“Il pubblico non ama il dubbio ma noi attori siamo impostori”

Se esistesse una categoria morettiana di attrice, Elena Radonicich sarebbe tra le prime iscritte. Seria, posata, soppesa le parole, ma senza pesantezza, solo nel rispetto del significato, poi torna sui concetti, li elabora prima nella testa, poi accetta le accezioni dell’interlocutore, non si nasconde, e conosce il valore dell’esperienza “e per fortuna in carriera ho lavorato con dei grandi”.

Attualmente i “risultati” sono in una tournée teatrale con L’onore perduto di Katharina Blum (ora all’Eliseo di Roma) e nel ruolo di Marlene Dietrich nel programma Io e lei in onda su Sky.

“L’attore sposta i confini dell’infanzia senza farti invecchiare” parole sue.

Davvero l’ho detto? Sono d’accordo con me stessa.

Con “Irishman” l’asticella si è spostata: li hanno ringiovaniti al computer.

Toglie il problema di doversi rifare.

Non toglie anche spontaneità nella recitazione?

Attualmente al pubblico non interessa la spontaneità.

E cosa?

Preferisce trovare qualcosa di eterno, inscalfibile e soprattutto che esprime felicità.

Mentre prima…

Negli anni Settanta era importante il dubbio, le persone si sentivano rassicurate nel vivere in una società viva e plurale; oggi si punta solo ad allontanare il pensiero della morte attraverso l’abbattimento della caducità.

Per Gianluca Guidi frequentare troppe scuole di recitazione toglie spontaneità.

Studiare mi calma, placa il “mito dell’impostore”, soprattutto se uno è ben cosciente di cos’è l’eccellenza e cos’è la mediocrità.

Quindi ai provini è sempre iper preparata.

A volte sono un impostore.

Allora?

Quel discorso è per giustificare che alla fine uno è un gran paraculo.

Sa bluffare?

È il mio mestiere; anni fa sono andata a un provino per un film tedesco, e il mio inglese di allora era basico; a un certo punto mi dicono: “Ora improvvisiamo una scena in mezzo al bosco”.

Morale?

Quel giorno sono stata avvolta e guidata da un istinto di sopravvivenza, quando scopri che in te vivono delle risorse sconosciute, e capisci di non conoscerti fino in fondo: all’improvviso ho iniziato a parlare un inglese ottimo, e mi hanno preso.

E a teatro?

Tutti i giorni si apre il sipario e tutti i giorni mi domando “perché sono qui”, o “che dio me la mandi buona”.

Sobria.

Dura poco, poi si trasforma in potere; un potere che quando sbagli ti si mangia, quando va bene, lo eserciti e godi di quello che stai realizzando.

Tensione.

Le prime volte sul palco per l’adrenalina andavo a dormire alle cinque del mattino.

Comprende i suoi colleghi che optano per la droga…

Certo, e capisco tutti i vizi; va peggio alle rockstar.

Un copione comico le è mai arrivato?

Mi piacerebbe, ma con questa faccia è impossibile.

Cosa la fa ridere?

Le persone patetiche, gli inetti, gli inadatti, i fuoriluogo.

Fantozzi?

Da morire; poi sorrido dei gaffeur, e in casa mia c’è un ramo di gaffeur, e se poi vedo qualcuno cadere per strada…

Lì si sente male…

Un giorno esco con un’amica, camminiamo, passa un ragazzo sul motorino, ci guarda, si distrae, va contro un cassonetto dell’immondizia e ci finisce dentro. Io impazzita.

Un suo vizio.

Il cibo. Penso solo a mangiare. Solo ristoranti. E non voglio regolarmi.

Un suo cruccio.

Da torinese ho sempre paura di offendere gli altri, preferisco sorridere e fingere che va tutto bene, e in quei rari casi in cui riesco a mettere i puntini sulle “i” allora dentro di me scatta la ola.

Ha lavorato con Elio Germano, Luca Marinelli e altri: cosa ha rubato a chi?

Da loro ho imparato la serietà, perché sono attori dediti, che si pongono domande e analizzano le scene.

Cioé?

Ti prendono per mano e ti portano con loro, perché non hanno alcun interesse a brillare da soli, e uno si sente partecipe di un contesto maggiore e magari ritrova sul palco o davanti alla cinepresa i risultati di questo percorso.

(E magari trasformarsi in maniera stupefacente anche in un’icona come la Dietrich).

Schiappe, CR7 e oppio: vedi la Nuvola e poi leggi (forse)

L’Oscar per la miglior attrice va alla responsabile di uno stand: “Ah! Dovete proprio andare via? Peccato…”. Il premio venditore dell’anno a un suo collega: “Se vuole intrufolarsi, faccia come se fosse a casa sua”. La medaglia d’oro alla pazienza all’addetto agli ingressi: “Le spiego come funziona, vuole che glielo spieghi? Se la faccio passare farà lo stesso la fila, solo cinque metri più avanti e a cinquanta gradi di temperatura”. Ma se dovessimo assegnare alcuni riconoscimenti al termine del primo giorno di Più Libri Più Liberi, l’annuale fiera romana della piccola e media editoria, il vincitore assoluto dell’edizione numero 18 sarebbe lui, lo studente di anni approssimativi 16 che si rivolge all’amico: “Ma alla fine qualcosa sull’oppio l’hai trovata?”.

