“Quella di Putin è una democrazia vuota”

La maglietta che la diciassettenne attivista russa, Olga Misik, ha scelto di indossare per presentarsi al festival “Più libri più liberi” a Roma, riporta il numero dei suoi tanti connazionali arrestati per aver protestato pacificamente nelle strade delle città russe. Anche Olga – uno scricciolo che non si è fatto piegare né dalla balbuzie né dai poliziotti antisommossa del Cremlino – ha già provato la sensazione angosciante di finire agli arresti “solo” per aver osato leggere la Costituzione russa post-sovietica nelle piazze di Mosca, la città dove si è trasferita per studiare giornalismo e comunicazione. “Il presidente Putin quando ci impedisce di protestare pacificamente contro il sistema illegale da lui promosso per impedire la partecipazione alle elezioni di veri partiti alternativi al suo, compie una chiara violazione della Costituzione, su cui ha giurato numerose volte, che conferisce ai cittadini questo diritto. Per questo ho pensato che leggere ad alta voce la Carta sia un modo corretto e potente di esercitarlo. Se per questo la polizia mi fermerà, pazienza, non ho paura.

Olga, ti sei interessata a questo tema perché i tuoi genitori ti hanno spronata?

No, anzi, i miei genitori hanno tentato di farmi desistere, ma io ritengo sbagliato accettare tutto passivamente, non solo per quanto riguarda me, ma anche per le prossime generazioni. Noi russi dobbiamo imparare ad agire per conquistare ciò che finora ci è stato garantito in teoria. Mia madre, che è una persona colta nonché un medico, non condivideva nemmeno la mia militanza femminista, figuriamoci quella per la vera democrazia.

La Russia non è un paese democratico, a tuo avviso ?

No. Non basta dare ai cittadini la possibilità di andare a votare per entrare nella lista dei paesi democratici. Se non si permette che emergano partiti reali, se i brogli sono sistematici, se il cittadino è considerato un suddito da comprare o arrestare, se la stampa indipendente viene attaccata e censurata, non siamo di fronte a un governo democratico, bensì a un regime. Nella Russia di Putin la democrazia è un guscio vuoto.

Pensi che i paesi democratici dovrebbero fare di più per contrastare la politica autoritaria del vostro presidente ?

Sì, secondo me dovrebbero ricorrere di più allo strumento delle sanzioni personali. Intendo dire che quelle generali, cioè contro un intero popolo, non sono davvero efficaci, ma se ne venissero imposte di più a carico di singoli politici e imprenditori allora potrebbero avere un effetto positivo.

Sei ormai nota in tutto il mondo, sei una nuova icona mediatica, come Greta. Non temi di essere già stata metabolizzata e digerita dal sistema, che fra un po’ ti dimenticherá?

Quando le tv e i giornali hanno iniziato a chiamarmi nel luglio scorso, mia madre si è arrabbiata dicendo che mi stavano sfruttando e mi avrebbero messa nel dimenticatoio. A me però non importa, io le mie battaglie le ho fatte e le farò a prescindere dall’attenzione dei media. Certamente la risonanza internazionale non la disdegno perché aiuta la mia causa, che non è guadagnare fama, ma poter vivere in un paese realmente democratico.

La sberla a Macron: Francia bloccata contro il ‘riformista’

“Una cosa è certa, la mobilitazione non si esaurisce stasera”, diceva ieri Philippe Martinez, segretario del sindacato Cgt, in testa al corteo parigino partito nel primo pomeriggio dalla Gare du Nord. Treni, autobus, metrò fermi, voli nazionali annullati, Tour Eiffel e musei chiusi a Parigi, scuole deserte, ospedali aperti solo per le urgenze e negozi sbarrati per paura dei casseurs: la Francia ieri si è fermata per protestare contro la riforma delle pensioni e non sembra pronta a ripartire. Solo il 15% dei treni circolerà oggi e le prenotazioni sono chiuse fino a domenica. Nel metrò della capitale il movimento è stato prolungato fino a lunedì. E non andrà meglio negli aeroporti.

Ieri, a fine giornata, a Parigi si è stilato un bilancio da sabato di Gilet gialli: più di novemila controlli preventivi, più di 80 fermi, lacrimogeni, fuochi accesi e vetrine infrante in place de la République, dove si sono ritrovati 700 black bloc. Anche se in ritardo e a singhiozzo, il corteo, che doveva passare per di là, è riuscito a partire e a raggiungere la Nation. C’erano almeno 800 mila persone in tutta la Francia, tra Nantes, Marsiglia, Lione, Bordeaux, Parigi, per il ministero dell’Interno, un milione e mezzo per i sindacati.

