Assunzioni per figli e cugini. La rete del renziano di Sicilia

Ci sono consiglieri comunali che vogliono un lavoro. Ma anche un sindaco, un tempo militante di Alleanza Nazionale, che sistema il proprio figlio. Qualcuno, invece, ha già un’occupazione, ma ambisce alla promozione o semplicemente vorrebbe riavvicinarsi a casa grazie a un trasferimento. Altri si muovono per la cugina, desiderosa di lavorare in un ospedale specifico. Sono questi i contorni dell’inchiesta della procura di Catania nei confronti del deputato regionale Luca Sammartino, nei giorni scorsi – come ha raccontato Il Fatto – destinatario di un avviso di conclusione indagini insieme ad altre 12 persone.

L’accusa per l’ex Pd, diventato uomo simbolo di Mattero Renzi in Sicilia con Italia Viva, è corruzione elettorale. Nel mirino della Digos di Catania sono finite le regionali 2017 e le politiche 2018. Competizioni che hanno consacrato Sammartino: un plebiscito di voti (oltre 32mila) che gli ha permesso di essere riconfermato all’Assemblea regionale siciliana. Cinque anni dopo la sua prima elezione, a soli 27 anni, ma con l’Udc.

L’ultimo test, quello della Camera, per Sammartino non si è concluso bene, ma ha comunque aperto le porte del Senato – grazie al ripescaggio nel plurinominale – alla sua compagna, la senatrice Valeria Sudano. Non indagata ma citata nell’inchiesta come “beneficiaria” di parte del consenso finito sotto i riflettori degli investigatori. La pioggia di promesse e raccomandazioni, che sarebbero alla base della fitta rete clientelare dell’uomo di Renzi, sarebbe passata, per esempio, dalle richieste di Carmelo Scandurra, attuale sindaco di Aci Castello con un passato a destra. Indagato per avere promesso e dato il proprio voto, e quello di altri, in cambio dell’assunzione del figlio Filippo (non indagato) in Althea Italia, società specializzata in tecnologie biomediche non coinvolta nell’indagine. Sempre all’assunzione in questa azienda viene accostato Giuseppe Musumeci, ex consigliere comunale a Catania. Sammartino sarebbe intervenuto nei confronti dei vertici della ditta “per garantirgli migliori condizioni di lavoro”. Alla EliSicilia srl, invece, sarebbero finiti Marco Mirici Cappa e Sebastiano Anastasi, entrambi tra gli indagati e con l’ultimo che avrebbe fatto campagna elettorale per ottenere in cambio un posto per il figlio Vincenzo (non indagato).

Tra i bacini elettorali più rilevanti del deputato c’è quello nel settore sanitario. Storico, l’impegno dei genitori con il colosso della sanità privata Humanitas. La procura mette nero su bianco i presunti interventi del deputato nei confronti dei vertici dell’Azienda sanitaria provinciale e di quelli degli ospedali Garibaldi e Cannizzaro. Obiettivo: garantire alla cugina di Alfredo Scozzarella, ex consigliere comunale a Caltagirone, “la collocazione lavorativa all’Asp”.

Altra vicenda è quella che ha come protagonista l’assessore di Mascalucia Antonino Rizzotto. Quest’ultimo avrebbe fatto campagna elettorale così da ottenere il rientro nella sede Inps di Mascalucia. Il figlio di Rizzotto avrebbe beneficiato dell’assunzione nel colosso della vigilanza privata Ancr. Per la figlia, l’assessore avrebbe chiesto al deputato renziano il trasferimento dalla sede Unipol di Bologna a quella di Catania. Nelle carte, il duo Rizzotto-Sammartino spunta anche per le presunte agevolazioni per una liquidazione di una pratica di trattamento di fine rapporto. Richiesta che Sammartino avrebbe messo sul tavolo di Rizzotto, in qualità di dipendente Inps, per favorire “una sua amica stretta”.

La crisi (social) di mezz’età arriva per tutti, caro Salvini

La crisi di mezza età sono impietose, specie quando l’età non è quella anagrafica ma quella politica. Matteo Salvini, come una cougar in trikini paiettato, come un cinquantenne col riporto puro acrilico, come tutti quelli che realizzano che il tempo della giovinezza, della freschezza fisica o politica è ormai andato, comincia a suscitare non più irritazione ma solo tanta, tanta tenerezza. Lo vedo e penso a quella volta in cui nel cassetto di mia nonna novantacinquenne appena morta trovai una crema “per le prime rughe”. Salvini è invecchiato – male e prematuramente – e annaspa sperando che nessuno se ne accorga. E invece, purtroppo, i sintomi dell’andropausa politica si vedono tutti.

1. Fisionomia malinconica
Un po’ come a Renzi dopo il referendum, a Salvini sta cambiando la faccia. Gli è venuta quell’aria abbattuta da cocker con la filariosi, quell’aspetto sciatto, uggioso di quello a cui il treno è passato davanti e aveva anche il piede destro, scalzo, su un binario. Il piglio sfrontato dei comizi da ministro cede il passo a siparietti deprimenti come quello dell’altro giorno, davanti al Campidoglio.

2. Il Campidoglio
Senza più la corte di operatori e social media manager, Salvini è costretto a riprendersi col cellulare da solo, sulla scalinata del Campidoglio, con uno smanicato imbottito da impallinatore d’anatre, dichiarando di voler fare guerra alla Raggi. Forse rotolando giù dalle scale come il passeggino della corazzata Potemkin.

3. Si è iscritto su TikTok
Il social dei tredicenni. È il suo modo per fare il giovane, un po’ come l’impiegato che a cinquant’anni vuole iniziare con lo snowboard e alla prima discesa si gioca il crociato anteriore. I suoi video fanno tenerezza. Che poi quelli su TikTok non sono neppure video veri e propri, ma piuttosto meme animati. Nell’ultimo, quel simpatico mascalzone di Salvini ci mostra la ricetta della carbonara francese con la panna che si chiude con un suo esilarante “Si vergogni!”. In un altro sbuca fuori da un ulivo, in quello dopo ci sono degli orsi che attraversano strada, poi lui che ci chiede se siamo più da bici o da cavallo e così via, in un’escalation di tali maldestri scimmiottamenti dei video ggggiovani, che ti viene da mettergli un like per non farlo restare male. Tra parentesi, i tredicenni lo hanno accolto con la stessa gioia con cui accolgono i professori quando si presentano a un festa di classe. L’unico commento riferibile sotto a un suo post è: “Esci da TikTok. Ci rovini l’infanzia”.

4. Perde colpi
Così abile a captare gli umori della folla finché era ministro, ora riesce a scattarsi un selfie e a twittare “Ancora una splendida domenica da Rimini, amici! Che tempo fa da voi?”, il tutto mentre mezza Italia ha un metro d’acqua in salotto. È in quella fase in cui è capace di incontrare il principe Harry e a chiedergli: “Mamma è in forma come sempre?”.

