Il “gran casino” del Morandi. Il Tar: “Decida la Consulta”

“Un casino incredibile!”. L’espressione di uno dei giuristi che si sono occupati della vicenda non è in punta di diritto, ma rende bene l’idea: il Tar della Liguria ha deciso che la Corte costituzionale debba pronunciarsi sulla legittimità del decreto Genova. E se la Corte dovesse ‘bocciare’ la legge allora tutto rischierebbe di essere messo in discussione: la demolizione, la ricostruzione, forse la stessa nomina del commissario Marco Bucci. Davvero “un casino incredibile!”.

Certo, la decisione della Corte costituzionale richiederà tempo, forse un anno. Per allora il nuovo ponte sarà già ricostruito. Ma che cosa succederà allora? Ovvio, il nuovo ponte non sarà abbattuto. Quindi? Primo: “Se venissero accolti i ricorsi presentati da Autostrade, la società potrebbe ottenere un risarcimento” per essere stata esclusa da demolizione e ricostruzione, spiega Giuseppe Daniele, presidente del Tar Liguria. Secondo, Aspi potrebbe chiedere che venga ricalcolata la somma, che ritiene “esorbitante”, chiesta dal Commissario la ricostruzione al concessionario (449 milioni). E alla fine l’eventuale danno subìto da Aspi e la somma da essa dovuta potrebbero essere compensati. Allo Stato i denari – quanti poi? – rischierebbero di arrivare tra anni. Mentre, come sostiene l’ordinanza del Tar, citando Aspi, era dovere e diritto di Autostrade ricostruire il ponte. Sempre a costo zero per lo Stato.

Il ricorso era nato proprio contro l’esclusione dalla demolizione e ricostruzione del ponte. I legali di Autostrade hanno impugnato il “decreto Genova” del governo gialloverde, quindi anche la nomina di Bucci e i provvedimenti da lui presi come commissario. Hanno chiesto al Tar di porre la questione di costituzionalità e il tribunale l’ha giudicata ammissibile e rilevante. Scrive il Tar: Autostrade “asserisce di essere titolare dell’obbligo/diritto di procedere al compimento di tutte le attività funzionali alla ricostruzione del viadotto Polcevera”, in base alla concessione. Alla quale si poteva derogare con una legge se adeguatamente motivata: secondo i giudici ciò non sarebbe avvenuto. Per la legittimità del provvedimento, dicono, “avrebbero dovuto essere svolta un’istruttoria o, comunque, un accertamento dai quali fosse possibile far emergere quantomeno indizi di responsabilità da parte di Aspi”. Autostrade, però, è ancora concessionaria e per revocare la concessione “non basta neppure il perdurare dell’inadempimento, ma occorre che lo Stato instauri un procedimento amministrativo nell’ambito del quale il concessionario può esercitare i diritti”. La concessione, spiega il Tar, “attribuisce al debitore (Autostrade, ndr)”, anche se “gravemente inadempiente, una tutela molto accentuata e certamente derogatoria rispetto alle comuni previsioni”. Il Tar ricorda anche che “l’obbligo di riparazione è ‘a cura e spese’ della Concessionaria, con il correlativo rischio economico, senza che su questo possano incidere le previsioni ed eventuali limitazioni”. Quindi nel decreto e a cascata nelle decisioni del commissario ci potrebbero essere violazioni di diritti e principi protetti dalla Costituzione: “Ragionevolezza”, “non arbitrarietà”, “libertà imprenditoriale e della concorrenza”. Spiega il tribunale amministrativo: “Tutto questo fa dubitare della legittimità costituzionale” di molti articoli del decreto Genova.

Ma c’è un altro punto: Aspi sostiene di non dovere al Commissario tutti i 449 milioni perché il progetto scelto è troppo costoso. Ce n’erano altri più economici e con tempi di realizzazione inferiori. Un punto che susciterà certo polemiche: “La somma richiesta ad Aspi per il pagamento di demolizione e ricostruzione sarebbe spropositata ed esorbitante… sia in relazione all’offerta di Aspi (che aveva presentato un proprio progetto, ndr) che in relazione alle offerte presentate da altri soggetti”. Autostrade non usa giri di parole: “La scelta di aggiudicare la procedura in argomento al raggruppamento Salini/Fincantieri anziché a quello con capogruppo Cimolai sarebbe priva di qualsiasi giustificazione e motivazione, così come sarebbe illogico e immotivato il fatto che il Commissario Straordinario non abbia valutato ed esaminato anche le offerte degli altri concorrenti (quantomeno di Pavimental)… del tutto comparabili in termini tecnico progettuali e più convenienti dal punto di vista economico e temporale”. Il giudizio è congelato in attesa della sentenza della Consulta.

Verdini battezza i due Matteo. È il SalviRenzi per le elezioni

Non si saranno visti nella villa di Denis Verdini al Pian dei Giullari sulle colline intorno a Firenze, Matteo Renzi e Matteo Salvini. Ma che i due si parlino spesso e volentieri dall’inizio della legislatura non è un segreto. I bene informati si dicono certi che l’incontro a tre (riportato ieri da La Stampa) ci sia stato, magari in un’altra location. D’altra parte, la legislatura traballa, Salvini ha tutto l’interesse ad andare a votare, Renzi comincia a prendere in considerazione l’ipotesi. E a cercare di capire come rivolgere a suo vantaggio quello che in realtà è un incubo.

