi americani Cerberus e Centerbridge fanno un’offerta: vogliono il 50% della banca per soli 900 milioni e presentano un piano lacrime e sangue. L’offerta però, che significherebbe la perdita del controllo dell’istituto da parte dei due Land e una discreta mazzata per l’economia dell’area, viene respinta e ne nasce il salvataggio pubblico.

NordLb verrà aiutata con 3,6 miliardi di soldi pubblici, che però “non sono aiuti di Stato”: lo diceva a febbraio la politica tedesca, lo dice ora anche la Commissione Ue. A guardare la cosa da vicino è un po’ difficile nascondere il ruolo dello Stato: la regione della Bassa Sassonia mette un miliardo e mezzo, la Sassonia-Anhalt altri 200 milioni, un altro miliardo abbondante le casse di risparmio attraverso, pare, il Fondo di garanzia dei depositi delle Landesbank (ci torneremo); in aggiunta sempre la Bassa Sassonia ci mette altri 800 milioni di garanzie. Nel frattempo il bilancio della banca si ridurrà sotto i 100 miliardi abbandonando il settore navale, e il personale verrà dimezzato entro il 2024 (da 5.600 a 2.800 persone).

E che dice Bruxelles? “Il piano non presenta aiuti di Stato (…) Le misure sono realizzate a condizioni di mercato, nel senso che lo Stato riceverà una remunerazione del capitale in linea con quella che avrebbe accettato un privato nelle stesse circostanze”. Chi lo ha stabilito? Ma quelli di NordLb e la Commissione, ovviamente: anche se a giudicare dalle svalutazioni e ristrutturazioni sottese all’offerta di Cerberus non parrebbe proprio. Anche loro, comunque, hanno avuto la loro parte: un pacchetto da 2,6 miliardi di Npl “navali” è finito a prezzo vile proprio al fondo del trumpiano Steve Feinberg.

Particolarmente curioso – a non voler vedere i 2,5 miliardi di fondi regionali – che circa un terzo del salvataggio sia realizzato dal Fondo interbancario tedesco. È curioso perché quello italiano – alimentato dai soldi che le banche devono versarci per legge – fu proprio lo strumento che nel 2015 la Commissione Ue ci vietò di usare per la Cassa di Teramo (Tercas) innescando al giro successivo il bail-in per Etruria e le altre. Il 19 marzo scorso, poi, la Corte di giustizia Ue ha stabilito – su ricorso dell’Italia – che ricorrere al fondo di garanzia sui depositi non è un aiuto di Stato: la commissaria Vestager ha presentato appello contro quella sentenza. Cosa è successo a Tercas? Su “consiglio” di Banca d’Italia se l’è caricata la Popolare di Bari, che però non ne regge il peso: è il prossimo, urgente salvataggio italiano da discutere con la “Direzione Due pesi e Due misure” detta Dg Competition.

Manovra: intesa e testo blindato

La lunga giornata della manovra si conclude in tarda serata con l’incontro “interlocutorio” al Quirinale tra Conte e il presidente della Repubblica Mattarella, col premier costretto a raccontare solo lo stato dell’arte della situazione della prossima legge di Bilancio. I dettagli tecnici e le coperture sono da definire: a tre settimane dalla fine dell’anno, in Parlamento non si è svolto ancora un singolo voto. Così, dopo 48 ore di scontri all’interno della maggioranza e nonostante l’annuncio del ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà – “Abbiamo chiuso su tutto” – ancora non c’è il via libera finale alla manovra da 30 miliardi.

Il motivo del rallentamento è la battaglia contro le tasse (soprattutto su plastica e bevande gasate) infilate in manovra e su cui Italia Viva di Renzi ha aperto lo scontro. L’effetto è stato quello di ripetere la stessa scena dell’anno scorso anno con i tempi parlamentari compressi: 25 giorni per dare l’ok e evitare l’esercizio provvisorio. Sempre più difficile immaginare e programmare un esame approfondito da parte di Camera e Senato. Si fa così strada l’ipotesi di lasciare ai soli senatori i margini per le modifiche, con i deputati che si troverebbero a convalidare solo il pacchetto di misure travasando le loro istanze nel pacchetto di emendamenti dei relatori. Le opposizioni già protestano e la Lega minaccia il ricorso alla Consulta. Ma l’iter è segnato. Lunedì 9 il governo presenterà in commissione Bilancio del Senato l’emendamento frutto dell’accordo raggiunto ieri pomeriggio, mentre l’approdo in Aula è fissato per giovedì 12. Poi, con la fiducia sarà possibile licenziare il testo venerdì 13 dicembre, procedendo con sole due letture.

