“Legge anti-moschee” Affossata dal Tar ma l’ambiguità sui luoghi di culto è un male

 

Gentile redazione, sono un cittadino milanese. Ho letto che la Consulta ha smontato la legge regionale del 2015 che regolamentava la costruzione di nuovi luoghi di culto. I giudici hanno stabilito che la libertà religiosa è più forte della discrezionalità di un sindaco (che tra l’altro, se non ricordo male, non aveva vincoli di tempo per decretare sì o no all’apertura di una moschea, per esempio). Io capisco le preoccupazioni legate alla sicurezza e al terrorismo, ma ci voleva la Consulta per stabilire che chiunque ha diritto di pregare liberamente nella città in cui vive? Eppure la Lombardia è una terra civile…

Filippo Antonelli

 

Gentile Filippo, la Consulta, con la sentenza n. 254 che ha accolto i rilievi del Tar, ha annullato la legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, per aver limitato incostituzionalmente la libertà di culto. Nata come disposizione di natura urbanistica, battezzata da subito “legge anti-moschee” nel dibattito politico, faceva degli spazi e della pianificazione un cavillo per impedire che le sedi delle associazioni culturali islamiche in Lombardia potessero essere riqualificate come luoghi di culto, o che se ne potessero costruire di nuovi. Ed è lo scontro con l’assurdità: se il problema fosse stata una preoccupazione legata al terrorismo, nulla avrebbe proibito di promulgare una legge a proposito. Cosa collegherebbe terrorismo e “attrezzatura religiosa”, o ancora terrorismo e pianificazione urbanistica? Esistono dati che mostrino un aumentato rischio di terrorismo nelle “strutture religiose” e non, per esempio, in sedi di associazioni o ristoranti? Oltre ai punti che ricorda nella sua lettera, è però anche compito delle comunità musulmane quello di uscire da ogni ambiguità. Il Tar riferisce nella sentenza il caso dell’Associazione Culturale Madni, nel suo statuto “volta a mantenere e valorizzare le tradizioni culturali dei paesi di origine dei musulmani residenti nel territorio e a rafforzare il legame con i cittadini locali”, come una delle vittime della legge ora annullata. Una finalità religiosa non è neppure intuibile.

E della confusione tra immigrazione, cultura, Islam, terrorismo – tutte problematiche da trattare in sedi distinte – nascono orrori come la legge anti-moschee. Anche nella civilissima Lombardia – patria dell’Azzeccagarbugli – fare del problema un’accozzaglia non può certo portare a una soluzione. Il dibattito per i luoghi di culto islamici sia condotto in termini chiari, e davvero universali, anche per evitare il bislacco opposto: il voler togliere i crocefissi dalle scuole, per come ha pensato l’attuale ministro dell’Istruzione, finire poi col chiedere di staccare le croci dalle chiese, e coprire queste stesse in ogni luogo, nel segno del più squinternato laicismo.

Pietrangelo Buttafuoco

Pareva un imbecille ma era un Agnelli

Adesso non ridete più di John Elkann, eh? Ora che gli Agnelli hanno messo le mani su Repubblica – e quindi le hanno rimesse sulla Stampa – nessuno osa più ironizzare sul rampollo, così a lungo umiliato. È la tesi del Foglio, che trova spazio sul giornale di mercoledì, sciolta in un gran numero di eleganti perifrasi e in qualche ettolitro di saliva. Il ritratto bagnato di John si intitola così: “Elkann ha smentito tutti”. Sottotitolo: “Il destino capovolto del nipote che sembrava destinato a chiudere la ditta, e invece ha restaurato l’impero”. Niente meno. La prosa è a tratti struggente: “John Elkann era solo ‘il nipote’, l’erede di Gianni Agnelli, il ragazzo la cui esistenza sembrava un distillato di pene incruente, compresse, quietamente corrosive”. Detta prosaicamente, citando l’ironia non proprio quietamente corrosiva di Diego Della Valle, “quel poveretto di Jaki non perde mai l’occasione di ricordare che è un imbecille”. E invece il destino di John prende una piega epica, come l’articolo del Foglio: “Ecco che questo erede un po’ ripiegato e silenzioso”, “ecco che l’ex ragazzo timido e insicuro, proprio lui che sembrava uscito da una tragedia di Thomas Mann sulla dissipazione borghese”… “ha silenziosamente ribaltato la maledizione congenita che gli si apparecchiava davanti”. E si è fatto gigante. Dovesse comprare un giorno pure il Foglio, meglio portarsi avanti col lavoro.