5. Giovani grandi ideali
Quando l’età avanza ci si rassegna a un più pragmatico realismo. Basta immigrati o sostituzione etnica, ora i bersagli sono più tangibili: no all’aumento delle tasse sulle patenti, basta con l’indolenza dell’attacco del Milan e contrasto al Nutri-Score, il ‘semaforo’ sulle confezioni di cibo che penalizzerebbe i prodotti italiani mentre avvantaggerebbe, ad esempio, la Coca Zero. Del resto, si sa che le bibite gassate sono porcherie da sbarbatelli, gli uomini maturi bevono il vino rosso e, soprattutto, devono rinnovare la patente perché le diottrie calano.

6. Picchi rancorosi
Visti crollare gli ideali, negli anziani trova spazio il rancore per quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Ma in Salvini ideali e rancore hanno sempre coinciso e quindi, più che il livore, gli sta venendo la vena sabotatrice dell’anziano inquilino del secondo piano, che se lasci la spazzatura fuori dalla porta ti fa pisciare il cane sul tappetino. Le piazze si riempiono di sardine? E allora lui posta le foto dei gatti, che di sardine sono ghiotte. Beccatevi questa, pischelli! l’hanno sentito esclamare tra un “ai miei tempi” e “qui era tutta campagna”.

7. Guardaroba instabile
La crisi di mezza età si avverte anche nelle incertezze del look. Archiviate felpe e divise di ogni tipo, dal giubbotto della polizia all’originale casacca del Corpo dei Barracelli sardi (l’ha messa davvero), Salvini ha dovuto arrendersi al guardaroba civile. Un mesto dolcevita marroncino, il mezzo piumino blu, un gilet da cercatore domenicale di funghi, la giacca di velluto. Gli mancano solo “berrettone Sherlock Holmes, poncho argentino di una sua zia ricca, scarpe da tennis con sopra galoche, carte topografiche e trombone da brigante calabrese” per sembrare il ragionier Filini all’apertura della caccia. Insomma, da quando ha iniziato a vestirsi normalmente, abbiamo scoperto che si veste di merda.

8. Complottismo avanza
Dopo una certa età, molti anziani diventano diffidenti. Dietro il Mes, Salvini vede il complotto dell’Europa che ci ridurrà sul lastrico, la fine dell’autonomia politica ed economica e, soprattutto, il premier Conte che di notte, chiuso in una cabina per fototessere a Cassago Brianza, firma trattati all’insaputa della Lega. Quando Conte gli spiega che la Lega è stata ampiamente informata della situazione e lui era lì, Salvini si gira verso Centinaio per chiedere conferma. Centinaio, però, si sta iscrivendo a TikTok.

La rossa Reggio teme “Lucifero”: “Salvini vince grazie a Bibbiano”

“Per me è Lucifero, mi spaventano le sue sembianze, parlo proprio delle fattezze fisiche. Non so perché ma mi ricorda il diavolo”. Il negozio di pantofole della signora Silla, 76 anni, è sulla via Emilia, lungo i portici sotto i quali Reggio passeggia e pedala (ora però è vietata la bici al coperto). A lei che abita al civico 54, “due portoni più in là della Flavia, la moglie di Prodi”, democristiana fin quando lo scudocrociato ha retto, poi diligentemente nel Pd, Matteo Salvini fa paura: “Eppure piace a tante mie amiche e non so perché. Questa cosa mi angustia molto”.

È la tremarella che prende la città che ha dato il tricolore all’Italia. Sovrana per costituzione, capitale per vocazione e dal cuore rosso così. Settant’anni e mai un problema, poi tutto d’un tratto Reggio deve fare i conti con i barbari, che effettivamente sono alle porte. Quasi trenta per cento alle europee i leghisti. Solo cinque punti in meno dai padroni del vapore che ora devono difendere la rocca: ad ovest Piacenza e Parma sembrano perdute, la periferia che dà verso la Lombardia è già verde, come la Romagna che guarda il mare.

“I migranti fanno paura, e poi la sicurezza, e poi la salute”, dice Cosimo, ragioniere in pensione. Il miracolo che Salvini ha compiuto è di aver combattuto contro il principio di gravità. La città tra le più sicure ha paura dei ladri, è messa meglio degli altri in quanto a ospedali e scuole ma teme per la salute, vive la sua prosperità che è ragguardevole e comunque si sente impoverita. Nove miliardi e mezzo di euro in export, la disoccupazione limata verso il 3,5 per cento, un nucleo industriale forte e solido che attraversa tutti i passanti manifatturieri (dalle confezioni di lusso come Max Mara, agli elettrodomestici della Smeg, agli alimentari con la gran mortadella Veroni). Decine di altri marchi, un sistema bancario rispettabile (qui nasce il Credito emiliano), un reddito pro capite elevato (33.518 euro) e una demografia che, a parte gli ultimi mesi, inverte la tendenza nazionale. Nel 2001 Reggio contava 141mila abitanti. Oggi ne ha 32mila in più.

È ricca eppure trema. “Andiamo giù nelle simpatie nel distretto delle ceramiche, li facciamo fatica a restare nell’animo della gente. È la classe operaia che non ci riconosce più, è quella sconnessione che ci sta costando cara”. Andrea Rossi è figlio del partito e uno degli ultimi, insieme a Luca Vecchi, sindaco di Reggio, ad aver goduto degli onori di una carriera cucitagli addosso dalla gerarchia: assunto in federazione, poi sindaco a 26 anni di Casagrande, paesone di diecimila abitanti, quindi consigliere regionale e infine deputato. Ex renziano, è lì a tirare la carretta di Stefano Bonaccini: “Se conta un po’ la buona amministrazione noi vinciamo alla grande. Se il voto sarà tutto politico allora vedremo i sorci verdi. Perché Lucia Borgonzoni non sa nulla dell’Emilia e della Romagna ma in televisione fa la sua figura. In tv non c’è bisogno di mostrare competenza ma di apparire simpatica, banalmente convincente. E lei tutto sommato se la cava”.

Il guaio del Pd è questo deficit di reputazione pubblica che lo costringe a patire anche i fatti di cronaca nera. La vicenda Bibbiano, la questione degli affidi ceduti, rubati, estorti, è il perfetto quadro in cui la cronaca nera si fa cronaca politica.

È la prima volta che un partito, dal nulla, diviene l’icona non del malaffare ma della violenza ai danni dei minori. “Sono divenuto l’orco, sono stato vittima dei vili barbari del web”, commenta oggi Andrea Carletti, il sindaco al quale la Cassazione restituisce un po’ di onore e il ritorno alla vita pubblica. “Bibbiano è l’emblema di una tragedia democratica, perché è divenuto, attraverso l’uso manipolatorio dei social network, il simbolo di una aggressione violenta. Una valanga di bot, macchine che costringono con un’onda d’urto organizzata nel segreto dei software a fare i conti con la vergogna”. Graziano Delrio, il politico di riferimento, che di Reggio è stato sindaco, vede in Bibbiano il pericolo dei pericoli: “Una valanga di tweet e di post, migliaia di likes ad opera di robot, l’uso spregiudicato di un sistema che ti annienta perché è incontrollabile”. “Salvini senza i social quanto varrebbe? Penso la metà dei voti che oggi ha”.

