Fiat e giornali: libertà sì, ma condizionata

Era l’ottobre del 1926 quando la Fiat del senatore Giovanni Agnelli, dopo il via libera da parte di Mussolini, prese il controllo del quotidiano La Stampa di Torino di proprietà di Alfredo Frassati, che ne era stato il direttore fino al novembre del 1925, quando dovette dimettersi. Il giornale aveva continuato con Frassati a sostenere una posizione liberaldemocratica e di opposizione al fascismo, soprattutto dopo il delitto Matteotti; pertanto le pubblicazioni erano state più volte sospese per ordine del Duce. Mussolini, ha scritto Sergio Romano, “per mettere a tacere la stampa di opposizione, si servì generalmente di mezzi soffici e indiretti. L’operazione gli fu resa più facile dalla volonterosa collaborazione di alcune grandi famiglie che credevano nell’utilità del fascismo e a cui premeva avere buoni rapporti con il regime”.

Comincia in questo modo, quasi cento anni fa, la storia dei rapporti tra la famiglia Agnelli (e la Fiat) e il mondo della stampa, ora culminata nell’acquisizione del gruppo L’Espresso-Repubblica. Un rapporto strumentale di potere, che non si può certo definire all’insegna dell’amore per la libertà dell’informazione e della cultura. Ricordava Giorgio Bocca, in un’intervista per il libro I ragazzi di via Po di Aldo Cazzullo, che “non solo la Fiat non faceva politica culturale, ma neppure mecenatismo. (…) Nella sua Torino era meglio non parlare di politica”. L’idea di come dovesse essere l’informazione secondo la Fiat, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, era quella rammentata dall’ex sindaco di Torino Diego Novelli, a quei tempi cronista a L’Unità: “Nessun giornale, tranne il nostro, dava notizia di un operaio morto per incidente sul lavoro nel perimetro Fiat. Ricordo il caso di un operaio della Spa autocarri, caduto in una vasca bollente di acido (…). Anche di lui scrissero che era morto in ambulanza”. Persino Giulio Einaudi, il Principe “rosso” dei libri, dovette arrendersi. Accadde all’inizio degli anni Sessanta. Si trattava di pubblicare l’inchiesta L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi. Il saggio fu prima accettato, poi respinto (uscirà da Feltrinelli). “Einaudi – rievocherà Cesare Cases – mi disse: ‘Questo libro parla male della Stampa e di Torino, e noi vendiamo molti libri a Torino e grazie alle recensioni della Stampa’”. Nel dna degli Agnelli, e dei loro manager, non c’è mai stata una passione per la libera informazione, sebbene qualcuno oggi voglia rivendicarla in parte. Chiunque abbia fatto il giornalista non può dimenticare le pressioni e le censure esercitate per decenni sui giornali dall’ufficio stampa della Fiat per qualsiasi notizia ritenuta scomoda, dai tempi della mitica signorina Maria Rubiolo ai giorni nostri. Di solito, racconta Giampaolo Pansa in Il rompiscatole, la Rubiolo “chiamava per spiegare che il tale incidente stradale non era dovuto a una inefficienza delle automobili della Fiat, bensì a una manovra errata del guidatore”. Giulio De Benedetti, direttore a La Stampa dalla fine degli anni Quaranta al 1968, garantì sicuramente un alto profilo al quotidiano torinese, ma sempre nel solco della libertà condizionata. Una volta titolò in maniera un po’ spregiudicata, per così dire, la lettera di un lettore sulla Juventus. E al caposervizio dello sport, che sembrava perplesso di tanta audacia, disse: “Contro la Fiat non posso scrivere nulla, lasciatemi divertire con la Juve”.

Oggi la Fiat non è più, come si diceva una volta, “l’Arma dei carabinieri senza la divisa”. E la Fiat non è più nemmeno Fiat, ma Fca, come del resto John Elkann non è l’Avvocato o Vittorio Valletta, oppure Cesare Romiti. Eppure John Elkann (con la sua Exor) è pur sempre il nipote di Gianni Agnelli, ossia di chi fece sapere a Romiti di avere rilevato il Corriere della Sera da un finestrino di una Ferrari, staccando solo per un attimo il piede dell’acceleratore per ripartire subito, diretto a un ristorante. Giornali come auto, o auto-giornali.

La Nato compie 70 anni. E se li porta male

Si celebrano in questi giorni in Gran Bretagna i 70 anni della NATO (North Atlantic Treaty Organization). Portati malissimo. In un’intervista rilasciata all’Economist ai primi di novembre il presidente francese Macron ha definito la Nato in uno stato di “morte cerebrale” e se la Germania della Merkel ha preso le distanze da questa dichiarazione è stato solo per il momento scelto, giudicato prematuro, non per il suo contenuto. Lo stesso Trump, in uno dei suoi momenti di quella brutale franchezza che gli è propria, tempo fa aveva definito la Nato “obsoleta”.