Il “Black Friday” del Corriere dello Sport: la “vendetta” di Roma e Milan

Le foto di Lukaku e Smalling con il titolo “Black Friday”. Ed è subito “razzismo”, soprattutto sui social. La prima pagina pubblicata ieri dal Corriere dello Sport per presentare il big match di oggi tra Inter e Roma raffigurava i due giocatori di colore (il primo attaccante, belga di origini congolesi, dell’Inter, il secondo difensore, londinese di origini giamaicane, della Roma) giocando sul colore della pelle e il giorno del match. In tanti sui social si sono scagliati contro la scelta fatta dal quotidiano. Tra i primi a esprimere il proprio dissenso i club di Lukaku e Smalling. “No one, absolutely nobody, not a single soul”, ha scritto la Roma nella versione inglese del suo profilo twitter prendendo le distanze. “Il calcio è passione, cultura e fratellanza. Siamo e saremo sempre contro ogni forma di discriminazione”, il messaggio postato dall’Inter. L’AS Roma, e il Milan, hanno poi annunciato che vieteranno l’accesso nei rispettivi centri sportivi (Trigoria e Milanello) ai giornalisti del quotidiano sportivo romano prima “fino alla fine dell’anno”, poi fino a gennaio 2020.

“Un titolo innocente trasformato in veleno”, ha difeso – sempre sui social – il titolo il direttore del Corriere dello Sport, Ivan Zazzaroni, che lo ha definito un “elogio della differenza”.

Bibbiano, il sindaco martire e il Pd che non sa ascoltare

Quando si tratta di non capire nulla del Paese reale e dell’assoluta necessità di comprendere quanto il tema “Bibbiano” vada trattato con lucidità e rigore, Matteo Renzi e Nicola Zingaretti tornano a essere allineati e compatti. Al sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti, coinvolto nell’indagine “Angeli e demoni”, la Cassazione ha revocato l’obbligo di dimora, dopo che il 20 settembre gli erano stati revocati gli arresti domiciliari. Le motivazioni non sono ancora note, ma si presume che non vi sia pericolo di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. Probabilmente la misura cautelare non era necessaria, si vedrà. Fatto sta che Pd e Italia Viva, in uno stato confusionale di esultanza degno di Chiocciolina98 su twitter, hanno festeggiato scrivendo cose a caso, leggendo le quali un lettore disinformato o sprovveduto deduce che oggi Carletti sia in Giamaica a svernare in attesa che la Corte europea dei diritti dell’uomo prenda a cuore il suo caso di cittadino perseguitato dalla giustizia italiana.

Fiano, Morani, Ceccanti, Orfini, Biti hanno esultato parlando di sentenze e speculazioni. Zingaretti ha scritto: “La campagna indecente contro il Pd e il sindaco di Bibbiano non si dimentica. Chi chiederà scusa ad Andrea Carletti? A chi ha utilizzato una storia di cronaca giudiziaria per organizzarci una campagna politica dico: vergognatevi!”. A parte il fatto che le scuse al limite dovrebbe chiederle al suo alleato di governo Di Maio via sms (“Col partito di Bibbiano non voglio avere a che fare”, disse) anziché a entità sconosciute su Twitter, c’è da dire che peggio di lui riesce a fare solo Matteo Renzi. Dopo anni passati a spiegare a tutti cosa sia il garantismo, va spiegato a lui che garantismo non è quella cosa che se ti revocano una misura cautelare sei San Severino martire. Ha scritto infatti: “Vi ricordate la storia di Bibbiano? Le pagliacciate in Parlamento e sui social con lo slogan Parlateci di Bibbiano? Bene. Ieri la Cassazione ha detto che quel sindaco NON doveva essere arrestato. Una montagna di fango vergognosa. In attesa che qualcuno chieda scusa, un abbraccio a quel Sindaco”. Ora, non si capisce dove Renzi abbia letto, testuale, che Carletti “NON doveva essere arrestato” visto che le motivazioni non son state depositate. Comunque, se fosse stato arrestato ingiustamente, Renzi dovrebbe prendersela eventualmente con i giudici.