Con le sardine in campo, l’imprevista invasione che ha fatto deragliare il treno del leader leghista che cercava anche in Emilia le piazze viste in Umbria, la scena, almeno quella pubblica è cambiata. L’ultimo evento di Lucia Borgonzoni è dell’11 novembre scorso. Mai da sola, sempre un passo dietro al leader. Il quale ha cambiato strategia, e la polemica sul Mes è il primo effetto della mutazione delle regole d’ingaggio. Ora si fa notare solo in piccoli ambienti, piccoli paesi. Tre giorni fa è stato avvistato a Castelnuovo Monti, borgo piccino e platea limitata. “Gli abbiamo tolto le piazze, lo abbiamo fatto andare nei bar”, dice entusiasta Mattia Santori, il capobranco di questo nuovo mare di pesci.

È così, eppure i sondaggi non producono ribaltamenti clamorosi: qualche mezzo punto in meno. Oggi a Ravenna la partita di ritorno: c’è Salvini, e coperta dal suo corpo la Borgonzoni. Ha scelto una strada per il comizio, i pesciolini, per rendergli la pariglia, nuoteranno invece in piazza. Eppure la Romagna sembra persa per Bonaccini, la costa è con la Lega, e infatti il Papeete è lì a Milano Marittima a issare il pennone della rivoluzione.

“La società emiliana – spiega Delrio – mal sopporta il sistema verticale che invece è la forza della Lega. Fede assoluta nel capo, solo lui conta e per gli altri un ruolo da gregari, da yes men. La cultura di questa terra, che è stata ben governata (altrimenti non avremmo retto ininterrottamente per settanta anni), ti vuole vedere pari tra la sua gente. Uso la bici, viaggio sempre in seconda classe perché so che altrimenti perderei stima e considerazione. Non c’è nulla di verticale in Emilia. È piana come la Padania. Ed è piana per tutti”.

Arcelor ci riprova: più esuberi e meno investimenti

ArcelorMittal ha forse cambiato i toni, dopo la grande paura “giudiziaria”, ma non la sostanza. E ieri, durante l’incontro coi sindacati al ministero dello Sviluppo, ha presentato un nuovo piano industriale per l’ex gruppo Ilva che si limita a peggiorare quello vecchio col contentino di una assai parziale “decarbonizzazione” della fabbrica.

La reazione di Cgil, Cisl e Uil è stata l’immediata indizione di una giornata di sciopero per martedì: “Questo non è un piano industriale, ma un progetto di chiusura nel tempo di Taranto e di Ilva”, riassume Maurizio Landini. Lo stesso ministro Stefano Patuanelli s’è detto “molto deluso” dallo spettacolino messo in piedi dall’azienda – rappresentata dall’ad Lucia Morselli – nella sede del suo dicastero.

La “nuova” strategia della multinazionale funziona così: per ovviare alle perdite registrate nella gestione dell’Ilva (i conti al 30 settembre 2019 raccontano di un rosso da 531 milioni), vengono proposti più o meno gli stessi esuberi chiesti un mese fa, meno investimenti negli impianti, obiettivi di produzione al 2021 più alti.

Nel dettaglio: secondo ArcelorMittal, la produzione dell’ex Ilva – invece di scendere sotto i 4 milioni di tonnellate l’anno prefigurando lo spegnimento dell’area a caldo di Taranto (la parte industriale più “pregiata”) – risalirà entro il 2021 a sei milioni di tonnellate. Contemporaneamente, rispetto all’accordo firmato a settembre 2018 (che già prevedeva 1.900 esuberi), l’azienda chiede altri 4.700 licenziamenti (2.891 nel 2020), portando in due anni il totale degli occupati nell’ex gruppo Ilva da 10.789 a 6.098 (il risparmio s’aggira sui 200 milioni di euro l’anno). Per chi resta, peraltro, i franco-indiani pretendono la revisione al ribasso della contrattazione aziendale.

A fronte di questo schiaffo, Arcelor vorrebbe cavarsela con una parzialissima “decarbonizzazione” di Taranto, realizzata peraltro diminuendo gli investimenti ambientali: oltre alla cosiddetta “area a freddo” (che produce coi semilavorati), fino al 2022 rimarrebbero in produzione tre altiforni (tra cui il 2, cioè quello che secondo l’azienda andava chiuso su ordine della magistratura); dal 2023 l’altoforno 2 però sarà spento e messo in funzione un forno elettrico capace di produrre 1,2 milioni di tonnellate di acciaio all’anno.

Per lo “sforzo” di passare a una tecnologia meno inquinante per un forno su tre, Arcelor spenderà 230 milioni. Il conto finale, però, sarà a suo favore: visto che intende chiuderlo non farà gli investimenti previsti nel vecchio piano sull’altoforno 2, rivedrà al ribasso quelli sulle “aree dismesse” (-138 milioni) e sulla copertura dei parchi minerati (sarà per 500 metri anziché 700) della fabbrica di Taranto. Avendo comunque tagliato gli obiettivi di produzione di lungo termine, non sarà nemmeno riattivato l’altoforno 5 risparmiando altri 250 milioni. Di fatto, Arcelor si terrà in tasca almeno mezzo miliardo.

Riassumendo, un piano fortemente ridimensionato rispetto a quello del 2018 e che nemmeno garantisce vita e salute per i tarantini. Per questo il ministro Patuanelli ha usato parole dure: “Sono molto deluso, l’azienda non ha fatto alcun passo avanti. Entro lunedì il governo presenterà un suo piano industriale con uso di tecnologie sostenibili per arrivare a produrre 8 milioni di tonnellate tutelando i livelli occupazionali. Una cosa deve essere chiara: entro il 20 dicembre dobbiamo sapere se c’è una trattativa, ma se la posizione è quella di oggi non ci sono le condizioni”.

Mes, non c’è intesa sulle banche: se ne parla a gennaio

Il tentativo dell’Italia di rinviare la riforma del Mes, il vecchio Fondo Salva Stati, o di dare il via libera in cambio di precisi impegni sull’Unione bancaria era ardito, escogitato soprattutto per evitare l’implosione della maggioranza giallorosa. E il negoziato a Bruxelles lo conferma. Il nodo del contendere non è più, o non è mai stato, il testo, che Palazzo Chigi e ministero dell’Economia considerano di fatto chiuso, ma come usarlo per negoziare intese sul comparto bancario che non penalizzino Roma. La cosiddetta “logica di pacchetto”, a cui Giuseppe Conte si è aggrappato per evitare la rivolta dei 5Stelle, ammesso che basti.

Ieri il vertice dell’Eurogruppo – la riunione dei ministri delle Finanze dell’Eurozona – si è conclusa con un nulla di fatto: si continua a trattare sugli addendum al nuovo Mes e, dunque, qualunque discussione sull’unione bancaria e la garanzia unica sui depositi detta “Edis” (finora chiesta dall’Italia, ma osteggiata dalla Germania e dai Paesi del Nord Europa) è rinviata a gennaio o febbraio. Di conseguenza – ma lo aveva già spiegato il ministro Roberto Gualtieri in Senato – al Consiglio europeo del 12 e 13 dicembre non ci sarà nessuna firma ufficiale sul nuovo Meccanismo europeo di stabilità.

