Ravenna, la Romagna leghista si ritrova in un mare di Sardine

Ora tocca alla nutella. “Non la mangio più, è fatta con nocciole turche e io tifo solo e sempre italiano”.

Nel derby di Romagna, dove le sardine lo attendevano alla prova dei numeri, Matteo Salvini non tocca palla e fila via, dopo venti minuti e una incursione spericolata contro l’icona del gusto made in Italy. Ravenna per Salvini si ritrova stretta in una via del centro, e cede la piazza alle camionette della polizia e ai cani usciti per i bisogni quotidiani che vivono una fantastica serata senza auto e senza guinzaglio. “Invece il mio Lampo è super eccitato per l’arrivo di Matteo”, annuncia Marina, esperta di diritto della navigazione, sempre all’opposizione dei rossi e sempre perdente: “Io lo voto, ma chissà. Non vedo speranza”.

Le Sardine, alcune migliaia, sono invece sbucate alla stessa ora (le 19) dal porto canale e hanno occupato la darsena. Tantissime, di ogni taglio ed età. “Sardine, sardone, anche sgombri”, dice Giovanni, militante del Pci al quale oramai il destino ha costretto a divenire pesce per sentirsi comunista. “Dov’è il mio partito?”. Se Salvini è affaticato, e anche la sua macchina di propaganda, la cosiddetta Bestia, un po’ provata da una corsa all’insù che adesso sta deviando verso la pianura, il Pd non c’è proprio. Il centrosinistra nelle strade non si trova e neanche sui muri.

Esiste Stefano Bonaccini, per ora ancora in poster, un verde speranza istituzionale senza simbolo.

Siamo a Ravenna, la città che ha conosciuto in un passato non lontanissimo la miseria, ha patìto la pellagra, ed è venuta fuori dalla palude solo alla fine dell’Ottocento. Il capoluogo della Romagna dei mezzadri e dei braccianti, gli uni iscritti al Partito repubblicano gli altri al Psi e naturalmente al Pci, oggi è una città d’arte, il suo mare è un serbatoio di gas, le piattaforme di Eni e delle altre compagnie pompano e distribuiscono. Però ora si dice: se l’Emilia è rimasta rossa, la Romagna è divenuta leghista. “Non è affatto vero – spiega Alberto Melloni, docente di storia del cristianesimo e osservatore di questo sommovimento sociale. L’egemonia culturale riformista è omogenea, il centrosinistra ha governato con qualità e la giunta Bonaccini ha fatto cose egregie. Sul punto non possiamo dir niente. Quel che paghiamo, oltre la suggestione della paura, questa costruzione a tratti fantastica con la quale Salvini è riuscito a costruirsi un popolo, è di non aver fatto i funerali alla cooperazione”. Lo conferma, ogni volta che può, anche il politologo Gianfranco Pasquino: “Salvini si è cercato il popolo. Uno a uno. Non è onda emotiva, né tratto passeggero. Lui ora ce l’ha, sono gli altri ad averlo perso”.

Se Salvini fa paura, la Bestia come lui chiama la propria macchina elettorale, avanza dietro alla Bella, il volto empatico di Lucia Borgonzoni, la candidata che nelle piazze neanche mette piede (ultimo evento del 27 novembre scorso, penultimo dell’11 novembre scorso), riducendo al minimo il livello del confronto locale, dov’è perdente, e dirigendo il suo corpo, il suo sorriso, le proprie fattezze in tv, dove dà il meglio di sé con un linguaggio banale, basico, intuitivo. Il fatto nuovo, che mette a rischio anche il risultato emiliano, è l’implosione del mondo Coop, storica cinghia di trasmissione tra società e governo. Ecco Melloni: “Da elemento egualitario, le Coop si sono trasformate in un club dove gli amministratori si arricchivano mentre i lavoratori si impoverivano. Nessuna differenza tra il padronato e loro, nessuna diversità, nessuno spirito riformista. E la crisi, il botto che hanno fatto, con la rovina finanziaria dei colossi, da CoopSette a Cmc, ha prodotto prima la stagnazione elettorale e oggi la regressione”.

Salvini ha conquistato Forlì, poi Ferrara, “anche Predappio e Brisighella”, e ora chiama a raccolta i delusi attraverso parole chiave che qui hanno difficoltà ad attecchire. “Basta con le liste d’attesa, basta con la gente che è costretta ad andare in altre regioni per farsi curare”, ha detto nella sorpresa generale dei convenuti. Ravenna non è Cosenza, o Bari, o Napoli. La Romagna ha i migliori centri di diagnostica, di alta specializzazione, primazie nazionali indiscutibili.

Infatti ha ritrovato la connessione sentimentale quando ha parlato del ladro ucciso a fucilate da un custode la notte scorsa in Emilia: “Se fosse andato a lavorare anziché a rubare non avrebbe avuto problemi”. I cinquecento simpatizzanti, chiusi dalla polizia nella via Rasponi, una bella strada che attraversa il centro della città, hanno salutato con un boato questa considerazione piana, elementare.

“Io sono architetto e con la flat tax ho avuto un bel risparmio”, spiega Daniele. “Io anche sono a partita Iva, io voto lui”, aggiunge Giuliano. Due quarantenni con fidanzate e mogli di sinistra e anche nonne, come la signora Paola, che ascolta, “per capire, soltanto per capire. Io sono riformista, non voterò lui”.

Questa è la Romagna, la terra del Papeete, la spiaggia dell’happyhour da dove un Salvini sciolse il governo, chiese le elezioni e i pieni poter.. “Amici, io al Papeete ritornerò” annuncia lui e Massimo Casanova, il proprietario del locale ora salito di grado, è infatti eurodeputato, sorride felice.