Il fatto è che la Nato nel corso degli anni ha cambiato completamente la sua natura. Da trattato difensivo fra i Paesi occidentali al di là dell’Atlantico e le democrazie occidentali al di qua si statuiva un mutuo soccorso armato nel caso che uno dei Paesi dell’Alleanza fosse stato aggredito da un altro che della Nato non faceva parte. Fondamentale è l’articolo 5 del Trattato che recita: “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse… assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”.

Finché è esistita l’Unione Sovietica questo Patto aveva un senso per inibire all’“orso russo” la tentazione di intraprendere pericolose avventure in Europa Ovest (già escluse peraltro dal Patto di Jalta fra Roosevelt, Churchill e Stalin). Poi l’ha perso. Che Paese Nato minacciava la Serbia, cristiana e socialista, di Milosevic aggredita brutalmente nel 1999? Che Paese Nato minacciava l’Iraq di Saddam aggredito e invaso nel 2003? Che Paese Nato minacciava la Libia di Muammar Gheddafi aggredita e invasa nel 2011? Tutte queste avventure di iniziativa americana (perché la parità fra i membri del Patto Atlantico non esiste, è solo formale) hanno avuto conseguenze pesantissime per l’Europa. Basterebbe pensare alla Libia, ma anche il continuo martellamento sui Paesi musulmani del Medio Oriente ha partorito l’Isis che sull’Europa ha rovesciato i suoi terroristi essendo l’America troppo lontana per essere, almeno per il momento, raggiunta.

Nonostante tutto questo si continua a ribadire, in ogni sede, l’“indispensabilità della Nato” per l’Europa. Franco Venturini, autorevole commentatore del Corriere, in un’intervista a Sky, ha affermato che gli italiani (ma la cosa potrebbe essere attribuita anche ai tedeschi) sono contenti, anzi “felici”, perché così si sentono meglio difesi, di avere 60 basi militari, alcune nucleari, sul proprio territorio, basi che sono Nato o americane tout court. Ne dubito molto. Non c’è bisogno di essere Salvini per non essere affatto “felici” che gli americani facciano il bello e il cattivo tempo nel nostro Paese, godendo oltretutto dell’extraterritorialità per cui i crimini dei loro militari non possono essere giudicati in Italia (Cermis, stupri dei soldati americani, per limitarci a qualche esempio). Ma Italia a parte dovrebbe essere evidente a chiunque che gli interessi, militari ed economici, di Europa e Stati Uniti non coincidono più, sono anzi divergenti. Gli americani, sentendosi ancora padroni del mondo mentre non lo sono più, vogliono impedire, con vari pretesti, all’Europa di avere relazioni commerciali con l’Iran o la Cina. Ci minaccia forse la Cina? No, la Cina fa una politica economica nel suo interesse che coincide però con gli interessi di noi europei perché, nella globalizzazione, sarebbe folle ignorare un mercato di un miliardo e 400 milioni di individui. L’America continua a imporci dazi che vanno tutti a nostro svantaggio. “America first”, capiamo il punto di vista di Trump, ma dovrebbe essere lecito anche poter dire “Europa first”. Per questo sarebbe necessario che gli europei, se ne avessero le palle, denunciassero un Trattato, quello Atlantico, che non ha più alcuna ragion d’essere (ci dobbiamo beccare anche la dittatura di Erdogan in Turchia, membro, non si sa per quali ragioni, anzi le si sa benissimo, della Nato). Ecco perché sarebbe di vitale importanza che l’Europa si dotasse di una difesa autonoma, nucleare, togliendo innanzitutto alla Germania democratica l’anacronistico divieto di possedere quella Atomica di cui, oltre a Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna (che però è fuori dalla Ue), si sono ormai dotati tutti, India, Pakistan, Sudafrica, Israele e persino l’Arabia Saudita e in prospettiva anche l’Iran se continueremo a martellarlo con le pesanti e ingiustificate sanzioni economiche imposte dall’America. Perché nessun Paese, in questo caso quell’agglomerato di Paesi che chiamiamo Unione Europea, potrà mai essere indipendente e sicuro senza una forza militare adeguata.