Anche senza la firma, però, la riforma del vecchio Fondo salva-Stati – di fatti conclusa nell’eurogruppo e nel consiglio Ue del giugno scorso dal predecessore di Gualtieri, Giovanni Tria e dal premier Giuseppe Conte – resterà quella attuale, che preoccupa più di un commentatore. Il presidente dell’Eurogruppo, Mario Centeno, lo fa capire prima ancora che il vertice parta: “La prospettiva è che il trattato venga firmato all’inizio del 2020 – spiega il portoghese – Abbiamo preso una decisione a giugno scorso e del lavoro tecnico è stato fatto da allora”. Poi, a chi gli chiedeva di un possibile rinvio: “Non vediamo la necessità che questo accada, stiamo affrontando questioni tecniche ora, l’accordo politico è stato raggiunto”. Stessa linea del collega francese, Bruno Le Maire. Conte, a Londra per il summit Nato, non la prende bene: “Prima di convincere un avvocato a firmare, ce ne vuole”, fa sapere il premier. Anche perché, dice riferendosi a Centeno, “quando si firma, lo decidono i responsabili politici dei diversi paesi” e “ci sono varie soluzioni tecniche per fare in modo che la logica di pacchetto sia rispettata”.

Per dare il via libera all’Edis, infatti, Berlino vuole eliminare il trattamento dei titoli di Stato in pancia alle banche oggi considerato “risk free”. Sarebbe un colpo quasi mortale per gli istituti italiani e per il nostro debito pubblico, visto che le banche ne sono i principali acquirenti. Con la “logica del pacchetto”, l’Italia vuole un testo, o un cronoprogramma dettagliato, sull’Unione bancaria considerato accettabile, cioè che escluda la proposta tedesca.

Strappare questa garanzia è considerato da Palazzo Chigi, dal Tesoro e pure dal Colle un grandissimo risultato. La trattativa a Bruxelles è andata avanti fino a notte fonda e, già a sera inoltrata, è sembrato chiaro che non ci sarebbe stato un accordo: il Consiglio europeo della prossima settimana, dove ci sarà Conte, non potrà limitarsi come al solito ad approvare l’intesa dell’Eurogruppo, ma dovrà entrare nel merito.

Di cambiare il testo della riforma del Mes, come detto, non se ne parla più. L’unico spiraglio per l’Italia è strappare qualche miglioramento agli “addendum” al Trattato, come i dettagli applicativi delle Single limb Cacs, clausole che rendono più facile fare default per gli Stati. Roma punta a modifiche che tutelino maggiormente i piccoli risparmiatori e svantaggino i fondi speculativi. Ieri ai negoziatori italiani è arrivato anche l’endorsement d Ignazio Visco in audizione alla Camera. In sostanza, il governatore di Bankitalia ha smentito il “rischio enorme”, di cui aveva parlato un mese fa.

Il governo si rimangia le tasse su plastica e auto

Un emendamento alla manovra con almeno venti modifiche che, tutte insieme, valgono 1,7 miliardi e che confermano l’annunciato – e oramai anche scontato – dietrofront sulle auto aziendali (già ampiamente ventilato, anche dal premier Conte) e sulla plastic tax (atteso ma rimasto incerto fino all’ultimo minuto): il governo lo ha depositato in commissione Bilancio al Senato ieri.

Tra le novità, invece, un aumento del 3 % dell’Ires sui redditi derivanti “dallo svolgimento di attività in concessione” (che passa così dal 24 al 27%) e una revisione delle accise su benzina e diesel a partire dal 2021 che dovrebbe garantire risorse per almeno 868 milioni di euro. Auto aziendali e plastic tax sono comunque i punti con il maggior risvolto politico perché rappresentano la cifra del compromesso tra le due anime del governo, a cui si aggiungono altre misure che vanno dagli enti locali agli enti di ricerca.

Sulla plastic tax Italia Viva ottine infatti, oltre all’esclusione degli involucri per le medicine e della plastica ottenuta dai processi di riciclo, il dimezzamento del prelievo che passa così da 1 euro a 50 centesimi al chilo. “Ma vogliamo arrivare a zero – ha detto ieri il capogruppo al Senato, Davide Faraone – ed eliminare anche la sugar tax”. L’alleggerimento vale 767 milioni, rispetto agli 1,1 miliardi previsti in origine.

Sulle auto aziendali, viene modificata la base imponibile ai fini Irpef del reddito ritraibile e salta la retroattività. La nuova disciplina si applicherà infatti solo alle auto immatricolate dall’1 gennaio 2020 e con contratti stipulati dall’1 luglio 2020 (ottenuto, quindi, anche lo slittamento di sei mesi). La nuova progressione, con un inasprimento dal 2021, prevede il 25% sulle auto con emissione di Co2 inferiori a 60g/Km, il 20% per quelle tra 60 e 160 g/km (come è già), il 30% tra 160 e 190. Sopra i 160 g/km, dal 2021 le percentuali salgono del 10%. In questo caso, il minor impatto è di oltre 330 milioni. E per un gettito che viene meno, c’è un gettito che entra. Viene introdotta una “Robin tax” che colpisce i tutti i concessionari, da quelli autostradali (che già avevano subito la limitazione dell’1% della deducibilità fiscale delle quote di ammortamento) agli aeroportuali, passando per le acque minerali, la distribuzione di energia elettrica, le ferrovie e le frequenze radiofoniche, radiotelevisive e delle comunicazioni. L’aliquota addizionale del 3% (inizialmente si era pensato al 2) scatta, inoltre, anche per il 2019 e dovrebbe portare un gettito di circa 300 milioni, destinati a “realizzare interventi per il miglioramento della rete infrastrutturale e dei trasporti e per la riduzione dei fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale”.

Cento milioni vengono poi destinati ai Comuni, 50 al fondo affitti e altrettanti per le agevolazioni sull’accisa gasolio per gli autotrasportatori con mezzi Euro 3 (dal primo luglio 2020). Quasi 300 milioni vengono poi destinati al Fondo esigenze indifferibili e 40 ai Vigili del fuoco. Altre coperture arrivano da maggiori entrate fiscali (revisione gettito auto liquidazione per 841 milioni) e dall’operazione sui trasferimenti alle Fs prevista da una modifica al decreto fiscale (460 milioni).