L’inaugurazione istituzionale è alle 10,30 ma già da mezz’ora prima il vialone dell’Eur che conduce alla Nuvola di Fuksas – ormai da qualche anno teatro della kermesse – è costellato di cappellini colorati, tutti rigorosamente in fila. La mattina è dedicata alle scuole, di ogni ordine e grado: ci sono maturandi – senza cappellini, ovvio –, studenti di medie ed elementari e persino piccoli lettori della materna accompagnati dalle loro coraggiose insegnanti. In fila ci sono anche gli addetti ai lavori: operatori di case editrici, giornalisti, ospiti, tutti in attesa del pass che sbloccherà loro le porte del cumulonembo d’autore. E infatti c’è chi addirittura corre verso l’entrata, nella speranza – chissà – di sentirsi più vicino al Paradiso. Solo che alle 10.30 è già tempo di merenda, e allora eccoli lì i ragazzi, seduti a terra, pochi metri dopo il tanto agognato ingresso, che addentano panini al salame.

Ma va bene, sono loro i protagonisti. Anche perché basta fare un giro tra gli stand per capire quali siano i titoli che – seppur di poco – trainano il mercato dell’editoria italiana. Davanti al Castoro c’è la fila per accaparrarsi l’ultimo Diario di una Schiappa, mentre un professore poco lontano annuncia: “Lo sapete che Bao Publishing edita Zerocalcare?” e giù tutti a vedere. Maghi, streghette e ancor più mostri e divertenti zombie la fanno da padroni sugli scaffali, attirando l’attenzione dei più piccoli. Così come gli eroi moderni hanno la divisa e gli scarpini: ci sono titoli su Francesco Totti e Daniele De Rossi, c’è la storia dei calciatori di sinistra pubblicata da Red Star Press e ci sono ragazzi che mettono in mostra la loro saggezza: “Prof, alla fine l’ho acquistato. Come cosa? Il libro su CR7”. È la cultura che rotola, ma se serve ad avvicinarli alla lettura, tutto fa letteratura.

I dati non sono ottimali, ma neanche sconfortanti: la piccola e media editoria cresce dello 0,9 per cento, le novità pubblicate dell’11,5 e in generale il rapporto tra un titolo di piccolo editore e quello di colosso pende in favore del primo (52,9 per cento delle pubblicazioni). Gli espositori sono 520. In un mondo che si interroga sul futuro, la manifestazione romana non poteva che scegliere per argomento “I confini dell’Europa” e ad aprire le danze degli incontri (670 gli appuntamenti fino a domenica) è stato il segretario del Pd, qui in veste di presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che con Paolo Di Paolo e Cinzia Leone ha affrontato il tema “Gli anni Venti, Vivere e pensare il futuro”. E poco importa che alla fine di un suo intervento la relatrice sia rimasta da sola ad applaudirlo.

Ciò che importa è che “le parole valgono”, come suggerisce la Treccani ai piccoli visitatori, chiamati a lasciare la loro (parola) su un albero di Natale in legno. E se tra i più grandicelli si fanno decorazione l’“Ambiente”, il “Rispetto” e la “Sostenibilità”, i più piccoli cittadini del domani considerano basilari ancora l’“Amicizia” e la “Famiglia”, “perché quando ho bisogno c’è sempre”. Il brusio di fondo all’interno dell’opera di Fuksas non consente una permanenza prolungata, figuriamoci la lettura anche solo di un opuscolo, ma del resto il via vai è regolamentato per questioni di sicurezza.

Il consiglio è, dunque, quello di armarsi di pazienza e di arrivare per tempo, soprattutto se si vuole seguire oggi l’incontro con Olga Misik, la 17enne attivista russa che sfida il regime di Putin. Oltre a lei, saranno molti i “resistenti” presenti in fiera. Che ci sia una forma di protesta anche nell’editoria è chiaro fin dai titoli esposti, da Dynamite Girl. Gabriella Antonini e gli anarchici italiani in America (Nova Delphi) a I Nietzscheani di sinistra di Odradek edizioni. Scegliere di diventare editori è coraggioso, e lo sa bene il giovane patron di Prehistorica, che è pure il traduttore dei suoi pochi titoli francesi e belgi, ma che – con calma ieratica – accetta la vicinanza del ben più turbolento Tolkien di Tsunami editore. Così come lo sanno i tipi di Tlon (libreria-teatro-casa editrice-scuola di filosofia-agenzia di eventi) che alla domanda “avete libri di poesia?” si sono dovuti pure sorbire il seguito “allora vi lascio le mie”. Ci vuole spirito di abnegazione per passare alla cultura.