I francesi sfidano Emmanuel Macron. Il presidente che si vuole riformista si gioca la reputazione. Nel 1995, gli scioperi di tre settimane e mezzo contro la riforma della funzione pubblica e, già all’epoca, del sistema delle pensioni, aveva fatto cedere Jacques Chirac e il suo primo ministro Alain Juppé. Le riforme erano state ritirate. Ci si chiede quanto terrà Macron. Da sondaggio Odoxa, circa sette francesi su dieci (68%) approvano lo sciopero. La riforma del sistema pensionistico è annunciata dal governo come “equa” e più giusta per i lavoratori precari che accumulano crontrattini a tempo, tra cui molte donne, oggi penalizzate, ma nessuno crede nell’operato del governo né si sente al sicuro.

“Vogliamo che le generazioni future conservino gli stessi diritti dei padri”, ha insistito Martinez. La riforma introduce un sistema “universale a punti” e prevede la soppressione dei “regimi speciali”, che in Francia sono 42. Ma a parte questo principio, che viene ripetuto da mesi, le misure concrete non sono ancora note. Di qui la diffidenza dei francesi. Il governo ora ha fretta: “l’architettura della riforma”, ha promesso ieri il premier Edouard Philippe, sarà illustrata a metà della prossima settimana. Nel tentativo maldestro di ridurre i focolai di protesta, sono state fatte promesse a certe categorie e non ad altre. Promesse alle quali per ora non crede nessuno. Il ministro dell’Educazione, Michel Blanqueur, ha promesso di “valorizzare gli stipendi” degli insegnanti, tra i più penalizzati dalla riforma, ma il 55% di loro (il 78% a Parigi) era nelle strade. Il ministro dell’Interno, Christophe Castaner, ha scritto ai poliziotti per promettere che il loro “regime speciale” sarà mantenuto ma ieri diversi sono stati gli “scioperi dello zelo” tra gli agenti di polizia (che non hanno diritto a scioperare), con commissariati simbolicamente chiusi.

La ministra della Sanità, Agnès Buzin, ha incontrato il personale medico dell’ospedale Georges Pompidou a Parigi, ma gli ospedalieri hanno ben altre rivendicazioni da far valere e sono mesi che manifestano. La promessa della pensione minima a mille euro per ora soddisfa solo gli agricoltori, che con la crisi attuale del settore hanno piccoli redditi, ma anche loro erano in strada perché da tempo si battono contro i prezzi troppo bassi dei prodotti agricoli. Lo scontento dilaga in Francia. I giovani che si sono uniti al corteo protestano anche contro il precariato degli universitari. E i Gilet gialli, anche se meno numerosi, sono sempre presenti per dire no alle ingiustizie sociali e fiscali. Secondo il politologo Bruno Crautrès il nodo non sono le pensioni, ma è “tutta la questione sociale” che andrebbe messa sul tavolo.

Mifsud non era un agente provocatore occidentale

Non una spia, né un collaboratore di alcuna intelligence occidentale. Joseph Mifsud resta un’incognita. E che non sia uno 007 lo ha rivelato ieri il Washington Post, anticipando i risultati della contro-inchiesta sul Russiagate condotta dal procuratore generale William Pelham Barr.

Proprio Barr, stando al quotidiano Usa, “ha dichiarato di non poter fornire prove all’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia” per sostenere la tesi che il professore – di cui dall’ottobre 2017 si è persa ogni traccia – sia un “agente provocatore” assoldato dai servizi segreti occidentali per svelare le trame del futuro presidente Donald Trump. Il quotidiano americano scrive che alcuni agenti dell’intelligence avrebbero confermato che Mifsud “non era una loro risorsa”. Intanto ancora non si sa dove sia il professore, laureato in scienze della formazione a Malta, e in Pedagogia a Padova, con una cattedra alla London Academy of Diplomacy e alla facoltà di Scienze Politiche della Link Campus University, presieduta da Vincenzo Scotti.

Misfud diventa una figura centrale nell’affare Russiagate perchè nell’aprile 2016 avrebbe rivelato a George Papadopoulos, all’epoca membro del comitato elettorale di Trump alle presidenziali, che i russi possedevano diverse e-mail compromettenti su Hillary Clinton, avversaria del tycoon alle elezioni. Informazioni che Papadopoulos avrebbe poi veicolato all’ambasciatore australiano a Londra. Nel frattempo, l’Fbi dà avvio all’inchiesta Russiagate, affidata al procuratore speciale Robert Mueller. Proprio in questa indagine, venne fuori che la fonte di Mifsud sarebbe stata la sua ex studentessa Olga Polonskaya, che vantava collegamenti con il presidente russo Vladimir Putin. Insomma un intreccio difficile da decifrare. Come pure lo è la figura di Mifsud. Per l’ex direttore dell’Fbi James Comey è un “agente russo”, per Papadopoulos era un “agente italiano manovrato dalla Cia”.

Ed è proprio da questo che nasce la contro-inchiesta voluta da Trump, affidata al ministro della giustizia William Pelham Barr e al procuratore John Durham: l’obiettivo degli americani è scoprire se il docente fosse stato manovrato dai servizi proprio contro il tycoon.

La faccenda poteva rimanere una grana Usa se non fosse per l’incontro a ferragosto scorso tra Barr e i vertici dei servizi segreti italiani, ossia il capo del Dis, Gennaro Vecchione. Un incontro autorizzato da Palazzo Chigi.