Conte prova a smarcarsi da Trump su 5G e Web tax

Sul prato dove Obama e Cameron hanno giocato a golf insieme, nelle sale del The Grove – il centro congressi immerso nella brughiera londinese di Watford – dove è di casa anche il Bilderberg, alle 4 di pomeriggio Giuseppe Conte corre via dopo aver incontrato il presidente americano Trump. Ci tiene a rassicurare la stampa italiana: tra “Giuseppi” e “The Donald” non è successo niente, il che di solito conferma che qualcosa è andato storto. “Grande sintonia e grande amicizia”, fa sapere palazzo Chigi al termine del bilaterale che si è tenuto a margine del vertice Nato, ringraziando il presidente Usa per le “parole gentili” che ha riservato al lavoro “fantastico” che sta facendo il governo italiano. Soprattutto, spiegano, c’è stata grande “attenzione” da parte di Trump al discorso con cui Conte gli ha illustrato “la nuova normativa italiana sulla sicurezza cibernetica e sul 5G”. Ovvero il decreto, ormai convertito in legge, con cui il governo può esercitare il golden power – i poteri speciali – per verificare i contratti di sviluppo del 5G che riguardano aziende non europee, soprattutto le cinesi Zte e Huawei, multinazionali che per gli Stati Uniti fanno spionaggio per conto del governo di Pechino e che in Italia sono in espansione.

Un tema che preoccupa eccome il presidente americano, evidentemente non rassicurato dalle promesse che gli arrivano dall’Italia, come quella per cui verrà sostituita l’intera infrastruttura informatica dei nostri ministeri, attualmente affidata proprio a Huawei. Che il clima sia teso lo dimostra il fatto che ieri le pressioni americane si sono spinte alla minaccia. Trump, prima di incontrare Conte, ha fatto sapere di “avere l’impressione” che l’Italia “non andrà avanti” con il 5G. Una frase che il premier è stato costretto a smentire: “Non ne abbiamo parlato”, ha detto prima del bilaterale in cui ha spiegato al presidente americano “la nuova normativa” di cui sopra. Per poi aggiungere: “Non è che l’Italia si può sfilare da una tecnologia, applicheremo tutti gli strumenti di protezione di cui siamo dotati”.

Non è l’unico punto di frizione tra gli alleati. Perché al netto della Libia – Conte ha chiesto un maggior coinvolgimento dell’Italia nella risoluzione politica del conflitto – e delle missioni spaziali – pare che torneremo insieme sulla Luna e andremo pure su Marte – sul tavolo c’è altra carne viva, ovvero la tassazione dei giganti del web. Trump, al solito, minaccia dazi per chi oserà introdurre la digital tax.

Conte invece – sulla linea del ministro Francesco Boccia che ha definito “scomposta e ingiusta” la reazione della Casa Bianca – ha ammesso che non gli fa “certo piacere” sentirsi minacciato per una scelta di politica economica che è tutta nazionale: “Siamo alleati e abbiamo un rapporto privilegiato, ma siamo uno Stato sovrano: possiamo anche confrontarci e scambiare opinioni, ma poi decide ciascuno Stato nell’ambito della propria sovranità”.

Toni poco concilianti con quelli della sera prima, quando Trump, al termine del ricevimento con la regina, gli ha dato un passaggio sulla vettura presidenziale per andare da Buckingham Palace a Downing Street. D’altronde, a voler leggere tra le righe, il presidente americano era stato chiaro anche lì. Appena saliti in macchina, insieme alla first Lady Melania e al presidente francese Emmanuel Macron, ha battuto le nocche sui vetri del finestrino: “Indestructible”, ha sentenziato Trump tastando lo schermo a prova di bomba. Come a dire che finché sta con lui sta al sicuro. Fuori, c’è il mondo cattivo (che fa affari con i cinesi e chiede pure di pagare le tasse a Google, Facebook e Amazon).

Chi blocca le leggi contro l’impunità

In Italia convivono due sistemi penali. Il primo è il sistema antimafia che funziona molto bene perché è stato dotato di risorse adeguate (con magistrati che si occupano a tempo pieno solo di alcune tipologie di reati) e si avvale di norme speciali, come quelle che raddoppiano i termini di prescrizione e assicurano l’effettiva espiazione delle pene.

Poi c’è il sistema penale ordinario che è in larga misura inefficiente e inefficace, tranne per i reati più gravi di particolare allarme sociale, come gli omicidi. Non è un caso che all’estero siamo ammirati per il sistema antimafia, preso a modello da altri stati, e invece talora compatiti per quello ordinario, oggetto di ripetuti rilievi in sede europea e internazionale. Questa inefficienza si manifesta in tanti modi: alcuni sono al centro dell’attenzione dei media come l’eccessiva durata dei procedimenti e la patologica percentuale di prescrizioni. Altri invece restano in un cono di ombra lontano dai riflettori, come l’anomala quota di pene definitive irrogate che finiscono nel nulla e la peculiare composizione della popolazione carceraria, formata quasi esclusivamente da soggetti appartenenti ai piani bassi della piramide sociale, con percentuali statisticamente irrilevanti di colletti bianchi. Esempio: le pene pecuniarie (multe e ammende) inflitte a seguito di vari gradi di giudizio con condanne definitive vengono recuperate dallo Stato in misura inferiore al 10% del totale, come risulta dalla Relazione del 7.3.2017 della Corte dei Conti. Quindi il 90% di tale tipologia di condanne si risolve in un colossale spreco di risorse e di tempo, nella perdita netta di notevolissimi introiti da parte dell’erario, nella caduta verticale della credibilità di uno Stato che si limita a una mera esibizione di muscoli, priva di reali conseguenze, con buona pace della funzione general preventiva del sistema penale. Qualsiasi azienda privata con questo tipo di gestione e di risultati verrebbe messa in liquidazione.

Chi non vuole pene certe e una giustizia efficiente

É culturalmente ingenuo tematizzare la questione giustizia in Italia riducendola esclusivamente a un problema di efficienza e di resa produttiva degli apparati, come se i deficit, le falle di sistema, le disuguaglianze nel trattamento carcerario fossero sempre e solo il frutto di errate opzioni legislative per assicurare un sistema giustizia equo ed efficiente. In verità esiste una connessione profonda tra questione giustizia e questione della democrazia. Nel sistema penale si rispecchiano tutte le contraddizioni del sistema paese e il mutevole gioco dei rapporti di forza tra le varie componenti della società. Il diritto acquisisce capacità di farsi “ordinamento” della realtà solo se e nella misura in cui ne rispecchia i reali rapporti di forza, altrimenti è condannato all’impotenza. Non è un caso dunque se il tema apparentemente tecnico della riforma della prescrizione è oggi al centro di uno scontro politico globale che a tratti sembra minacciare la stessa tenuta del governo. A proposito delle cause sociali del default del sistema giustizia, non mi sembra pienamente aderente alla realtà l’affermazione ricorrente secondo cui siamo tutti unanimemente interessati a creare una giustizia penale che coniughi efficienza e garanzie. Esiste in Italia un’illegalità di massa trasversale alle classi sociali che si declina in percentuali elevatissime di reati della più diversa tipologia: quelli edilizi, fiscali, patrimoniali e l’amplissimo inventario dei reati tipici dei colletti bianchi. Si tratta di una quota significativa della società civile dotata di un potere di negoziazione politica legittimo in un sistema democratico, e la cui forza di condizionamento si dispiega in tanti modi e per tante vie. In parte anche nell’ostacolare nella dialettica politica il varo di leggi adeguate o nel compromettere l’efficacia di quelle approvate. Un esempio tra i tanti: la storica impotenza repressiva del diritto penale tributario a fronte di percentuali di evasione fiscale che collocano l’Italia ai vertici della classifica dei paesi europei. Un altro spaccato interessante emerge sul terreno delle speculazioni edilizie e degli abusi urbanistici. I reati edilizi si prescrivono pressoché sistematicamente perché, grazie all’attuale regime della prescrizione, è impossibile definire i processi in tempo. I sindaci non demoliscono gli immobili abusivi neppure nei casi più gravi in zone di totale inedificabilità. I pochi che hanno adempiuto ai loro obblighi di legge hanno perso larghe quote di consenso. Taluni sono stati costretti a dimettersi perché sfiduciati dalle loro comunità e addirittura è stato necessario sottoporli a scorta, come per Angelo Cambiano, ex sindaco di Licata.

