Una piccola volpe rossa alla scoperta del mondo

La poesia è nelle immagini, ancor prima che nella storia. Una macchia arancio che insegue la vita, pagina dopo pagina, circondata da un universo di fotografie dai colori più sbiaditi. Perché è una tecnica mista quella che Marije Tolman usa per illustrare la storia, ma sarebbe meglio dire il sogno, di Piccola Volpe: disegni – delicatissimi, varrebbe la pena di acquistare il volume solo per ammirarli – e scatti, quasi a voler creare un contrasto tra due mondi per poi poterlo sciogliere. Piccola Volpe – nei dialoghi di Edward van de Vendel – è una cucciola curiosa, il papà glielo dice sempre, e ama le farfalle, soprattutto quelle viola. È per questo che un giorno, rincorrendone una, ruzzola giù per un pendio e atterra pancia in su. È lì che comincia il suo sogno: Piccola Volpe sogna se stessa quando era piccola, la sua famiglia, la tana e i primi topolini da mangiare. Si rivede nelle tappe di una crescita non ancora conclusa: i giochi con i fratelli, il cibo che si può mangiare e gli animali più grandi, che stranamente non hanno paura di lei. Piccola Volpe vede tutto nel sogno, compreso quel bimbo – con i capelli rossi come il suo pelo – che l’aiuta. Il mondo è pericoloso, dice papà, ma la curiosità è più forte di tutto. C’è solo una cosa che la batte: la poesia. Anzi no, ce n’è un’altra: le farfalle ci sono, è solo che non sono viola.

 

Piccola Volpe

Edward van de Vendel, ill. Marije Tolman

Prezzo: 14

Editore Il Castoro

Goncharova, la selvaggia di Russia

Chiunque voglia capire con vivace evidenza cosa sia l’impegno politico in pittura corra subito nelle stanze di Palazzo Strozzi a Firenze, che fino al 12 gennaio ospita la mostra Natalia Goncharova. Una donna e le avanguardie tra Gauguin, Matisse e Picasso. Una volta lì, si fermi di fronte ad Autoritratto con gigli gialli del 1907, in cui questa signora dell’arte novecentesca si ritrae di tre quarti con una veste bianca e un mazzo di gigli gialli in grembo.

La sfida al proibito e alle convenzioni che lei impugna, con quel ghigno compiaciuto, sta tutta nei quadri appesi alla parete alle sue spalle e nella veste sporca di pittura. Natalia ha ventisei anni e non è una pulzella che abbia appena raccolto dei fiori, ma espone i simboli di un status sociale, sta gridando che lei è un’artista, in un mondo fatto di uomini.

Nata a Tula nel 1881, Natalia è pittrice coltissima: apprenderà il folklore, la pittura religiosa, l’impressionismo di Cézanne, il futurismo di Marinetti, il cubismo di Picasso, la maniera post-impressionista di Gauguin e se ne approprierà per un tratto personale, unico (odiava tutti gli “ismi”), che sfida le convenzioni e l’accademia. E nel giro di cinque anni, quando nel 1913 espone a Mosca alla galleria di Klavdia Mikhailova quasi ottocento opere, Natalia è già una star, processata ben due volte: nel 1910 per pornografia, per i nudi femminili quali La dea della fertilità o Modella su sfondo blu; e proprio nel 1913 per blasfemia, dopo aver dipinto delle icone sacre (una donna non poteva) in Evangelisti o in Angeli che lanciano pietre sulla città.