Ci sono almeno due dossier che il fu Rottamatore ha posto all’attenzione del leader della Lega: la legge elettorale e le Regionali in Toscana. Renzi ha bisogno di un proporzionale, con soglia elettorale bassa (3-4%), dati i sondaggi non esattamente favorevoli. Dato da non dimenticare: proprio Verdini, ai tempi del Nazareno, a studiare il sistema elettorale per l’allora segretario dem. Per quel che riguarda la Toscana, l’ex premier deve trovare il modo di garantire Eugenio Giani (suo candidato, che però rappresenta il centrosinistra) visto che quella Regione è la roccaforte del sopravvissuto renzismo. E il centrodestra può dargli una mano, con un candidato debole o magari dividendosi.

Il leader di Iv è pronto a promettere a Salvini di far saltare il banco? Conoscendolo, non si può escludere. Anche se poi che lo faccia davvero è tutto da dimostrare. Insomma, anche se non si può parlare di un vero e proprio patto (troppe le variabili in campo), i due sono pronti ad aiutarsi l’un altro.

Intanto i protagonisti smentiscono, pure se non proprio all’unisono, l’incontro di ieri. “È una balla spaziale”, si sfoga il presunto padrone di casa in privato. “Ho tanti difetti, ma se devo sorseggiare un rosso lo faccio in buona compagnia: non ho mai incontrato Renzi nemmeno per 12 secondi”, chiarisce Salvini. Mentre la nota di Iv è più morbida: “Renzi e Salvini non si sono incontrati a Firenze, meno che mai nella casa di Denis Verdini. I due senatori si sono invece incrociati in Senato”.

Lunedì, in occasione dell’informativa di Conte sul Mes, i due omonimi hanno parlato per una decina di minuti. E da quel giorno, Renzi ha cambiato strategia, cominciando a disseminare segnali per cui sarebbe pronto ad andare alle urne. In genere, garanzia certa che vuol fare il contrario. Cosa che poi sarebbe logica: le elezioni con il Rosatellum vorrebbero dire tornare in Parlamento con truppe ridottissime, senza contare nulla; l’indagine su Open lo mette in difficoltà sia mediaticamente che economicamente: in questa situazione, chi dovrebbe finanziare la sua campagna elettorale? D’altra parte, anche andare avanti così non è brillante: Iv non cresce, il Pd lavora a una riforma elettorale che lo tagli definitivamente fuori. Meglio tenersi aperti tutti gli spiragli possibili. Impensabile un’alleanza con Salvini oggi, ma un domani, dopo le elezioni, le cose potrebbero cambiare.

L’obiettivo del 10% per Iv oggi è una chimera, ma fare l’ago della bilancia in una futura legislatura, grazie a un proporzionale, no. A proposito di richiami, nella manifestazione di Iv a Pistoia sabato, Renzi indossava il maglioncino scuro girocollo stile Berlusconi. Qualche giorno fa, Salvini è andato all’inaugurazione del Consolato israeliano a Firenze da Marco Carrai. Sulla manovra, il leader di Iv terremota il governo più che mai. E l’occasione per mandare sotto la maggioranza potrebbe essere dietro l’angolo: il voto sulla legge Costa che ferma l’entrata in vigore dello stop alla prescrizione il primo gennaio. Iv ha già annunciato il suo sì.

Intanto, la prima data da cerchiare sul calendario è giovedì 12 dicembre: Renzi interverrà nel dibattito straordinario in Senato sui finanziamenti alla politica. Altro tema rispetto al quale condivide qualche problema con il “compagno” Salvini (definizione sua, lunedì a Palazzo Madama).

Salvini “sistema” anche Lady Papeete

“È lei la donna che amo più della mia vita e che devo ringraziare per il percorso fatto negli ultimi dodici anni. Tutte le cose importanti sono state condivise con lei. Jenny, sei una grande donna, una grande mamma, una grande moglie”. E un domani, forse, anche una politica. Tra i nomi che la Lega sta pensando di candidare alle prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna ci sarebbe anche quello di Jenny Incorvaia, moglie dell’europarlamentare Massimo Casanova.

Noto ai più, Casanova, come il titolare del Papeete, il locale di Milano Marittima dove Matteo Salvini ama passare le proprie vacanze e aprire crisi di governo. Proprio da qui, tra un mojito e l’altro, la scorsa estate lanciò la corsa di Lucia Borgonzoni a presidente dell’Emilia-Romagna. Alle scorse Europee, Casanova raccolse più di 65 mila preferenze arrivando secondo solo all’ex ministro. Un bel pacchetto di voti in poco meno di un mese di campagna elettorale lungo la circoscrizione meridionale: in particolare la Puglia dove i Casanova hanno casa, ai piedi del Gargano vicino al lago di Lesina. Recentemente la tenuta, sui 600 ettari, è stata oggetto di un esposto per presunti abusi edilizi cui è seguita una ispezione da parte della Guardia di Finanza. Proprio in questa villa, Salvini si sarebbe riposato un paio di giorni in compagnia dell’amico fraterno prima delle Regionali in Abruzzo.