I politici fanno a gara, tranne poche eccezioni, per proporre sanatorie contendendosi i voti degli abusivi. Il sistema di Tangentopoli ha poi rivelato come l’illegalità di massa sia realtà sociale anche all’interno di larghi settori delle classi dirigenti, come attesta il proliferare inarrestabile del fenomeno della corruzione. Esiste dunque una forte domanda di impunità che collide con l’esigenza di una sistema penale efficiente. Non è un caso che la crisi del sistema si sia molto aggravata dopo Tangentopoli, quando settori portanti delle classi dirigenti nell’impossibilità di impartire direttive di politica criminale alla magistratura, hanno utilizzato il potere legislativo per ridurre al minimo il rischio e il costo penale per i reati dei colletti bianchi con una sequenza di leggi che hanno creato una serie di sacche di inefficienza programmata nel sistema penale, compromettendone definitivamente la tenuta. Per un verso sono stati ridotti i tempi di prescrizione dei reati sia in generale con la legge “ex Cirielli” del 5.12.2005, sia in particolare con leggi che riducevano selettivamente le pene di reati di colletti bianchi e, quindi, i correlativi tempi di prescrizione. Per altro verso sono state introdotte nel tempo una serie di riforme che hanno ulteriormente prolungato i tempi dei processi, rendendone estremamente difficile la loro definizione in tempo utile dopo tre gradi di giudizio. Grazie alla combinazione “prescrizione breve-processo lungo”, si è così creata una micidiale falla di sistema che, come una “triangolo delle Bermude”, continua a inghiottire nei gorghi della prescrizione centinaia di migliaia di processi l’anno. L’operatività di tale falla di sistema è attestata dal discostamento statistico delle percentuali di prescrizione in Italia (10-11%) rispetto alla media europea (dallo 0,1 al 2%), sebbene le stesse statistiche attestino che la magistratura italiana è ai primi posti in classifica per produttività. La prescrizione “facile” si è trasformata in ulteriore fattore di rallentamento dell’iter dei processi, contribuendo ad affossare il sistema. Si è infatti fortemente disincentivata la scelta dei riti alternativi, perché la prospettiva di uno sconto di pena non è paragonabile a quella di sfuggire del tutto alla pena grazie alla prescrizione.

Il risultato è stato di ingolfare e rendere definitivamente ingestibili i ruoli dei dibattimenti. Basti considerare che nel 2018 i reati prescritti in materia edilizia sono stati ben 13260. Presumendo in via approssimativa un 50% di colpevoli, sarebbe stato logico che una gran parte di costoro scegliessero di definire la loro posizione rapidamente e con un significativo sconto di pena, scegliendo un rito alternativo. Ma perché farlo, se il sistema ti offre la possibilità dell’impunità col rito ordinario? Meccanismi analoghi sono stati replicati per una quota rilevante di reati puniti sino a 6 anni (tra cui rientrano un gran numero di reati strumentali alla corruzione) e anche con pene più gravi che pure si sono copiosamente prescritti perché scoperti a distanza di qualche anno dalla loro consumazione. Un lungo elenco di casi di denegata giustizia che è una ferita aperta per le vittime e per la credibilità delle istituzioni. Si pensi al processo Eternit concluso con l’annullamento in Cassazione per intervenuta prescrizione della condanna a 18 anni del magnate svizzero Stephan Schmidheiny, dichiarato responsabile della morte di oltre 2000 persone uccise dall’amianto respirato in quattro sue fabbriche.

I falsi allarmi sulla blocca-prescrizione Bonafede

La riforma del ministro Bonafede ha il merito di avere smosso le acque, salvando dalla prescrizione i processi dopo la sentenza di primo grado ed aprendo un dibattito nazionale ad altissimo coefficiente di politicità caratterizzato da toni allarmistici a mio parere privi di fondamento se si ha riguardo alle cifre. Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, nel 2018 sono stati definiti per prescrizione 117.367 processi, di cui 57.707 nelle fasi iniziali del processo davanti al Gip o davanti al Gupe; 27.747 davanti ai Tribunali, 2550 dinanzi al giudice di pace, 29.216 in Corte di Appello e 646 in Cassazione. Poiché la riforma si limita a interrompere il decorso della prescrizione solo dopo la sentenza di primo grado, restano fuori dal suo raggio di azione tutte le fasi del processo antecedenti nelle quali si concentra la percentuale più elevata di prescrizioni: circa il 65%. Tenuto conto che in Cassazione la percentuale di prescrizione è estremamente esigua (l’1,1% dei processi trattati), la riforma riguarda in sostanza solo il 25,4% dei processi prescritti e meno del 3% dei processi trattati ogni anno. Levare gli scudi e ingaggiare una battaglia politica nazionale per il 3% dei processi, mi pare fuori misura, tanto più he proprio perché la riforma riguarda solo un segmento del processo e sarà operativa a partire dal 2024, vi è tutto il tempo per approvare prima un pacchetto di interventi legislativi mirati solo a sveltire i tempi della fase dell’appello, interventi peraltro già elaborati da tempo da varie Commissioni legislative e ministeriali. Sebbene meritevole perché limita i danni, la riforma Bonafede è tuttavia manchevole perché lascia irrisolto il grave problema della prescrizione di circa il 65% dei reati nelle fasi antecedenti all’appello. Piuttosto che ingaggiare un braccio di ferro per imporre uno stop a tempo indefinito della minimale riforma della prescrizione già realizzata in attesa di una palingenesi generale di là a venire non si sa quando e come, sarebbe ragionevole un approccio gradualistico che metta all’ordine del giorno dell’agenda politica una selezione di tutte le articolate e approfondite proposte di riforme già messe a punto da varie Commissioni di studio per ricondurre la percentuale di processi prescritti entro limiti fisiologici in tutte la varie fasi del processo e ripristinare condizioni minimali di agibilità del sistema penale. Sulla prescrizione, sono state proposte soluzioni che traggono spunto dai sistemi tedesco, spagnolo, austriaco e americano.