Non è però questo il punto. Il punto è che a Carletti è stato revocato l’obbligo di dimora e la “sentenza” riguarda questo passaggio, le eventuali esigenze cautelari, non certo le sue responsabilità riguardo i fatti di Bibbiano. Le accuse di abuso d’ufficio e falso ideologico restano in piedi e a breve rischia di doversi difendere in un processo che non è certo una passeggiata nel bosco. Che poi ci siano state strumentalizzazioni indecenti da parte della Lega è indiscutibile. Ma i tempi per i festeggiamenti, per la richiesta spavalda di scuse a Carletti, per i trenini di Carnevale del Pd, sono un po’ prematuri. E strumentali tanto quanto i cartelli di Salvini o la t-shirt della Borgonzoni. Tanto la Lega approfitta della mancanza di informazione sul tema suggerendo “accusa uguale colpevolezza”, quanto il Pd approfitta della mancanza di informazione suggerendo “revoca dell’obbligo di dimora uguale innocenza”. E invece va ribadito una volta ancora che Carletti non è accusato di avere speculato su bambini, ma neppure di aver prestato il garage comunale a una cugina dello psicologo Claudio Foti. Andrea Carletti è accusato di aver ceduto gratuitamente uno spazio del comune per consentire a Foti e ai suoi colleghi di Hansel e Gretel di svolgere psicoterapia pagata e rimborsata dal Comune, quando poteva affidare il compito agli psicologi della Asl, senza spese.

Si è difeso, per ora, auto-accusandosi di ingenuità. Viene da domandarsi dove fosse Carletti quando mezzo paese leggeva le carte dell’agghiacciante inchiesta “Veleno”, quando sulla sua Onlus preferita si insinuavano sospetti terribili che riguardavano proprio le modalità della psicoterapia e del lavoro degli psicologi di Hansel e Gretel, oltre che il sistema degli affidi. Un disastro umano e giuridico avvenuto a pochi chilometri da Bibbiano, che a Carletti non ha suggerito alcuna prudenza, ma anzi corsie preferenziali per Foti &C.. E no, non è certo Carletti l’unico legame tra Bibbiano e il Pd, ma un sistema più complesso, radicato da anni in quel territorio, in cui i politici locali si sono convinti che “Hansel e Gretel” fosse l’eccellenza nel settore e avere l’eccellenza nel settore delle politiche sociali, e desse lustro a sindaci e partito.

Le prime parole di Carletti sono state sulla gogna subìta: “La mia pagina Facebook era sommersa da insulti e minacce di morte, dopo pochi giorni la sentenza di condanna era già stata emessa. I vili barbari del web chiedevano in nome del popolo il pubblico linciaggio degli indagati…”. Comprensibile. Carletti però dovrebbe provare a immaginare la gogna subita da padri e madri innocenti, accusati negli anni da psicologi inadeguati e fanatici di abusi inesistenti. Padri e madri che sono stati in carcere ingiustamente, si sono suicidati, non hanno mai più visto i figli. Tante di queste vicende note, impossibili da ignorare, hanno visto coinvolta la Onlus a cui lui concedeva spazi e gloria. Su questo, mai un tweet di Renzi o Zingaretti, mai una riflessione sul perché a Carletti sia sfuggita un’ombra grossa come una montagna. No, solo la scusa del garantismo per evitare di parlare di quella gente che il Pd per vocazione politica dovrebbe saper ascoltare.

La gente che a che fare con i servizi sociali, con situazioni di disagio o degrado o che, indifesa, magari senza problematiche reali, inciampa in quel mostro a tante teste che è il sistema degli affidi, in quella giustizia che si appoggia a psicologi discutibili, impreparati, pericolosi. Il Pd torni ad ascoltare, anzichè festeggiare. Perché Bibbiano non è solo una storia di bambini strappati. É, soprattutto, una storia di adulti non ascoltati.

Stop Ue al pesticida dei cibi che colpisce i bambini

Oggi scatta il giro di vite Ue contro il chlorpyrifos, il pesticida più diffuso nei campi agricoli del pianeta, ritenuto dannoso per la salute. Numerosi studi scientifici ne hanno dimostrato la nocività soprattutto per lo sviluppo mentale nei bambini. Il comitato composto dagli esperti dei vari Stati membri dovrà approvare la proposta della Commissione europea volta a proibire in tutto il mercato unico la commercializzazione della sostanza. Questa è attualmente vietata solo in 8 paesi Ue: Danimarca, Finlandia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lituania, Slovenia, Svezia e Regno Unito.