Nell’imperdibile esposizione fiorentina, la ribelle Goncharova – che per un’intelligente scelta della curatrice Ludovica Sebregondi dialoga con alcuni colleghi di cui si è nutrita – esplode in tutta la sua pittura libera, “selvatica” la descrive la poetessa Marina Cvetaeva che poi precisa che “dalla selvaggia che è in lei viene la gioia”, ma che è soprattutto una pittura civile. Infatti, tanto nei dipinti a tema bucolico quali Il lavaggio della biancheria, La raccolta delle mele, oppure nella ritrattistica come in Autoritratto in abito d’epoca come nelle litografie storiche Immagini mistiche della guerra, in cui accosta santi e angeli agli aeroplani da guerra, Natalia (che dopo la Rivoluzione d’ottobre insieme a Ivan Bunin, Cvetaeva, Tamara de Lempicka e molti altri avrebbe creato la tribù degli émigrés a Parigi) riscrive i modelli della millenaria e tradizionale Russia, traghettandoli nel secolo della cultura moderna, il 900.

 

Natalia Goncharova

Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 12.01

Le sirene che scrutano il mare (e il cuore)

Imbronciate, talvolta mortificate, trattengono scampi e conchiglie tra le dita color alabastro addosso a seni rotondi e bianchi; corrose dal sale, rammollite da masse d’acqua che ne lavano incessantemente i ventri prominenti e i nasi dritti, scrutano ancora qualcosa che sfugge agli occhi umani; rubate, strappate alle navi che dovevano proteggere dai malefici, restano attonite dentro ai musei del mare o nelle sale da pranzo degli hotel marinari, senza più equipaggi a cui dare la schiena per esserne scudo e avanguardia.

Alle polene, queste donne-sirene di legno attaccate alla prua di navi, battelli vichinghi, galee e vascelli fantasma, Claudio Magris dedica Polene, occhi del mare (La nave di Teseo), un’elegia illustrata fantastica e carnale. Se il mare è maschio o femmina a seconda delle lingue (ma in spagnolo è sia maschile che femminile: la mar, acqua-femmina che porta la vita, e el mar, mostro feroce che uccide e distrugge), la polena è inequivocabilmente femmina: “Gli Aiaci, i guerrieri romani, i turchi col turbante, gli Ercoli, gli ammiragli Benbow”, dice Magris, sono al più “manichini, fantocci da carro di carnevale, decorazioni da caserma”. La polena femmina è perturbante, nella sua natura salmastra e ambigua, “quasi mummia di pietra nelle cui crepe nascoste ci sia sangue irrigidito”. In questa vicenda di incanti così inattuale, Magris, come già lo studioso del mare Giancarlo Costa che ha dedicato a loro due libri meravigliosi (Polene e Misteri e leggende del mare, Mursia), racconta le storie di falegnami morti per la troppa bellezza della loro creatura; di ladri di polene contagiati dal loro incantesimo, come quell’Erik Kurtz ufficiale tedesco che nel 1944 si portò in albergo la Atalanta conservata a La Spezia e poi si ammazzò con una pistolettata; di collezionisti come Pablo Neruda, che le teneva all’aperto tra gli oggetti rinvenuti sulla spiaggia di Isla Negra (ma i collezionisti di polene, spiega, non sono feticisti col culto della morte: la polena non è una bambola, in lei l’erotismo borghese è stato bruciato dal vento che soffia sul mare). Ma se le polene sono “occhi del mare”, cosa vedono? Cos’hanno visto le Salomè, le Cleopatre, le matrone procaci e le principesse orientali, le brave spose dalle labbra oneste e tenere e le bambine inglesi figlie di capitani abitati dal rimpianto, che ancora oggi ci sussurrano? Una risposta è nella polena-archetipo Euridice, come quella stupenda del Museo marittimo di Stoccolma, chissà se fotografata – estratta dalle tenebre – nel momento in cui Orfeo si volta a guardarla lasciandola per sempre nell’Ade. Anche la Donna che ornava la prua della galea della battaglia di Lepanto (raccontata da Magris in Alla cieca) ha visto in faccia la morte: è questo che ne fa una creatura innamorativa, insieme del commiato e del futuro. È eterna la consolazione non rassicurante che la polena offriva al marinaio consumato dall’astinenza e dalla nostalgia, che ad essa si aggrappava durante le tempeste, quel tendere della polena impallidita dalla fredda schiuma tra l’abisso illuminato dalle stelle e il calore dell’osteria. Magris colleziona queste figure della solitudine senza possederle, toccandole con una frase che sarebbe piaciuta a Walter Benjamin: “Lucidarle è come asciugare le lacrime delle cose”.