Il braccio di ferro fino all’ultimo centesimo prevede lo slittamento a luglio della riduzione da 50 a 40 centesimi al chilo della plastic tax e la partenza da ottobre della sugar tax. Per coprire le modifiche si sta pensando di introdurre una tassa sulla fortuna per le vincite oltre i 25 euro. Si potrebbero, dunque, ampliare le vincite su cui si applica il prelievo del 15%. Per le due tasse serviranno, infatti, un po’ più di 300 milioni. Maggioranza e governo lavoreranno nel fine settimana anche alle coperture che servono per l’aumento, probabilmente di 40 milioni, dei fondi per i Vigili del fuoco chiesto da M5S. Si va, poi, dall’aumento delle borse per gli specializzandi in Medicina (che si vorrebbe portare almeno a 1.500 euro, ma si cercano altri 25 milioni), alla conferma della cedolare secca per i negozi o dei vari bonus rimasti fuori dalla prima stesura della manovra, fino al bonus verde per terrazzi e giardini. Ci sono poi le risorse ulteriori per gli ammortizzatori sociali o le misure per rafforzare il pacchetto famiglia: dagli asili nido al congedo dei papà da portare a 10 giorni. Tra i capitoli da rivedere ci sarebbe anche l’ultima proposta avanzata dal governo: una Robin Tax sui concessionari pubblici. L’obiettivo, viene spiegato, è quello di evitare che l’addizionale Ires del 3% per tre anni possa avere un impatto negativo sulle bollette.

Raddoppio di Fiumicino, nonostante lo stop Benetton ci riprova. E aumenterà le tariffe

Lo Stato stabilisce che il raddoppio dell’aeroporto di Fiumicino non si deve fare. E i Benetton, che quello scalo hanno in concessione con Aeroporti di Roma (AdR), che rispondono? Che il raddoppio lo fanno lo stesso.

Quasi in contemporanea con la decisione del ministero dell’Ambiente di pubblicare le conclusioni della Valutazione di impatto ambientale (Via), già anticipate dal Fatto e contrarie al raddoppio dell’aeroporto, l’ad di Adr Ugo De Carolis ha spiegato al Sole 24 Ore che di riffa o di raffa i Benetton hanno deciso di procedere ugualmente a modo loro.

Implicitamente ribadendo il concetto che considerano di fatto lo scalo romano come l’argenteria di casa e non un bene pubblico ricevuto dallo Stato con cui realizzare giusti profitti, ovviamente, ma soprattutto per curare l’interesse generale nel rispetto delle leggi. Comprese quelle norme che sanciscono l’esistenza di una Riserva naturale statale proprio nei terreni in cui i Benetton vorrebbero si espandesse l’aeroporto e che, guarda caso, sono in larga misura di loro proprietà.

Siccome il manager di Adr prevede che per raddoppiare lo scalo con la costruzione di una quarta pista saranno necessari investimenti massicci, per finanziarli non esclude neppure un nuovo aumento delle tariffe. Che sarebbe pagato dai viaggiatori in partenza e in arrivo a Roma con rincari dei biglietti aerei che si sommerebbero ai notevoli incrementi tariffari (dai 10 ai 12 euro in media a biglietto) concessi alla vigilia di Natale di 7 anni fa dal governo Monti che di lì a qualche giorno si sarebbe dimesso. In forza di questi aumenti, i Benetton dal 2013 al 2018 si sono elargiti a Fiumicino dividendi stellari, quasi un miliardo di euro.

Di fronte alla caparbia insistenza dei Benetton per il raddoppio dell’aeroporto, i dirigenti del Comitato Fuoripista annunciano nuove battaglie. Dopo essersi impegnati per anni non contro lo sviluppo di Fiumicino che, anzi, considerano auspicabile, ma contro l’espansione dello scalo sui terreni della Riserva (ritenuto dannoso e inutilmente dispendioso), un paio di giorni fa il Comitato Fuoripista aveva brindato all’ottimo successo ottenuto con la Valutazione di impatto ambientale che sbarrava la strada proprio al raddoppio. Ma le dichiarazioni dell’ad di Fiumicino, che invece quel raddoppio lo contempla di nuovo, sono state per loro una doccia gelata e una campana d’allarme che li costringe a riprendere l’iniziativa.

In 43 pagine, la Commissione ministeriale per l’impatto ambientale non si limita a spiegare con dovizia di particolari che è una pretesa assurda voler espandere un aeroporto con tutto quello che si porta dietro (piste, alberghi, centri commerciali, parcheggi, ferrovie, nuove vie di collegamento etc.) sui terreni di una Riserva naturale statale.

Ma la Commissione fa di più: rimprovera ai manager dello scalo di aver studiato per Fiumicino un progetto, il Masterplan 2030, che non prendeva minimamente in considerazione la possibilità di raggiungere gli stessi obiettivi di sviluppo, cioè la copertura degli incrementi di traffico previsti e auspicabili, utilizzando la parte libera dei 1.588 ettari del sedime aeroportuale esistente. Stando alle dichiarazione dell’amministratore di Fiumicino, i Benetton ora puntano al raddoppio dello scalo con la costruzione di una quarta pista che invaderebbe i terreni della riserva per un totale di 264 ettari.

Avverte il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa (M5S): “La Commissione Via è stata chiarissima e quella decisione non può essere ignorata. Ora si parla di quarta pista e noi non siamo contrari a prescindere. L’importante è che essa non impatti con la riserva e non ci siano conseguenze ambientali”.