Un rito fortunato che i due potrebbero ripetere a breve. Sostenitore del Carroccio fin da giovanissimo, ha raccontato più volte che nel 1988 convinse la madre a mettere a disposizione l’albergo familiare per ospitare uno dei primi incontri di Umberto Bossi. Ai tempi in Romagna nessuno voleva accogliere il Senatùr. I Casanova hanno tre figli, due gemelli e una bambina, e sono cattolici. Incorvaia ha un passato atletico, negli anni Novanta partecipava a competizioni, nazionali ed europee, di ballo boogie woogie.

Da sempre gran sostenitrice del compagno, negli anni ne ha condiviso anche le amicizie: numerosi i selfie con Elisa Isoardi, ex fidanzata del leader della Lega. Lady Papeete e il marito non confermano né smentiscono, ma sono in tanti a spingere per una sua candidatura nella lista di Ravenna, magari proprio da capolista. In provincia Jenny e Massimo sono molto noti, i nonni di Casanova erano pescatori ai quali è stata intitolata una cooperativa. Mentre 7 mila Sardine invadevano la Darsena di Ravenna, venerdì sera Salvini era proprio con l’europarlamentare a inaugurare la nuova sede ravennate accolto da una discreta folla di sostenitori e fan. Ancora in costruzione le liste di supporto alla candidata Borgonzoni, con gli alleati Fratelli d’Italia e Forza Italia e i civici locali. In forse Stefano Sermenghi, ex sindaco del comune di Castenaso, nel bolognese, del Pd passato in questi giorni con Giorgia Meloni: “Mi ha entusiasmato, FdI mi ha fatto venire voglia di tornare a impegnarmi in politica. Nessuna ultradestra, ma un movimento che sta tra la gente e che pensa alle persone più disagiate”. Sicuramente candidato sembra Giulio Venturi, nipote del giuslavorista ucciso Marco Biagi e consigliere civico a Bologna. Anche Vittorio Sgarbi, probabilmente su Ferrara, dovrebbe candidarsi forse con una propria lista, supportata dal modenese ex senatore Carlo Giovanardi.

Il M5S si spacca sul voto disgiunto per Bonaccini

Tutto prorogato fino a lunedì per i futuri candidati del Movimento 5 Stelle in Emilia-Romagna. E intanto i grillini emiliano-romagnoli si dividono sull’ipotesi del voto disgiunto dopo che la linea di Luigi Di Maio di andare da soli è stata poi ratificata da Rousseau a novembre.

In attesa di sapere quante candidature spontanee siano giunte sempre sulla piattaforma Rousseau (il termine era giovedì scorso ma è stato posticipato) stanno facendo scalpore le affermazioni di Raffaella Sensoli, attuale consigliera in Regione, che dopo aver annunciato pubblicamente di non candidarsi ha suggerito di scegliere Stefano Bonaccini del Partito democratico come futuro governatore. “Lo puoi contrastare quando vuoi ma non è certo l’ex presidente dell’Umbria. Il nostro candidato ancora non c’è, ma non voglio che il giorno dopo le elezioni qualcuno mi possa rimproverare di aver fatto vincere la Lega di Salvini. Il mio sarà un voto disgiunto, lista Movimento 5 Stelle e Bonaccini presidente. Se posso scegliere tra una sinistra che deve migliorare e una destra ‘pericolosetta’ – come ha detto Beppe Grillo – non ho alcun dubbio. I temi si portano avanti con il cuore ma quando si parla di strategie si usa la testa. Una rappresentanza è giusta, ma per la presidenza regionale è sufficiente un voto in più e se devo scegliere, scelgo Bonaccini”.

Dichiarazioni al limite dell’eresia, che in altri tempi avrebbero causato una scomunica. E forse anche adesso a sentire il senatore modenese Gabriele Lanzi, referente nazionale proprio per le prossime Regionali: “Le ferite più grandi e dolorose sono quelle che arrivano dai tuoi, da chi dovrebbe fare squadra. Non è accettabile che un consigliere in carica dica di votare per il presidente oggetto della nostra forte opposizione negli ultimi anni a causa delle scellerate politiche portate avanti su temi quali l’ambiente, la privatizzazione del servizio sanitario e il piano urbanistico fondato su grandi opere inutili. Queste uscite reiterate sono uno schiaffo in faccia a quei tanti militanti e attivisti che si battono per risolvere i problemi del territorio. Raffaella Sensoli deve avere ben chiaro in mente che quando esce pubblicamente sulla stampa non sta esprimendo solo il suo libero pensiero ma volontariamente sta provando a condizionare l’elettorato”.

Un messaggio condiviso prontamente da un’altra consigliera della Regione, Giulia Gibertoni, da tempo in rotta con gli altri colleghi. Gibertoni, che cinque anni fu la candidata avversaria di Bonaccini e del leghista Alan Fabbri, probabilmente ha ripresentato la sua candidatura. Non a caso è l’unica dei politici regionali targati Movimento Cinque Stelle a condividere le prime, rare per il momento, iniziative politiche di campagna elettorale sul territorio. Silente Andrea Bertani, attuale capogruppo. Rimangono aperte intanto le procedure su Rousseau per auto-candidarsi: il nuovo termine è lunedì sera entro le 23.