“Don Franco ci diceva: baciatemi come gli apostoli con Gesù”

“Don Franco è come Cristo. I suoi ragazzi sono gli apostoli. E Gesù baciava i suoi apostoli, dicevano così per spingere ad accettare quei rapporti. Spero che finalmente venga fuori questa storia che ha devastato persone e famiglie. Tutti sapevano. Io sono andata in Curia non so più quante volte…”. Parla Marta (il nome è di fantasia). “Io sono una delle poche donne che sa quello che avete raccontato, quello che è successo nella parrocchia di Sori. Due miei amici del cuore, ma proprio intimi, hanno subìto lì le attenzioni di don Francesco Castagneto. La loro vita è cambiata per sempre”. Perché finora le vittime non hanno parlato? “Si era creata una sorta di fraternità… Eravamo vincolati al segreto su ciò che accadeva”.

Nei giorni scorsi abbiamo svelato il caso di don Franco Castagneto, riportando le testimonianze di ragazzi che hanno riferito di aver subìto molestie. Abbiamo raccolto parole a mezza voce, difficili da pronunciare. Ma altre vittime ora hanno contattato Sherlock e Francesco Zanardi, il presidente della Rete L’Abuso che aveva ricevuto la prima segnalazione in una lettera anonima.

Sono quasi tutte donne, non perché oggetto dell’interesse del sacerdote, ma perché “il don ha avuto rapporti con nostri amici e fidanzati”. Il racconto di Marta comincia dalle parole del suo compagno di banco e amico del cuore, il fidanzatino forse: “Fulvio (lo chiameremo così, ndr) ed io eravamo inseparabili. Dai primi anni delle superiori mi cominciò a dire che si sentiva addosso gli occhi del don. Poi un giorno si confidò: ‘Mi bacia, mi tocca’. Era angosciato, non immaginate il fascino che quell’uomo era capace di suscitare in noi. Eravamo come soggiogati… alle sue messe, che duravano ore, c’erano ragazzi che piangevano”. In quanti avrebbero subìto attenzioni? “Potrebbero essere una ventina. Alcuni hanno avuto rapporti completi”. Minorenni? “Fulvio all’epoca era minorenne”. Il racconto di Marta non si ferma. “A diciotto anni feci l’errore di portare con me nel gruppo un altro mio amico intimo, appena maggiorenne. Anche lui fu oggetto delle attenzioni di don Franco”. “Fulvio poi si è sposato – racconta Marta – ma si è reso conto di essere gay… il suo matrimonio è finito. Non è stato l’unico caso: altri matrimoni sono stati annullati, ci sono mogli che hanno raccontato di aver scoperto dopo le nozze che il loro marito aveva subito molestie da un sacerdote”. Già, matrimoni annullati; diversi ragazzi che erano approdati nel gruppo con una fidanzata e ne sono usciti avendo scoperto di essere gay. “Ricordo che c’erano educatori che pretendevano da me di essere baciati sulla bocca. Nel gruppo maschile c’erano atti di masturbazione, rapporti orali”. Marta parla con voce ferma. Sono gli anni ’90. “È andata avanti anche quando don Franco venne trasferito nella chiesa Santa Teresa d’Albaro, a Genova. C’erano un disagio e una confusione terribili…”. Così Marta cominciò a parlarne: “Ma fui subito isolata dai miei amici. Il don mi chiamava ‘la psicopatica’. Non pensai di andare dai giudici, mi rivolsi alla Curia”. “Provo dolore perché non abbiamo dato ascolto a quei ragazzi, non gli abbiamo creduto”: ha detto a Sherlock Alberto Tanasini, il vescovo di Chiavari che all’epoca seguì il caso di don Franco.

“Alla fine ho ceduto, me ne sono andata via dal mio paese”, confida Marta. Marta aveva una fede grande: “Ero una talebana”, cerca di sorridere. Ma adesso? “Non credo più. Ma in chiesa ogni tanto ci tornavo… proprio ad Albaro, da don Franco. Avevano promesso che non lo avrebbero più messo a contatto con i ragazzi, eppure era lì con gli scout. Mi mettevo in prima fila e lo guardavo fisso negli occhi. Volevo che sapesse che lo stavo controllando”.

“Non cerco vendetta. Non faccio più conto sulla giustizia da tempo. E non odio don Franco. Voglio solo che altri ragazzi non subiscano ciò che abbiamo subìto noi”.

Guerra fredda a Berlino: espulse due spie di Mosca

Crisi diplomatica tra Mosca e Berlino dopo che il ministero degli Esteri tedesco ha dichiarato due diplomatici – in realtà funzionari dei servizi segreti militari russi – “persone non grate”: la loro colpa è non aver collaborato a chiarire i contorni di un omicidio su cui le autorità tedesche si arrovellano da tre mesi. Alimentando i dubbi che dietro ci sia il Cremlino.