A questo ne segue un secondo, del 27 settembre: stavolta Barr accompagnato da John Durham si reca alla sede del Dis per incontrare Vecchione e i due capi dei servizi: Luciano Carta dell’Aise e Mario Parente dell’Aisi.

Per spiegare questi incontri, il premier Conte è stato convocato davanti al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (il Copasir) lo scorso 23 ottobre.

Prima di riferire al Comitato, però, il premier si è fatto ribadire per iscritto dai vertici dei servizi che negli archivi non vi era alcuna informazione sugli agenti dell’Fbi in Italia nel 2016 (ossia ai tempi delle rivelazioni di Mifsud sulle e-mail di Hillary Clinton hackerate dai russi). Per questo Conte si è detto certo che la nostra intelligence non abbia passato nulla ai due inquirenti americani.

“Ha violato la Costituzione” Pelosi avvia l’impeachment

Il destino di Donald Trump, almeno alla Camera, è ormai segnato: il presidente sarà messo in stato di accusa e sarà deferito per l’impeachment al tribunale del Senato. Ad anticipare la sentenza è la speaker della Camera, la leader dem Nancy Pelosi, che invita a stilare il rinvio a giudizio mentre di fronte alla Commissione Giustizia continuano a sfilare come testimoni costituzionalisti e professori di diritto. La Commissione conduce audizioni da mercoledì, dopo che la Commissione Intelligence le ha trasmesso il suo rapporto, approvato martedì, per l’impeachment del presidente (favorevoli tutti i democratici, che sono maggioranza; contrari tutti i repubblicani): 300 pagine in cui s’afferma che la condotta di Trump nell’ Ukrainegate è peggiore di quella di Richard Nixon nel Watergate.

Per il magnate presidente, nessuna sorpresa: la Camera è una nemica. Le sorprese, negative, gli vengono, invece, da un fronte che credeva amico. Secondo anticipazioni di New York Times e Washington Post, i rapporti redatti da due inquirenti scelti dal ministro della Giustizia William Barr e graditi a Trump, Michael Horowitz, ispettore generale del Ministero, e John Durham, non avallano la teoria della cospirazione sostenuta dalla Casa Bianca, che cioè il Russiagate sarebbe stata una montatura dei democratici, con l’avallo dell’intelligence Usa, per impedire l’ascesa di Trump alla presidenza. Il commento del Wp è radicale: “La teoria della cospirazione sostenuta dalla Casa Bianca subisce un’altra smentita da due uomini di cui Trump ha sempre parlato bene”, perché si aspettava che la confermassero. Invece, loro negano che il Russiagate sia stata tutta solo “una caccia alle streghe”. Ma il pericolo, per il presidente, ora non viene dal Russiagate, archiviato col rapporto ambiguo, né accusatorio né assolutorio, del procuratore speciale Robert Mueller, ma dall’Ukrainegate: l’istruttoria per l’impeachment va in scena alla Camera. Facendone il punto, la Pelosi avverte: “Negli Usa, nessuno è al di sopra della legge … Se consentiamo a un presidente di esserlo, mettiamo a rischio la nostra Repubblica”. La speaker della Camera invita quindi la Commissione Giustizia a preparare la messa in stato d’accusa, sulla base del fatto che Trump “ha seriamente violato” la Costituzione. La Camera dovrebbe pronunciarsi in plenaria prima della pausa di fine anno. La reazione del presidente non si fa attendere. “Se volete mettermi in stato d’accusa – twitta –, fatelo ora e in fretta, in modo che possa avere un processo giusto in Senato”.

Lì, i repubblicani, che sono maggioranza, chiameranno a testimoniare “Adam Schiff (il presidente della commissione Intelligence della Camera, ndr), Joe Biden, la Pelosi e molti altri”: “Riveleremo, per la prima volta, quanto corrotto è il nostro sistema. Sono stato eletto per pulire la palude e lo farò”, dice, bollando la Pelosi come “invidiosa” e Schiff come “pazzo e malato”: il suo rapporto è “lo sproloquio di un povero blogger”. Trump avverte che, di questo passo, l’impeachment diventerà routine.

Se i repubblicani del Senato saranno uniti, o se vi saranno poche defezioni, Trump è sicuro d’uscirne assolto. Per l’impeachment, ci vuole la maggioranza dei due terzi: i senatori repubblicani sono 53 su 100; perché il presidente sia condannato, bisogna che venti lo scarichino. Una frase di una giurista, Pamela Karlan, che cita durante l’audizione il figlio di Donald e Melania Trump, Barron, induce la first lady a uscire per la prima volta dal suo riserbo: “Dovrebbe vergognarsi”, twitta, accusando la teste di “usare un minore” per avallare una sua tesi “molto rabbiosa e ovviamente di parte”. Karlan evoca Barron criticando la condotta del padre: “Trump non è un re che può fare ciò che vuole. La Costituzione dice che non ci può essere alcun titolo di nobiltà. Quindi il presidente può chiamare suo figlio Barron ma non può farlo barone”. Anche la Casa Bianca stigmatizza la sortita, che in aula aveva suscitato ilarità.