Il rinvio tecnico del Mes per ora non basta ai 5S

Sulla riforma del Mes, il vecchio fondo salva-Stati, la confusione è tale che ai 5Stelle serve una giornata per capire cosa Roberto Gualtieri abbia davvero strappato all’Eurogruppo di mercoledì a Bruxelles. In sostanza, non molto, e non sufficiente a sciogliere i nodi in vista della risoluzione di maggioranza che andrà votata il 10 dicembre, alla vigilia del Consiglio europeo.

La linea la dà in serata Luigi Di Maio: “Ieri si è trovato un primo risultato, però è chiaro che non firmiamo niente fino a che nei dettagli non sono chiare anche le altre due riforme: assicurazione sui depositi e unione bancaria, su cui noi vogliamo vedere i dettagli. Non va bene – ha detto – dire che lo stand by lo facciamo sulla road map, come sento dire in Europa”. Insomma, bene il rinvio tecnico a gennaio, ma nulla più. E qui veniamo al punto: cosa ha ottenuto l’Italia? Il ministro dell’Economia aveva un mandato riassumibile così: via libera alla riforma, contestata da M5S e Leu in maggioranza e criticata da diversi commentatori – solo in cambio di un accordo chiaro per arrivare alla garanzia comune dei depositi bancari, l’ultimo pilastro dell’Unione bancaria che però la Germania e il blocco nordico vogliono concedere solo in cambio della fine della valutazione risk free per i titoli di Stato in pancia alle banche, che sarebbe un colpo mortale per gli istituti italiani e il nostro debito pubblico. Insomma, la “famosa logica di pacchetto” sbandierata da palazzo Chigi e chiesta da Di Maio.

Su questo piano, Gualtieri ha ottenuto ben poco. La road map sull’Unione bancaria è slittata sine die, perché – ha spiegato il presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno – “non è ancora il momento politico per sostenerla”. Roma ha però dato il via libera di massima all’accordo, al vertice dei ministri delle finanze dell’eurozona del 20 gennaio solo perché vanno sistemati alcuni dettagli tecnico-giuridici, e poi sarà sancito con la firma dai leader europei entro marzo. Roma porta a casa alcune modifiche che riguardano gli addendum della riforma. Il primo è la cosiddetta sub aggregazione delle nuova Cacs, le clausole che servono a gestire il default del debito pubblico: in sostanza, viene consentita una maggiore discrezionalità per escludere alcune tipologie di emissioni per tutelare i piccoli risparmiatori. Secondo Gualtieri, su richiesta dell’Italia, sono state evitate anche le condizionalità nel caso il Mes venga utilizzato per finanziare il “fondo di risoluzione Ue” delle crisi bancarie. Secondo Gualtieri è stata anche eliminata la proposta tedesca sui titoli di Stato nelle banche, ma la certezza si avrà solo con la road map definita. E quella manca.

Il rinvio a gennaio permette ai 5Stelle di placare l’ala più intransigente ma – se Di Maio terrà il punto – non è sufficiente a dare l’ok a Conte per firmare. Il giorno dopo la votazione della risoluzione, il premier volerà a Bruxelles per il Consiglio Ue che discuterà della riforma, il cui testo però è chiuso. Ieri, dopo diverse riunioni tra vertici e parlamentari, M5S escludeva solo la possibilità che fosse presentata una risoluzione separata dal resto degli alleati. Sarebbe il preludio alla caduta del governo.

Non è l’unico fronte interno aperto. Al Senato, Italia Viva di Renzi ha deciso di impallinare la manovra. Il maxi emendamento governativo depositato mercoledì riduce drasticamente la plastic tax e la tassa sulle auto aziendali (rinviata a luglio 2020). I renziani vogliono l’abolizione totale, anche della sugar tax. Ieri si sono rifiutati di ritirare i loro emendamenti, bloccando i lavori: tre ore di riunione a Palazzo Chigi con Conte non sono bastate a piegare la resistenza. Se ne riparla oggi.

Salvini è impreparato sul Mes. I leghisti: “Chiedete ai tecnici”

La riforma del Meccanismo europeo di stabilità, l’ormai famigerato Mes, alimenta il costante battibecco tra l’ex ministro Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte. Quest’ultimo ha punzecchiato il capo della Lega: “Prima si informi di cosa parla e poi facciamo una discussione su questo”. E Salvini si è offeso: “Non rispondo agli insulti, mi spiace che Conte sia ossessionato da me”. A cosa si riferiva Conte? Ieri un cronista di Fanpage.it ha interrogato Salvini sui tecnicismi del Mes, l’ex ministro ha farfugliato sulle Cacs, acronimo usato per indicare le Clausole di azione collettiva che servono a gestire il default dei debiti sovrani e che per il governo sono un terreno fertile di trattativa con l’Europa: “Le Cacs sono clausole in cauda venenum, hanno alcuni dei principali problemi del Mes”, ha detto con vaghezza Salvini prima di congedarsi con i bacioni alle telecamere.