Tutto ruota intorno alla strana uccisione di un ex militare di quarant’anni originario della Cecenia freddato con due colpi di pistola, in pieno giorno, in un bar nel quartiere di Moabit-Mitte a Berlino da un cittadino russo, poi fermato dalle autorità. Le stranezze sono tre: la dinamica dell’omicidio, la provenienza della vittima e il mistero intorno all’identità dell’assassino. L’omicida si è avvicinato alla sua vittima in bicicletta, l’ha centrata con due colpi e ha proseguito la sua corsa in sella alla bici, prima di essere bloccato dalla polizia. Un lavoro da professionisti, lo ha definito la stampa.

L’ucciso è un ceceno con cittadinanza georgiana, un passato da militante ribelle contro la Federazione russa e un permesso d’asilo in Germania. Ma è sull’assassino che si sono concentrate le indagini della procura berlinese, fino al passaggio del testimone alla procura federale di Karlsruhe, che si occupa di casi che hanno a che fare con la sicurezza nazionale e internazionale. L’assassino ha un’identità incerta e si ipotizza possa essere un killer russo professionista, già colpito da un mandato di cattura internazionale per omicidio, come ha riferito la stampa tedesca.

La procura federale non è scesa nei dettagli e si è limitata a rendere noto di avere prove sufficienti per ritenere che l’uccisione “sia stata compiuta o per conto delle autorità statali russe o per conto della Repubblica cecena autonoma, parte della Federazione russa”: un omicidio di Stato su commissione.

Arriva lo sciopero-monstre per dire basta a Macron

Oggi la Francia si ferma per protestare contro la riforma delle pensioni. Lo sciopero si annuncia molto seguito: circolerà solo il 10% dei treni, 11 linee su 16 del metrò parigino saranno ferme, annullati in previsione anche il 20% dei voli. Il premier Edouard Philippe prevede 245 manifestazioni da nord a sud e almeno 300 mila persone nelle strade. A Parigi un corteo, dalla gare de l’Est alla place de la Nation, è considerato ad alto rischio casseurs, per cui tutti i negozi resteranno chiusi lungo il percorso. E i parigini, per la seconda volta in poco tempo, dopo il venerdì nero del 13 settembre, si preparano a inforcare bici e monopattini elettrici. Ma quella volta il caos si era limitato a un giorno solo. Ora lo sciopero rischia di prolungarsi per giorni o anche settimane. La Sncf, che gestisce le ferrovie, ha già cancellato treni fino a domenica. E si guarda con ansia indietro, al 1995 e agli scioperi che all’epoca bloccarono il paese per tre settimane e mezzo.

La riforma del sistema pensionistico non è una novità poiché era già nel programma di campagna di Emmanuel Macron. E, da sondaggio Ifop, tre francesi su quattro ritengono che riformare il sistema in fondo sia necessario. Ma il 64% di loro (studio Vivavoice) non si fida del presidente e anzi ritiene che Macron non capisca la “crisi sociale” che sta vivendo il paese. Per cui il 69% (sondaggio Harris Interactive-RTL) appoggia lo sciopero di oggi. La riforma è annunciata dal governo come “equa” e “giusta”. Essa prevede l’introduzione di un “sistema universale a punti” e di sopprimere tutti i “regimi speciali” che esistono in Francia, ben 42. Tra i più favorevoli c’è appunto quello dei ferrovieri, che permette ai conducenti della SNCF di andare in pensione a 50 anni e 8 mesi, mentre l’età pensionabile in Francia è di 62 anni. Il governo insiste sul fatto che nessuno “uscirà perdente” dalla riforma, promette di conservare degli statuti particolari per i lavori usuranti e pericolosi, ma i francesi sono convinti che invece ci rimetteranno tutti, loro e i loro figli. Anche perché, se da tanto si parla di questa riforma, non c’è ancora un testo né si conoscono i dettagli delle misure (i primi annunci dovrebbero essere fatti prima di Natale) e questa poca chiarezza preoccupa ancora di più.

La promessa di una pensione “minima” mensile di mille euro per tutti soddisfa per ora solo gli agricoltori che in media oggi, data l’enorme crisi del settore, non possono sperare a una pensione sopra ai 900 euro. Allo sciopero di domani però parteciperanno anche loro che già la settimana scorsa erano entrati dentro Parigi con i trattori per protestare contro i prezzi bassi dei prodotti agricoli. Ci sarà anche il personale sanitario che da mesi reclama più mezzi per i pronto soccorso, i giovani che stanno già manifestando contro il precariato degli universitari e gli insegnanti che sono tra quelli che dalla riforma dovrebbero perdere di più. E naturalmente anche i Gilet gialli, che poi torneranno in strada sabato come sempre da oltre un anno a questa parte.