 

Polene, occhi del mare

Claudio Magris

Pagine: 190

Prezzo: 20

Editore: La Nave di Teseo

Ritorno a Telévras, terra dell’eretico Cannonau, dove scompare una bimba

Che bello riabbracciare Gesuino Némus in questa rubrica, e ci permettiamo questa confidenza ché fu proprio qui che si parlò per la prima volta sul “continente” di questo geniale sardo, con la magnifica Teologia del Cinghiale, indi destinata naturalmente a mietere premi e riconoscimenti come il grano in Campidano. Era il settembre del 2015 e Gesuino Némus alias Matteo Tocci venne pubblicato da elliot grazie a un manoscritto arrivato alla casa editrice e che folgorò chi lo lesse. C’è sempre un momento fatale in cui il talento prevale sulle relazioni da salotto o delle marchette di potere.

A distanza di quattro anni Gesuino non è più il ragazzino protagonista della Teologia ma vive isolato, quasi un fantasma, con il cane Bregù – “Vergogna” in lingua sarda – e a Telévras, paesino immaginario dell’Ogliastra, scompare una bambina africana, persa di vista per pochi minuti soltanto dai due genitori ambulanti, che girano con un furgone, casa e negozio allo stesso tempo. E come accade con le storie e la prosa trascinante di Némus, il mistero è solo un pretesto per raccontare la comunità di Telévras come metafora di tutti i tic e i luoghi comuni sulla cosiddetta sarditudine, dalle pecore ai centenari (memorabile la figura di Aedo Pistis). E in questo nuovo libro è centrale l’eresia del Cannonau, sempre con l’iniziale maiuscola, vino autoctono vecchio di almeno dieci millenni. “Non devi spaventarti quanto tutto intorno a te diventa fuoco criminale. Per sopravvivere agli umani, tramandando l’eresia e non il dogma. Proprio come il Cannonau”. Per altri versi, infine, Gesuino Némus si candida di questo passo a essere il Barney Panofsky dei sardi. E abbiamo detto tutto.

 

L’eresia del Cannonau

Gesuino Némus

Pagine: 189

Prezzo: 16,50

Editore: Elliot

Mrs. Maisel, sarà pure Marvelous ma forse si piace un po’ troppo

È uno dei prodotti più brillanti, divertenti e ben fatti degli ultimi anni. Dai dialoghi ai costumi, dalla regia agli attori: difficile trovare dei difetti a The Marvelous Mrs. Maisel. Però, però… A guardare la terza stagione (disponibile da oggi su Amazon Prime Video) viene il dubbio che la serie di Amy Sherman Palladino, già creatrice di Una mamma per amica, cominci a piacersi un po’ troppo. Ripasso delle puntate precedenti. New York, fine anni Cinquanta: Midge Maisel è una giovane casalinga ebrea, madre di due bambini, la cui vita cambia quando il marito Joel la lascia per la sua segretaria. Joel vuole fare il comico ma non ha alcun talento; Midge, invece, di talento ne ha a tonnellate. La sera in cui il marito la pianta in asso sale sul palco del Gaslight Comedy Club e decide che diventerà una stand-up comedian. La prima stagione segue gli inizi della carriera di Midge e della sua manager Susie: due donne diverse in tutto che provano a farsi strada non solo in una società maschilista ma in un mondo, quello dello spettacolo, che è ancora più maschilista. Nella seconda il desiderio di emancipazione di Midge contagia anche la madre Rose, che scappa a Parigi per inseguire quel sogno – diventare un’artista – che aveva abbandonato dopo il matrimonio. The Marvelous Mrs. Maisel 3 si concentra sulla tournée con il famoso cantante Shy Baldwin e dovrebbe rappresentare la stagione della consacrazione. Midge non ha ancora sfondato ma potrebbe farlo, il che risponde alla domanda che aveva costituito il motore principale delle prime due stagioni (una giovane donna attraente e dissacrante può davvero affermarsi come comica nell’America conservatrice degli anni 50 e 60?).