Il “capitano” del Carroccio non è molto preparato sul Mes, un tema che la Lega utilizza da settimane per attaccare Conte e rispolverare lo spauracchio dei poteri forti d Bruxelles e dei poteri deboli di Roma. E gli altri parlamentari leghisti come se la cavano? Sanno a cosa serve e cosa vuol dire Mes? Il senatore Simone Pillon, organizzatore del Family Day e acerrimo nemico dei diritti dei gay, si blocca sul Mes, ma per motivi logistici, che pensate: “Mi scusi, sto scendendo dal treno, sto proprio materialmente scendendo”. Il collega Andrea Ostellari, di professione avvocato, ci prova col vecchio trucco: “Non sento, mi sente?”. Riproviamo: “Lei mi sente, dice? Sì, ma io non sento”. E mette giù. Stoico il deputato Marzio Liuni, che, seppur influenzato, riesce a sciogliere la sigla Mes e saluta rinfrancato dall’umana solidarietà che non consente di proseguire la conversazione. Il giovane Andrea Crippa, onorevole classe ‘86 e vice segretario del Carroccio, è assai sincero: “A livello generale conosco l’argomento, ma se ne occupano principalmente le commissioni. Ecco se mi chiede le Cacs, le dico che è meglio rivolgersi a nostri tecnici, io seguo l’aspetto politico e la posizione del partito, che una e compatta”. Igor Iezzi, che una volta si presentò in consiglio comunale a Milano col burqa per fermare la costruzione di un centro islamico, comincia spedito: “Il Mes è il meccanismo…”. Poi fa il simpatico: “Siete le Iene scritte?”. E cade la chiamata. Il deputato Eugenio Zoffili, che potrebbe insegnare sulle materie europee poiché per anni ha seguito l’europarlamentare Salvini come responsabile della segreteria anche se l’europarlamentare Salvini non era tra i più presenti, purtroppo non può affrontare le spine del Mes perché “impegnato in una riunione importante”. Il dottor Guido De Martini, oculista all’esordio a Montecitorio, ringrazia ma non compete con Salvini perché sta per “entrare in aula”.

Il deputato Daniele Belotti, che si definisce un “talebano dell’Atalanta”, fa capire come funziona la struttura del Carroccio: “Le domande sul Mes sono belle domande. Il meccanismo europeo di stabilità è come il prelievo forzoso nei conti correnti del ‘92 del governo di Giuliano Amato. E qui mi fermo, perché se, oltre a ridere, volete spiegazioni inappuntabili potete parlare con i vari Alberto Bagnai, Claudio Borghi, Massimo Garavaglia, Giancarlo Giorgetti”. Ci pensa un po’: “Che voto mi date? Io mi concedo un quattro e mezzo, e sono soddisfatto. Perché? Semplice: io gioco in un ruolo, Borghi e Bagnai in un altro e sul Mes sono centravanti, le nostre due punte. Io sono dell’Atalanta, abbonato da quasi mezzo secolo, e vi posso dire che Duvan Zapata che fa tanti gol non lo metti in difesa e il portiere Pierluigi Gollini non lo metti a centrocampo. Ci siamo capiti?”. Il ruolo di Salvini è chiaro: io avanti, Borghi & C. a coprirmi le spalle. Così tutto viene più facile.

All’indagato Zingaretti non piace il processo senza la prescrizione

A Nicola Zingaretti la riforma della prescrizione targata M5s proprio non piace. “È inaccettabile l’entrata in vigore delle norme senza garanzie sulle durate dei processi”, ha detto nei giorni scorsi il presidente della Regione Lazio. Un accordo Pd-M5s sul tema ora però non sembra essere troppo lontano. Certo è che Zingaretti una grana giudiziaria irrisolta la ha ancora. Ed è quella che lo vede indagato a Roma per finanziamento illecito. È un’inchiesta per la quale mesi fa i pm hanno chiesto l’archiviazione. Ma ancora non arriva la decisione del gip.

La vicenda riguarda presunti rapporti con Fabrizio Centofanti, un imprenditore poi finito anche in un’altra inchiesta: quella di Perugia sullo scandalo del Csm. Ma questa è un’altra storia. Tornando a Roma, qui il presidente della Regione Lazio è finito sotto inchiesta perchè per l’avvocato Giuseppe Calafiore, “Centofanti era sicuro di non essere arrestato perché riteneva di essere al sicuro in ragione di erogazioni che lui aveva fatto per favorire l’attività politica di Zingaretti”. Sono accuse de relato che non hanno trovato riscontro.

Lo stesso Centofanti, durante un interrogatorio svolto a maggio 2018 nel carcere romano di Regina Coeli, ha ammesso ai pm la sua amicizia con Zingaretti e il suo ex capo di gabinetto Maurizio Venafro. Non che questo sia un reato. Ma di certo molte delibere fatte in passato da Regione e Provincia possono aver fatto piacere all’imprenditore.

Autorizzazioni per l’energia

Il Dipartimento Tutela aria ed energia della Provincia di Roma, durante la presidenza Zingaretti (2008-2012), per esempio ha rilasciato due autorizzazioni alla Energie Nuove Srl, società nata nel 2009 riconducibile a Centofanti, per la costruzione e gestione di altrettanti impianti di produzione di energia solare.

La prima autorizzazione risale al maggio del 2010 quando la Provincia di Roma rilascia il permesso a Energie Nuove per costruire l’impianto fotovoltaico denominato “Ensa1” ad Artena, vicino Roma, e le relative opere e infrastrutture connesse. Stessa storia nell’ottobre del 2011 sempre a favore di Energie Nuove che ottiene l’autorizzazione per la costruzione di un secondo impianto fotovoltaico denominato “Artena 2”.

Nel mezzo un’altra serie di atti amministrativi della Provincia per volturare la costruzione e gestione dei due impianti a società collegate: l’impianto fotovoltaico “Ensa 1” passa alla Energie Nuove Società Agricola Srl e “Artena1” passa a Energie Nuove Artena Srl. Tutte aziende riconducibili a Centofanti.