I Moschettieri Nato. Più miliardi per la difesa ma nessuna concordia

Se doveva essere uno sfoggio d’unità dell’Occidente, per il 70° anniversario dell’Alleanza atlantica, la due giorni Nato inglese non centra proprio l’obiettivo: i leader procedono in ordine sparso; riducono a formalità le plenarie; trasformano gli incontri bilaterali in momenti di confronto, quando non di scontro; raccontano ciascuno ai suoi media eventi paralleli – l’ormai consueta ‘rashomon’ della diplomazia internazionale. Iniziato fra le tensioni e le polemiche, il Vertice finisce in farsa, almeno per certi aspetti.

Il video più consegnato alle cronache mostra il presidente francese Emmanuel Macron e i premier britannico, canadese e olandese Boris Johnson – “tu quoque?, clone mi!” -, Justin Trudeau e Mark Rutte, che, con un bicchiere in mano, fanno capannello e ridono, martedì sera a Buckingham Palace, prendendosi – almeno apparentemente: l’audio non è per nulla chiaro – gioco di Donald Trump.

“Per questo eri in ritardo?”, chiede Johnson a Macron; risponde Trudeau. “Era in ritardo perché (Trump) ha fatto una conferenza stampa di 40 minuti fuori programma”, dice il premier canadese, senza citare il presidente Usa. Il riferimento è all’incontro tra Trump e Macron, al termine del quale il presidente americano ha lungamente risposto alle domande dei giornalisti. “Sì sì – prosegue Trudeau -, ha annunciato..”, l’audio salta, gli altri sorridono. Trudeau prosegue, con un ampio gesto: “Potevi vedere i suoi a bocca aperta, con le mascelle a terra”, alludendo allo staff statunitense.

Il siparietto si conclude con i leader che sorridono divertiti. Trump lo è meno: se la prende e critica Trudeau, che “ha una doppia faccia”; il premier canadese recita una parte da teatro dell’assurdo definendo “ottimo” il rapporto e “grande” l’incontro con il magnate. Quanto a Johnson, che ha appena ricevuto un blando endorsement dal presidente Usa in vista delle elezioni del 12 dicembre, liquida come “assurdità” l’idea che lui e i suoi amichetti stessero facendosi beffe di Donald.

Poi dice che la Nato gode di buona salute e che il Vertice è stato “un successo fantastico”: “Basta liti, uno per tutti e tutti per uno”, manco fossero moschettieri.

Trump si ritrova isolato, che è la situazione che lo esalta e gli consente di dare il meglio di sé. Dice che il Vertice è andato bene e annulla la conferenza stampa finale, perché “ne ho già fatte troppe”. Se la prende con Macron, che non ritratta il suo giudizio sulla Nato, in stato di “morte cerebrale”: “È un insulto a 28 Paesi”, sostiene, diventando inopinatamente un paladino del multilateralismo. E trova anche modo di parlare dell’impeachment, che è “una barzelletta senza fondamento”; e pure di Cina e di G5 e di dazi sui prodotti europei se i giganti del web Usa saranno tassati.

Macron, invece, conferma il suo giudizio e sprona, con qualche baldanza, “l’Europa a difendersi da sé”, affermazioni su cui non lo segue neppure la cancelliera tedesca Angela Merkel.

Il ricevimento dei leader ospiti della regina Elisabetta a Buckingham Palace, martedì sera, prelude all’appartato e blindatissimo Vertice vero e proprio, a Watford, nell’Hertfordshire, al Grove Hotel, dove capi di Stato e/o di governo sono accolti dal premier Johnson e dal segretario generale dell’Alleanza atlantica, il norvegese Jens Stoltenberg. Prima c’era stato un incontro, non risolutivo, fra Regno Unito, Germania, Francia e Turchia sulla situazione in Siria alla luce della controversa offensiva anti-milizie curde lanciata da Ankara a ottobre. Con la Turchia resta il disaccordo anche sulla definizione di terrorismo.

Nella dichiarazione finale, c’è la volontà di aumentare le risorse per la difesa. Stoltenberg sottolinea “un impegno senza precedenti” in tal senso da parte degli alleati. Chi lo prende sul serio è la Russia, che esprime “preoccupazione” per il riarmo dell’Occidente.

Le conclusioni contengono per la prima volta un riferimento alla cooperazione militare nello spazio tra i Paesi Nato, oltre che alla lotta alle cyber-minacce e al terrorismo. “La Nato – nota Stoltenberg – è l’Alleanza di maggior successo nella storia perché cambia con il mondo che cambia”; e rivendica i 130 miliardi di dollari in più per la difesa stanziati dai Paesi membri dal 2016 a oggi e l’impegno ad arrivare a 400 miliardi nel 2024. Il segretario generale evidenzia inoltre accordi su molti altri punti, inclusa “la deterrenza”, ma anche “un significativo dialogo” verso la Russia; la richiesta alla Cina d’impegnarsi nei negoziati per “il controllo degli armamenti”; e il rafforzamento dei piani di difesa dei Paesi baltici.