“The Irishman, hanno cancellato il mio nome”

Delitti, complotti, mafia, attori strepitosi, un regista (Scorsese) che è una certezza, gli Oscar come tappa scontata, e ora, all’improvviso, su The Irishman cade un mistero misto a un’accusa: “Mi hanno tolto dai titoli finali, anzi mi hanno sostituito con personaggi che una volta lavoravano con e per me. Ho chiamato il mio avvocato”, parola di Vittorio Cecchi Gori.

È perennemente in guerra.

In realtà sono un poveraccio perennemente costretto a difendere i propri diritti.

Che è successo?

Non ci volevo credere.

Sì, a cosa?

Ho visto il film, sono arrivato alla fine, e non solo non ero nei titoli ma ho trovato un mio ex collaboratore.

In quale veste?

Produttore.

Il suo ruolo.

Con Scorsese anni fa ho firmato un accordo per cinque film, con l’obbligo contrattuale di riconoscermi come producer sia di Silence uscito nel 2016 (è segnato come producer) sia appunto di The Irishman.

E invece?

L’accordo non è stato rispettato. Oggi è partita una diffida nei confronti della società di Scorsese e di Netflix per riparare il danno, inserendomi immediatamente.

Netflix e Scorsese sono informati?

Netflix ci è capitata in mezzo e anche se innocente ha una responsabilità oggettiva, mentre il team di Scorsese è obbligato a saperlo per via di una sentenza di Los Angeles. I contratti sono chiari.

Com’è il suo rapporto con Scorsese?

Buono, ma è circondato da un nucleo di persone senza scrupoli e non se ne rende conto.

Quante cause ha in piedi?

Un numero impressionante, passo tutte le giornate al telefono con il mio avvocato, Gianfranco Passalacqua. E qualcosa di buono inizia a

muoversi.

Se riesce?

Posso finalmente ricominciare a produrre film, a partire dal remake de Il sorpasso (cambia tono) Questi mi hanno causato un vero danno.

“The Irishman” è un capolavoro.

E andrà dritto all’Oscar e a parte la questione economica, era importante far girare nuovamente il mio nome su una produzione del genere.

Non ci avrà dormito.

Un po’ sono abituato ad affrontare queste mignottate, ma attenzione: io non subisco, mi incazzo, poi reagisco. Non resto in silenzio, e non ci voglio stare.

Rifiuti, oggi (ri)comincia la guerra Raggi-Zingaretti

Una discarica pubblica che chiude in anticipo; un’altra privata, sotto la lente dei giudici, pronta ad allargarsi. E un’ordinanza regionale che obbliga la Capitale a individuare un nuovo sito all’interno del territorio comunale. Tutto ciò in deroga alle norme ambientali, in ottemperanza di un piano regionale che non esiste e in rispetto di un principio di autosufficienza che sembra valere solo per il Campidoglio. La sindaca di Roma Virginia Raggi, è pronta a impugnare al Tar il provvedimento varato dal governatore Nicola Zingaretti, pur di evitare l’arrivo di una nuova discarica all’interno del territorio capitolino. Il mandato potrebbe arrivare già oggi dall’Assemblea in Campidoglio sul tema.

Tutto nasce dalla decisione della Regione Lazio di anticipare la chiusura della discarica di Colleferro, 40 km a sud di Roma, dove la Capitale da 14 mesi conferisce circa 1.100 tonnellate al giorno di indifferenziato. Il sito è di proprietà del Comune di Colleferro ed è gestito da Lazio Ambiente Spa, al 100% della Regione Lazio. L’anno scorso furono investiti 800 mila euro per spostare i tralicci dell’Enel e liberare 482 mila metri cubi di spazio: riaperti i conferimenti a ottobre 2018, oggi sono disponibili ancora 240 mila metri cubi, con la discarica che è autorizzata fino al 2021. Nel 2019 accade qualcosa. Zingaretti fa inserire nella legge di bilancio una postilla che autorizza la chiusura del sito al 31 dicembre 2019. Scompare anche il revamping del vicino inceneritore, sempre di proprietà di Lazio Ambiente, per il quale erano stati già spesi 12,6 milioni di euro – di cui 5,3 milioni per il “ramo discarica” e 1,5 milioni finanziati dalla capitolina Ama spa – per fare spazio a un impianto “non impattante”. L’inversione di marcia fa esultare il sindaco di centrosinistra Pierluigi Sanna, che si ricandiderà alle comunali del 2020, ma anche la multinazionale Amazon, che a metà del prossimo anno aprirà a due passi dalla discarica il centro logistico più grande d’Italia, capace di offrire 2 mila posti di lavoro: “Quelli sono venuti qua e hanno fatto un investimento perché erano certi che la discarica sarebbe stata chiusa”, ha detto Sanna la scorsa settimana.