Mail box

 

Seggiolini anti-abbandono, legge varata troppo in fretta

Una questione che interessa tutti i genitori con figli piccoli e i relativi nonni: mi riferisco agli apparecchi che si attaccano ai seggiolini onde evitare che i genitori (suonati) si dimentichino in macchina la loro creatura. La ministra Paola De Micheli, appena entrata in carica, ha pensato bene di renderli obbligatori: probabilmente non vedeva l’ora di firmare una legge che portasse il suo nome, ma non è stata consigliata per il meglio.

La ministra avrebbe voluto che già il giorno dopo l’entrata in vigore tutti gli automobilisti sprovvisti di questo apparecchio fossero multati, senza considerare che le ditte avrebbero avuto bisogno di tempo per produrne grandi quantità. Allora sempre la medesima testa fine deve averla consigliata di posticipare l’entrata in vigore di questa legge, così siamo slittati a marzo 2020. Ma non è finita: dato che questi apparecchi funzionano con il Bluetooth, che succede se non ho il telefono con me? O se è scarico? Il risultato finale sarà che dopo aver fatto spendere una barca di soldi ai cittadini, faranno una legge dicendo che questi dispositivi non sono sicuri, e quindi sono inutilizzabili. Li spediremo tutti a casa della ministra De Micheli?

Leandro Corradino

 

Il “Fatto” è il mio antidoto alle menzogne della tv

Ho 76 anni e da qualche tempo non riesco più a seguire tv e giornali, inondato e travolto a mia insaputa da valanghe di falsità, bugie smielate e populismi da quattro soldi. Dopo che ho scoperto il nostro Fatto Quotidiano, mi sembra di vivere da alieno in un mondo strano e inaccettabile. Cerco di leggere il Fatto tutti i giorni, ma da qualche mese è diventato un lusso per me. Così lo leggo sporadicamente, oltre alla rassegna quotidiana in tv.

Seguo le battaglie serali del bravo e chiaro Travaglio che deve continuare a dire la verità, confutando le menzogne vassallesche di una pletora di giornalisti inutili e dannosi. Cercate di far capire alla gente che il criminale non è chi vuole cambiare questa società, ma chi l’ha costruita come oggi la troviamo.

Grazie e buon lavoro,

Enrico Farese

 

Giustizia, i nostri politici odiano le persone oneste

Provo a mettere in fila alcuni dati dal pianeta giustizia: 150mila reati prescritti ogni anno; un esercito di addetti alle notifiche che potrebbero farsi tramite pec; il 13% dei procedimenti definiti in Cassazione che ha ad oggetto ricorsi contro sentenze di patteggiamento; processi che si azzerano se anche un solo magistrato del collegio si ammala o viene trasferito; la vittima costretta a presentarsi in udienza per ripetere le stesse cose contenute nella denuncia, in ossequio al principio per cui la prova si forma in dibattimento; l’improvviso abbassamento del tetto di pensione dei magistrati da 75 a 70.

Se per miracolo si arriva a sentenza, allora è un tripudio di indulti mascherati per svuotare le carceri, provvedimenti di clemenza (con l’alibi della buona coscienza cristiana), liberazione anticipata in virtù dello sconto di un quarto della pena per buona condotta. Se invece si tratta di pene pecuniarie, lo Stato riesce a incassare solo il 3% delle somme.

Di fronte a questo quadro desolante gli avvocati scioperano contro lo stop alla prescrizione, mentre i risultati della Commissione di studio sulle riforme penali presieduta da Nicola Gratteri restano in un cassetto. Una domanda: non vi viene il sospetto che il legislatore detesti gli onesti?

Carmelo Sant’Angelo

 

Pd e 5 Stelle non meritano la pazienza di Giuseppe Conte

Una volta tanto i sondaggi descrivono un Paese che ha fiducia nel premier (alla faccia delle Iene che tentano di screditarlo), il quale ha dimostrato quantomeno la veridicità del detto “beati monoculi in terra caecorum” e ha preparazione giuridico-amministrativa e cultura certamente superiori alla maggior parte dei nostri rappresentanti in Parlamento: in una parola, è l’unico statista che abbiamo. Tutto ciò premesso, non si capisce come resista Conte con i due compari e alleati Di Maio e Zingaretti, i quali dimostrano ogni giorno di più che non sono mai d’accordo tra loro, ma solo una volta per uno con il premier.