Una scelta dovuta, come da comunicazione ufficiale, “per consentire a tutti la possibilità di reperire i certificati richiesti”. Una manciata di giorni in più con la speranza, forse, che aumenti il numero ristretto di candidati presentatisi. Una corsa sul filo di lana a quasi 50 giorni dal giorno delle elezioni senza avere ancora nemmeno un candidato, o candidata, presidente. Sarà scelto con un secondo voto on-line tra i nove migliori candidati di ogni provincia entro la fine della prossima settimana.

Sempre ammesso che riescano a presentare liste in tutte le città, uno scenario drammatico a cui nessuno vuole, ancora, pensare. I tanti ex militanti cacciati negli anni scorsi gongolano, nelle chat e nei gruppi segreti si sprecano i “te l’avevo detto”. Una posizione condivisa da Massimo Bugani, capostaff del Campidoglio e consigliere comunale a Bologna, tra i fondatori del Movimento, che a queste elezioni non voleva proprio presentarsi.

Zinga benedice Callipo: “Oliverio è sgradevole”

Ormai manca solo l’espulsione formale dal Pd per il presidente uscente della Regione, Mario Oliverio. Nel giorno di Nicola Zingaretti in Calabria per ufficializzare la candidatura dell’imprenditore Pippo Callipo, si allarga sempre di più la spaccatura tra il Partito democratico e il fronte del centrosinistra rimasto fedele al governatore che si vuole ricandidare.

Da una parte il Pd ufficiale, dall’altra i seguaci di Oliverio, come la deputata Enza Bruno Bossio e alcuni consiglieri regionali che, in questi giorni, hanno cercato di impallinare Callipo addirittura invitando Zingaretti a non venire in Calabria perché un pentito di ’ndrangheta tre anni e mezzo fa aveva tirato in ballo l’imprenditore in un verbale smentito sei più tardi dalla Dda di Catanzaro.

“Hanno tirato fuori delle cose sul mio conto – è l’unica risposta di Callipo –, ma non ci sono problemi: la magistratura ne è informata, non ho nessuna indagine in corso, mi sento tranquillo, le persone mi conoscono e sanno quello che faccio. Sono molto trasparente. Vado avanti con la mia coscienza”.

“Andiamo avanti anche noi” annunciano gli “Oliverio boys” sui social sventolando già cinque liste pronte per le regionali del 26 gennaio. Si apprestano a correre da soli contro tutti e intanto perdono pezzi come l’assessore regionale Angela Robbe ieri a Lamezia Terme per applaudire Callipo e Zingaretti.

Una sala piena dove il nome di Oliverio non è stato mai pronunciato se non a bassa voce. Una scelta quella di ignorare il presidente uscente, ma anche una risposta al suo invito di fare tutti un passo indietro: non solo lui ma anche Callipo e il candidato del Movimento Cinque Stelle Francesco Aiello.

Una proposta che il commissario del Pd Stefano Graziano ha definito “strumentale, pelosa e ritardataria”.

Poche ore prima Zingaretti ha fatto tappa all’azienda di Callipo a Maierato, in provincia di Vibo Valentia. È lì che il segretario dem ha chiarito una volta per tutte i suoi rapporti con Oliverio: “Sono mesi che gli chiedo di aiutarci a vincere, perché il problema non è Tizio, Caio o Sempronio, ma quello di creare le condizioni di allargare il campo e di fare una proposta credibile, che ora intorno a Callipo è possibile. Callipo è la carta vincente”.

Dopo aver incontrato operai e sindacati, Zingaretti ha affrontato la questione a pranzo direttamente con il candidato. Al tavolo, nella sala mensa dell’azienda, c’erano anche Graziano, l’imprenditore Nino De Masi e il presidente del Consiglio regionale Nicola Irto. Con loro il segretario del Pd ha abbandonato ogni formalismo: “Non può essere in gioco una persona (Oliverio) ma la Calabria. La proposta di ritirare la candidatura di Callipo è stata sgradevole”. Che tradotto: “Oliverio faccia quello che vuole, il Pd è qui e sostiene la candidatura civica di Pippo”.

Le centinaia di persone a Lamezia ne sono la conferma. Al fianco di Zingaretti non c’è solo il candidato a presidente, ma anche l’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole e Nino De Masi, vero kingmaker dell’operazione Callipo e vittima di ‘ndrangheta. Anche se non è del Pd, per Zingaretti “Callipo, è l’uomo giusto perché è esattamente la persona di cui c’è bisogno per mettere in discussione anche le appartenenze e andare a ricostruire una proposta civica per amore della Calabria che va difesa dal rischio che venga usata per giochi politici che con questa terra non c’entrano niente. Noi siamo la speranza, gli altri sono l’odio”.

“Basta piagnistei, sono qui per fare la rivoluzione che tutti vogliamo ma insieme dobbiamo pensare a un’inversione di marcia”. Pippo Callipo si commuove quando parla. Sa che la partita delle regionali sarà difficile. Il Movimento 5 Stelle? “Lo aspettiamo, – conclude – siamo aperti, sono aperto al dialogo con tutti, non ho preclusioni: se il Movimento 5 Stelle dovesse decidere che questo progetto gli sta bene e farmi una telefonata, la porta è aperta e il posto è pronto”.