Meno fortunato chi vive in Ciociaria. A Roccasecca, fra Frosinone e Cassino, c’è la seconda delle tre discariche del Lazio, una delle più grandi d’Europa. Un sito da 2,5 milioni di metri cubi, gestita dalla Mad srl di Valter Lozza, editore dei quotidiani Latina Oggi, Ciociaria Oggi e Il Romanista. L’area è al centro dell’inchiesta “Maschera” della procura di Frosinone, che vede coinvolto lo stesso Lozza e altre 30 persone (indagine chiusa a fine 2018, si attendono gli esiti). I carabinieri forestali, come riporta Latina Quotidiano, “avrebbero accertato lo smaltimento in discarica di rifiuti potenzialmente pericolosi”, portando “maggiori introiti” con “la complicità dei laboratori di analisi compiacenti”. La Regione nel 2015 aveva concesso alla discarica un indice respirometrico dei rifiuti tre volte superiore alla norma, mentre il Cnr ha parlato di un “possibile contatto fra alcuni gas e le acque della falda”. Eppure, Roccasecca potrebbe espandersi: da settembre è aperta in Regione Lazio la conferenza di servizio per l’apertura di un quinto invaso di oltre 800mila metri cubi.

Ad oggi nel Lazio ci sono solo altre due discariche, più piccole, a Civitavecchia e Viterbo, entrambe quasi esaurite. Il problema, dunque, riguarda tutto il Lazio. Virginia Raggi vuole che Colleferro resti aperta fino ad esaurimento e che venga approvato al più presto il piano rifiuti regionale. Per tutta risposta Zingaretti le ha ordinato di individuare una discarica a Roma entro una settimana, fra 7 siti elencati da una commissione tecnica congiunta.

Bancomat, i partiti contro le sanzioni (uniti e colpevoli)

Adimostrazione di come la lotta all’evasione fiscale non porti voti e di come anzi ai politici convenga sempre strizzare l’occhio agli evasori, arrivano le larghe intese contro il Pos. Martedì 3 dicembre tutti i partiti (ma in questo caso sarebbe meglio dire tutte le parti in commedia) esultano all’unisono perché in commissione Finanze passa un emendamento, firmato dalla deputata di Forza Italia Claudia Porchietto, per cancellare dal decreto fiscale le sanzioni da comminare a chi non accetta pagamenti con bancomat e altri tipi di moneta elettronica. La giustificazione è in teoria nobile, ma nei fatti fa acqua da ogni parte. Vediamo perché. Tutti, a partire dal Movimento 5 stelle, spiegano che le commissioni sulle transazioni e le spese fisse per il Pos (anche 120 euro l’anno) sono troppo alte. E che per questo non si può dare una multa di 30 euro (più il 4% del pagamento rifiutato) al commerciante o all’artigiano sprovvisto del terminale finché non verranno di abbassate. Attenzione: che le commissioni siano troppo alte è vero. Ma è perfettamente falso che per evitare il salasso ai commercianti sia necessario attendere che le banche rivedano le loro esose pretese.

Proprio il decreto fiscale prevede che tutte le attività con ricavi o compensi al di sotto dei 400 mila euro annui avranno diritto dal 2020 a un credito d’imposta pari al 30% sulle commissioni pagate su ogni transazione con carta o bancomat. Per questo “sconto” sono stati stanziati 30 milioni di euro. E qui si viene al punto. Se davvero l’obiettivo dei nostri cari parlamentari fosse stato quello di tutelare i tanti commercianti onesti messi in difficoltà dalle commissioni alte e non i furbi, sarebbe stato sufficiente stanziare non 30, ma 100 milioni di euro e portare il credito d’imposta al 70 o all’80 per cento. Bravo! dirà il lettore, ma dove li troviamo gli altri 70 milioni? La risposta ce l’ha data proprio il governo quando ha spiegato urbi et orbi che incentivando la moneta elettronica vi sarebbe state molte meno compravendite di merci e servizi in nero e di conseguenza sarebbe aumentato il gettito per il fisco. Per questo era stato pure previsto che (come già sperimento con successo in Portogallo e in altri paesi) anche in Italia partisse la lotteria degli scontrini. Come già accade in farmacia, al momento dell’acquisto presenti il tuo codice fiscale. E con quello (più un codice lotteria) partecipi a un’estrazione a premi (in denaro) mensile e annuale. Se poi paghi con un sistema elettronico tracciabile le tue probabilità di vincita aumentano.