E allora – e qui concordo con quanto ha scritto Padellaro su questo giornale – vorrei chiedere a Conte cosa aspetta, rebus sic stantibus, a recarsi al Quirinale per parlare con Mattarella e rimettere il mandato, staccando, come si suol dire, la spina, ovvero tecnicamente dimettersi. Spetterà, poi, alla prudenza del presidente Mattarella indire subito le elezioni anticipate, rischiando però la prevedibile vittoria della Lega e di Salvini, o meglio ancora proporre un governo sino alla scadenza elettorale prevista dalla legge e incaricare eventualmente un tecnico indipendente come Mario Draghi per varare un esecutivo di salute pubblica.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Diamo voce al dramma degli operai metalmeccanici

Il mio pensiero va alla crisi degli operai metalmeccanici: cassa integrazione e industrie chiuse o in difficoltà, come nella mia Piombino. Mi auguro che si possa amplificare la voce di questa realtà e delle persone che grazie a essa vivono e lavorano.

Massimo Aurioso

“Trump zimbello”. Johnson, Trudeau e Macron si sono adeguati all’interlocutore

Ho vistoil video della tv canadese, che mostra i leader delle potenze occidentali zimbellare amabilmente Donald Trump conversando tra loro al vertice Nato di Londra. Nessuno mette in dubbio che Trump sia un personaggio discutibile, poco equilibrato e a tratti caricaturale. Ma è accettabile per degli uomini di Stato, in un contesto istituzionale, lasciarsi andare a questi siparietti? Senza contare che il presidente Usa decide gli equilibri geopolitici mondiali e forse lo farà per altri quattro anni. Non credo sia saggio trattarlo come una macchietta, quantomeno se ti chiami Emmanuel Macron o Boris Johnson.
Marco Livadiotti

Gentile Lettore, mi permetta di prendere con lei un drink a un’apericena fra colleghi di lavoro – non a Buckingham Palace, ma al bar sotto l’ufficio – e di scambiare battute sulla politica internazionale. Che cosa ne resta di serio, le chiederei, da quando Donald Trump ne è protagonista? È tutta un mix di tweet, boutades, fanfaronate, contraddizioni, palesi menzogne. E, probabilmente, rideremmo insieme ricordando che, per ridurre l’impatto del mancato aiuto ai curdi sotto attacco della Turchia, il magnate showman lamentò che i curdi non presero parte allo sbarco in Normandia. Macron, Trudeau, Johnson – tu quoque?, clone mi! – e il premier olandese Mark Rutte, che fanno capannello e ridono, martedì sera a Buckingham Palace, prendendosi (almeno apparentemente: l’audio non è per nulla chiaro) gioco di Trump si sono in fondo adeguati al loro interlocutore. Che ha sdoganato dabbenaggine e grossolanità nella politica internazionale. In realtà, non è proprio così, perché episodi del genere non sono inediti: ricordo un gustoso quanto improvvido duetto davanti alla caraffa del succo d’arancia tra George W. Bush e Tony Blair, a un lunch di lavoro del Vertice del G7 di Leningrado, con bersaglio il padrone di casa Vladimir Putin. Nessuno, però, ci badava troppo, perché la sostanza stava altrove e le gaffes, frutto di rilassatezza o distrazione, erano una nota a margine; adesso, invece, che la sostanza non c’è, o che si preferisce glissarci sopra, l’episodietto diventa la storia. Meglio, comunque, che il sorrisetto ci scappi ai drink: lo si può liquidare con una battuta; al più, se sei Trump e ti prendi molto sul serio, con un tweet. Se invece ti scappa in conferenza stampa, come successe a Sarkozy e alla Merkel nei confronti di Berlusconi, il sorrisetto annuncia guai grossi. Ma, in conferenza stampa, ieri e martedì, a Londra, i nostri eroi erano tutti serissimi.
Giampiero Gramaglia

Wikipedia candida Del Debbio

Le Caricheistituzionali, si sa, non si cercano e non si chiedono. Si accettano e basta. Soprattutto dopo lunghi mesi di negoziati e trattative che aprono spaccature insanabili. Poi, un pomeriggio di dicembre, arriva Wikipedia e in un attimo brucia il lavoro di cronisti e di emissari politici: Paolo Del Debbio, si apprende dalla celebre enciclopedia online, “dopo mesi di rifiuti sarà il candidato governatore della coalizione di centrodestra alle prossime Elezioni Regionali in Toscana che si terranno nella primavera 2020”.

Il tutto, ovviamente, all’insaputa del noto volto di Retequattro che nelle ultime settimane ha più volte respinto i corteggiamenti della destra sovranista di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. “Del Debbio? Un grande” aveva detto a inizio novembre il leader del Carroccio in visita a Firenze. Il giornalista Mediaset, già candidato di Forza Italia alle regionali del 1995 (36%), dal suo canto ricambia la stima (“In tv Salvini funziona”) ma continua a respingere le avances. Il suo vuole continuare a rimanere un ruspante populismo catodico, senza poltrone di Palazzo. E in fondo è da sempre che si invoca Del Debbio in politica.