Mafia e visite in carcere, accuse a Occhionero

Nel fermo del suo segretario, arrestato per mafia, veniva descritta come un deputato strumentalizzato ma incorruttibile, ma ora Giusy Occhionero, ex LeU, parlamentare di Italia Viva, viene sospettata di avere fatto passare il radicale Antonello Nicosia per suo collaboratore nonostante il rapporto di lavoro fosse stato formalizzato solo successivamente. La Procura di Palermo coordinata da Paolo Guido le ha inviato un avviso di garanzia per falso in concorso e nei prossimi giorni verrà probabilmente interrogata. Il pregiudicato agrigentino Nicosia, secondo l’accusa, era affiliato alla cosca di Sciacca e per questo è stato arrestato ai primi di novembre. Per i pm “si è speso attivamente per contribuire a uno dei progetti più ambiziosi di Cosa Nostra, la rivisitazione del cosiddetto ‘carcere duro’ e ciò, in modo palese ed evidente, non per il perseguimento di una legittima (seppur discutibile) scelta di politica criminale bensì per favorire, in ultima istanza, la stessa associazione mafiosa’’.

Per i magistrati, Nicosia aveva agganciato la Occhionero “per avere una sicura chiave d’accesso agli istituti penitenziari (accesso avvenuto in almeno cinque occasioni)’’ e per “monitorare lo stato d’animo dei singoli mafiosi detenuti per dissuaderne eventuali iniziative collaborative’’. Il deputato era diventato il suo passepartout per le carceri che ospitavano mafiosi: per l’accusa Nicosia entrava al seguito della Occhionero per “favorire trasferimenti di detenuti mafiosi; per veicolare informazioni fra i detenuti e l’esterno’’ incontrando gli associati mafiosi in modo assolutamente riservato e senza la vigilanza delle guardie penitenziarie’’. E in un messaggio vocale inviato il 23 marzo 2019 le diceva, riferendosi al superlatitante Matteo Messina Denaro: “Onorevole Occhionero… mai, mai si deve dire che siamo stati contro San Matteo, non si può sapere mai… mai contro a San Matteo, per ora c’è San Matteo che comanda e noi siamo, preghiamo San Matteo… grazie San Matteo per quello che ci dai tutti i giorni”.

Iniziato a metà 2018, il rapporto di Nicosia con la Occhionero, avvocato di 41 anni, molisana, eletta alle ultime Politiche nelle liste di Leu e recentemente passata in Italia Viva, si è interrotto a maggio di quest’anno, presumibilmente hanno scritto i pm nel fermo, perché lei si era mostrata incorruttibile: Nicosia, secondo l’accusa, le aveva proposto di modificare una relazione ispettiva nel carcere della Giudecca a Venezia, “ammorbidendola’’: “Quando chiamano, dici ‘senta io non ho tempo, le sto dando Iban, in base a quello che mandano eventualmente modifichiamo le dichiarazioni, ma… capisci che non si può fare gratis questa cosa’”, è il testo di un messaggio vocale di Nicosia intercettato dal Gico. Il rapporto si interrompe quando il deputato scopre che l’assistente le aveva raccontato una serie di balle, compresa un’inesistente laurea.

“Blocchiamo subito la prescrizione e poi sveltiamo i processi”

Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, una vita spesa nella lotta alla ‘ndrangheta, è noto per dire senza giri di parole quello che pensa. Gli facciamo una domanda secca: riforma della prescrizione a gennaio o la si deve mettere nel congelatore?

Nulla deve essere messo nel congelatore. La riforma deve andare avanti e deve decorrere dal primo gennaio 2020. La prescrizione dopo la condanna di primo grado è giusta per tutte le parti del processo, soprattutto per le persone offese che non possono subire una simile mortificazione e non avere alcuna risposta dalla giustizia, spesso dopo anni di attesa e spesso anche per condotte molto gravi che in certi casi hanno portato pure alla morte di un congiunto. Quindi, a scanso di equivoci per quello che sto per dire, ribadisco che è bene che questa riforma parta perché c’è tutto il tempo poi per fare modifiche fondamentali per velocizzare le fasi delle indagini preliminari e quella del dibattimento. Ma nessuno si domanda perché fascicoli rimangono fermi negli armadi dei pm e dei giudici per 4, 5 anni e anche più. Questa è la mamma di tutte le domande.

A quali modifiche pensa?

Le modifiche che si possono apportare sono molte, alcune delle quali anche a costo zero. La prima, ad esempio, potrebbe essere quella di chiedere alla persona sottoposta ad indagini di eleggere domicilio e ricevere le comunicazioni a mezzo posta elettronica, o a mezzo pec. In una prima fase, in forma facoltativa, poi in un futuro si può pensare ad una modifica ancora più incisiva. Un’altra modifica riguarda la rinnovazione del dibattimento. I processi, infatti, durano moltissimo perché quando un giudice viene trasferito, il processo con il nuovo componente ricomincia da capo perché le difese non acconsentono praticamente mai al rinnovo degli atti, chiedono di ripartire da zero. Questa regola deve essere capovolta, cioè si rinnova l’istruttoria solo in casi limite. Nella commissione presieduta da me nel 2014, avevo proposto anche la video registrazione dei testimoni, per esempio, in modo che, quando in un processo subentra un nuovo magistrato, avrà la possibilità anche di rivedere le registrazioni e richiamare i testi solo se necessario. Questa è un’ipocrisia del sistema, non una garanzia del sistema. Unica e sola vera garanzia, per tutti, è quella di avere una risposta dalla giustizia in tempi brevi. Oggi, invece, in determinati casi i processi ricominciano da zero anche due o tre volte e la percentuale di processi che si chiudono con la prescrizione è altissima.