Le concessioni
per l’acqua pubblica

In Regione la storia sembra ripetersi. Le società dell’imprenditore ottengono concessioni e appalti che sono oggetto di esposti presentati da due consiglieri regionali del M5S, uno alla Corte dei Conti e uno alla Procura di Roma.

Il primo in mano alla magistratura contabile riguarda due concessioni, del dicembre 2015, per lo sfruttamento di una condotta d’acqua pubblica, in provincia di Viterbo, per produrre energia idroelettrica, date dalla Regione a Energie Nuove.

La denuncia, presentata più di due anni fa dal consigliere regionale Silvia Blasi, evidenzia una serie di fatti anomali come la mancanza di una gara pubblica e di un canone concessorio a carico di Energie Nuove.

La Regione in passato al Fatto ha spiegato che “la concessione è stata rilasciata nel rispetto degli obblighi di pubblicità e trasparenza dettati dalla norma di settore.

Infatti l’avviso di domanda di concessione richiesta dalla società è stato pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Lazio, al fine di consentire a chiunque interessato di presentare opposizioni o domande concorrenti”. Inoltre per l’ufficio stampa di Zingaretti “non corrisponde al vero che non siano stati previsti canoni in favore della Regione Lazio”.

E non è finita. C’è anche una determinazione dirigenziale di aprile 2016 a favore della Cosmec, altra società legata a Centofanti. 70 mila euro netti dati all’azienda per “il servizio – si legge nell’atto – di promozione d’immagine per la Regione Lazio consistente nella divulgazione dell’immagine e logo regionale e sulla realizzazione di 18 workshop”, nell’ambito della VI edizione del salone della giustizia durata tre giorni.

Nulla di anomalo per la Regione Lazio che ha sottolineato che la determinazione in questione “è analoga a numerose altre che, nel corso degli anni, sono state adottate per co-finanziare iniziative di riconosciuto valore culturale e territoriale”.

Caso Nocera, nel mirino c’è un altro magistrato

L’inchiesta che accusa di corruzione per il rimessaggio gratuito di un gommone a Marina di Stabia e per una tessera omaggio sulle tratte di navigazione Napoli-Capri e ritorno, l’ex capo degli ispettori del ministero di Giustizia Andrea Nocera, che si è dimesso ed è tornato in Cassazione dopo aver appreso di essere indagato, coinvolge anche un magistrato di una procura campana e un ufficiale della Guardia di Finanza in servizio presso la presidenza del Consiglio. La loro posizione, contenuta in un fascicolo a modello 44 della Procura di Napoli con ipotesi di reato contro ignoti, è stata poi trasmessa al vaglio della Procura di Roma. Gli atti sul magistrato sono stati inviati anche al pg della Cassazione e al Csm.

I pm napoletani e romani hanno raccolto un verbale di un imprenditore marittimo di Sorrento, l’amministratore di Alilauro Gruson Salvatore Di Leva, coindagato di corruzione con Nocera e con il patron del gruppo Lauro Navigazioni, l’ex senatore Salvatore Lauro, che disegnerebbe un circoletto di imprenditori facoltosi, amici di politici locali e di magistrati, coi quali si parla di biglietti, gite in barca e piaceri. Qualcosa che somiglierebbe, in piccolo, ai dialoghi captati da Perugia intorno al pm di Roma Palamara.

L’indagine di Napoli è partita con un trojan sul cellulare di un uomo ritenuto contiguo alla camorra, Giovanni Buonocore detto ‘o animale, al centro di un fascicolo del pm della Dda di Napoli Giuseppe Cimmarotta sugli interessi del clan D’Alessandro nelle concessioni demaniali di Castellammare di Stabia. Le intercettazioni del magistrato campano trasmesse a Roma raccontano un possibile scambio di utilità con imprenditori vicini a Nocera. Non è detto che lo scambio di utilità ci sia poi stato davvero o sia stato solo millantato. A lui si è arrivati, come nel caso di Nocera, seguendo le molliche disseminate dal trojan sul telefonino di Buonocore – padre di quel Catello Buonocore famoso per essersi gettato in mare su uno scooter per scommessa con Balotelli – che hanno portato verso Di Leva e Lauro.

Un’inchiesta parallela del pm Henry John Woodcock su un commercialista napoletano, Alessandro Gerolmini, arrestato con l’accusa di aver corrotto dei finanzieri, ha acceso un faro su una telefonata tra Di Leva e Gerolmini nella quale si parla di un appuntamento a Marina di Stabia per aiutare Lauro, indagato per reati societari dopo una denuncia della sorella. I due confabulano di un nome coperto da omissis. Era quello di Nocera. Accusato, si legge nel decreto di perquisizione di Di Leva, di aver fornito all’imprenditore e consigliere comunale “notizie e informazioni” sul procedimento penale e “l’assicurazione di ulteriori interventi tutori dei suo interessi”. Di Leva è stato sentito nei giorni scorsi e sarebbe emerso il suo tentativo di ottenere notizie riservate attraverso l’ufficiale Gdf.

“La legge Bonafede è una grande conquista per le vittime di reati”

Grandi polemiche attorno alla riforma della prescrizione, che da gennaio sarà interrotta dopo la sentenza di primo grado. Polemiche dentro la politica, nette avversità degli avvocati, critiche anche da parte dei magistrati. Se lo aspettava Alessandra Dolci, procuratore aggiunto e coordinatrice del pool antimafia di Milano? “La riforma della prescrizione è stata per anni, per decenni, una rivendicazione dei magistrati. È una nostra richiesta che finalmente è stata accolta ed è diventata legge. Bene! Dovremmo esserne lieti. Ora vediamo quali saranno gli effetti, che peraltro si mostreranno solo fra qualche anno. Ma intanto dovremmo essere contenti”.