Fino a ieri, quando è arrivata Wikipedia.

Salvini scopre i diritti umani

Che meraviglia: Matteo Salvini scopre i diritti umani. Il “Capitano” ha regalato un’altra perla durante un convegno sull’Europa. Ha dichiarato, con aria polemica, che l’Unione “prevede di regalare altri 5 miliardi a un regime come la Turchia che non rispetta le libertà individuali e politiche”. Si parla ovviamente di migranti e dell’accordo con il governo di Erdogan per occuparsi dei rifugiati siriani in fuga dalla guerra. Salvini, bontà sua, si scopre improvvisamente sensibile alle violazioni dei diritti nello Stato del “Sultano”. Ma il leghista che discetta di “libertà individuali” è lo stesso autore dei decreti sicurezza che secondo l’Onu violano i diritti umani? Ed è lo stesso che nel suo periodo di onnipotenza, da ministro dell’Interno, andava a visitare il Qatar – nota democrazia pluralista, dove si esercita il culto dei diritti civili – per farsi fotografare sorridente con un mitra in mano e snocciolare soddisfatto le enormi potenzialità della partnership commerciale tra Italia e gli emiri? E ancora: è lo stesso che invece prima di andare al governo definiva il Qatar uno stato canaglia, fiancheggiatore dei terroristi? A Salvini ovviamente non interessano le libertà individuali: a Salvini interessa solo Salvini. Per questo è capace di cambiare idea su tutto, purché gli convenga.

A4, Bianchi aiutava Gavio: un sms all’uomo di Delrio

C’è un sms del 6 luglio 2015 di Alberto Bianchi che dimostra come si muoveva ai tempi del Governo Renzi l’avvocato presidente della Fondazione Open. Bianchi invia l’sms a Mauro Bonaretti, allora capo di gabinetto del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, la sera prima di un incontro decisivo per il gruppo Gavio a Bruxelles: il governo doveva discutere l’eventuale proroga al gruppo Gavio per la concessione dell’Autostrada A4 Milano-Torino. La scadenza prevista era il 2026, Gavio puntava al 2030 ma Delrio non mollava.

La posta era alta: dal 2008 al 2018 le tariffe sono aumentate del 92,8 per cento portando il pedaggio a poco meno di 19 euro per 130 chilometri. L’utile netto del 2017 per Gavio è stato di 37 milioni di euro e il margine lordo (Ebitda) del 2018 è arrivato a 212 milioni.

Gli sms e le conversazioni intercettate sono contenute in un’informativa del Ros di Firenze depositata il 20 luglio 2015 nell’indagine sulle grandi opere, finita a Roma al pm Roberto Felici e svelata il 17 aprile del 2019 dal Fatto. Quell’informativa non ha portato nessuna conseguenza penale. Oggi però, dopo l’indagine su Bianchi per un presunto traffico di influenze illecite con un altro concessionario autostradale, il gruppo Toto, e dopo l’indagine sui finanziamenti alla Fondazione Open, potrebbe tornare di attualità. Il gruppo Gavio, come il gruppo Toto, è stato perquisito nelle scorse settimane (in qualità di terzo non indagato) perché è stato donatore della Fondazione Open, come il gruppo Toto, ma questa è un’altra storia.

Tornando al 2015, il Ros scopre due incontri nello studio fiorentino di Bianchi con Paolo Pierantoni, presidente della Sias, la holding dei Gavio quotata in borsa. Il 18 giugno 2015 è presente anche l’avvocato e professore Maurizio Maresca, allora consigliere della Presidenza del Consiglio a titolo gratuito che però per i Carabinieri “cura nel contempo (remunerato) gli interessi del gruppo Gavio nel settore delle concessioni autostradali”. È il fondatore dello studio legale dove ora lavora il figlio Davide che ha come cliente l’Aiscat, l’associazione dei concessionari autostradali presieduta dall’amico dei Gavio Fabrizio Palenzona. Il secondo incontro a studio Bianchi è il 6 luglio 2015. Stavolta con Pierantoni e Bianchi non c’è Maresca, che ha un impegno, ma c’è il patron del gruppo, Beniamino Gavio.