Per compensare la mancanza di quella spinta, gli autori hanno scelto di insistere su scene corali bellissime ma sostanzialmente inutili per lo sviluppo della storia e sugli aspetti più surreali della serie. Niente paura: Mrs. Maisel continua a essere un prodotto brillante, divertente e di altissima qualità. Ma forse ha perso un po’ di quella genuinità che rendeva così speciali i primi episodi.

Un Bernhard poco velenoso

Non è uno spettacolo per addetti ai lavori – e ai livori – bernhardiani: Il nipote di Wittgenstein diretto da Patrick Guinand e interpretato da Umberto Orsini impolvera un poco Thomas Bernhard, spurgandolo dal veleno e dalla ferocia intellettuale e ovattandolo in un dramma da camera tutto sommato innocuo.

Il regista francese, che firma anche l’adattamento del romanzo (non un testo squisitamente teatrale), ha messo in scena per la prima volta Il nipote a Parigi nel 1991, mentre dal 1992 Orsini ne è l’interprete esclusivo in Italia, tanto da considerarlo un “gioiello di famiglia” dalla caratura di quasi 350 repliche.

Questa “storia di un’amicizia” ha per protagonisti l’autore/narratore Bernhard e Paul Wittgenstein, nipote del più famoso Ludwig, entrambi ricoverati a Vienna, a 200 metri di distanza: il primo, tisico, nel padiglione per malati polmonari; il secondo, pazzo, nell’aerea riservata alle turbe psichiatriche. Il racconto – sul palco un monologo di quasi un’ora e mezza – è in prima persona, la persona di Bernhard, che ricorda quell’amicizia speciale sbocciata 13 anni prima in ospedale, quella pensosa e tragica affinità nella malattia, anche mentale, che lo ha tenuto legato a Paul, ormai morto. Paul non era meno pazzo, in verità, dello zio filosofo Ludwig, né meno geniale, ma ha messo il suo “cervello in pubblico” anziché “in pratica”: la sua follia non è che il prodotto della sua genialità, quella genialità che – in Bernhard – è sempre delittuosa. La perfezione uccide: è il sottotesto di tutta la produzione dell’austriaco, spendibile anche qui insieme ad altri temi-ossessioni ricorrenti, quali la malattia, l’odio per la patria (laddove per Paul è Steinhof, il manicomio, la “vera patria”), l’irritazione per i premi, la tentazione del suicidio, l’irriducibile misantropia… “Poiché non conosco anima viva che faccia al caso mio, intendo difendermi coi morti dal freddo e dal deserto”.

Lo stesso Guinand considera Il nipote un “concentrato” delle opere di Bernhard, se non il suo testo più “intimo”; proprio per questo l’allestimento ammicca esplicitamente alla biografia dello scrittore, sin dalla scelta della scenografia: uno spaccato della casa-fortezza bernhardiana in campagna. La deriva intimista e naturalistica imposta dalla regia spinge l’interprete – il sempre grande e seducente Orsini – verso lidi emotivi: “Devo fare molta attenzione mentre recito a non lasciarmi sopraffare dall’emozione”, confessa l’attore. “Ci sono momenti in cui l’emozione mi stringe la gola… un testo come questo accende un’immensa autocommozione”.