“Ormai è tardi: sfida poveri-ricchi per le regioni con un clima sano”

Quasi mezzo milione di vittime e danni per 3,5 miliardi di dollari. È il bilancio degli oltre 12mila eventi meteorologici estremi (cicloni, siccità, ondate di calore) che hanno colpito il pianeta tra il 1999 e il 2018, secondo i numeri del Climate Risk Index presentato alla Cop25 di Madrid dalla ong tedesca Germanwatch. E le catastrofi ambientali non sono più un’esclusiva del Sud del mondo: in cima alla lista dei Paesi più colpiti nel 2018, dice il rapporto, ci sono Giappone e Germania. L’Italia, invece, è al sesto posto per numero di morti nell’ultimo decennio. “Il cambiamento climatico presto sarà un’ emergenza sociale visibile a chiunque”, dice al Fatto Luca Mercalli, climatologo e docente, il più noto divulgatore italiano su questo tema.

Dottor Mercalli, siamo ancora in tempo?

Il processo ormai è irreversibile. Se arriviamo allo zero netto di emissioni entro il 2050, come ha chiesto la Commissione Ue, possiamo evitare la catastrofe. Ma anche riuscissimo a mantenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi, vedremo comunque effetti molto pesanti nei prossimi decenni.

Per esempio?

Le migrazioni. Avremo una fuga di massa dai Paesi caldi dove vivere sarà diventato impossibile. Al contrario ci saranno isole per ricchi, zone con temperature ancora accettabile dove si farà a gara per stabilirsi. In Italia, ad esempio, immagino una fuga dalle grandi città verso i borghi dell’Appennino. E poi nuove forme di sfruttamento: i privilegiati che lavorano in ufficio se la caveranno con i condizionatori. Ma chi accetterà di lavorare all’aria aperta? I disperati, chi non può permettersi altro. Saranno gli schiavi del prossimo futuro.

Come valuta i primi giorni della Conferenza Onu sul clima a Madrid?

Le prime giornate sono sempre uguali: appelli ogni volta più allarmati, che condivido al 100%. Ma di appelli ne ascoltiamo da trent’anni e restiamo sempre in questo stato d’inerzia estenuante.

Ci sono Stati più responsabili di altri?

Gli Usa di Trump, che ha scelto di uscire dagli accordi di Parigi comunicando un pericoloso messaggio di negazione. E poi Cina, India e gli Stati del sud-est asiatico, tra i più restii a limitare le emissioni.

Non è comprensibile, visto che i Paesi occidentali hanno inquinato per anni senza limitazioni?

Se siamo tutti su un aereo che precipita è inutile stare a litigare. I governi dei Paesi in via di sviluppo sanno bene che gli effetti del riscaldamento globale sarebbero devastanti anche per loro. Cercano di negoziare in modo da non uscirne “cornuti e mazziati”, e d’altra parte è a questo che servono le Cop.

Il Global Risk Index propone uno strumento finanziario specifico dell’Onu per i danni climatici, una specie di assicurazione.

Può certamente aiutare, ma solo fino a un certo punto. Con la frequenza che hanno assunto gli eventi estremi negli ultimi anni, alcuni Paesi rischiano di non risollevarsi più. Si creano effetti a lungo termine sull’economia e anche sulla psicologia delle persone. Prenda Venezia: un’acqua alta al mese è accettabile, due o tre lo sono meno, quando diventano quattro o cinque allora te ne vai. Nel resto del mondo è lo stesso.

Prendi i soldi e scappa. Gli Agnelli e la fine di Fiat

Il declino dell’industria italiana, imputato solo a una classe politica corrotta o incompetente, ha visto come protagonisti attivi, invece, proprio i capitani di industria. Non che la politica non ci abbia messo pesantemente del suo: il ruolo dei governi di centrodestra o dei tecnici nelle vicende Alitalia e Ilva, è noto, la responsabilità del centrosinistra nel favorire privatizzazioni per lo meno avventate, anche.

Ma esistono anche le responsabilità di coloro le cui gesta sono state cantate, troppo spesso in modo acritico in questi anni, e i cui lasciti rasentano la miseria. Nelle puntate scorse abbiamo messo in luce le gestioni fallimentari dei Riva all’Ilva di Taranto, di Colaninno alla Telecom, ma anche le idiozie sui “capitani coraggiosi” incaricati di salvare Alitalia o l’irresponsabilità di chi ha regalato miliardi di profitti ai vari Benetton e Gavio sulle Autostrade.

Protagonista del declino è però a pieno titolo anche la (ex) Fiat, sia nella figura, non più in vita, di Sergio Marchionne, ma soprattutto in quella della famiglia Agnelli. Forse l’esemplare più duraturo di rapace che il Paese abbia conosciuto.

