Era l’ottobre del 1926 quando la Fiat del senatore Giovanni Agnelli, dopo il via libera da parte di Mussolini, prese il controllo del quotidiano La Stampa di Torino di proprietà di Alfredo Frassati, che ne era stato il direttore fino al novembre del 1925, quando dovette dimettersi. Il giornale aveva continuato con Frassati a sostenere una posizione liberaldemocratica e di opposizione al fascismo, soprattutto dopo il delitto Matteotti; pertanto le pubblicazioni erano state più volte sospese per ordine del Duce. Mussolini, ha scritto Sergio Romano, “per mettere a tacere la stampa di opposizione, si servì generalmente di mezzi soffici e indiretti. L’operazione gli fu resa più facile dalla volonterosa collaborazione di alcune grandi famiglie che credevano nell’utilità del fascismo e a cui premeva avere buoni rapporti con il regime”.
Comincia in questo modo, quasi cento anni fa, la storia dei rapporti tra la famiglia Agnelli (e la Fiat) e il mondo della stampa, ora culminata nell’acquisizione del gruppo L’Espresso-Repubblica. Un rapporto strumentale di potere, che non si può certo definire all’insegna dell’amore per la libertà dell’informazione e della cultura. Ricordava Giorgio Bocca, in un’intervista per il libro I ragazzi di via Po di Aldo Cazzullo, che “non solo la Fiat non faceva politica culturale, ma neppure mecenatismo. (…) Nella sua Torino era meglio non parlare di politica”. L’idea di come dovesse essere l’informazione secondo la Fiat, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, era quella rammentata dall’ex sindaco di Torino Diego Novelli, a quei tempi cronista a L’Unità: “Nessun giornale, tranne il nostro, dava notizia di un operaio morto per incidente sul lavoro nel perimetro Fiat. Ricordo il caso di un operaio della Spa autocarri, caduto in una vasca bollente di acido (…). Anche di lui scrissero che era morto in ambulanza”. Persino Giulio Einaudi, il Principe “rosso” dei libri, dovette arrendersi. Accadde all’inizio degli anni Sessanta. Si trattava di pubblicare l’inchiesta L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi. Il saggio fu prima accettato, poi respinto (uscirà da Feltrinelli). “Einaudi – rievocherà Cesare Cases – mi disse: ‘Questo libro parla male della Stampa e di Torino, e noi vendiamo molti libri a Torino e grazie alle recensioni della Stampa’”. Nel dna degli Agnelli, e dei loro manager, non c’è mai stata una passione per la libera informazione, sebbene qualcuno oggi voglia rivendicarla in parte. Chiunque abbia fatto il giornalista non può dimenticare le pressioni e le censure esercitate per decenni sui giornali dall’ufficio stampa della Fiat per qualsiasi notizia ritenuta scomoda, dai tempi della mitica signorina Maria Rubiolo ai giorni nostri. Di solito, racconta Giampaolo Pansa in Il rompiscatole, la Rubiolo “chiamava per spiegare che il tale incidente stradale non era dovuto a una inefficienza delle automobili della Fiat, bensì a una manovra errata del guidatore”. Giulio De Benedetti, direttore a La Stampa dalla fine degli anni Quaranta al 1968, garantì sicuramente un alto profilo al quotidiano torinese, ma sempre nel solco della libertà condizionata. Una volta titolò in maniera un po’ spregiudicata, per così dire, la lettera di un lettore sulla Juventus. E al caposervizio dello sport, che sembrava perplesso di tanta audacia, disse: “Contro la Fiat non posso scrivere nulla, lasciatemi divertire con la Juve”.
Oggi la Fiat non è più, come si diceva una volta, “l’Arma dei carabinieri senza la divisa”. E la Fiat non è più nemmeno Fiat, ma Fca, come del resto John Elkann non è l’Avvocato o Vittorio Valletta, oppure Cesare Romiti. Eppure John Elkann (con la sua Exor) è pur sempre il nipote di Gianni Agnelli, ossia di chi fece sapere a Romiti di avere rilevato il Corriere della Sera da un finestrino di una Ferrari, staccando solo per un attimo il piede dell’acceleratore per ripartire subito, diretto a un ristorante. Giornali come auto, o auto-giornali.