A ciò si aggiunga la parte muta della domestica, alias la brava Elisabetta Piccolomini, sempre affaccendata a spazzare, dare la cera, cambiare le lampadine, chiudere le finestre… Ma non è Clov né Finale di partita: la partitura è così quotidiana, familiare e naturale da suonare – su Bernhard, con Bernhard – innaturale. Anche il pubblico percepisce che qualcosa non funziona e difficilmente si lascia andare alla risata, allo humour nero della pièce: tolto il nero, Bernhard scompare, e con esso la “sempre uguale e totale oscurità” della sua arte.

 

Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino al 22.12

Il nipote di Wittgenstein

Regia P. Guinand

Con U. Orsini

Bradley Cooper l’illusionista torna sul set con Del Toro

Adue anni dal trionfo planetario de La forma dell’acqua Guillermo Del Toro tornerà presto sul set a Toronto per dirigere Bradley Cooper in Nightmare Alley, nuovo adattamento del romanzo di William Lindsay Gresham già trasposto per il cinema nel 1947 in un noir di Edmund Goulding con Tyrone Power protagonista uscito in Italia con il titolo La fiera delle illusioni. Interpretato anche da Cate Blanchett, Toni Collette, Rooney Mara, Willem Dafoe e David Strathairn, il nuovo crime/thriller vedrà in scena le vicende di Stanton Carlisle, un ambizioso illusionista/manipolatore che si unisce a una psichiatra senza scrupoli per organizzare truffe sempre più redditizie ai danni di vari malcapitati, fino a quando la donna inizierà a manipolare anche lui portandolo alla rovina. Distribuito nel mondo da Fox Searchlight nel 2021, il remake vede coinvolto il regista messicano premio Oscar anche come autore della sceneggiatura con Kim Morgan nonchè come produttore insieme a J. Miles Dacon la TSG Entertainment.

Sarà Robert Pattinson l’interprete dell’Uomo Pipistrello in The Batman, l’ottavo film incentrato sul celebre personaggio creato da Bob Kane e Bill Finge, che vedrà un giovane Bruce Wayne alle prese con un nuovo caso da risolvere che metterà alla prova questa volta soprattutto le sue capacità di detective nei meandri più oscuri di Gotham City per svelare alcuni misteri legati alla storia della città e dei suoi criminali. Il nuovo capitolo della serie DC verrà girato da Matt Reeves a partire da gennaio e vedrà in scena, accanto al protagonista, Zoe Kravitz nel ruolo di Catwoman, Paul Dano nei panni dell’Enigmista, Colin Farrell nella parte del Pinguino, John Turturro in quella del mafioso Carmine Falcone, Andy Serkis in quelli di Alfred e l’esordiente Jayme Lawson che sarà la misteriosa Bella.

 

Dio è una donna ma il mondo ancora non lo sa

“Sono una donna, non un’idiota!”. Solo l’esasperazione può portare una giovane laureata in storia contemporanea a una difesa così frontale, ma nascendo e crescendo nella Macedonia rurale, queste “cose” sono all’ordine del giorno. Forte dei recenti Premio Lux del Parlamento europeo e della retrospettiva al Torino Film Festival dedicata alla sua regista Teona Strugar Mitevska, il 12 dicembre arriva nelle sale Dio è donna e si chiama Petrunya, commedia nerissima (e liberamente ispirata a un fatto realmente accaduto) che già dalla sua premiere mondiale in concorso all’ultima Berlinale aveva suscitato applausi e clamori.