Sono oltre 50 gli antiparassitari a base di chlorpyrifos registrati in Italia con validità fino al prossimo 31 gennaio, data in cui scatterà il divieto Ue. Oltre la metà della produzione tricolore è concentrata a Varese, dove opera la fabbrica locale di Dow Chemical. È il colosso chimico americano ad aver inventato e brevettato negli Anni 60 la molecola di chlorpyrifos per sostituire il Ddt, vietato a sua volta. Negli ultimi 50 anni Dow Chemical si è arricchita vendendo licenze di utilizzo ai suoi concorrenti che dalla molecola hanno sviluppato una molteplicità di varianti che proteggono dai parassiti oltre 100 diverse colture in 80 Paesi del mondo. Le pressioni di Dow Chemical, vicina a Donald Trump, hanno finora dissuaso l’Agenzia ambientale americana dall’imitare il blocco voluto dall’Ue nonostante negli Usa siano stati scoperti, già nel 2006, i danni neuronali indotti nei ragazzi dal chlorpyrifos presente nell’utero materno. Le analisi dei laboratori scientifici della multinazionale scagionerebbero il controverso composto chimico, la cui tossicità è giudicata una bufala da alcuni blogger. Ma l’Ue è intenzionata a rincarare la dose. A febbraio 2020, il comitato tecnico voterà anche la messa al bando de gli alimenti che contengono tracce di chlorpyrifos.

I test dell’Agenzia per la sicurezza alimentare europea le hanno rinvenute nel 5,5% dei 76.200 campioni analizzati. In Italia, dove l’85% della popolazione mangia frutta almeno una volta al giorno (percentuale sopra la media Ue), il pesticida è stato riscontrato nel 23% di uva, il 15% di limoni e aranci, il 23% di mandarini, l’11% di mele e il 9% di banane disponibili nei supermercati. Per rimediare, la Commissione Ue vuole imporre una soglia di tolleranza dello 0,009 mg/kg (livello sotto la quale il contaminante non è più rilevabile).

Tutti i cibi in cui il chlorpyrifos supera tale soglia non potranno più essere venduti, inclusi quelli esteri dai quali l’Ue dipende: 47 milioni di tonnellate di frutta e verdura importate nel 2018, contro 37 milioni esportate. L’embargo annunciato da Bruxelles ha scatenato le proteste dei grandi esportatori di derrate extra-comunitari che si riservano di adottare contromisure in seno all’Organizzazione mondiale del commercio, sebbene l’Ue concederà loro 3 mesi di tempo dall’interdizione per ripulire le piantagioni. L’import Ue che contiene più chlorpyrifos proviene da Usa e Cina. A superare i valori limite per l’insieme dei pesticidi (chlorpyrifos e altri) è il 2% degli articoli orto-frutticoli non italiani campionati dal ministero della Salute (contro lo 0,9% del Made in Italy). L’Italia resta il terzo paese Ue per utilizzo di disinfestanti. Senza di essi molte produzioni agricole europee rischierebbero un calo fino all’85%, secondo uno studio del 2016.

 

Il Fisco contro Fca: sottostimò Chrysler “ci deve 1,4 miliardi”

Proprio mentre è impegnata nelle complesse trattative con i francesi di Psa per una possibile fusione, su Fiat Chrysler continuano a piovere pietre. Dopo la denuncia negli Usa da parte di Gm dei giorni scorsi sull’ipotesi di corruzione di dirigenti sindacali di Uaw per ottenere vantaggi competitivi, respinta con forza da John Elkann, adesso arriva l’Agenzia delle Entrate. Per il Fisco Fiat Chrysler Automobiles Nv, la capogruppo olandese, ha sottovalutato il valore delle attività di Chrysler per 5,1 miliardi di euro per ridurre l’imponibile al momento del trasferimento da Torino della sede legale in Olanda e di quella fiscale nel Regno Unito. È scattato così un accertamento, come rivelato dall’agenzia di informazioni internazionali Bloomberg, che ha visionato documenti dell’azienda e una relazione datata 22 ottobre.