Inizialmente la lotteria degli scontrini doveva scattare a gennaio. Ora è stato spostato tutto a luglio. Ufficialmente per difficoltà tecniche. Anche se non si può non guardare al calendario. Nella prima parte dell’anno andranno al voto Emilia Romagna, Calabria, Marche, Puglia, Liguria, Campagna, Veneto e Toscana più altri 1050 comuni. Visto che, secondo le statistiche, le partite Iva e le imprese individuali hanno una propensione all’evasione Irpef del 68,3 per cento contro il 3,7 per cento dei lavoratori dipendenti, viene così da chiedersi se sulla decisione del rinvio dell’inizio della lotteria non abbia pesato pure dell’altro. L’immagine di tanti commercianti-elettori che stramaledicono il governo perché costretti a confrontarsi con l’ira di decine di clienti inalberati perché l’assenza di Pos diminuisce la loro probabilità di vittoria. A pensar male si fa peccato. Ma visto come andata con la cancellazione delle multe, anche in questo caso forse ci si azzecca.

Sardine in lotta per non perdere altri diritti

Nella foga di capire chi siano queste benedette sardine che sono risalite dal fondo del mare e che in brevissimo tempo hanno visibilmente cambiato gli equilibri faunistici del nostro scalcagnato Stivale, in molti si sono esercitati in congetture e illazioni varie. L’ipotesi più in auge nel centrodestra per mettere subito le sardine sott’olio e sbarazzarsi del problema è che si tratti di una moltitudine di facciata manovrata da Romano Prodi.

La domanda sorge spontanea: se la sinistra fosse in grado di mobilitare occultamente decine di migliaia di persone, fino al punto di farle alzare dal divano e portarle in piazza sotto la pioggia, perché poi non sarebbe in grado di farle scendere nel seggio elettorale sotto casa per farsi votare? Archiviata dunque questa supposizione come fantascientifica, nonché strumentale, passiamo al secondo argomento più gettonato tra i sostenitori del Capitano: “L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui si protesta contro l’opposizione”. Effettivamente a sentirla così questa suggestione ha una certa presa, non a caso tra i leghisti ha sostituito il Padre Nostro, ma basta un istante di riflessione senza fare il pesce in barile – tanto per rimanere in tema – per rendersi conto che quella che in termini governativi rappresenta l’opposizione, è invece maggioranza politica e culturale negli usi e costumi degli italiani. Ed è da qui che bisogna partire se si vuol davvero capire cosa spinga così tante persone a sentire il bisogno di manifestarsi. Il sovranismo, semplificato in versione populista, ha fornito alla destra una quantità sufficiente di argomenti per riuscire ad attecchire nell’immaginario e nelle coscienze delle persone, permettendole di ambire a quell’egemonia culturale che ha sempre faticato a raggiungere. Per la preservazione della sovranità nazionale, i maître à penser o élite che dir si voglia (ebbene sì, incredibile a dirsi, ma esistono anche da quella parte) del sovranismo sono arrivati a mettere in discussione parte di quelle libertà individuali che si davano ormai per assodate e che nessuno credeva di doversi trovare nuovamente a contrattare. È a questo punto che la sardina s’incazza e sceglie di farsi sentire: non “anti” terzo argomento utilizzato dai detrattori a monte che vorrebbe aggiungerle al novero dei fallimenti della sinistra prima antiberlusconiana, poi antisalviniana, ma “per”. Le sardine scendono in piazza per loro stesse, per impedire che la politica compia un movimento regressivo che riporti indietro le lancette della Storia e che cancelli con un colpo di spugna tutte le conquiste fatte negli ultimi decenni. In quest’ottica assume rilievo l’elemento generazionale che, seppur non esclusivo nella composizione anagrafica del movimento, sicuramente ne è lo sprone: a rifiutarsi di rinunciare alla propria libertà di movimento e d’azione, accettando di proteggersi e d’isolarsi dall’esterno, è la generazione venuta su negli anni della globalizzazione e del capitalismo sfrenato, quei trentenni per cui i concetti di popolo e nazione non hanno nessun significato essendo cresciuti nello sbiadimento dei confini, che non hanno nostalgie identitarie in nome delle quali sacrificare il progresso e la contemporaneità.

Le sardine non sono affatto utopiste o rivoluzionarie, non chiedono di avere più di quello che già hanno, pretendono solo di mantenere ciò che fino a poco fa sembrava scontato. Del resto si parla di una generazione che, all’ombra di un liberismo compulsivo, si è già vista costretta a barattare i diritti sociali con quelli civili, e che adesso si rifiuta di perdere anche quelli. Più che a-partitiche le sardine sono dunque pre-partitiche, perché il loro obiettivo ha a che fare con qualcosa di molto antecedente alla militanza politica: la sostanza stessa di cui sono fatte le loro esistenze.

Il web è il nuovo covo dei nazifascisti

L’analisi dei fatti degli ultimi anni e degli esiti delle inchieste rivela che il web (attraverso motori di ricerca dedicati o neutri come Google) è impiegato da propaggini di destre radicali come mezzo di aggregazione per attuare la loro strategia politica e formare il consenso. Si tratta di un mezzo di comunicazione di gruppo privilegiato da parte di movimenti e associazioni che guardano all’esperienza statunitense del suprematismo bianco e del nazionalismo, che trovano il loro collante nell’identità etnico-nazionale, nell’odio per il diverso (stimolato dai flussi migratori e dall’omofobia), nell’antisemitismo, nella costruzione del nemico e nei simboli (saluti romani, croci…) il riferimento al nazifascismo.