Se l’ambientazione remota ai clamori dell’impero può destare qualche reticenza a mettere questo film nell’affollata agenda cinematografica pre-natalizia, l’invito è quello di fugare dubbi e paure: il dramedy messo in scena dalla Mitevska è tutt’altro che di nicchia, andando a cavalcare un racconto e un’impostazione narrativa accessibili a un pubblico trasversale, con l’unica condizione che abbia il desiderio di farsi intrattenere in modo intelligente. Perché è tale aggettivo, soprattutto, a qualificare la corposa protagonista, interpretata dall’attrice comica teatrale Zorica Nusheva al suo folgorante debutto davanti alla macchina da presa. “Diversamente bella” ma dallo sguardo e dall’ironia che ti fulmina, Petrunya è un personaggio con cui si entra in istantanea complicità: disoccupata e disincantata da un Paese inerme e bigotto nonché da una madre ostile e ottusa, la giovane passa da un inutile colloquio all’altro (“mi vedono, e poi nulla”), finché incappa nel tradizionale lancio della croce in acqua, tipico dei territori ortodossi, e destinato ai maschi: seppur in pieno inverno questi si tuffano denudati gareggiando al recupero del sacro trofeo che si dice porti fortuna. Mescolandosi a loro da sotto un ponte, Petrunya infrange la regola, e si conquista la croce. Il gesto è immediatamente etichettato come oltraggioso, avviando un calvario tragicomico dalla povera donna, determinata a non arrendersi. L’episodio è un ovvio pretesto per illuminare paradossi e contraddizioni di un territorio impostato sul pregiudizio quale unico paradigma sociale, culturale e dunque politico (“Una folla non può avere un’opinione, è un magma” decreta il pope locale). Ne discende un ferreo maschilismo ove spesso le principali colpevoli sono le stesse donne. Divertendo, l’operetta prodotta dai Sisters and Brother Mitevski (la sorella Labina è la produttrice e co-protagonista, il fratello Vuk ha curato la scenografia), squarcia le coscienze mentre nutre nuove conoscenze e consapevolezze. Se i generi vengono saldamente mescolati (commedia, dramma sociale, thriller claustrofobico) l’approccio simbolico alla realtà messo in campo da Teona è realizzato attraverso l’uso della geometria, sia di inquadrature che di movimenti negli spazi esterni/interni, ove è l’alternanza di parallelismi e opposizioni a creare l’effetto-paradosso.

Ancelotti non ha libertà di parola (da contratto)

Se vi dicessero che un presidente di un club di calcio ha le chiavi d’accesso degli account social del suo allenatore dove può scrivere quello che vuole facendo finta che a farlo sia l’allenatore, e che la cosa è stata messa addirittura a contratto, proposta, accettata e controfirmata, voi ci credereste? No? Allora non avete mai letto il contratto che lega Carlo Ancelotti al Napoli di Aurelio De Laurentiis.

Tra le pieghe di un documento puoi trovare dettagli, clausole, vincoli che ti dicono molto sulla natura dei “legami”; e bisogna dire che quelli che legano Ancelotti al Napoli e a De Laurentiis sono particolarmente interessanti. Il primo mito da sfatare, per cominciare, è quello relativo al suo compenso: non i 6,5 milioni netti più volte favoleggiati ma 3.593.725 per i primi due anni che salgono a 3.993.725 il terzo anno. A questi vanno aggiunti una serie di premi per gli obiettivi raggiunti: 500.000 lo scudetto, 150.000 l’accesso in Champions, dove se Ancelotti supera il girone e passa agli ottavi ha un premio di 200.000 euro. La Champions vinta vale 1 milione.

Separazione. In un momento così delicato del rapporto tra Ancelotti e De Laurentiis, ad alto rischio divorzio, è importante capire come questo potrebbe avvenire. Ebbene, la società può recedere dal contratto versando ad Ancelotti una penale e senza dover corrispondere più nulla per il periodo successivo. La penale era di 750.000 euro se esercitata entro il 31/05/2019, oggi, se esercitata entro il 31/05/2020, è di 500.000.

Aziendalismo. Messi nero su bianco, gli obblighi sono tanti e ben dettagliati.

Innanzitutto l’allenatore “non ha diritto di interferire nelle scelte gestionali e aziendali della Società”. Ancora: “L’Allenatore si impegna a condividere e redigere con la Società ogni comunicato e/o espressione del proprio pensiero diffusa su qualsivoglia mass media”. L’impegno a rispettare le strategie di comunicazione della Società e a non rivelarne dettagli compare più volte e la violazione determina una penale di euro 100.000 per ciascun inadempimento.