Invece…

Invece anche molti miei colleghi magistrati cominciano a prospettare problemi, criticano la riforma della prescrizione, sostenendo che andrebbe accompagnata da una riforma strutturale che garantisca una effettiva celerità dei processi.

Pongono problemi reali?

Problemi seri ci sono. Oggi si sostiene che bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado finirebbe per ingolfare le corti d’appello. Perché, senza la prescrizione che corre, non ci sarebbe più l’incentivo per fare in fretta i processi.

È un rischio vero?

Il problema è che in Italia ci sono tantissimi processi: più di 3 milioni, un dato enorme. Il nostro sistema giudiziario piramidale, con una corte di cassazione, 26 corti d’appello, 139 tribunali sul territorio, non è in grado di sostenere una così enorme domanda di giustizia. Abbiamo problemi strutturali, i tempi di ciascun grado di giudizio sono molto lunghi. E con la riforma, le corti d’appello si troveranno a gestire migliaia e migliaia di processi che giaceranno per un tempo indeterminato, perché in appello i reati diventano imprescrittibili.

Perché oggi molti magistrati pongono questi problemi che un tempo non ponevano?

Non so rispondere. Io dissento da questa reazione contro la riforma e non me la spiego. Io dico: invece di suscitare allarme, cominciamo a vedere nella realtà quali saranno gli effetti di una riforma che l’Associazione nazionale magistrati ha chiesto per trent’anni.

Gli avvocati sostengono che è una riforma negativa per i cittadini, che avranno un “fine processo mai”.

Quali cittadini? Per i cittadini vittime di reato questa è una riforma grandemente positiva, che risponde alla domanda di giustizia. Non è positiva per i cittadini condannati in primo grado che sperano di conquistare la prescrizione. Abbiamo sempre criticato l’inefficacia del nostro sistema penale, causata, almeno in parte, da tecniche dilatorie dei difensori che puntano a far maturare la prescrizione dei reati, con ciò aumentando il senso diffuso di ingiustizia. Ma se ci mettiamo dalla parte delle vittime dei reati, questa riforma è una grandissima conquista.

Allunga davvero i processi?

Questa è la sfida: se finiranno le tecniche dilatorie, i processi saranno più rapidi. I detrattori della riforma sostengono invece il contrario: gli appelli diventeranno infiniti.

Chi ha ragione?

Io dico che questa è una sfida per la magistratura. Affrontiamola e poi valuteremo le conseguenze. Vedremo se raggiungeremo buoni risultati riducendo i tempi del primo grado, oppure se invece, come dicono i detrattori, allungheremo gli appelli. Dobbiamo sperimentare l’effetto concreto che avrà questa riforma. Finché non la sperimentiamo, non lo sapremo.

Possiamo intanto già pensare a ricette e correzioni?

Dovremmo mettere in discussione uno dei principi cardine del nostro ordinamento: il divieto di “reformatio in pejus” delle sentenze di primo grado, cioè la possibilità di peggiorare la sentenza in appello. Oggi tutti i condannati hanno l’interesse a ricorrere in appello, perché nel migliore dei casi ottengono una assoluzione o una condanna più leggera e, nel peggiore, si vedranno confermare la pena, ma almeno allontanano il tempo d’esecuzione. Il divieto di “reformatio in pejus” è oggettivamente un enorme incentivo a impugnare tutte le sentenze. In Francia – che certamente è uno Stato di diritto, con una sensibilità per i diritti delle persone forse superiore alla nostra – il divieto di “reformatio in pejus” non c’è: e solo il 40% delle sentenze di condanna viene impugnato.

Roma, la Boschi all’“Hyde Park” dei penalisti: “Iv è pronta a votare insieme a Forza Italia”

Nei giardini davanti al palazzo di Giustizia di Roma c’è una statua di Cavour, un gabbiano s’è appollaiato placidamente sulla testa bronzea dello statista, rivolto verso l’edificio. Dall’altra parte invece c’è un gruppetto di avvocati in fibrillazione: stanno per accogliere Maria Elena Boschi e i compagni di Italia Viva.

Siamo al cospetto del Palazzaccio: i romani l’hanno battezzato così per evidenti ragioni estetiche (leggenda vuole che l’architetto Guglielmo Calderini si sia suicidato a causa delle feroci critiche che hanno seppellito la sua opera). All’ombra della parete di travertino coi suoi pesanti fregi barocchi, da qualche giorno è stato allestito una specie di speakers corner in stile Hyde Park: è il piccolo teatro della rivolta dei penalisti contro la legge sulla prescrizione.

Un gazebo, un leggìo, un microfono e un viavai di avvocati che prendono la parola uno dopo l’altro, tutti indignati per lo “scempio del diritto” firmato dal grillino Bonafede. La protesta organizzata dalle Camere Penali ha un nome pomposo: “Maratona oratoria”. A ben vedere, nel grande stagno dei giardini di Piazza Cavour, la manifestazione degli avvocati ha le dimensioni di una pozzanghera. Ma poiché sulla prescrizione si è concentrata una polemica che rischia di far saltare in aria il governo, allo speakers corner del Palazzaccio si è affacciata anche la politica.

Così ecco che arriva Meb, l’ex ministra, insieme a un manipolo di deputati e senatori del nuovo partito renziano. I frontmen sono Boschi e Roberto Giachetti, con loro – tra gli altri – Lucia Annibali, Luigi Cucca, Gelsomina Vono e pure il leggendario Catiello Vitiello, ex massone, ex grillino ma soprattutto ex avvocato penalista venuto a riabbracciare i suoi colleghi.