Come la Fiat abbia abbandonato l’industria, e quindi anche l’Italia, lo abbiamo raccontato fino alla nausea. La fusione con la Chrysler come passaggio per divenire costola provinciale di qualche mega-gruppo internazionale; la vendita di Magneti Marelli a Calsonic Kansei, il gruppo giapponese controllato dal gigante del private equity Kkr, quindi sempre finanza; le voci di una possibile vendita di Comau, che ora verrà comunque riassegnata nella trattativa sulla fusione con Peugeot; la concentrazione, tramite Exor, la finanziaria di famiglia, su asset finanziari e, nonostante il mercato, addirittura editoriali. Prima The Economist, ora anche Repubblica e il gruppo Espresso. E poi il caso Fiat.

La recente denuncia da parte della General Motors contro la corruzione operata da Fca, con la regia dello stesso Marchionne, nei confronti del sindacato Uaw – che proprio in questi giorni sta lavorando a una revisione delle procedure finanziarie interne per reagire agli scandali – getta una nuova ombra su quello che fu definito il capolavoro dell’ex manager italo-canadese.

La fusione con Chrysler è stata raccontata come l’apice delle virtù manageriali e imprenditoriali. E si dimentica che in fondo Barack Obama, per salvare l’industria americana, regalò letteralmente la terza azienda automobilistica degli Usa alla Fiat che la rilevò senza sborsare un dollaro. Salvo poi restituire i prestiti (del governo Usa e canadese, ma anche dello stesso sindacato) quando fu recuperato l’utile. In realtà la Fiat salvò il proprio management e la famiglia proprietaria con il rilancio del marchio americano, in particolare la Jeep, costruendo le basi per il grande boccone rappresentato dalla fusione con Peugeot che frutterà agli Agnelli circa 5 miliardi di premio (ma lo vedremo fra poco).

Nei circa dieci anni di avventura americana il divorzio tra il “bene” della Fiat e quello dell’Italia è diventato reale. Sul lato dell’azienda si sono avuti dal 2004 al 2018, 16 miliardi di euro di utili, pur considerando le due perdite del 2004 (1,63 miliardi) e del 2009 (-838 milioni). In questi stessi anni, il fatturato è passato da circa 44 miliardi a 110, l’indebitamento da 14 miliardi a 1,8 e il valore d’impresa (capitalizzazione più indebitamento finanziario netto) da 19,5 a 24,8 miliardi.

Sul piano della forza lavoro e della industria italiana si è avuto invece il passaggio da circa 77 mila dipendenti a poco più di 50 mila (a cui sommare una parte di quelli della ex Iveco, oggi Cnh, ma che non compensano il gap). Il fatturato in Italia è passato dai 13 miliardi del 2004 agli 8,8 miliardi del 2018, solo che quello rappresentava circa il 29% del fatturato globale mentre oggi rappresenta appena l’8 per cento (il fatturato globale è infatti di 110 miliardi).

È la stessa Fim-Cisl, che non ha mai avuto un atteggiamento pregiudiziale contro la Fiat, a segnalare nel gennaio 2019 che gli ammortizzatori sociali del gruppo riguardano ormai il 12-15 per cento della forza lavoro. La rassegnazione a Torino, sede dei fasti del passato, si raccoglie agli angoli delle strade così come la paura del futuro. E quello che rende molto più chiaro questo quadro è la salute della cassaforte di famiglia, la Exor nata da una fusione delle due vecchie finanziarie Ifi e Ifil. Quelle che finirono sotto processo con la condanna in appello a un anno e quattro mesi (poi prescritta in Cassazione) per Gianluigi Gabetti, presidente onorario di Ifil e per l’avvocato Franzo Grande Stevens. Le condanne, per aggiotaggio informativo, riguardavano l’equity swap del 2005 che consentì agli Agnelli di mantenere il controllo della Fiat pur essendo scesi sotto il 30% della partecipazione azionaria.

Come ricordava Il Sole 24 Ore pochi giorni fa, oggi la Exor è rigonfia di utili e liquidità. “Facendo un confronto con il 2009 – scrive il giornale di Confindustria – il net asset value (il valore netto del patrimonio aziendale, ndr.) è passato da 3,1 miliardi a 20,9 a fronte di un debito che a giugno era pari a 2,5 miliardi”. Spiccioli. Ma ancora più eclatante è il ritorno per gli azionisti dei dividendi, il total shareholder: “1.251%”. Solo nel 2019 la società ha beneficiato di una cedola dividendi pari a 1,059 miliardi. Che ci ha fatto la Exor con tutti questi utili accumulati negli anni? “La gran parte di questa liquidità è stata reinvestita nella finanziaria”. Che sempre più spesso nel capitalismo contemporaneo non fa rima con industria.