L’esigenza identitaria è diffusa nella popolazione e dunque coglie, esasperandolo, un bisogno reale, con conseguente pericolo di diffusione. Da qui la ripulsa per il diverso, per colui che partecipa a una cultura e appartiene a una etnia considerate estranee alla nazione, che riporta alle origini del nazismo. L’aggregazione si realizza con poche parole d’ordine chiare, intorno alle quali si costruiscono siti ideologicamente orientati, con partecipazione a vari livelli, che stimolano azioni individuali o di gruppo, senza che sia necessario disporre di canali di comunicazione bidirezionali: basta quello dal sito al percettore, così come si è visto per il terrorismo islamico e nei movimenti suprematisti statunitensi.

Le azioni individuali, anche di soggetti squilibrati, costituiscono fatti di cronaca sotto gli occhi di tutti. Il neofascista col tricolore che spara ai “negri” per rappresaglia è stato formato dal web e dalla rete ha ricevuto numerosi consensi. Si pensi a Dylann Roff, che a 19 anni assassinò nove persone di colore in una chiesa di Charleston, nel North Carolina, il quale, poi, rivendicò l’attentato come parte del suo impegno di white supremacist, confessando di aver deciso di uccidere dopo aver trovato su internet notizie (false) sul numero di omicidi di persone di colore contro i bianchi. L’uccisione di Jo Cox in Gran Bretagna è una icastica rappresentazione di come l’odio può trasformarsi in azione per la tutela dell’identità nazionale. Il collegamento con movimenti suprematisti statunitensi è emerso nel procedimento concernente il sito web Stormfront, in esito al quale – con sentenza definitiva della corte di Cassazione del 5 agosto 2016 – si è accertato che il gruppo aggregatosi in Italia, attorno al sito omonimo statunitense, fosse finalizzato all’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali ed etnici. Sono affiorate condotte online con creazione di aree tematiche di discussione – threads –, con invio di contributi da parte degli imputati – post –, di volantinaggio, di organizzazione della traduzione dei diari di Turner (libro pubblicato nel 1978 da William Luther Pierce, fondatore di National Alliance, in cui si immagina la razza bianca minacciata dalla soverchiante presenza di “negri”, ispanici ed ebrei, e in cui si propugna una lotta senza quartiere, con informazioni pratiche su come realizzare ordigni e su come combattere una guerra atipica), di realizzazione del cd Inner Circle, fino ad arrivare a una struttura operativa rivolta anche all’esterno, che avrebbe consentito agli imputati di operare in modo concreto. Comportamenti che hanno esaltato la razza bianca, l’odio verso gli ebrei, i neri, gli islamici, la negazione dell’Olocausto, con discussioni relative alle liste dei delinquenti italiani e delle comunità ebraiche in Italia, alle vicende inerenti all’assalto dei senegalesi a Firenze, all’onorevole Fiano, a Riccardo Pacifici, alla comunità rom di Pescara e ai politici di destra che hanno tradito per aver ammorbidito le proprie posizioni su immigrazione e integrazione.

Stormfront costituisce indicazione chiara dei pericoli che può generare il fanatismo suprematista e di come lo stesso si leghi al nazifascismo, come del resto lo sono anche altri analoghi siti che, con facilità, si possono visionare sul web e in cui impera l’esaltazione del nazismo e del fascismo, che ebbe grande presa negli anni precedenti alla II Guerra mondiale. Da un’indagine della procura dell’Aquila, approdata a un grappolo di condanne in primo grado, concernente l’associazione “Avanguardia Ordinovista”, i cui componenti manifestavano il proposito di commettere stragi e attentati e si richiamavano a Ordine Nuovo, è emerso l’uso da parte della stessa di un sito web e di una pagina Facebook quali strumenti di propaganda e di reclutamento, con tendenza xenofoba e pratica del discorso d’odio: il capo del sodalizio postava la frase “1-10-100-1000 Occorsio” quale introduzione a una notizia ripresa dal sito www.imolaoggi.it riguardante una condanna irrogata a un rumeno accusato di stupro; veniva poi postata un’immagine della presidente della Camera Laura Boldrini con accanto frasi che incitano all’odio e alla violenza.