Sull’attenti. Sul chiacchieratissimo ritiro dei calciatori leggiamo: “Tutte le decisioni in merito all’organizzazione di “ritiri pre-partita” della Prima Squadra, e quindi relativamente alla durata degli stessi, dovranno essere oggetto di preventiva condivisione tra l’Allenatore e la Società, che, in caso di disaccordo, potrà legittimamente disattendere la volontà dell’Allenatore”. Traducendo, decide la Società.

Cessione diritti pubblicitari. Per la cessione dei diritti d’immagine la Società conferisce ad Ancelotti un compenso pari a euro 406.275,00 netti l’anno. L’allenatore si impegna ovviamente a presenziare a eventi, spot, foto, interviste e tutto quello che è necessario al club. Obblighi dettagliati minuziosamente, fino ad alcuni quantomeno curiosi, come quello di utilizzare l’auto fornita dal club per tutti gli spostamenti, di non cederla a terzi, di non portarla in officine non autorizzate, per non parlare della benzina, i lavaggi e persino “i rabbocchi di lubrificanti e degli altri fluidi necessari” che sono a carico dell’allenatore; dettagli fondamentali, per il presidente.

L’allenatore si impegna inoltre “a custodire con diligenza gli indumenti ed i materiali forniti dal club e deve rifonderne il valore se smarriti o deteriorati per colpa sua”. Occhio a non sporcare le camicie, dunque.

Hacker. Poi viene il bello: “Il Club ha il diritto di accedere al sito Internet e/o alla/e piattaforma/e ‘social’ (e/o alle relative pagine e/o account) dell’Allenatore, INSERENDO ESPRESSE COMUNICAZIONI ANCHE A NOME DELL’ALLENATORE, il quale con la sottoscrizione del presente Contratto dà espresso mandato al club ad effettuare tali inserimenti (…) impegnandosi a fornire al club le chiavi di accesso (sito, account ecc.)”.

In sostanza, quando Ancelotti parla a mezzo social nessuno sa se sta parlando lui o De Laurentiis; buono a sapersi, anche se a noi pare orribile. Tra l’altro, se l’allenatore violasse uno di questi accordi sarebbe obbligato a “corrispondere al club a titolo di penale una somma pari al corrispettivo previsto in relazione alla stagione sportiva in corso”.

Quella che vi abbiamo offerto è solo una sintesi del vasto numero di impegni che De Laurentiis ha deciso di proporre e Ancelotti di sottoscrivere: dettagli che dicono molto sulla natura dei “legami” e sull’umanità degli attori coinvolti. Se sia più paradossale l’accondiscendenza (eufemismo) di Ancelotti o più sfacciata la ribalderia di De Laurentiis nel proporli non sapremmo; forse la verità sta nel mezzo. In fondo i contratti, come i matrimoni, si fanno in due.

“Preti pedofili e omertà. A 17 anni da Spotlight tutta la Chiesa ha fallito”

Michael Rezendes è uno dei reporter di “Spotlight”, il team di giornalisti investigativi del Boston Globe guidato da Marty Baron che, nel 2002, dopo mesi di lavoro, scoperchiò lo scandalo degli abusi sessuali nella diocesi di Boston. Una storia che è valsa al Globe il Premio Pulitzer e ha fatto – anche grazie al film premio Oscar che ne venne tratto – il giro del mondo. Da ottobre, Rezendes è senior investigative reporter alla Associated Press a New York. Lavora a “The Reckoning”, un nuovo progetto con l’obiettivo di “esplorare la più grande crisi di credibilità della Chiesa dai tempi della Riforma”.

Il nuovo progetto investigativo si chiama “La resa dei conti”: quale? 

La Chiesa cattolica statunitense aveva promesso di sradicare abusi e molestie sessuali. Ma, vent’anni dopo Spotlight, Papa Francesco e i suoi vescovi stanno ancora facendo i conti con violenze e insabbiamenti. Nel riconoscere le responsabilità dei vertici ecclesiastici, hanno fallito.