Un’ora prima dell’incontro, alle 13 e 34, c’è una telefonata di Maresca con Bianchi in cui, scrivono i Carabinieri, “Maresca tocca anche il tema dei comuni ‘compensi’ che Bianchi dovrebbe affrontare con Gavio ‘chiaro, tieni conto che io ma non parlando al capo ma parlando a Pierantoni per il tema compensi eccetera un accenno glielo avevo fatto che riguardava entrambi quindi, a mio avviso se ti attacchi là va bene (…) Bianchi a quel punto chiede: ‘Eh sì cioé i 500?’”. Maresca conferma: “500 oltre a…”. Alle 14 e 30 Paolantoni e Beniamino Gavio incontrano Bianchi. Alle 15 e 23, Pierantoni spiega a Maresca che non è soddisfatto di quanto gli avrebbe detto Bianchi: “Siamo usciti adesso sono qui con Beniamino (Gavio, ndr) e niente abbiamo manifestato tutta la perplessità del caso”. Alle 21 però c’è il colpo di scena: Bianchi sponsorizza via sms al braccio destro del ministro Delrio, alla vigilia della missione europea, la proroga cara a Gavio. Niente più compromesso al 2028, va bene il 2030. Scrivono i Carabinieri: “Alle ore 21 e 07, l’avvocato Alberto Bianchi gira a Maurizio Maresca l’sms inviato a Mauro Bonaretti dopo l’incontro con Gavio e Pierantoni avvenuto nel pomeriggio”.

Bianchi scrive: “Ti mando sms mandato ora a Bonaretti.

Visto Gavio. Fa molta fatica a accettare 2028, vorrebbe parlarne con te, è contento del vs appuntam. di mercoledì, ti spiegherà un po’ di conti. Mia veramente personalissima impressione, a 2030 chiudereste, e nn mi parrebbe scandaloso, vedete un po’ domani. Una soluz. senza contenziosi, comunitariamente scudata, mi sembrerebbe un bel risultato. Informo anche Maresca. Buona serata, A”.

Ricapitoliamo: per i Carabinieri Bianchi, alle 13 e 34 discute dei compensi di “500” da chiedere a Gavio con Maresca. Alle 14 e 30, incontra Gavio. Alle 21 inoltra a Maresca un sms appena spedito al braccio destro di Delrio sulla proroga al 2030 che Gavio vuole tanto. Non è finita. Dopo qualche minuto Bianchi gira a Maresca la risposta ricevuta da Bonaretti a mezzo sms: “E qs è la risposta di Bonaretti.

Proviamo ma mi pare davvero in salita. Domani vedo la Commissione e cerco di capire i margini. Buona serata anche a te.

Secondo me se lavorate bene domani lo spazio x chiudere al 2030 lo trovate”.

Il giorno dopo Maresca racconta a Pierantoni che Bonaretti è irritato: “ieri sera mi ha mandato un sms Alberto (Bianchi, ndr) … che mi ha messo nell’sms quello che ha messo a Bonaretti … poi mi chiama Bonaretti.. ieri sera sempre ‘ma cosa vuole questo? Chi si crede di essere … già è stato faticoso convincere il ministro su una cosa così .. se questi vogliono la guerra allora avranno la guerra’”.

Alla fine Delrio trova un accordo e il 27 aprile del 2018 l’Unione Europea approva una “road map” che concede sì la proroga al 2030 (come suggeriva Bianchi) ma lo fa a caro prezzo: Gavio dovrà fare i lavori per costruire un’altra autostrada, la Asti-Cuneo e dovrà accettare una riduzione dei suoi guadagni. L’avvocato Davide Maresca dice: “Non abbiamo mai preso questi 500 mila euro”. Anche perché la proroga desiderata da Gavio, senza tante condizioni, non è stata concessa da Delrio. Poi il nuovo ministro, Danilo Toninelli, ha riportato la scadenza al 2026. Gavio, in cambio dei lavori per costruire l’autostrada Asti-Cuneo, nello schema Toninelli otterrà un’altra compensazione: il nuovo concessionario gli dovrà versare per la Torino-Milano un valore di subentro più alto. Ora la palla è in mano alla ministra Paola De Micheli.

Bonaretti al Fatto spiega: “Ricordo una lite con Beniamino Gavio. Non ricordo invece questi sms con Bianchi. Per me è normale che Gavio mi chiedesse 100 e io lo bloccassi a 50. Quello che è fastidioso è scoprire che dietro c’erano interessi privati di altra natura. Anche se devo dire che non ho mai percepito da Bianchi nessun condizionamento”. Fonti vicine all’avvocato fiorentino precisano: “Bianchi non ha mai avuto i 500 e non ricorda nemmeno di averne parlato all’epoca. Di sicuro non ha avuto un incarico da Gavio per la proroga della concessione né ha avuto dal 2015 in poi compensi da Gavio”. Il professore Maurizio Maresca spiega: “Io seguivo questa vicenda dall’origine per Aiscat. Bianchi è stato associato per seguire la stessa vicenda come mio collega. Il cliente era Aiscat, non Gavio. I compensi di un avvocato non devono essere divulgati. L’importo di 500 mi è nuovo”. Ma un compenso di 500 mila euro è una tariffa alta per professori e avvocati come voi? “Assolutamente no. Non li ho presi ma questo non la riguarda”.