A finire sotto la lente è la struttura societaria creata a ottobre 2014 dopo l’acquisto di Chrysler da parte di Fiat. In quell’anno Fiat acquistò la quota restante del 41,5% di Chrysler per 4,35 miliardi, per una valutazione complessiva di circa 6,95 miliardi di euro dell’intera società Usa. Il trasferimento all’estero della sede ha fatto scattare l’imposta che l’Italia riscuote sulle plusvalenze realizzate quando le società trasferiscono le proprie attività fuori del Paese. Al momento dell’operazione, Fiat Chrysler aveva dichiarato di prevedere l’attivazione della tassa di uscita sulle plusvalenze, ma aveva affermato che poteva “essere ampiamente compensata dalle perdite fiscali disponibili per il gruppo”. Ma riducendo il valore degli asset trasferiti all’estero e delle relative plusvalenze, secondo il Fisco, Fca ridusse anche la base imponibile. La differenza tra la valutazione dell’Agenzia delle Entrate e quella di Fiat su Chrysler è enorme: il Fisco italiano la valuta circa 12,5 miliardi, mentre per la Fiat valeva meno di 7,5 miliardi. All’epoca, l’Italia aveva un’aliquota dell’imposta sulle società Ires del 27,5% circa. Sulla base di questa percentuale, applicandola a una base imponibile aggiuntiva di 5,07 miliardi, Bloomberg stima che Fca potrebbe dover versare all’incirca 1,4 miliardi. Dal canto suo, Fca respinge questa impostazione: “Siamo fortemente in disaccordo con questa relazione preliminare e siamo certi che riusciremo a sostenere con successo una riduzione sostanziale della valutazione”, ha scritto un portavoce a Bloomberg. La società, inoltre, sostiene che la propria posizione è “pienamente supportato sia dai fatti che dalla normativa fiscale applicabile e difenderà con forza la sua posizione”. Inoltre per Fca “qualsiasi aumento dell’imponibile sarebbe compensato dal riporto delle perdite fiscali, che eviterebbe ogni uscita di cassa o impatto sugli utili”. Una nota che lascia intendere che al termine dei negoziati col Fisco (che dovrebbero concludersi per fine anno) si potrebbe arrivare alla riduzione dell’importo da pagare. Il deposito degli atti visionati da Bloomberg è datato 31 ottobre e ora Fca ha tempo 60 giorni per discuterne con il Fisco. In caso di mancato accordo, la questione potrebbe finire in tribunale.

La verifica fiscale condotta dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di Fca si inserisce nel quadro di una campagna del Fisco italiano nei confronti delle grandi imprese. A maggio la multinazionale del lusso Kering ha transato con l’Agenzia delle Entrate per 1,25 miliardi sull’esterovestizione in Svizzera della controllata Gucci. Negli anni scorsi il Fisco italiano si è fatto pagare 318 milioni da Apple nel 2015, 306 da Google nel 2017, 100 da Amazon nello stesso anno, 100 da Facebook e 79 da Mediolanum l’anno scorso, mentre quest’anno ne ha incassati 102 da Ubs. A livello mondiale quella su Gucci è stata una delle maggiori transazioni fiscali, dopo i 3,1 miliardi di dollari pagati nel 2006 dal gigante farmaceutico Glaxo al fisco Usa sul transfer pricing dei farmaci.

Abolita no, ridotta di molto sì. Povertà, l’impatto del Reddito

Il reddito di cittadinanza non ha certamente “abolito la povertà”, come aveva promesso di Luigi Di Maio. Sembra però averla ridotta molto, specie quella “assoluta”, con un impatto significativo anche sulla riduzione della disuguaglianza, stando alle prime stime dell’Inps guidato da Pasquale Tridico, considerato il padre della misura. I dati sono stati elaborati dal Centro studi e ricerche e dal Coordinamento statistico dell’Istituto. Una sintesi è stata mostrata alla Commissione europea nell’ambito delle visite del Semestre Ue a Roma il 4 e il 5 novembre scorso.

Il Reddito di cittadinanza – partito ad aprile scorso – resta il principale risultato politico dei 5Stelle. Il compito di difenderlo è lasciato al solo Tridico. Il lato Inps è infatti quello che ha funzionato, con 1,06 milioni di nuclei beneficiari (considerata pure la pensione di cittadinanza), 2,5 milioni di individui. Le politiche attive che dovevano aiutare i beneficiari a trovare lavoro non sono invece ancora partite. A oggi la misura è un grosso sussidio anti povertà, cioè l’obiettivo con cui era nata.

Da questo punto di vista l’impatto sembra rilevante. E non potrebbe essere altrimenti, viste le cifre impegnate – 4,8 miliardi nel 2019, 7 nel 2020 – e la realtà di una crisi profonda che vede il Pil ancora 5 punti più in basso e 1,8 miliardi di ore lavorate in meno rispetto al 2008; e dove ci sono 5 milioni di “poveri assoluti” e 9,3 milioni di “poveri relativi” (Istat).