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Da avvocato chiedo di abolire la prescrizione nel processo

È emblematico che ogniqualvolta nel nostro Paese si cercano di risolvere vecchi problemi, come l’evasione o le lungaggini giudiziarie, si levino alti lai proprio da chi è interessato a mantenere la situazione in essere: il che dimostra la bontà di quel che si sta facendo. Così, in tema di prescrizione penale, è evidente che consentirne la maturazione anche nel corso del processo significhi incoraggiare impugnazioni pretestuose e concorrere ad allungare i tempi della giustizia. È pertanto incomprensibile che si contesti il tentativo di por fine a tutto ciò bloccandola al primo grado di giudizio, dato che in altri ordinamenti nemmeno esiste. Né si può motivatamente affermare che senza la prescrizione i processi non finirebbero mai, come se i magistrati a quel punto fossero liberi di lasciare i fascicoli giacere polverosi nei palazzi di Giustizia. Noi avvocati sappiamo che questo non può succedere per ovvi motivi disciplinari e che i giudici italiani, sia in civile che in penale, sono tra i più “produttivi” per numero di sentenze. Altrettanto singolare è voler stabilire una durata predeterminata per ogni fase processuale, perché diversa è la natura e la complessità dei singoli procedimenti: ci si dovrebbe preoccupare non solo dei tempi ma anche della qualità delle decisioni.

loris parpinel

 

Diritto di replica

Abbiamo letto con interesse l’articolo di Salvatore Cannavò sul Fatto di ieri. Le considerazioni dell’autore spaziano su vari temi riguardanti la nostra azienda con una impostazione univoca e sconcertante: descrivere un’impresa che, senza preoccuparsi dei suoi dipendenti, in particolare di quelli italiani, ha badato solo agli interessi dei propri azionisti. È assolutamente falso. Tutte le operazioni, e sono veramente tante, fatte negli ultimi quindici anni hanno sempre tenuto ben presente gli interessi di tutti gli stakeholder, a cominciare dalle nostre persone e in particolare proprio da quelle che lavorano in Italia. Nel 2004 i dipendenti italiani del gruppo Fiat – che all’epoca racchiudeva in una sola società attività diverse (semplificando: automobili, camion, trattori) – erano 71.300. Se il signor Cannavò avesse avuto la decenza di riferirsi ai dati ufficiali più recenti, avrebbe scoperto come i dipendenti che in Italia lavorano per le stesse attività (nelle società FCA, CNHi, Ferrari) ammontano oggi a… 77.220! L’accordo con la Chrysler poi non è stato, come sostiene Cannavò, “un passaggio per divenire costola provinciale di qualche mega-gruppo internazionale”, ma una grande operazione che ha permesso all’allora Fiat, oggi FCA, di acquisire la Chrysler dando vita a un grande Gruppo internazionale che sta ottenendo risultati economici eccezionali. Anche grazie alle nostre attività americane, siamo stati e siamo in grado di essere più forti ovunque, anche in Italia. Oggi nello stabilimento di Melfi vengono prodotte le Jeep Renegade che vengono vendute anche in America: un risultato straordinario, che sarebbe semplicemente impensabile senza le scelte che abbiamo fatto. La realtà, in estrema sintesi, è che quindici anni fa la nostra era un’azienda in grandissima difficoltà con un futuro incerto. Oggi invece è un grande Gruppo internazionale con ottimi risultati economici, con importanti quote di mercato e con moderni stabilimenti in tutto il mondo e particolarmente in Italia. Nessuna fuga, nessuna “fine di Fiat”. Semmai una storia imprenditoriale che continua da 120 anni e che con PSA si appresta a scrivere ora un nuovo importante capitolo.

Andrea Pallard
Head of Communications – FCA EMEA

 

A parte i dati sui dipendenti, non viene smentito nulla, in particolare l’ammontare stratosferico dei guadagni fatti dalla famiglia e quel +1251% nel total shareholder return cioè nel valore globale accumulato in dieci anni da Exor, la finanziaria degli Agnelli. Non ci sembra che i dipendenti della ex Fiat possano vantare simili guadagni. E la sola Jeep a Melfi può accontentare chi ci scrive, ma a Melfi c’è ancora il contratto di solidarietà per 1000 operai in seguito alla cessazione della Punto. Quanto ai dipendenti, abbiamo avuto la decenza, come sempre, di consultare i bilanci ufficiali. L’occupazione nel gruppo è cresciuta a livello mondiale da 135 mila a 198 mila dipendenti (al netto dei dipendenti di Cnh Industrial scorporata nel 2011), ma in Italia è rimasta sostanzialmente stabile (i dati precisi sono complicati, perché per gli anni passati, Fiat non fornisce i dati Paese per Paese). Nel bilancio 2018, il numero dei dipendenti Auto in Italia ammonta a 50.827, nel 2005 erano 77.070 comprendendo anche Cnh e Ferrari (anch’essa scorporata in seguito). I dati qui forniti sono diversi. Ma non mostrano balzi in avanti. E infatti il fatturato in Italia è passato dai 13 miliardi del 2004 agli 8,8 miliardi del 2018. Invece è la stessa Fim-Cisl che, a gennaio 2019, indica come gli ammortizzatori sociali del gruppo interessino il 12-15 per cento della forza lavoro. Voi siete certamente divenuti un grande gruppo mondiale, ma la situazione in Italia non è migliorata. Il punto, che davvero riguarda la decenza, è questo.

S.C.

 

I nostri errori

Ieri, nel richiamo in prima pagina dell’articolo di Antonella Mascali sull’ergastolo ostativo, abbiamo erroneamente scritto Cassazione al posto di Corte costituzionale. Ce ne scusiamo con i lettori.

FQ