Torniamo alla riforma della prescrizione: Pd, Italia Viva, FI, avvocati, alcuni magistrati, parlano in sostanza di disastro se entrerà in vigore a gennaio…

In base a cosa ci sarebbe un disastro? Gli effetti del blocco della prescrizione si avranno solo tra quattro anni. La verità è che si continuerà a fare i processi come adesso. Il magistrato sarà costretto a lavorare tantissimo, come sempre. La sua produzione è sottoposta a valutazione ogni quattro anni e per i ritardi nel deposito di sentenze finisce sotto procedimento disciplinare. Ma c’è un aspetto positivo nella protesta degli avvocati, costringerà il legislatore a intervenire sullo snellimento dei processi. Facciamola partire questa riforma della prescrizione, altrimenti le altre non si faranno mai perché è da decenni che parliamo di riforme della giustizia senza che vengano approvate quelle che servono.

L’ho raggiunta al telefono alla fine di un incontro, in Calabria, sul suo libro, scritto con il professor Antonio Nicaso, La rete degli invisibili su chi, nella ‘ndrangheta, sta incrinando il muro atavico dell’omertà…

Ci siamo accorti che nell’ultimo anno e mezzo c’è stato un processo di accelerazione. Hanno chiesto di parlare quattro figli di capi della ‘ndrangheta. Solo tre anni fa se qualcuno mi avesse chiesto di scommettere su questo, avrei perso la scommessa perché avrei detto che era impossibile. Quindi, abbiamo cercato di capire perché si è aperta una crepa. L’approccio è di tipo psicologico e anche pschiatrico. Gli ‘ndranghetisti parlano ora perché non reggono lo stress, perché la ’ndragheta gli chiede sempre il massimo della prestazione. C’è anche un capitolo su quattro storie di donne che parlano per amore. Perché si sono innamorate fuori dal matrimonio combinato dalle loro famiglie come suggello di un’alleanza criminale; perché non vogliono che anche i loro figli facciano la fine dei padri, dei mariti. In carcere o uccisi. È un cambiamento fondamentale.

Intercettazioni con bavaglio: i dubbi dei pm sul dl Orlando

Lo scontro tra Pd e Cinque Stelle sulla riforma della prescrizione si è appena placato, ma c’è subito un’altra mina che rischia di dividere la maggioranza giallorosa. È la riforma delle intercettazioni targata Andrea Orlando, che da Guardasigilli la firmò all’epoca dei governi Renzi e Gentiloni. Un testo finora congelato dal suo successore, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, se non dovessero esserci novità, però, anche il nuovo regime delle intercettazioni scatterà a gennaio. Come il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.

Ma proprio sul tema delle intercettazioni stanno per intervenire i capi delle principali Procure italiane, al lavoro su una lettera da indirizzare al ministero della Giustizia. La missiva sta per essere ultimata e trova d’accordo i procuratori di Milano Francesco Greco, di Napoli Giovanni Melillo, di Firenze Giuseppe Creazzo, di Palermo Franco Lo Voi e del facente funzioni di Roma Michele Prestipino.

Non sarà un’interferenza nelle prerogative della politica: nessun attacco da parte dei magistrati. Ma è un testo che si basa sulle necessità di capire quale norma applicare da gennaio, in assenza di modifiche o nuove proroghe al testo di Orlando, per le intercettazioni già in corso e per quelle che verranno in indagini già partite. Il punto critico che verrà sottolineato nella lettera è che il dl Orlando non ha previsto un regime transitorio che regoli l’attività già in corso di pm e polizia giudiziaria. Quindi la nuova riforma a quali casi si applica? Alle indagini che nasceranno in futuro o anche a quelle già iniziate che, però, finora hanno seguito una normativa diversa, cioè quella in vigore fino al 31 dicembre?

In astratto, proprio in assenza di una norma transitoria, anche secondo altri magistrati da noi interpellati, ci potrebbe essere un “regime misto” per casi a cavallo tra la vecchia legge e quella nuova. Insomma, i procuratori chiedono al governo di chiarire alcuni aspetti, compresi quelli legati alla formazione del personale e all’adeguamento delle misure organizzative da attivare nelle Procure per gli apparati elettronici e digitali.

Proprio questo necessario adeguamento è stato l’appiglio delle proroghe decise da Bonafede, che hanno congelato finora la riforma approvata nel 2017 – tra le proteste di pm e avvocati, per la prima volta uniti – dal governo Pd-Ncd. La prima proroga risale al luglio 2018: era appena nato il governo gialloverde. La seconda è di aprile 2019 fino ad agosto, quando è stata disposta la terza, che scade a fine anno.