L’ad di Rfi in barca con l’imprenditore che fa affari con Rfi

“Un incontro occasionale e breve”. Così in Rfi (Rete ferroviaria italiana) hanno classificato un incontro estivo tra l’amministratore delegato Maurizio Gentile a bordo di uno yacht di un imprenditore, ormeggiato a Punta Ala, in provincia di Grosseto. Insomma niente di più di un caffè preso per caso. Il punto è che quell’imprenditore è a capo di una importante ditta che lavora in tutta Italia per diversi committenti, ma anche per Rfi, per la quale ha svolto e sta svolgendo ancora importanti opere. Di quel tempo trascorso sullo yacht, però, è arrivata notizia anche all’interno dell’impresa controllata al cento per cento da Ferrovie dello Stato, Spa partecipata a sua volta dal ministero dell’Economia. La vicenda è stata analizzata da un comitato formato dai rispettivi presidenti del Cda, dell’organismo di Vigilanza e del collegio sindacale, i quali hanno concluso che “non vi è alcun aspetto contrastante il codice etico”.

L’imprenditore che ha ospitato Gentile – nominato amministratore delegato nel 2014 – sullo yacht “Melanie” è Franco Ceprini, presidente del Cda della Ceprini costruzioni Srl. È un’azienda leader nel settore che ha chiuso il 2018 con un utile di 6 milioni di euro. Da oltre quarant’anni lavora nel campo delle opere di ingegneria civile soprattutto con committenti pubblici, al punto da risentirne quando gli investimenti della pubblica amministrazione rallentano. È successo nel 2018, con il fatturato che è sceso da 105 a 94 milioni. Nell’ultimo bilancio si citano dunque le opere alle quali la Ceprini Costruzioni ha lavorato, alcune commissionate da Rfi. Come la progettazione e l’esecuzione di una serie di lavori per la realizzazione del raddoppio della linea ferroviaria Firenze-Viareggio, nella tratta Pistoia-Montecatini Terme, appalto vinto con un raggruppamento di imprese negli anni precedenti e per il quale sono stati stanziati 136 milioni di euro. La Ceprini ha lavorato anche alla stazione di Arezzo o in quella di Fidenza, per citare alcune commesse. Con Rfi, insomma, l’azienda lavora tanto, già da molti anni prima della nomina di Gentile, come pure ha vinto appalti anche con altri committenti, come Italferr, altra partecipata di Ferrovie dello Stato, oppure con privati.

Franco Ceprini nel frattempo è finito anche in un guaio giudiziario. È ancora indagato nell’inchiesta denominata “Amalgama”. È un’indagine nata a Roma, dove a Ceprini viene contestata una corruzione nell’ambito di un appalto che non ha nulla a che vedere con Rfi e che invece riguardava i lavori del Terzo Valico ferroviario dei Giovi. Sono accuse per le quali l’imprenditore in passato è finito ai domiciliari per una settimana, misura revocata a novembre 2016 dal gip di Roma. “In questa vicenda, dopo il nostro interrogatorio – spiega l’avvocato Emilio Festa, legale di Franco Ceprini – il gip ritenne subito che non vi erano più le esigenze cautelari. In ogni modo, la posizione dell’imprenditore è molto marginale e il procedimento riguarda tante altre persone”.

Sono passati anni e quel procedimento è in fase preliminare: si sta ancora discutendo la competenza territoriale. Da Roma infatti è stato mandato a Bolzano e poi ad Alessandria. Quindi finora le accuse a Ceprini non hanno trovato conferma in una sentenza.

Ma questa è un’altra storia. Torniamo all’incontro a Punta Ala con l’Ad di Rfi. Contattato dal Fatto, Ceprini spiega: “Non c’era un incontro studiato, Gentile passava lì sotto e siccome ci conosciamo, ci siamo salutati e ho chiesto se gradiva un caffè”. L’imprenditore definisce il rapporto tra i due di tipo “professionale”. Si conoscono per i rispettivi ruoli svolti. Non c’è mai stata, spiega, alcuna vacanza insieme.

E di incontro rapido e casuale parlano anche in Rfi. “L’incontro è stato occasionale ed è avvenuto nel porto di un luogo di frequentazione abituale dell’ing. Gentile – spiegano da Rfi –. Altrettanto occasionale è stata la breve ospitalità offerta”. In azienda la vicenda è stata analizzata da un comitato interno composto dal presidente del Cda (Claudia Cattani), dal presidente del collegio sindacale (Maurizio D’Amico) e dal presidente dell’organismo di vigilanza. “La documentazione fotografica – spiegano da Rfi – è stata oggetto di una segnalazione anonima che l’azienda, in base alla prevista procedura di gestione di tali segnalazioni (il cosiddetto whistleblowing), ha analizzato con un’indagine interna affidata, come previsto dalle norme aziendali, al comitato”. Questo organo “a conclusione di tale approfondimento, non ha rilevato aspetti contrastanti con il codice etico aziendale”. Insomma solo un caffè, per caso. Al sole dell’Argentario.