Donne e telefoni, le spese pazze di Mifsud

Viaggi in Siria, Libia e Russia a spese dell’università di Agrigento. La ricerca mondiale di Joseph Mifsud, la pedina fondamentale del Russiagate, di cui non si hanno notizie dal 2017, si aggiunge di un nuovo tassello, con una denuncia che parte dal presidente del nuovo consorzio universitario Giovanni Di Maida, che ha cercato i documenti che mostrano le spese effettuate dal ricercato maltese mentre era presidente del consorzio universitario di Agrigento (dal 2009 al 2012) e ha denunciato il fatto al procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio.

In seguito all’indagine effettuata dalla Guardia di finanza, la Procura ora indaga il “sedicente” professore ed ex presidente del Consorzio (poi fallito causa debiti) per truffa e abuso d’ufficio. Come svelato dal Fatto Quotidiano il 19 ottobre, la Corte dei Conti lo ha già condannato (in contumacia per un danno erariale di 49 mila a scapito del consorzio. Se nella prima inchiesta sotto la lente di ingrandimento era finito un incarico affidato da Mifsud in maniera illegittima, questo nuovo capitolo fa luce sui viaggi in Usa, Russia, Inghilterra, Libia, Libano e Bulgaria negli anni di presidenza con “strane” assistenti, a spese dell’università, nonostante non ci fossero rapporti tra questi stati e il consorzio. Tra le spese pazze anche le bollette telefoniche e le ricevute per l’acquisto di 5 telefoni Blackberry: più di 100 mila euro.

“Mi sono recato in Procura per presentare le anomalie amministrative che ho riscontrato andando a riprendere i documenti – spiega al Fatto il presidente del Consorzio rifondato – Da questi documenti, dai viaggi e dalle telefonate, potrebbero emergere elementi utili anche alle altre inchieste su Mifsud”. Tra le spese anche giocattoli, in negozi di intimo e cene con conti stratosferici. La Procura, che oggi indaga soltanto per le spese pazze, non si è messa ancora alla ricerca del professore, che resta introvabile: tutte le notifiche dell’ultimo processo per danno erariale, recapitate agli svariati indirizzi internazionali, sono andate a vuoto.

Permessi premio ai mafiosi, ma solo se “non più mafiosi”

Non ci può essere un pregiudizio “assoluto” nei confronti di un detenuto, anche se condannato per mafia o per altro reato ostativo ai permessi premio, in mancanza di collaborazione con la giustizia.

È il principio che ha spinto la Corte, sia pure spaccata quasi in due, a decidere a ottobre di dichiarare incostituzionale il divieto previsto dall’articolo 4 bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario. Ieri, sono state depositate le motivazioni a firma del relatore Nicolò Zanon.

“Sono sicuro che le forze politiche – ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede – saranno compatte nell’affrontare le questioni urgenti conseguenti alla sentenza”. E proprio per studiare la sentenza e capire che interventi legislativi siano necessari, ieri a tarda sera, nonostante la fibrillazione per la riforma della prescrizione, c’è stata una prima riunione del Guardasigilli con il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra e i parlamentari del M5s che fanno parte sia dell’Antimafia che della commissione Giustizia.

Secondo quanto si legge nelle motivazione della Corte, “è ragionevole” che un detenuto sia premiato nel caso collabori con la giustizia ma “non può essere ‘punito’ se non collabora”, non gli si possono negare a priori i benefici, concessi a tutti gli altri detenuti. Cioè, secondo la Corte, non può esserci una presunzione di pericolosità “assoluta” in caso di mancata collaborazione con la giustizia.

La presunzione di pericolosità, pertanto, deve diventare “relativa” e va valutata caso per caso dal magistrato di Sorveglianza. Concetti espressi sulla base dei principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione).

Se il magistrato competente ha degli elementi tali da poter escludere che il detenuto mafioso abbia ancora legami con l’associazione criminale o li possa ripristinare durante un permesso premio, allora può concedere il beneficio richiesto anche in mancanza di collaborazione con la giustizia. Quindi, non si deve dimostrare la pericolosità, che per i mafiosi si dà per scontata, ma da oggi relativamente, si deve dimostrare l’assenza di collegamenti criminali.

Nelle motivazioni della Corte vengono indicate delle condizioni per questo cambio di rotta che ha il plauso degli avvocati e preoccupa tanti magistrati da anni in prima fila nella lotta alle mafie, consapevoli della pericolosa specificità del fenomeno mafioso italiano.