Ma cosa potrebbe cambiare la riforma Orlando? In base alla vecchia normativa, la polizia giudiziaria è tenuta a redigere il “brogliaccio”, cioè un riassunto delle registrazioni, in modo che pm e avvocati possano avere sotto gli occhi, a grandi linee, tutto il materiale e valutare se ci siano intercettazioni utili anche in un momento successivo alla prima selezione. Con la legge Orlando ciò non avverrà più: la polizia giudiziaria potrà scrivere solo data e ora delle intercettazioni che ritiene irrilevanti (un giudizio di merito affidato ad agenti di polizia giudiziaria, dipendenti gerarchicamente dal governo, e non più ai pm) e che finiranno in un archivio riservato delle Procure. A questo punto sarà il pm che “con decreto motivato” potrà ordinarne la trascrizione se ne valuta “la rilevanza per i fatti oggetto di prova”. Ma ciò che in un certo momento è irrilevante può diventare importante nelle indagini successive. Per non parlare delle conseguenze per gli indagati, i difensori e anche per la stampa, con le tante intercettazioni che resteranno chiuse negli archivi e mai verranno rese pubbliche.

Non solo. La riforma targata Pd prevede anche il divieto di riportare le intercettazioni nei provvedimenti se non per riassunto: pm e gip potranno riportarle solo “quando è necessario” e nei “brani essenziali”. Infine, in barba ai diritti di difesa, gli avvocati potranno solo ascoltare le intercettazioni ritenute irrilevanti senza farne copia, nè prendere appunti nè leggerne la trascrizione. Tutte norme nate dalla volontà di impedire che certe notizie, magari penalmente irrilevanti ma politicamente importanti per la loro rilevanza pubblica, finiscano sui giornali.

Ora il governo dovrà rispondere ai procuratori. Il ministro Bonafede non ha mai nascosto l’ostilità al “bavaglio” di Orlando, difeso a spada tratta dal Pd. Un nuovo fronte si apre così nella maggioranza giallo-rosa, intrecciandosi con quello sulla prescrizione.

Prescrivi tua sorella

Da giorni due postulanti si aggirano per gli studi tv a spacciare la bufala “Travaglio ha chiesto la prescrizione in un processo, dunque è incoerente nel sostenere la blocca-prescrizione”. Uno è tal Piero Sansonetti che, dopo aver fondato e affondato mezza dozzina di giornali, è riuscito a farsene aprire un altro coi soldi di Alfredo Romeo (tipico caso di circonvenzione di capace): il Riformista, detto anche Riformatorio. L’altro è tal Matteo Renzi che, dopo aver affondato il Pd, ha fondato un nuovo partito che naviga fra il 3 e il 4% e si candida all’eredità del Psdi di Nicolazzi. Purtroppo in Italia, complice il web, le bugie hanno le gambe lunghe e tocca perder tempo a rispondere anche a questi derelitti. Nel 2002, da freelance, scrivo un articolo per l’Espresso su Cesare Previti, che si ritiene diffamato perché una parte di un verbale che lo riguarda, e che nel mio articolo era riportata, non compare più per un taglio redazionale. E querela me e la direttrice Daniela Hamaui. Visto che nei giornali è buon uso “manlevare” i giornalisti, vengo difeso da un avvocato del Gruppo, il compianto Carlo Federico Grosso. In primo grado mi becco lo sproposito di 8 mesi di carcere e Daniela 5, più 20 mila euro di risarcimento. Grosso ricorre in appello, dove la pena viene pressoché azzerata: 1.000 euro di multa a me e 800 alla Hamaui. L’avvocato ricorre in Cassazione e, siccome il reato è prescritto, fa quello che fanno in questi casi tutti i difensori d’Italia, utilizzando tutti i mezzi previsti dalla legge per portare in salvo i clienti: chiede l’annullamento della condanna e, in subordine, la prescrizione. Richiesta che ha presentato in automatico, senza concordarla con me. Tant’è che, quando gli chiedo il perché, risponde serafico: “Perché è mio dovere professionale evitare al gruppo Espresso di pagare le multe tue e della direttrice”. La Cassazione ritiene il ricorso infondato e conferma le due multe.

Gli house organ berlusconiani cominciano a scrivere che ho ottenuto la prescrizione e sono incoerente perché critico il pluriprescritto B.. Tre balle in una. 1) Non ho ottenuto la prescrizione. 2) Io sono un privato cittadino e posso fare ciò che voglio, mentre B. è un pubblico ufficiale col dovere costituzionale di esercitare le funzioni “con disciplina e onore”, cioè di rinunciare alla prescrizione quando è imputato di reati infamanti per farsi assolvere nel merito e, se invece viene condannato, dimettersi e ritirarsi. 3) La diffamazione per i giornalisti è come il tamponamento per i tassisti: un incidente sul lavoro, tantopiù se – come nel caso specifico – dipende da tagli fatti da altri.