Le prime stime Inps mostrano che il Reddito ha più che dimezzato (-60%) la povertà “assoluta”, quella in cui si trovano gli individui privi della possibilità di fare consumi essenziali. Con la sua introduzione è diminuito dell’8% anche l’Income gap ratio, che misura quanto è grave lo stato di povertà. L’effetto si nota anche sull’indice “Gini”, che misura la disuguaglianza, il cui impatto sui redditi lordi è calato dell’1,5%. Un dato rilevante tenuto conto che, secondo i ricercatori dell’Inps, le politiche sociali italiane e l’Irpef riducono il Gini in tutto del 5%.
Se si usa la metodologia dell’Ocse, i dati variano poco: rispettivamente 1,2% e 5,7%.

Il dossier calcola anche l’incidenza sul “sistema tax/benefit”, il rapporto tra quante imposte personali il contribuente paga e i benefici (assegni familiari, bonus, etc.) che riceve. Prima dell’introduzione del Rdc, l’incidenza sul reddito dei più indigenti (il “primo decile più povero”) era vicina allo zero, ora è diventata negativa di quasi il 30%, segno che il trasferimento sociale dello Stato prevale sul prelievo. I dati Inps mostrano anche un’ampia corrispondenza tra poveri, disoccupati e beneficiari: più è alto il tasso di povertà relativa maggiore è il numero di beneficiari ogni 10mila abitanti (ai primi posti ci sono Calabria, Campania e Sicilia, con un tasso di correlazione dell’84%); stesso discorso per il tasso dei senza lavoro (correlazione al 97%).

A gennaio l’Inps pubblicherà il rapporto completo. I numeri assoluti sono imponenti: a fine dicembre si stima che i nuclei beneficiari arriveranno a 1,213 milioni, vicini agli 1,248 previsti a inizio 2019 dalla relazione tecnica. La contrazione è molto forte al Sud e nelle isole (61%); l’importo medio del Reddito mensile è di 520 euro (il massimo percepibile è 780 ), quello della pensione di cittadinanza è di soli 214 euro. La media totale è più alta nel Sud che al Nord, dove pure sono coinvolte 492 mila persone.

Se sulla povertà le prime stime dell’Inps forniscono una misura dell’impatto, sul lato lavoro – di competenza di Regioni, Anpal e ministero – è buio pesto. Il dossier elenca i risultati dei controlli automatizzati dell’Inps su un campione considerato a rischio. Delle 49.204 persone che hanno perso il beneficio, meno di 2 mila sono quelle a cui è stata riscontrata la perdita di requisiti (mille), lavoro irregolare (485) o un provvedimento giudiziario che impone la sospensione della misure (110). Il grosso è rappresentato dai 14.300 che hanno trovato un impiego. Non significa però che sia merito del Reddito. l’Anpal ha spiegato che i beneficiari presi in carico dai centri per l’impiego sono 200 mila (su 700 mila potenziali), e di questi 18 mila hanno trovato lavoro. Nessuno sa a cosa sia dovuto: un monitoraggio nazionale ancora non c’è.

A oggi le stime, se confermate, mostrano l’effetto statistico della misura, per capire come è cambiata la vita delle persone servirà più tempo.

Pera risorge sovranista con Salvini e i Verdini

Ora ritorna pure Marcello Pera. Riesumato in salsa sovranista. E lancia una conferenza delle idee del centrodestra sull’Europa. “Perché alle prossime elezioni bisogna arrivare preparati”, spiega l’ex presidente del Senato. Ad ascoltarlo, al convegno Idee per l’Europa organizzato dal quotidiano Il Tempo due giorni fa, in prima fila c’era Matteo Salvini e la famiglia Verdini al gran completo. C’era Denis, con la moglie Simonetta Fossombroni e il figlio Tommaso, titolare di PaStation, il luogo dove il Capitano, si dice, abbia conosciuto Francesca Verdini, sua attuale compagna. Francesca, però, mercoledì non c’era: aveva altri impegni. C’erano, invece, alcuni ex parlamentari di Ala: Massimo Parisi, Riccardo Mazzoni. La presenza dei Verdini viene spiegata come un segno di vicinanza a Salvini e agli Angelucci: fino all’aprile scorso Denis è stato presidente del gruppo Tosinvest con la delega ai giornali del gruppo (Libero, Il Tempo e i quotidiani locali di Umbria e Toscana). Ma suona pure come un attestato di stima verso Pera, con cui Verdini ha sempre avuto un buon rapporto.