La delegazione di Italia Viva arriva in Piazza Cavour il giorno dopo la visita Forza Italia e quella di due parlamentari del Pd (Walter Verini e Alfredo Bazoli). La Boschi, nel chioschetto dei penalisti, pronuncia un discorso potenzialmente incendiario: “Noi sosteniamo la proposta di Costa”. Ovvero il deputato di Forza Italia che ha presentato una legge per bloccare gli effetti della riforma Bonafede (che a sua volta ferma la prescrizione dopo la sentenza di primo grado).

Italia Viva – ma questo non fa notizia – non ha alcun imbarazzo a sposare una battaglia di Forza Italia (partito di opposizione) contro una legge dei Cinque Stelle (partito assieme al quale governa). E Boschi sostiene di essere pronta ad andare fino in fondo: “Noi chiediamo una soluzione rapida, vorremmo fosse nell’ambito della maggioranza, che fosse il governo a trovare una soluzione. Ma se così non fosse, dobbiamo immaginare di individuare in Parlamento delle alternative”. Insomma: o i grillini si piegano e fanno un passo indietro, oppure saranno piegati in aula sulla legge Costa. A voler andare fino in fondo, sarebbe un eccellente pretesto per far cadere questo governo.

Parlano anche Vono e Annibali, Vitiello saluta tutti, Giachetti si intrattiene con una giornalista di La7: “Noi non voteremmo mica solo con Forza Italia, ma con tutti i partiti che vogliono evitare che la prescrizione sia bloccata dopo il primo grado”.

Gli avvocati sorridono, rinfrancati. Giorgio Varano, responsabile della comunicazione dell’Unione Camere Penali, si pulisce cordialmente la mano dopo aver scoperto di aver stretto quella di un giornalista del Fatto, l’house organ delle manette. Dallo speakers’ corner del Palazzaccio continuano a pronunciare furiose arringhe: “La prescrizione tutela il vostro diritto al riscatto”, “La prescrizione è il metronomo della giustizia penale”, “È una legge nefasta, dalle conseguenze terribili”, “Liberiamoci dall’utopia del totalitarismo penale”. Il gabbiano sulla testa di Cavour è ancora girato dall’altra parte.

Il Pd si arrende: il blocco della prescrizione ci sarà

Se tutto va come deve andare, il primo gennaio 2020 la norma Bonafede che abroga la prescrizione in primo grado entrerà in vigore, ma la maggioranza di governo chiuderà un accordo che introduce il principio della “prescrizione” per gradi, ovvero una tagliola sui tempi dei diversi gradi di giudizio. Con quale soluzione tecnica e – soprattutto – fino a che punto il principio si tradurrà in un limite chiaro di durata dei processi, è oggetto di trattativa. Però, quel che è chiaro è che né il Pd, né i Cinque Stelle hanno intenzione di far cadere il governo sulla giustizia. Non solo: anche nel caso che la proposta Costa per abrogare la riforma Bonafede dovesse passare alla Camera, visto che servirebbe il sì del Senato, non ci sarebbero i tempi tecnici per evitare l’entrata in vigore dello stop alla prescrizione. Peraltro ieri nell’ufficio di presidenza della commissione Giustizia i gruppi di FI, FdI, Lega e Italia Viva hanno chiesto di fissare un calendario dei lavori che portasse al voto la proposta Costa entro il 23 dicembre ma Pd e M5S hanno detto no. Dunque, ieri è stata la giornata della riapertura del dialogo, condotto in primis da Alfonso Bonafede e Andrea Orlando.

Alle 8 di mattina si è incontrata la cabina di regia dem che sta lavorando sul dossier. Oltre al vice segretario, c’erano Alfredo Bazoli, Andrea Giorgis, Franco Mirabelli, Roberta Pinotti e Michele Bordo. Prese in esame sostanzialmente due ipotesi per lavorare sui tempi dei processi. La prima: stabilire un tempo massimo per la loro durata, dopo il secondo grado. La seconda: tornare alla riforma Orlando, magari come norma transitoria che accompagni il blocco della prescrizione, in attesa che entri in vigore la riforma penale di Bonafede, riformulando i tempi. La legge Orlando, in caso di condanna, sospendeva la prescrizione per un anno e mezzo tra il primo e il secondo grado, per un anno e mezzo tra il secondo grado e la Cassazione. L’idea è portare la sospensione a due anni, tra il primo e il secondo grado e a un anno, tra il secondo e il terzo; con possibilità di allungare di altri 6 mesi la sospensione tra primo grado e appello. Eppure, dal vertice si esce senza aver scritto una proposta di legge. Perché? La volontà di mediare è superiore a quella di rompere. Così, a fine riunione Orlando e Bonafede si sentono. Il vicesegretario del Pd racconta al Guardasigilli quali sono le proposte che il Nazareno intende fargli. L’altro prende tempo. Avverte che introdurre dei tempi oltre i quali i processi scadono è un modo per far rientrare la prescrizione dalla finestra. Però, ricorda al suo predecessore che c’è in corso di elaborazione una riforma penale.

Poi dichiara pubblicamente: “Mi rifiuto di pensare che su questa questione possa esserci una crisi di governo”. Orlando conferma: “Si è ripreso un dialogo”. Centrale è stato l’intervento di Giuseppe Conte che da Londra nei giorni scorsi ha dichiarato “troveremo una soluzione per la durata ragionevole del processo”. Per la prima volta una sponda al Pd. E poi ha cominciato ad agire su Bonafede per indurlo a trovare un accordo. D’altra parte, il Guardasigilli in questa fase appare più vicino al premier che a Luigi Di Maio, il capo politico del Movimento, che negli ultimi tempi sta terremotando il governo un giorno sì e l’altro pure. “Ogni buona proposta del Pd è ben accetta”, ha corretto ieri il tiro il ministro degli Esteri.