A così tanti anni di distanza, cosa è stato Spotlight? 

Più di tutto, la nostra inchiesta ha cambiato la percezione dell’opinione pubblica sul tema: si è creato una rete a livello mondiale di “survivor”. E la Chiesa è stata costretta a prenderne atto.

Tutto è partito da una città dove il potere ecclesiastico, e l’omertà che lo proteggeva, sembravano inscalfibili.

Ero un giovane cronista del Boston Globe. Cominciai a lavorare su presunti abusi del clero. All’inizio indagavo su un solo prete, ma molto rapidamente l’inchiesta si allargò a 7, poi a 70. Lavorai a lungo sul caso di padre John Geoghan, un pedofilo seriale: avevo intervistato le sue vittime. Sapevo che sia l’allora cardinal Bernard Law che il suo predecessore, il cardinale Humberto Medeiros, erano al corrente che Geoghan avesse molestato bambini per 30 anni, in sei diverse parrocchie. Quando ho scoperto che nell’ultima parrocchia in cui lo avevano spostato si occupava dei chierichetti, ricordo di aver pensato: se dopo 30 anni di molestie gli affidano i chierichetti, questa è davvero una grossa storia.

Uno scandalo che ha avuto eco ed impatto globali. Internet era agli esordi…

L’inchiesta si allargò rapidamente, scoprii nuovi casi prima a New York, poi a Tucson, in Arizona. Poi in tutto il mondo. E continua ancora oggi, 17 anni dopo. Credo sia questo l’impatto più profondo e duraturo del nostro lavoro: l’aver rivelato per primi il sistematico insabbiamento degli abusi, un sistema di connivenze e coperture che abbiamo visto ripetersi uguale in tutto il mondo. Così decine di migliaia di vittime hanno avuto il coraggio di venire allo scoperto senza più paura nè vergogna.

Cosa è successo ai sopravvissuti?

Per lo più hanno fatto causa, avuto giustizia e compensazioni economiche.

E agli abusatori?

Ogni caso è diverso. Alcuni sono finiti in carcere, altri sono stati spogliati della toga e si sono “integrati” nella società. A volte in contesti a contatto con bambini. Ma sarei sorpreso – non scioccato – se a Boston emergessero altri casi di abusi. Perché la diocesi ha introdotto nuove misure di protezione nei confronti dei minori. E perché i genitori ora sono più consapevoli, e sanno di poter denunciare.

Grazie al vostro lavoro, la gente non è più costretta al silenzio. Resta ancora molto da fare, secondo lei?

Assolutamente. La Chiesa è una sorta di società segreta composta solo da uomini. Impregnata da una cultura in cui abusi e molestie sono peccati da perdonare, e non crimini da denunciare alle autorità. Molti pensano sia venuto il momento per il Vaticano di adottare precisi protocolli per la protezione dei minori. Hanno attivato dei corsi di formazione per i vescovi, ma questo non basta.

L’ultimo caso è quello del vescovo di Buffalo Richard Malone, costretto alle dimissioni pochi giorni fa per aver tenuto in un cassetto il fascicolo in cui un prete rivelava di aver abusato, fra gli anni ’60 e ‘80, di dozzine di bambini.

Il caso Buffalo dimostra come i vescovi, ancora una volta, non realizzino l’importanza del problema. È incredibile che, a 17 anni da Spotligh,t siano così tanti che faticano a comprendere il danno profondo provocato da una violenza sessuale…

Lo scandalo degli abusi può portare la Chiesa Usa, per i risarcimenti, al collasso economico?

Penso che ci sarà un aumento delle cause, in particolare negli stati dove sono cambiati i termini della prescrizione. Ma parliamo di una delle istituzioni più antiche, e ricche, al mondo. Non scomparirà certo per questo.