Nella sua lectio magistralis, l’ex presidente del Senato ha usato parole assai critiche verso le istituzioni europee. “Siamo governati da personaggi che nei loro Paesi sono stati sconfitti: Von der Leyen, Gentiloni, Dombrovskis. L’Europa non è altro che un direttorio franco-tedesco che tenta di imporre agli altri la propria volontà”, ha detto Pera. Che poi ha dato la sua personale definizione di sovranismo. “Sovranista è colui che si rifiuta di cedere sovranità a un’istituzione poco democratica, opaca…”. A fine convegno Pera e Salvini si sono finalmente conosciuti e hanno fatto due chiacchiere. “Accolgo la proposta di una conferenza del centrodestra. Magari potremmo organizzarla il 25 aprile, in risposta a Bella ciao…”, ha detto il leader leghista, mischiando argomenti che nulla c’entrano tra loro.

Ma quello di Pera è un ritorno? L’ex forzista sta cercando di accreditarsi col nuovo leader? “Salvini è un ragazzo sveglio, rapido, intelligente. Il centrodestra è nelle sue mani. Di recente si è anche dato una sterzata più moderata, che male non fa se vuoi vincere le elezioni…”, osserva l’ex presidente del Senato. Il cui nome potrebbe tornare utile per una futura corsa al Quirinale. Tra il dire e il fare ci sono un po’ di “se”, ma nemmeno troppi: se il governo dovesse cadere e il centrodestra vincesse le elezioni, a quel punto spetterebbe a Salvini, Meloni e Berlusconi indicare un nome per il Colle che possa raccogliere consensi anche dall’altra parte. E i nomi spendibili sono pochi: Casellati, Gianni Letta, Pera. “Non scherziamo, io sono fuori dalla politica e intendo restarci…”, dice il professore. Ma chi lo conosce assicura che, invece, gli piacerebbe moltissimo.

L’asilo tosco-leghista: prima i bimbi più pisani degli altri

Prima i bambini pisani. Il nuovo criterio con cui la giunta leghista di Pisa vuole regolare l’accesso agli asili comunali è una sfumatura in salsa toscana e all’ennesima potenza dello slogan “prima gli italiani” che negli ultimi anni ha fatto le fortune di Matteo Salvini. Il Comune infatti dal prossimo anno scolastico inserirà il criterio della “storicità della residenza” per stilare le graduatorie di accesso agli asili pubblici (una decina in tutto) che avrà la preminenza rispetto al reddito.

Esempio: tra una famiglia con un reddito di 100 mila euro residente a Pisa da 15 anni e un’altra con un reddito da 20 mila euro che risiede in città da soli cinque anni, il premio e il posto all’asilo andrà al bambino della prima famiglia. I più pisani, insomma, hanno la precedenza.

Il nuovo criterio è stato approvato nei giorni scorsi dalla giunta leghista guidata da Michele Conti ed è stata inserita nel Dup, il documento unico di programmazione collegato al bilancio comunale che serve per indicare gli obiettivi strategici dell’amministrazione per l’anno prossimo. Il documento sarà discusso in consiglio comunale il prossimo 19 dicembre e le opposizioni annunciano le barricate: “Quello che la Lega vuole inserire è un criterio discriminatorio – denuncia il consigliere di “Diritti in Comune” Francesco Auletta – perché, in base allo slogan sovranista copiato da Casapound e Forza Nuova, si puniscono le persone solo in base alla loro residenza a Pisa. Non solo: questa norma colpisce i più deboli e i più poveri. Solo in base al ‘criterio della storicità della residenza’, molte persone saranno escluse e discriminate”.

Le opposizioni criticano la giunta anche perché il nuovo criterio sarà un disincentivo per quelle famiglie che invece di trasferirsi a Pisa preferiranno andare ad abitare nei comuni limitrofi, come San Giuliano, che queste regole per l’accesso all’asilo non ce l’hanno. Il consigliere Auletta nel frattempo si è già mosso sul fronte del diritto per provare a fermare la giunta leghista: ha chiesto un parere all’associazione “Altro Diritto” dell’Università di Firenze ma un possibile ricorso alla Corte Costituzionale potrà essere sollevato solo da una famiglia che fosse penalizzata dalla norma.