Per il permesso premio non basta “la buona condotta” del detenuto o “la semplice dichiarazione di dissociazione” o ”la mera partecipazione al percorso rieducativo”. Ci devono essere elementi “capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale”.

Che ciò accada è possibile, secondo la Corte, perché la lunga detenzione può portare a un cambiamento non solo del detenuto ma anche del contesto esterno.

Ma per valutare questi eventuali cambiamenti in positivo, la Corte si spinge a dire quali saranno le carte sul tavolo del magistrato di Sorveglianza per poter prendere la sua decisione: “Le relazioni dell’Autorità penitenziaria” e “le dettagliate informazioni acquisite dal competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Anche sul detenuto “che richiede il beneficio, grava l’onere di fare specifica allegazione”, cioè di portare degli elementi a favore delle tesi del mancato collegamento con la criminalità. Inoltre, la Consulta ricorda che tutti i benefici penitenziari “non possono essere concessi (ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza) quando il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale comunica l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”.

Luca&Valeria: Mister Voti e la “beneficiaria”

Inseparabili in politica e nella vita. Prima, sotto la bandiera del Partito democratico e, adesso, anime rampanti di Matteo Renzi – e di Italia Viva – in Sicilia. Sono il 34enne deputato regionale Luca Sammartino e la senatrice e compagna Valeria Sudano. Il primo, dal 2018 si porta dietro l’ingombrante fardello di campione delle preferenze, grazie agli oltre 32mila voti che lo hanno incoronato all’Assemblea regionale. La seconda è passata dai palazzi di Palermo, e dal sostegno all’ex governatore Rosario Crocetta, a Roma, dopo avere centrato l’elezione a palazzo Madama.

Due competizioni elettorali finite entrambe sotto la lente d’ingrandimento della procura di Catania, ma con il solo Sammartino indagato, insieme ad altre 12 persone, per corruzione elettorale. Del suo ampio consenso però, stando alle carte dell’indagine, avrebbe beneficiato anche la compagna.

Ormai da qualche anno tra i due c’è un percorso politico che si sviluppa all’insegna del trasformismo: praticamente una simbiosi perfetta.

Valeria Sudano porta avanti una lunga tradizione di famiglia: cominciata dal padre Vincenzo, ex consigliere comunale a Catania e assessore alla Provincia, e proseguita dallo zio Mimmo, potente ex senatore della Dc. I primi passi in politica lady Sudano li muove da giovanissima 15enne proprio nella Democrazia cristiana, negli anni ‘90. Nel 2008 viene eletta a consigliera comunale nel capoluogo etneo, con Cantiere Popolare dell’ex ministro Saverio Romano. Partito di cui diventa capogruppo in municipio e con cui, nel 2012, viene eletta all’Assemblea regionale siciliana. Stesso anno e stessa elezione per Sammartino, allora 27enne, che sbarca a Palermo con l’Udc, dopo una carriera universitaria di marca centrodestra.

Il 2012 è anche l’anno del matrimonio tra l’attuale senatrice e Alfio Drago, figlio del più noto Nino, storico padrone della Dc a Catania e protagonista della tangentopoli etnea del 1993.

Il percorso politico del duo Sammartino-Sudano si incrocia nel 2013 con l’adesione di entrambi ad Articolo 4, il movimento centrista fondato da Lino Leanza, defunto ex braccio destro dell’ex governatore Raffale Lombardo. L’esperienza è transitoria, si esaurisce nel 2015. Anno del matrimonio ufficiale con il Pd, con tanto di evento sancito in una convention alla presenza di Davide Faraone e Lorenzo Guerini. Insieme a loro il Pd imbarca, tra le polemiche, trasformisti e impresentabili. Due di loro, gli ex deputati regionali Paolo Ruggirello e Raffaele Pippo Nicotra, sono poi finiti nei guai per la presunta vicinanza ai clan mafiosi di Trapani e Catania.

Per Sammartino e Sudano comincia così l’ammiccamento con Renzi. Tanto che, durante lo sbarco dell’ex presidente del Consiglio a Catania, a metà novembre, il re delle preferenze siciliano è stato benedetto, con largo anticipo, come possibile candidato presidente alla Regione per il dopo-Musumeci.

Per il 34enne Sammartino, passata l’archiviazione di un’inchiesta per il voto in una casa per anziani, e le polemiche per la nomina dello zio a prefetto di Catania, adesso c’è la pesante grana di un’inchiesta che potrebbe rallentare l’ascesa, parsa fino a oggi inarrestabile.