E non è infamante, salvo che per i giornalisti che mentono sapendo di mentire. Invece il falso in bilancio, la frode fiscale, la corruzione di giudici, testimoni e senatori, cioè alcuni dei reati per cui B. ha ottenuto 9 prescrizioni, sono infamanti per i privati cittadini, figurarsi per i politici. In ogni caso, quando è nato il Fatto e ho potuto incidere sulle strategie difensive, ho subito levato l’alibi a questi manigoldi. Avevo un processo contro Fabrizio Del Noce che mi aveva querelato per un vecchio articolo sull’Unità, nel frattempo fallita. In primo grado ero stato condannato a versargli 13 mila euro che, se la sentenza fosse stata confermata, avrei dovuto pagare di tasca mia; in appello è scattata la prescrizione, ma ho pregato l’avvocato di rinunciare. Lui mi ha preso per matto, la Corte mi ha giudicato oltre i termini e mi ha assolto. Così gli house organ di B. hanno smesso con la frottola “Travaglio prescritto”. Ma ecco la premiata ditta Sansonetti-Renzi con la nuova panzana “Travaglio incoerente perché ha chiesto la prescrizione”. E, se spiego che l’ha chiesta “di default” il legale dell’Espresso, come fanno tutti gli avvocati d’Italia con moduli prestampati (li pagano apposta), ironizzano sulla “prescrizione all’insaputa”: come se fosse strano che, avendo 300 fra querele per diffamazione e cause per danni, io non passassi le giornate a studiare le strategie difensive con un avvocato che fra l’altro non era il mio, ma del giornale, e difendeva anche la direttrice con interessi diversi dai miei.
L’altroieri a Piazzapulita c’era un tizio con la pappagorgia e in stato confusionale che pare risponda al nome di Renzi. Anziché spiegare i 6 milioni e rotti versati alla sua fondazione da decine di imprenditori, molti dei quali beneficiati dai due governi dell’èra renziana, e i 700 mila euro gentilmente prestati per la sua villa dalla madre di un suo finanziatore da lui nominato a Cdp, s’è messo a parlare di me. Come se le perquisizioni e gli avvisi di garanzia ai suoi amici e foraggiatori le avessi disposte io, non i magistrati di Firenze. E come se le cause civili che ci spedisce a mazzi annullassero i mega-conflitti d’interessi che affiorano dalle sue casse. “Con le cause a Travaglio mi pago 3-4 rate della casa. La chiamiamo Villa Travaglio, anzi no, porta un po’ sfiga”. Parola di uno che nel 2014 aveva il 40,8% e ora agonizza sotto il 4, insidiato persino da Calenda. “Travaglio mi attacca sulla prescrizione, ma una sentenza dice che ha chiesto la prescrizione! Sono incredibili questi! Doppia morale!”. E qui, a parte la panzana di cui sopra, sfugge la logica del ragionamento, specie da un politico che nel 2015 promise di farla finita con la prescrizione e ora vuole riesumarla. Se puntassi alla prescrizione, dovrei battermi con lui, B., il Pd e la buonanima di Andreotti per ripristinarla, non per abolirla. Invece mi batto per abolirla anche perché so che gli avvocati, pur armati delle migliori intenzioni, devono allungare i processi per salvare i loro clienti, anche se li sanno colpevoli di reati gravi. Ma questi poveracci sono così in malafede da pensare che siano tutti come loro. Omnia munda mundis, omnia Renza Renzis.

Asterix, ovvero come preservare un monumento nel migliore dei modi

Il passare del tempo ha costretto molti editori – e lettori – a una scelta inevitabile: certi personaggi possono sopravvivere ai loro autori ed emanciparsi da chi li ha portati su carta? Quando le esigenze commerciali sono abbastanza forti, rispondere diventa ovvio. Asterix deve continuare. René Goscinny non c’è più da tanti anni, è morto nel 1977, il disegnatore Albert Uderzo che si è fatto carico del personaggio negli ultimi decenni ha ormai 92 anni. E allora i nuovi volumi vengono affidati a due autori di prima grandezza. Il 38mo episodio della saga degli irriducibili galli è scritto da Jean-Yves Ferri (sceneggiatore indimenticabile de Il ritorno alla terra, con Manu Larcenet) e disegnato con una cura dei dettagli sopraffina da Didier Conrad. Asterix e la figlia di Vercingetorige è un fumetto a modo suo perfetto: le tavole sono impeccabili, la storia si muove su un crinale difficile, deve offrire ai fan esattamente quello che si aspettano da ogni albo di Asterix (i tormenti di Obelix, qualche soldato romano da malmenare nella foresta, la solita nave dei pirati destinata ad affondare) ma inserendo qualcosa di nuovo, combinando gli antichi ingredienti in una nuova pozione. Certe scelte narrative ricordano più l’umorismo da fumetto Disney italiano che l’epica scanzonata del primo Asterix: la figlia di Vercingetorige si chiama Adrenalina, ci sono anche le seconde generazioni del pescivendolo (Shushix) e del fabbro (Selfix), tutto un po’ prevedibile. Ma la sceneggiatura di Ferri deve trovare il minimo comune denominatore fra tre generazioni, ormai, perché è difficile scrivere un fumetto che piaccia sia ai nonni, che ai figli e ai nipoti. Non gli si può certo chiedere di essere particolarmente innovativo – la frontiera della creatività si è spostata altrove – ma in questo particolare genere editoriale che è la preservazione dei monumenti fumettistici del secolo scorso, La figlia di Vercingetorige è sicuramente un prodotto riuscito.

 

La figlia di Vercingetorige

Jean-Yves Ferri e Didier Conrad

Pagine: 48

Prezzo: 12,90

Editore: Panini Comics