Quello dell’accesso agli asili pubblici però non è l’unico caso con cui la giunta leghista mette davanti i pisani rispetto agli altri cittadini: il criterio della residenza viene utilizzato anche per l’emergenza abitativa, il bonus idrico (l’accesso all’acqua per i meno abbienti), il bonus Tari e anche il bonus per le mamme in difficoltà. Il caso di Pisa ricorda molto quello della giunta di Lodi scoppiato un anno fa: in quel caso la sindaca della Lega Sara Casanova aveva reso più difficile agli stranieri l’accesso alle mense scolastiche introducendo l’obbligo per i genitori nati fuori dall’Ue di presentare un documento che attestasse la loro nullatenenza nel paese d’origine. “Il caso di Pisa è molto più grave rispetto a quello di Lodi – continua Auletta – perché in quel caso la questione riguardava solo le mense mentre da noi tutta la politica del welfare del Comune è caratterizzata da un criterio discriminatorio”.

La stessa idea del sindaco di Pisa sugli asili però era già venuta nel 2017 alla giunta di Luca Zaia in Veneto che aveva introdotto il premio della precedenza a quelle famiglie che fossero residenti nella regione da almeno 15 anni. Peccato però che a maggio 2018 la Consulta abbia già ritenuto incostituzionale quella norma perché in contrasto con il principio di uguaglianza: “È ovviamente irragionevole ritenere che i figli di genitori radicati in Veneto da lungo tempo presentino un bisogno educativo maggiore degli altri – hanno scritto i giudici nella sentenza – La configurazione della residenza protratta come titolo di precedenza, anche rispetto alle famiglie economicamente deboli, si pone in frontale contrasto con la vocazione sociale degli asili nido”. A Pisa, quella sentenza, non l’hanno letta.

“Un soggetto politico” per la piazza di Roma

Non vogliono chiamarlo esame di maturità, meno che mai “congresso” o “stati generali”. Ma la piazza delle Sardine di Roma, il prossimo 14 dicembre, non sarà come tutte le altre, e i primi a saperlo sono gli organizzatori. Il salto di qualità, perlomeno, è nei numeri: l’obiettivo, non più nascosto, è portare a San Giovanni 100mila persone. “Il più grande flash mob ittico della storia”, si legge su Facebook. Ma a contare, ragionano i leader, sarà soprattutto il messaggio politico che dalla piazza verrà fuori.

La speranza è che sia uno spartiacque, capace di trasformare l’attivismo spontaneo e acerbo delle scorse settimane in un soggetto politico capace di ragionare sul lungo periodo. Ed è per questo che a San Giovanni l’adunata sarà, per la prima volta, nazionale, con tanti pullman attesi da ogni parte d’Italia. “Sarà un raduno, un’occasione per conoscerci”, dice Jasmine Cristallo, volto calabrese del movimento. “Tanti sperano che le Sardine siano un fuoco di paglia, invece noi andiamo a Roma a dire che non può finire qua, perché grazie a noi sono tornati a fare politica migliaia di cittadini senza rappresentanza”.

“Sarà un evento storico”, azzarda Stephen Ogongo, coordinatore delle Sardine romane. Di certo si sta cercando di fare le cose in grande, a partire dalla scelta del luogo, la piazza sterminata simbolo della sinistra che ad ottobre Salvini è riuscito a riempire. “San Giovanni è stata sfregiata – si dice tra le Sardine – e ce la dobbiamo riprendere”. La macchina organizzativa conta 6 gruppi di volontari addetti rispettivamente a comunicazione, logistica, raccolta fondi, rapporti con gli studenti e scenografia. Già, perché stavolta ci saranno pure gli effetti speciali, anche se non si vuole svelare troppo: “Sarà una cosa stupenda, curata in ogni dettaglio”, si limita a dire Stephan. “D’altra parte siamo la Capitale, non possiamo fare brutta figura”.

Le regole sono sempre le stesse: niente bandiere, niente simboli di partito, niente politici a tirare per la giacchetta. Interventi al microfono ammessi solo se a titolo personale, e non per conto di comitati o associazioni. “Sono convinto che dopo questa giornata qualcosa cambierà nello scenario politico”, dice ancora Stephan. “Vogliamo lanciare il messaggio più forte di sempre a chi costruisce la sua fortuna politica su odio e discriminazione. Lo scopo è far capire a Salvini e Meloni che la maggioranza degli italiani non è come loro, così che prima di aizzare gli istinti peggiori ci pensino su due volte. Sta già succedendo, a Roma ci sarà la svolta”.