I “Medici”, il pentolone prêt-à-porter ha i tubi guasti

Da dove sortiscono queste modelle con lo sguardo assorto e questi modelli con la barba finto incolta? La prima impressione è di essere finiti in uno spot di Dolce&Gabbana sull’ultima collezione oppure in costume (il confine è labile). Errore: questa è la terza stagione dei Medici, Raifiction esportazione con filtri e in versione kolossal. Un bel pentolone girato in controluce come vuole lo stile Lux Vide a base di guerra e pace (Lorenzo il Magnifico contro Papa Sisto IV), cappa e spada (Lorenzo il Magnifico contro il feroce Girolamo Riario), forza del destino (Lorenzo giura di vendicare la morte di Giuliano), morfologia della dynasty (Lorenzo riconosce il figlio naturale del fratello morto: “Anche tu sei un Medici!”). Insomma, Renzi il Magnifico sarebbe un principiante. Per il potere ci sono gli svantaggi di non vivere al giorno d’oggi (nessun Vespa né Porro da cui andare ospiti), ma anche i vantaggi di vivere in pieno Rinascimento. Se Lorenzo è in crisi di coscienza, come confessore gli arriva Gerolamo Savonarola. Serve un maestro di disegno per i bambini? Ecco pronto Botticelli. Se si guasta una tubatura a palazzo è facile che arrivi Leonardo. Al di là dell’ex vampiro Daniel Sharman e degli altri attori strappati alle collezioni primavera-estate, l’ossessione per la famiglia unita alla grande bellezza di Firenze fa dei Medici qualcosa di molto italiano e molto provinciale. Ma a ragion veduta. Come ha dimostrato Sorrentino, come cartolina l’Italia se la cava ancora.

Il piccolo Mose del Friuli che uccide il Tagliamento

Tullio Avoledo, scrittore che ama raccontare storie così distopiche da diventare più reali del reale, ama anche il paesaggio in cui è immerso e che diventa la scena dei suoi romanzi. È il Friuli. Lo ama a tal punto da essersi impegnato nella difesa del Tagliamento, il fiume simbolo del Friuli. Racconta: “Un amico mi ha chiesto: ‘Ma non hai niente di più bello da fare?’. La mia risposta è: ‘Un sacco di cose, ma nessuna importante e vitale come questa’. Quando qualcuno viene a trovarmi, e magari è la prima volta che arriva in Friuli, lo porto sul colle del castello di Pinzano e gli faccio vedere questo paesaggio mozzafiato. Chi non capisce la bellezza e l’importanza, chi non vede l’unicità e la fragilità di questo ambiente, non può decidere del suo destino”.

Il Tagliamento è un ecosistema unico nel continente. È l’ultimo grande fiume dell’Europa centrale che ancora scorre liberamente, l’ultimo corridoio fluviale delle Alpi morfologicamente intatto. Per studiare il corso dei suoi 170 chilometri arrivano ricercatori, professori e studenti da tutto il mondo.

È un ambiente bellissimo e fragile. “Da decenni”, denuncia Avoledo, “c’è un sotterraneo fiume infernale di proposte demenziali, autostrade e sbarramenti, cemento e asfalto, che vorrebbe violare una natura incontaminata, di cui non siamo padroni ma custodi, in cambio di inesistenti benefici (chiedete agli abitanti della Carnia che bene ha portato loro l’autostrada che va in Austria)”.

Da anni la lobby delle grandi opere cerca d’imporre una superstrada o un’autostrada che porti il traffico e le merci dalla Lombardia e dal Veneto verso l’Est Europa. C’è già la A4, la Venezia-Udine-Tarvisio, che arriva in Austria, ma si continua a ipotizzare una nuova direttrice che da Pordenone punti subito a nord, verso Gemona, senza dover passare, come oggi, da Palmanova. Ora il progetto, abbandonato perché cannibalizzava l’autostrada già esistente a cui si sta aggiungendo la terza corsia, torna alla ribalta: la Regione ha commissionato uno studio di fattibilità.

Ma c’è di peggio: è nato il progetto per realizzare un piccolo Mose friulano, che avrebbe l’obiettivo (incerto) di proteggere la città di Latisana dalle eventuali inondazioni del fiume, ottenendo l’esito (certo) di distruggere l’ambiente dell’ultimo bacino fluviale ancora incontaminato in Europa.

Eccole qua, le grandi opere che a fronte di una distruzione certa del patrimonio naturale promettono incerti, anzi incertissimi, benefici economici o di protezione ambientale. Il piccolo Mose del Friuli è una struttura di cemento armato di 150 metri alta 11, con paratie mobili in caso di piena, che creano un invaso di 18 milioni di metri cubi. Soluzione tecnicamente discutibile, che potrebbe essere sostituita da altre opere che costano molto meno e fanno molto meno male all’ambiente.

“Qualcuno trama, nel silenzio dei media, per attentare alla libertà e alla bellezza del nostro fiume”, conclude Avoledo. “Dobbiamo fermarlo. Ce lo chiedono i nostri antenati e ce lo chiedono, con voce sempre più alta, i nostri figli. Per riparare ai danni dell’avidità umana ci vogliono secoli. Per fermare gli errori sul nascere basta l’impegno di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che questa terra, e la Terra in genere, riesce ancora a generare”.