In particolare è stato proposto di distinguere, come in altri paesi europei, la prescrizione dei reati dalla prescrizione del processo: due istituti con ragioni e scopi completamente diversi. Il fondamento della prescrizione dei reati è il sopravvenuto disinteresse dello Stato alla loro punibilità dopo il decorso di un determinato lasso temporale variamente graduato a secondo della gravità dei reati. Il fondamento della prescrizione del processo è invece la ragionevole durata del processo. Se il reato è accertato dopo il decorso del termine di prescrizione, la partita è chiusa. Ma se viene invece accertato prima del decorso di tale termine e l’azione penale viene esercitata, cessa la ragion d’essere della prescrizione del reato, e subentra la prescrizione del processo. Solo operando tale distinzione e depurando il tempo del processo dalla zavorra del tempo già trascorso dalla data di consumazione dei reati sino all’esercizio dell’azione penale (un tempo che variando da imputato a imputato determina gravi disparità di trattamento tra imputati della medesima tipologia di reati) è possibile operare su un tempo processuale uguale per tutti, ponendo la base per una ragionevole durata da realizzarsi con un ventaglio articolato di interventi sul piano legislativo ed organizzativo. E tuttavia dopo che gli studiosi esauriscono il loro lavoro, le proposte vengono lasciate nei cassetti o bocciate come impraticabili.

Tutto il mondo civile è barbaro tranne l’Italia?

Sembra quasi che tutti gli altri paesi del mondo dalle cui legislazioni si è tratto spunto per la riforma della prescrizione siano barbari e nemici giurati del garantismo. Si è detto no anche a riforme di elementare buon senso finalizzate a eliminare alcune delle cause più frequenti di ritardi patologici. Per esempio è stato bocciato per indebita “compressione dei diritti dell’imputato” l’emendamento dei parlamentari Casson e Cucca che proponeva che solo il primo atto di inchiesta venga notificato mediante consegna di copia alla persona, mentre le successive notifiche avvenissero con posta elettronica certificata all’indirizzo indicato dal difensore, eliminando margini di errore e condotte strumentali di imputati che non si fanno trovare dagli ufficiali giudiziari o cambiano di frequente domicilio per vanificare le notifiche e allungare i tempi. É stata scartata pure la proposta finalizzata a eliminare un’altra causa statisticamente rilevante di patologico aumento dei tempi del processo. Il codice prevede che il processo ricominci da capo a pena di nullità assoluta ogni volta che un componente del collegio giudicante deve essere sostituito perché trasferito, ammalato o per altri impedimenti, anche se il processo è alle battute finali. Per evitare tale esito era stato proposto di prevedere la videoregistrazione di tutte le udienze in modo che il nuovo giudice subentrato possa in breve tempo prendere cognizione di quanto è accaduto in precedenza in udienza, coniugando il principio dell’oralità con quello della celerità. Nulla da fare, anche in questo caso si è obiettato la violazione dei diritti incomprimibili degli imputati. Se non è possibile trovare un accordo neppure su tali proposte minimali, è realistico immaginare che si possa realizzare una generale revisione del sistema? É lecito dubitarne fortemente.

Sì agli evasori in carcere: oggi sono meno che in Finlandia

Alla luce dei rilevantissimi interessi in gioco, fondati dubbi sussistono anche sulla futura tenuta di un’altra importante riforma ad altissimo coefficiente politico: quella in materia di reati tributari approvata con il decreto legge 26.10.2019. Una riforma che, segnando una svolta di sistema, si propone l’ambizioso obiettivo di porre finalmente fine alla storica impunità sino ad oggi garantita al vasto e trasversale popolo degli evasori. Secondo uno studio dell’Institut de criminologie et de droit pénal dell’Università di Losanna, il rapporto del numero di detenuti per reati fiscali tra Italia e Germania è di uno a 55. La media statistica consolidata degli evasori nelle carceri italiane condannati con sentenza definitiva si aggira intorno allo 0,4% della popolazione carceraria contro una media del 4,1% dell’Unione Europea. Una cifra quella italiana prossima a quella della Finlandia paese ad altissima fedeltà fiscale e di soli 5 milioni di abitanti a fronte dei 55 milioni dell’Italia. Tra le varie misure previste dal decreto legge vi è anche il ripristino della punibilità penale di alcuni dei più odiosi reati fiscali, tra i quali la dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti e l’emissione di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti, anche se l’importo delle fatture non supera i 100mila euro. Grazie all’elevazione delle pene edittali è stata inoltre prevista la possibilità delle intercettazioni, indispensabili per portare alla luce i reati degli specialisti delle “carte a posto”. Com’è noto, l’emissione di fatture per operazioni inesistenti è un tipico reato seriale praticato a tutti i livelli per l’evasione internazionale e la conseguente creazione di fondi esteri, ed è divenuto uno dei servizi più richiesti da operatori economici spregiudicati alle “mafie mercatiste” che, grazie alle loro società cartiere dislocate nei cinque continenti, possono offrire prestazioni eccellenti. È stata altresì prevista per i condannati per i più gravi reati fiscali la confisca dei beni sproporzionati e ingiustificati rispetto ai redditi dichiarati e al patrimonio accertato, una misura che si è rivelata vincente nei reti di mafia e in quelli di corruzione. Così come quella della prescrizione, anche questa riforma è a rischio ed è in corso un braccio di ferro. Si è arrivati al punto di proporre in sede di conversione del decreto l’abrogazione sic e simpliciter dell’intero art. 39 del decreto che contiene tutte le modifiche al Codice penale. Cosa accadrà? A decidere non saranno certo i giuristi adusi a scambiare il mondo astratto delle idee con la ferrosa realtà, ma il corposo gioco degli interessi e dei rapporti di forza del sistema paese. Quindi la partita resta apertissima su tutti i fronti e quanto mai incerta, soprattutto in un tempo di permanente instabilità degli equilibri macro-politici come quello attuale.

Il club del Tempo Scaduto: i Vip che l’han fatta franca

L’elenco di chi, negli ultimi venticinque anni, l’ha fatta franca grazie alla prescrizione è lungo, impossibile da riassumere e impressionante. E racconta, più di un trattato, perché in tanti si oppongono alla riforma. Ci sono, ad esempio, oltre Giulio Andreotti, il proprietario di Mediaset ed ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (per reati che vanno dal finanziamento illecito al falso in bilancio fino alla corruzione); l’ex editore del gruppo Repubblica Carlo De Benedetti (corruzione nelle forniture pubbliche); l’industriale Giampiero Pesenti, presidente negli Anni 90 del patto di sindacato del Rizzoli Corriere della Sera (corruzione); due uomini chiave per la Fiat, come Franzo Grande Stevens e Gian Luigi Gabetti (aggiotaggio Ifil-Exor); l’ex numero uno di Eni e Enel Paolo Scaroni (disastro ambientale); il multimilionario svizzero Stephan Schmidheiny (morti Eternit a causa dell’amianto); il potente finanziere Fabrizio Palenzona (conti esteri non dichiarati); l’ex padrone del calcio italiano Luciano Moggi (associazione per delinquere); il presidente della Lazio e imprenditore nel settore vigilanza e pulizie Claudio Lotito (associazione per delinquere e fatture false più un processo per frode sportiva); quasi tutti i più importanti costruttori romani accusati di aver pagato tangenti per vendere immobili agli enti pubblici: dall’editore del Messaggero Francesco Gaetano Caltagirone a quello del Tempo Domenico Bonifaci, da Pietro Mezzaroma, fino a Renato Bocchi e Elia Federici.