Ma il Pd in blocco ha ribadito per tutto il giorno che “decide Conte” e “non le veline M5s”. La soluzione finale è ancora allo studio.

Ma l’ipotesi più gettonata è che alla fine il principio della prescrizione per gradi venga inserito nella legge delega di riforma penale. Questo non risolverebbe la questione dei reati di corruzione e di concussione (che riguardano il civile). Si vedrà. Dice Orlando in serata: “Si può evitare senza toccare la Bonafede che si determini quel cortocircuito, con una specifica previsione che riguarda il regime transitorio del processo”. Il vicepremier Franceschini: “Troveremo un accordo sulla ragionevole durata dei processi prima dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione”. Il clima ad oggi è questo. Ma l’unica cosa certa è che la norma Bonafede entrerà in vigore. Per la sostanza e la tenuta dell’accordo bisognerà fidarsi della buonafede di tutti gli azionisti della maggioranza.

Signora mia

Quando finalmente avremo il governo Salvini, con Savoini agli Esteri, Siri all’Economia, Berlusconi alla Giustizia, Dell’Utri agli Interni, Verdini alle Riforme e la Casellati al Quirinale, qualcuno si domanderà come sia stato possibile. E potrà rispondersi riguardando la puntata di Otto e mezzo di mercoledì, con Gianrico Carofiglio, Massimo Giannini e Vittorio Sgarbi. Titolo: “Dal Mes a Bibbiano: il Pd non ci sta”. Si parte dalla legge Bonafede, in vigore da un anno, che blocca la prescrizione alla sentenza di primo grado per i reati commessi dal 1° gennaio 2020. Parla subito Vittorio Sgarbi, noto giureconsulto: “La legge è una scemenza perché ci sono molti processi inutili”. Quali? I suoi. Ergo “la prescrizione è la cosa più democratica e civile del mondo”, anche se durante il processo ce l’abbiamo solo noi e la Grecia. “Sono d’accordo con Zingaretti e Renzi che chiedono tempi certi per i processi”: veramente è ciò che prevede la riforma Bonafede del processo, bloccata prima da Salvini e ora da Zinga&Renzi, ma lui non lo sa. Gruber: “Dunque hanno torto Di Maio e Di Battista”. Sgarbi: “C’è il reato del figlio dei Grillo” (che è incensurato, diversamente da Sgarbi, pregiudicato per truffa allo Stato).

Tocca a Carofiglio, che solo due settimane fa a Otto e mezzo apprezzava la blocca-prescrizione e criticava il Pd che vuol tornare indietro. Ma, oplà, è già guarito. Forse è posseduto da Ghedini e Paniz. O forse teme di dare ragione ai 5Stelle quando pensa che abbiano ragione: “L’intervento non va bene, è scadente, sciatto”. Perché? Perché parla di “sospensione” della prescrizione anziché di blocco. Gravissimo. E non solo: “Il primo processo con la nuova norma arriverà nel 2023”. E allora? Voleva una legge incostituzionale che si applicasse retroattivamente ai processi in corso per i reati commessi prima, così da farla bocciare dalla Consulta? Mistero. Ma ecco Giannini, che per 20 anni, con tutta Repubblica, ha denunciato la vergogna della prescrizione e invocato una legge identica alla Bonafede. Anche lui dovrebbe dire che stavolta han ragione i 5Stelle. Ma non ce la fa proprio, come Fonzie quando provava a dire “ho sbagliato” e gli si seccava la lingua. Così butta la palla in tribuna e scuote il capino con aria sconsolata: “Scene di ordinario caos, ormai la politica gira a vuoto, problemi che ci trasciniamo da 20 anni: Ilva… Alitalia… debito pubblico… evasione… La prima legge sulle manette agli evasori è dei primi anni 80 e siamo ancora qui a discuterne… Non si sblocca niente”. Signora mia, dove andremo a finire. Il guaio è che i putribondi Conte e 5Stelle qualcosa hanno sbloccato.

La blocca-prescrizione è legge da un anno, le manette agli evasori sono nel decreto Fiscale appena varato. Se n’è accorto? Lo dirà? Niente, lingua secca: “Sono tutti ugualmente colpevoli”. Chi ha creato quei problemi e chi ne ha risolti un paio. “L’arrivo dei 5Stelle sembrava l’anno zero: non è cambiato nulla”. Prima c’erano i vitalizi e ora non ci sono più, c’era la prescrizione eterna e ora non c’è più dopo la prima sentenza, i corrotti non finivano dentro e ora ci finiscono, gli evasori erano impuniti e presto pagheranno, i poveri non avevano un euro e ora hanno il reddito di cittadinanza, il precariato era a vita e ora è più limitato. Ma per Giannini non è cambiato nulla. Sgarbi invoca “una politica con un’alta visione ideale” (Sgarbi): tipo tornare subito al voto perché nel 2018 gli elettori si sono sbagliati e han votato “quattro scappati di casa” (i 5Stelle); ora bisogna rimediare, votando e rivotando a oltranza finchè non vincono “le famiglie dei partiti”. Gruber: “Di Maio è molto critico con l’alleato Pd, e anche Di Battista che ogni tanto riemerge” (veramente sono Pd e Iv che minacciano di votare la prescrizione modello FI, ma fa niente).
Meglio parlare del Mes che Sgarbi, noto economista, chiama “Mec”. Lo criticano le destre, le sinistre e pure i centri di mezza Europa, ma il problema sono Di Maio e Dibba. Si potrebbe ricordare che Salvini chiedeva l’arresto di Conte per alto tradimento e il premier l’ha sbugiardato in Parlamento 26 volte, ma meglio di no. Giannini l’ha vista così: “Conte e Salvini si sono presi a sediate” (testuale), “Salvini e Di Maio dicono che il Mes è uno schifo e un tradimento” (Di Maio non l’ha mai detto, ma facciamo buon peso), “Conte con la sua pochettina non sta da nessuna parte”, “Ma si può andare avanti così?”. Signora mia. Seguono vezzosi accenni a “bagni di sangue”, “uscite dall’euro”, “fallimenti dell’Italia”. Sgarbi trova che il problema sono i “deliri di Grillo” e l’“antileghismo astratto”, poi butta lì che “alle regionali in Calabria c’è un grande candidato, il sindaco di Cosenza Occhiuto (imputato per corruzione e bancarotta fraudolenta, ndr), ma la Lega non lo vuole”. E come si fa? Ma passiamo a Bibbiano, dove il sindaco Pd s’è visto revocare l’obbligo di dimora dalla Cassazione, con motivazioni ancora ignote. Ma in studio tutti credono di averle lette. Gruber: “La Cassazione definisce la misura ingiustificata”. Carofiglio: “Dice che la misura non doveva essere applicata” e poi il sant’uomo era “semplicemente accusato di abuso d’ufficio” (e lo è ancora, anche per falso ideologico, visto che l’inchiesta è in corso e non c’è stata alcun’assoluzione). Sgarbi: “Io l’ho sempre difeso”. Carofiglio: “Bravo!”. Sgarbi ha un attacco di rabbia, bava alla bocca e denti digrignati: “Il nemico di Bibbiano non è Salvini, è Di Maio che l’ha coperta di merda! Incapaci! Schifosi!”. Ma è un attimo, poi viene sedato dall’apposito infermiere. Gruber: “Di Maio chieda scusa al Pd”. Giannini: “Anche la Lega. E non al Pd, ma al Paese! É un crimine contro il Paese. Tutto per otto bambini! E nessuno del Pd è indagato tranne il sindaco”. Lo sono anche gli ex sindaci Pd di Montecchio e Cavriago, ma fa niente. Sigla.

Il congedo autobiografico di Pellizzetti

Un congedo autobiografico che porta con sé l’eco di tòpoi letterari d’antica memoria. La fine delle buone maniere, l’ultimo libro del sociologo e saggista genovese Pierfranco Pellizzetti, è un peregrinaggio a tappe sparse tra i luoghi dell’anima. L’autore, condotto dalla “terribile registrazione dei danni irreparabili compiuti dallo scorrere del tempo”, fa i conti con la corrosione interiore che gli deriva dal constatare che il declino indiscriminato da cui la società è stata travolta trova riscontro nella personalissima percezione di se stesso. Logorato dalle “rughe dell’anima prima ancora che dei corpi”. A riprova di ciò, in questo guizzo narrativo della memoria che si districa tra i ricordi, Pellizzetti si fa accompagnare da quei letterati “amici” che – prima di lui – hanno esperito la disgregazione di un mondo e dei propri valori.

Basti pensare a Rutilio Namaziano, considerato l’ultimo poeta latino, che contempla affranto la consunzione dei fasti dell’antica Roma durante il viaggio di ritorno in Gallia. Anche il nostro autore fa un percorso a ritroso, seguendo l’anarchia dei moti interiori. Undici racconti divisi in due sezioni, Partenze e ritorni e Alla ricerca della città, coniugano la vena malinconica alla capacità critica, non lesinando laddove necessario passaggi di acuta ironia. A quattro anni Pellizzetti scopre la differenza di classe. Lui proviene dai “riti borghesi”, quelli delle cene calendarizzate col “menù invariato da epoche immemorabili”. Gli mancano i mostaccioli di Natale in brodo, il pandolce alla genovese. Le vacanze estive trascorse sull’Appennino. Gli alti soffitti affrescati a motivi pompeiani delle ville in cui scorrazzava bambino. Quel mondo è finito e son finite pure le buone maniere.

Arrivano gli anni Ottanta e l’ambizione di conquistare una posizione tra i salotti internazionali del business. “Mi sorreggeva l’eccitazione illusoria di essere nel vento”, scrive. L’affare si complica e al self-made man che importa poltrone da dentista dall’Est si pone dinanzi un bivio. Il margine tra legalità e illegalità si fa sottile. Pellizzetti sceglie di rimanere fedele ai propri valori. Ciò non avviene però su grande scala. La società cambia. Cambia pure la sua città, Genova, dove torna. I ponti crollano. Le fondamenta sprofondano. Si fa più lucida la consapevolezza che – come disse Gertrud Stein – “il vero problema delle radici è l’impossibilità di portarsele dietro”. La solitudine è tale che l’unico interlocutore diviene il libro stesso, talvolta anche beffardo nelle sue constatazioni. “Il mio mondo è andato perduto e io non sono stato capace di costruirmi neppure quella tanto evocata scialuppa di salvataggio”. Sebbene Pellizzetti sembri dirci addio con questo libro che conclude congedandosi con le buone maniere a cui è stato educato, ci sono qua e là segnali che inducono a pensare che forse non sia così. Affiorano la memoria, “ultima speranza identitaria”. E la “fiamma della passione civile”.