Rappresentano il meglio (ma per alcuni il peggio) delle élite del Paese. A volte controllano giornali, televisioni, siti internet. A volte li foraggiano con le loro campagne pubblicitarie. Sempre, o quasi, frequentano o hanno rapporti di amicizia con opinion leader e i politici che fanno le leggi. I loro legali vengono eletti in Parlamento, dove per decenni quella dell’avvocatura è stata la categoria professionale più rappresentata, e dove di salvati dalla prescrizione ce ne sono sempre stati a bizzeffe.

Decine e decine di parlamentari ed ex parlamentari come Umberto Bossi (truffe sui rimborsi elettorali), Denis Verdini (corruzione), Alberto Tedesco (associazione a delinquere), Alfonso Papa (P4), Antonio D’Alì (concorso esterno in associazione mafiosa), Roberto Calderoli (resistenza a pubblico ufficiale), Massimo D’Alema (finanziamento illecito). Una lista infinita che se si guarda alla politica viene allungata dai nomi di sindaci, consiglieri regionali, governatori, attivisti e persino da quello di Beppe Grillo (violazione dei sigilli durante una manifestazione No Tav) il cui Movimento però si è battuto e ha approvato una legge, ora osteggiata da quasi tutti i partiti, per abolire il colpo di spugna deciso in base al calendario.

La prescrizione è insomma stata per anni la palla in corner delle classi dirigenti. Se proprio le cose andavano male, se addirittura avevi ammesso nel corso delle indagini preliminari il tuo reato, o le prove erano evidenti, grazie al codice, ai buoni avvocati e ai tribunali ingolfati dai processi potevi sempre sperare di farcela. Perché l’inesorabile scorrere del tempo giocava per te. Era tutto dichiarato, sfrontato, alla luce del sole. Come avrebbero scoperto, loro malgrado, i cittadini nel 2005, quando il governo Berlusconi vara una riforma (…) che di fatto dimezza i tempi di prescrizione, ma solo per gli incensurati. Condizione in cui di solito si trovano i colletti bianchi che finiscono alla sbarra. In quel 2005 il problema maggiore per Berlusconi è rappresentato dai processi per corruzione giudiziaria (il caso “Toghe sporche”) per i quali è stato condannato in primo grado il deputato Cesare Previti, storico avvocato civilista dell’allora Cavaliere. Le condanne di Previti rischiano di essere confermate in Appello e, se lo fossero pure in Cassazione, gli spalancherebbero le porte del carcere.

Ora il Pd minaccia i 5S pure sul taglio dei parlamentari

C’è chi scommette che tra qui e il 12 gennaio ci sarà un viavai vicino al banco della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Perché a un metro o poco più dal suo scranno c’è un modulo che potrebbe diventare a breve come carta moschicida, ora che torna a sentirsi forte l’odore di una crisi di governo che porterebbe diritti alle urne in primavera.

Il modulo in questione è quello che serve per raccogliere le firme per chiedere che sul taglio dei parlamentari approvato in quarta lettura a ottobre scorso si svolga un referendum confermativo. Evitando che la riforma entri invece automaticamente in vigore alla data fatidica del 12 gennaio, dopo la quale sarà necessario solo ridisegnare i collegi elettorali. Sempre che prima, per l’appunto, non sia formalizzata la richiesta di referendum da parte di un quinto di uno dei due rami del Parlamento, l’ultimo treno utile per chi vuole che sia il Paese a esprimersi sulla questione. E pure, per la verità, per chi semplicemente non si rassegna all’idea che ci siano meno posti a disposizione nel prossimo Parlamento: con l’addio ai 630 seggi per la Camera dei deputati e ai 315 per il Senato della Repubblica, se la riforma entrerà in vigore, più modestamente saranno solo in 400 quelli che potranno staccare il biglietto per Montecitorio e 200 per Palazzo Madama.

Di per sé un formidabile deterrente contro la fine anticipata della legislatura. Ma data l’aria (pessima) che tira all’interno della maggioranza, sono in moltissimi ora a chiedersi se non sia il caso intanto di prendere qualche precauzione, laddove le cose si dovessero mettere male. La richiesta del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari farebbe slittare di alcuni mesi l’entrata in vigore della riforma che, a quel punto, sarebbe comunque subordinata alla vittoria del sì. Ma fin da subito si avrebbe la certezza che, se si dovesse tornare a votare prima, lo si farebbe per un Parlamento identico a quello attuale di quasi mille eletti.

Con la data del 12 gennaio che si avvicina e le continue fibrillazioni della maggioranza giallorossa (che potrebbero addirittura deflagrare la prossima settimana quando sarà chiamata a votare una risoluzione comune sul Mes), è così ripreso il saliscendi dai banchi della Casellati. Che per settimane si era interrotto: da quando era partita la raccolta di firme tra i senatori, quasi due mesi fa, si era registrato un exploit iniziale che aveva consentito di raccoglierne con facilità una quarantina. Poi più nulla: il modulo era rimasto a prendere polvere vicino alla presidente del Senato.

Finché nelle ultime ore, tra una polemica frontale, una minaccia di rottura e un colpo basso tra alleati di governo è salita la febbre del voto. E le firme sulla richiesta di referendum sono riprese a crescere, per quanto con il contagocce, fino ad arrivare a quota 52. “Sono molto fiducioso che la situazione si sblocchi e si possa arrivare facilmente all’obiettivo delle 65 sottoscrizioni” dice il forzista Andrea Cangini, uno dei senatori che si è fatto carico di battezzare l’iniziativa del referendum confermativo ad alto tasso di impopolarità. Infatti della stragrande maggioranza di quanti hanno sfidato le scale dell’emiciclo del Senato il referendum e di conseguenza lo slittamento della riforma, sono ignote le generalità.

Ma c’è chi non si nasconde affatto, come nel caso di Tommaso Nannicini del Pd che da subito assieme a Cangini e altri forzisti di peso come Giacomo Caliendo, ma anche Laura Garavini di Italia Viva, ha rivendicato l’iniziativa. E non è affatto escluso che in casa dem anche altri senatori vengano presto allo scoperto. Perché la questione del taglio dei parlamentari per i dem somiglia paurosamente a quella della prescrizione su cui oggi si registrano frizioni asprissime con i pentastellati. La riforma voluta da Bonafede entrerà in vigore a gennaio senza che alle viste vi siano le garanzie richieste dal partito di Zingaretti sulla durata dei processi. E mancano pure quelle chieste sempre dal Pd quando a ottobre si era trovato a votare (malvolentieri) il taglio dei parlamentari pur di far partire il governo giallorosso. La promessa ottenuta dai 5 Stelle era che nel frattempo si lavorasse ai contrappesi da garantire anche con la nuova legge elettorale. Che sono spariti dai radar, mentre la riduzione dei seggi è a un passo dall’entrare in vigore. Referendum permettendo.